Perché leggere la letteratura tedesca: quattro romanzi per affrontare le domande che contano, di Claudio Musso

C’è chi dice che la letteratura tedesca sia ‘difficile’. Troppo seria, troppo filosofica, troppo cupa. Eppure, se mai c’è stato un tempo in cui valga la pena riscoprirla, è questo. Perché, più di altre, sa andare a fondo. Sa raccontare il buio senza cedere al nichilismo e, al tempo stesso, interrogare senza semplificare. In un’epoca come la nostra di rumore, slogan e risposte immediate, essa ci offre invece domande lente, necessarie, vitali. Non è una letteratura che consola. Non intrattiene ma trattiene noi lettori in una ragnatela da cui possiamo uscire se scorgiamo i fili che ci legano o dai quali ci lasciamo legare per liberarci.

Ed allora ecco quattro romanzi che, ciascuno a modo proprio, possono aiutarci a orientare lo sguardo in questo presente frastagliato. Ecco quattro ‘mattoni’, non solo di pagine ma di sostanza, che sono quelli che ci permettono di costruire per creare qualcosa o proteggerci.

Heinrich von Kleist, Michael Kohlhaas (trad. Paola Capriolo, Marsilio)

Giustizia e disobbedienza: quando la legge non basta.

Michael Kohlhaas è un commerciante di cavalli onesto, scrupoloso, fedele al diritto. Ma un giorno subisce un’ingiustizia che le autorità si rifiutano di sanare. Da quel momento la sua vita cambia: si trasforma in un vendicatore, guida una rivolta, sfida apertamente il potere. È un uomo che crede nella giustizia fino a diventarne vittima. Leggere oggi Kohlhaas significa riflettere su quanto può essere sottile il confine tra legalità e giustizia, tra ribellione e responsabilità morale. È una parabola inquietante e profonda che ci parla del senso di impotenza di fronte a istituzioni opache e contraddittorie. Un’esperienza fin troppo attuale?

«Poiché era uno degli uomini più integri, e allo stesso tempo più terribili, del suo tempo

Kleist non offre modelli morali rassicuranti, ma una domanda: cosa succede quando il diritto non difende più chi ha ragione? Esistono modi per non abbandonarsi alla giustizia privata?

Christa Wolf, Trama d’infanzia (trad. Anita Raja, e/o)

Memoria, colpa, coscienza: la Storia dentro di noi.

Christa Wolf torna alla propria infanzia vissuta sotto il nazismo e la rilegge alla luce del presente, nella Germania Est. È un tentativo sofferto, spesso ambiguo, di interrogare sé stessa e il proprio sguardo di bambina: perché non ha visto? Perché non ha capito? Cosa resta di quella bambina in lei, oggi? Trama d’infanzia è un romanzo, non tra i più noti in Italia, che parla del passato come materia viva, mai davvero superata. Oggi, in tempi di rimozioni rapide e di verità riscritte, ci invita a una forma di memoria vigile e intransigente.

«Può darsi che il nostro compito più importante sia quello di non dimenticare

Wolf scrive come chi scava nella propria voce per trovare un senso più grande. È un libro che ci insegna che la coscienza si costruisce lentamente. Nella fatica della memoria.

Franz Kafka, Il processo (trad. Ervino Pocar, Mondadori)

L’alienazione dell’individuo nell’era dell’assurdo

Josef K. si sveglia una mattina e scopre di essere stato arrestato. Nessuno gli dice perché e gli spiega nulla. Inizia così un processo senza accuse, in un tribunale senza regole, in un sistema che sfugge a ogni logica. Kafka non costruisce solo un incubo: descrive un’esperienza profondamente moderna. Nel mondo di oggi, tra burocrazie impersonali, algoritmi oscuri, decisioni che ci riguardano ma che non comprendiamo, il romanzo risuona con una forza nuova. È il racconto di chi cerca un senso dove il senso è stato cancellato.

«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato.» 

Kafka, sempre variamente interpretato e interpellato, certamente non ci rassicura. Ma ci aiuta a nominare l’assurdo e a resistervi. Ci invita a non accettare l’opacità come destino.

Jenny Erpenbeck, Di passaggio (trad. Ada Vigliani, Sellerio)

Una casa, cento anni, mille identità tedesche

Una casa sulle rive di un lago del Brandeburgo è la vera protagonista di questo romanzo. Passa di mano in mano, di epoca in epoca: una domestica ebrea costretta a fuggire, un funzionario nazista, un artista della DDR, una scrittrice della Germania riunificata. Ogni stanza, ogni oggetto, ogni albero ha una memoria. Erpenbeck racconta la storia tedesca del Novecento senza farne una lezione di storia. Lo fa attraverso le tracce lasciate da chi è passato: amori, lutti, silenzi. In un tempo segnato da smarrimenti identitari e fratture storiche, Di passaggio è una riflessione poetica su ciò che resta e su cosa significa “casa”.

«La casa sa tutto quello che accade.» 

Non esiste luogo neutro: anche i muri ascoltano. Anche le pietre hanno una storia da raccontare. In tempi di migrazioni e dislocamenti, è un libro di radici e di mutamento.

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Ciò che unisce questi quattro romanzi non è un’estetica comune o un’ideologia condivisa, ma è un’attitudine: la volontà di interrogare, in profondità, l’uomo, la storia, il potere, la responsabilità, il linguaggio. Leggerli oggi non significa cercare risposte immediate, ma aprirsi a domande che resistono. Sono opere esigenti, sì. Ma oggi più che mai abbiamo bisogno di letture che non semplifichino, che non blandiscano o cullino. Come scriveva Cesare Cases, la letteratura, e in particolare quella tedesca, ha questo compito essenziale:

«non ci dà risposte, ma ci pone le domande decisive

E in tempi incerti, che sempre ci saranno, è proprio dalle domande che dobbiamo ripartire.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

Intervista a Fabio Stassi per “Bebelplatz. La notte dei libri bruciati” (Sellerio), di Rita Mele

Scrittore apprezzato dalla critica e dal pubblico, legato da dodici anni a Sellerio; bibliotecario di professione come Borges o Alberto Manguel, Fabio Stassi, classe 1962, una vita letteralmente vissuta tra i libri, con “Bebelplatz” non solo racconta uno dei momenti più bui della Storia del Novecento (il titolo fa riferimento alla piazza di Berlino in cui il 10 maggio 1933 vennero dati alle fiamme migliaia di libri), ma anche il dolore personale per il rogo di migliaia di volumi di autori cari, considerati “degenerati” dai nazisti. Bebelplatz è un libro composito e stimolante che si interroga sul senso della Letteratura, dei Libri e della Cultura; un libro necessario che è piaciuto tantissimo a noi del Randagio e alla nostra Rita Mele che ha avuto la fortuna di poter fare qualche domanda all’autore.

‘Bebelplatz’ è un romanzo che ci riporta a un capitolo oscuro della storia, la notte in cui i nazisti bruciarono i libri. Cosa l’ha spinta a rievocare questo evento, e perché proprio ora?

Grazie per questa domanda e grazie anche per l’uso della parola “romanzo”. Io credo che sia anche questo Bebelplatz. E’ un romanzo ed è anche altre cose per me. È un “libro ornitorinco”, fatto di parti diverse. È un libro di viaggio, un reportage, è un saggio storico, è una resa dei conti, è un romanzo, appunto, è un memoir. Per scriverlo ho usato tutto quello che potevo e che negli anni ho cercato di imparare a fare. Nasce da una crisi di identità. Durante la pandemia, come molti, come forse tutti noi, ero caduto in uno stato di smarrimento. Per la prima volta mi sono sentito, forse più che mai, ho capito di essere un orfano del ‘900, di un altro secolo, di altri valori anche, di un’altra letteratura. La pandemia aveva squarciato il fondale, aveva squarciato il teatro. La realtà era tornata con tutta la sua drammatica pressione. E le conseguenze le vediamo ancora oggi: il ritorno della guerra in Europa, l’instabilità politica, il ritorno dei populismi, certe parole d’ordine, i fantasmi del passato. Ecco, per uscire da questa crisi d’identità, mi sono chiesto: “A quale letteratura appartengo? A quale letteratura marchiata da un marchio d’infamia come dicevano i nazisti? A quale idea di mondo?” E così ho cominciato questo che è stato un vero e proprio viaggio reale in molte città della Germania, ma anche un viaggio interiore.

Quali differenze ha trovato tra le città italiane e quelle tedesche? E come si inserisce il tema della memoria in questo contesto?

Io vivo in una città, Viterbo, a cento chilometri da Roma, che durante la guerra è stata in gran parte bombardata. Le città italiane hanno memoria di quello che è successo anche nel loro tessuto urbano, nei monumenti, nella ricomposizione di certi quartieri. Ma sono state soprattutto le città tedesche che ho visitato a impressionarmi. Conoscevo un po’ la Germania, ma in questo viaggio l’ho guardata con occhi diversi e mi sono reso conto che sono città vicarie, sostituite ad altre città. A Colonia ho visitato un museo che nelle fondamenta riporta la distruzione che quel luogo aveva subito e ti danno delle foto su come era quel quartiere. Poi esci per strada e provi a fare un confronto e non c’è più niente, è impossibile orientarsi. C’è un sito in cui alcune persone sono andate a fotografare le piazze in cui sono stati bruciati i libri e, se confronti le vecchie foto con quelle di adesso, i luoghi sono irriconoscibili, sono stati completamente ricostruiti. La domanda è forse sulla memoria, anche sulla memoria urbana. Viviamo un momento delicato perché la memoria umana, ossia la memoria diretta dei testimoni, è praticamente sparita. Qualche anno fa uscì un libro di storia, si intitolava “L’era del testimone” ed era un libro importante. Noi viviamo nell’epoca in cui sono ormai scomparsi i testimoni diretti della guerra e di tutte le tragedie di quel periodo storico, ma ne resta memoria nei luoghi. Ed è una memoria che va interrogata, che va indagata. E anche per questo ho intrapreso il mio viaggio.

Nel romanzo, lei dà voce a scrittori e intellettuali che hanno subito la censura e la persecuzione. Qual è il ruolo della letteratura in tempi di crisi, e come può aiutarci a preservare la memoria?

Io credo che il lettore sia il vero detective. In fondo il romanzo moderno nasce raccontando le avventure di un lettore che è Don Chisciotte. Tra l’altro questo è il primo libro in cui uso la prima persona, non avevo mai detto “io”. Per questo, forse, è anche un romanzo. Io sono un lettore che segue le tracce, che segue la pista, che va alla ricerca dei segni che hanno lasciato questi scrittori perseguitati dal fascismo. E cerco di riassumere e di unire i fili che li legano. E c’è una coerenza, c’è un comune discorso sulla libertà, da Pietro Aretino a Maria Volpi; c’è in Giuseppe Antonio Borgese un discorso sull’utopia, sul fatto che l’umanità è a un bivio: o si dà una Costituzione mondiale o non sopravvive; c’è un discorso sull’antimperialismo, sull’anticolonialismo portato avanti soprattutto da Salgari; c’è un antifascismo radicale in Ignazio Silone; e c’è una denuncia del patriarcato, un’affermazione della libertà della donna in Maria Volpi. Ecco, questi cinque scrittori hanno composto per me un’idea di mondo che è quella a cui appartengo. Oggi vedo che, come dicevo prima, le stesse parole d’ordine risuonano, con i medesimi vocaboli tali e quali. Quando Goebbels diceva degli intellettuali che sono infestanti parassiti che occupano le strade della città, sembra di risentire certe interviste. Il ruolo della letteratura è di preservare la memoria e di usare la memoria per criticare il presente. Un Cancelliere cinese di 2000 anni fa aveva detto: “chiunque usi la memoria per criticare il presente sarà giustiziato insieme alla sua famiglia”. Ecco, la letteratura usa la memoria, l’immaginazione, la fantasia, la ragione, soprattutto per criticare il presente e per impedire, come diceva Elsa Morante, la disintegrazione della coscienza umana.

‘Bebelplatz’ è un romanzo storico, ma anche una riflessione sul potere delle parole e sulla loro capacità di sopravvivere al tempo. Qual è il messaggio che vuole trasmettere ai lettori di oggi, in un’epoca in cui la disinformazione e la manipolazione sono all’ordine del giorno?

C’è un proverbio spagnolo che dice: “la ribellione si impara leggendo”. Ecco, io penso che leggere è sempre un atto d’amore ed è anche sempre un atto di disagio e d’imbarazzo per il presente, per il mondo in cui viviamo e per le tante ingiustizie a cui spesso in maniera impotente assistiamo. Credo che sia un modo per ragionare con la propria testa, per cercare di essere liberi e di educare, magari anche sbagliando, il proprio spirito critico di fronte a questa invasione di informazioni spesso manipolate. Di fronte a questa imposizione da parte di un potere di un pensiero unico, la letteratura sarà sempre dalla parte del pensiero divergente e impura. Ed è dal lato della devianza.

Nei prossimi giorni lei sarà a Bolzano, la città in cui vivo, che, come tutto il Sudtirolo, ha vissuto periodi storici complessi, segnati da cambiamenti politici e culturali. Che cosa rappresenta questa terra per lei e quali legami ha con la sua cultura e la sua storia?

Sono venuto diverse volte a Bolzano, sempre per incontri letterari. Attraverso mia moglie ho conosciuto la montagna. E ricordo ancora la prima volta che andai in Trentino-Alto Adige, la grande, stupefacente impressione che ne ricavai. E da allora cerco di ritornarci quasi ogni estate. E ogni volta che vengo da quelle parti mi sento bene. Il paesaggio, la vicinanza delle montagne, le montagne mi hanno sempre comunicato un enorme senso di dignità. E un’idea di relazione tra le persone corretta, misurata, rispettosa. Ecco, pur essendo siciliano (ma venendo da un sud… ma anche il Sud Tirolo porta questa piccola parola nel nome, che per me più che un’indicazione geografica, è un’idea di mondo)… pur essendo siciliano, dicevo, preferisco la montagna al mare. E quindi ogni volta torno molto volentieri dalle vostre parti, che oltretutto sono luoghi carichi di storia che mi piace indagare.

Qual è secondo lei, oggi, l’obiettivo politico culturale delle biblioteche? E quale il mandato professionale del bibliotecario?

A stilare le liste nere durante il nazionalsocialismo dei libri che sarebbero dovuti andare al rogo fu proprio un bibliotecario. E questa cosa naturalmente mi ha colpito e mi ha coinvolto perché questo è il mio mestiere. E il Bibliotecario nazista aveva tradito il mandato del nostro mestiere, che è appunto quello di difendere la memoria, di esserne custodi e, in qualche modo, ambasciatori. Ricordo un racconto di Gesualdo Bufalino che si intitola “Le visioni di Basilio ovvero la battaglia dei tarli e degli eroi” in cui si racconta la storia di un bibliotecario messo a salvaguardia degli ultimi libri sopravvissuti al cataclisma atomico dell’umanità in cima al Monte Athos. I libri vengono attaccati da una specie di tarli che si erano sviluppati dopo le ultime guerre. E direi che, in ogni epoca dell’umanità, c’è sempre un re dei tarli che vuole incenerire le biblioteche. I bibliotecari sono, appunto, i soldati semplici che cercano di difendere il patrimonio della nostra memoria. In questo caso Basilio è un monaco e quando i tarli arrivano sino in cima al Monte Athos, attaccano i libri e lui si rende conto che non avrebbe potuto più difenderli in alcun modo. Studiando però aveva scoperto che questi tarli sono golosi di miele. Allora si denuda, si cosparge il corpo di miele, aspetta che tutti i tarli entrati nella fortezza si depositino sul suo corpo e si getta da una rupe sul mare Egeo. Ecco, non dico che i bibliotecari devono arrivare a questi estremi, ma sicuramente la loro funzione è fondamentale. In più devono cercare di favorire la creazione di una comunità intorno alle biblioteche, che, per me, sono luoghi vivi come dei porti, luoghi pieni di voci, che sono anche le voci dei libri, le voci dei lettori, le voci dei bibliotecari.

Quale sarà il suo prossimo viaggio letterario?

Il mio prossimo viaggio letterario sarà un altro viaggio nella memoria, ma questa volta nella memoria personale. Avevo detto prima che in Bebelplatz ho usato per la prima volta nei miei libri l’ “io” ed è stato un processo di avvicinamento alla realtà e un togliersi le maschere, e un provare a dire le cose in prima persona, a chiamarle col loro nome. Ecco, mantengo molto pudore, ma il mio prossimo viaggio letterario sarà un viaggio nella mia infanzia, nei miei primi dieci anni, nella memoria di una famiglia di migranti da cui provengo, nelle sue lingue, nel suo destino ramingo per il mondo. E non sarà in prima, ma in seconda persona, in quanto penso che forse solo alla fine riuscirò a tornare alla prima persona, perché davvero credo che ci voglia tutta una vita prima di poter dire, di poter balbettare sottovoce un “io”.

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Fabio Stassi sarà a Bolzano martedì 15 aprile ospite della Biblioteca Provinciale Italiana.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare

Fabio Stassi: “Bebelplatz. La notte dei libri bruciati” (Sellerio), di Rita Mele

Sto riordinando le idee e le emozioni, preparandomi a trasformarle in parole capaci di trasmettere ai lettori de Il Randagio quello che si prova a leggere Bebelplatz. La notte dei libri bruciati di Fabio Stassi.

È proprio in questo momento che fa breccia in me la notizia della cerimonia di apertura della festa per la capitale europea della Cultura che, per il 2025, premia i comuni gemelli di Gorizia e Nova Gorica come esperienza senza precedenti di cultura transfrontaliera, nata nonostante i conflitti e i confini. Assaporando l’eccezionalità della scelta che mi parla di coraggio e di fiducia nella cultura nonostante le ombre, le incertezze e le paure che, in questi tempi, si addensano vicine e lontane da noi, comincio a scrivere. Ma ecco che – a voler cogliere una risonanza positiva – una news dal fronte di guerra di Gaza mi informa che le truppe dell’esercito israeliano si stanno ritirando dal corridoio militarizzato di Netzarim che ha diviso in due la Striscia di Gaza e che da oggi i palestinesi potranno tornare ad attraversare senza essere fermati dai militari israeliani. In rapido susseguirsi, e come se questi segni, già forti, non bastassero a incorniciare il mood in cui scrivo questa recensione, con una sincronicità perturbante con il nuovo libro di Stassi, scopro che la polizia israeliana ha sequestrato le tre librerie arabe a Gerusalemme est con l’accusa che vendevano volumi sovversivi. Proprio quelle Educational Bookshop, su Salah ed-Din, la via principale della Gerusalemme araba, che da anni sono conosciute come un’oasi di tolleranza e discussione.

Cornice tanto unica quanto reale questa, offerta dall’attualità, che si presta inaspettatamente a ripercorrere con voi lettori randagi, l’itinerario del viaggio spaziotemporale di Fabio Stassi, attraverso libri e autori, bruciati e esiliati, verbrannte und verbannte.

Il taccuino di viaggio che lo scrittore-lettore-bibliotecario Stassi annota pazientemente con andirivieni stilistici da un anno all’altro, da un autore all’altro, da un confine e una geografia all’altra, ci fa seguire una pista che sa di fuochi e di cenere, di ingiustizie abusi e sopraffazioni accesi da ideali e atti forti e simbolici da cui “nascano uomini di carattere, non più fatti di libri… L’uomo tedesco del futuro non sarà più un uomo fatto di libri, ma un uomo di carattere” (sic Joseph Goebbels, Berlino, 10 maggio 1933).

Bebelplatz, il titolo dell’opera pubblicata da Sellerio a ottobre 2024, è una dedica a ‘La notte dei libri bruciati’ la cui matrice, in una variabilità diacronica, si ripete dal rogo della biblioteca di Tebe del 1358 a.C. al più recente rogo con cui nel 2015, l’Isis, devastata la biblioteca di Mosul, dà fuoco a migliaia di libri ‘non conformi alla dottrina islamica’. A corollario del suo catalogo di fuochi librari, Stassi ci informa anche dei libri censurati e condannati alla distruzione o alla damnatio memoriae, da quelli di Lucrezio, Seneca e Tacito, passando per i fantasiosi Alice di Lewis Carroll, Winnie Puh di A.A. Milne e Il Mago di Oz, sino ad arrivare ‘in casa nostra’, a Venezia, dove, ancora nel 2015, il sindaco ordina il ritiro dalle scuole di 49 libri per l’infanzia perché lasciavano trasparire un’idea di famiglia non tradizionale.

La storia letteraria dei roghi dei libri giunge sino a noi con il titolo del prolifico autore Fabio Stassi. Romano, di origine siciliana, bibliotecario presso la Biblioteca di Studi Orientali della Sapienza, è un emblematico scrittore randagio on the railroad che predilige il setting ferroviario per raccogliere le idee e scrivere i suoi libri. La musica delle parole è la cosa più importante in letteratura, ha più volte detto nelle interviste: immaginiamo che per Stassi quella musica venga anche dal ritmo del viaggio e del camminare e in Bebelplatz ci concede di rinforzare questa idea. È infatti un libro con cui l’autore ci fa viaggiare nel tempo e nello spazio, sfogliando con noi libri della cui esistenza spesso non sapevamo o non possiamo più rinvenirne le tracce ridotte in cenere dal fuoco o occultate intenzionalmente dal potere di turno con il proposito di ‘costruire’ l’uomo, e perché no, la donna, nuovi.

Bebelplatz è uno di quei libri larghi, come piace dire a Stassi citando Manganelli che di Pinocchio, tanto caro al nostro autore, ha scritto ‘Nessun libro finisce. I libri non sono lunghi, sono larghi. La pagina non è che una porta ad altra porta, che porta ad altra. Finire un libro significa aprire l’ultima porta, affinché nessuna porta si chiuda piú.’ Beh, è proprio questa l’esperienza letteraria e sensoriale che ci fa vivere Bebelplatz, quella per cui, attraversando i cerchi di fuoco che hanno bruciato millenni di libri, si siano aperte e si apriranno ancora porte che non saranno mai le ultime e che non si chiuderanno per sempre, ma sempre, come un libro, si apriranno ad abbracciare i lettori del mondo, oltre ogni geografia, al di là di ogni muro, nonostante nemici e sicari.

La damnatio memoriae, a cui sono stati condannati autori e libri bruciati e occultati e di cui Stassi rende un ricco e documentato catalogo, sta persino nel titolo di questo libro. Bebelplatz, infatti, è il luogo ma non il nome della piazza di Berlino teatro inglorioso dove, il 10 maggio del 1933, quarantamila persone ‘si scaldarono’ gli animi al monito e all’incitazione di Joseph Goebbels, obbedendo al suo ordine di compiere l’atto ‘forte e simbolico’ di bruciare i libri ‘decadenti e antitedeschi’ perché dalle loro ceneri rinascesse, come araba fenice, ‘l’uomo di carattere’ del nazionalsocialismo. Il nome della piazza di quella notte delle ceneri era originariamente Platz am Opernhaus, poi Kaiser-Franz-Joseph-Platz e solo nel 1947 le autorità della DDR la intitolarono all’operaio, politico e anch’egli scrittore, August Ferdinand Bebel, cofondatore del Partito Socialdemocratico dei Lavoratori tedesco. Una sorta di rimozione storica, di capogiro o un timido tentativo di restitutio ad integrum, o entrambe le cose considerato l’imbarazzante drammatico evento? Sta di fatto che Bebelplatz, la piazza e il libro di Fabio Stassi e noi che lo leggiamo non dimentichiamo, anzi. Leggendo questo libro avremo una buona possibilità in più di affinare il nostro fiuto di lettori, oltre ogni odore di benzina e di cenere, per continuare a ‘farci di libri’, a raccontarci e a ri-raccontarci, a scrivere, leggere e ricordare oltre ogni porta, ogni muro, vegliando e alimentando il fuoco sacro della letteratura a cui sta a cuore tutto quanto accade.

E per non togliere il gusto della scoperta ai nostri lettori, ma per attrarli a navigare attraverso la mappa poliedrica, inedita e stupefacente, tracciata da Stassi nel suo libro-taccuino di viaggio, anticipo solo che ci dice molto di cinque scrittori italiani i cui libri furono praticamente o idealmente arsi durante il nazismo.

L’itinerario nello spazio letterario di casa nostra parte da Pietro Aretino, passa da Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Salgari, Ignazio Silone e arriva a Maria Assunta Giulia Volpi. 

Parola di Randagia: nessuna anticipazione su ciascuno di loro per lasciarvi tutto il gusto della scoperta dell’elogio della libertà che Stassi ci offre restituendoci il suo racconto della ‘letteratura dannosa e indesiderata’ che forma e non solo in-forma. 

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare

Alexandre Dumas: Inciuci e cose truci, di Bernardina Moriconi

Da poco si è concluso l’ennesima fiction sul Conte di Montecristo. Ennesima già, perché una storia così ben architettata, straripante di passioni trame oscure e vendette, fa impallidire molte delle sceneggiature di film e serie attuali, e questo spiega il proliferare di versioni e riletture del buon Montecristo.  Ci voleva la fervida mente di Alexandre Dumas per un simile parto. Il quale però si faceva aiutare da numerosi ghostwriter, che al tempo erano  chiamati “negri”:  gran bel paradosso per chi, come Alexandre, era effettivamente di colore, essendo mulatto per lato paterno poiché la nonna era una schiava nera di Haiti soprannominata la femme du mas  (donna della masseria):  quel “du-mas” era diventato poi il cognome  del padre del futuro scrittore, che per disaccordi familiari aveva ripudiato nome (e titolo nobiliare) paterno  a vantaggio del soprannome della mamma caraibica.

Ordunque, Alexandre era un vero mezzo “negro” che si serviva di finti “negri” che per guadagnare lo aiutavano nella sua sconfinata attività letteraria. Fra questi il più famoso, e che collaborerà anche alla stesura del Conte di Montecristo, risulta Auguste Maquet, scrittore in proprio ma che si arricchì grazie alla collaborazione con Dumas, almeno fino a che i rapporti fra i due si guastarono e finirono in tribunale, rivendicando, il Maquet, la paternità (o copaterintà) di numerose opere del suo datore di lavoro.  

Maquet non riuscì ad avere il suo nome sulla copertina di alcun libro di Dumas, ottenne però  una lauta ricompensa in quattrini e pare che il Castello di Sainte-Mesme in cui morrà nel 1888 lo avesse acquistato coi proventi dei romanzi  cui aveva messo mano,  mentre il papà dei tre moschettieri, sommerso da debiti, fu costretto a mettere all’asta lo splendido  “Castello di Montecristo”, che si era fatto costruire in un terreno da lui acquistato appositamente, e a riparare frettolosamente sebbene temporaneamente all’estero, inseguito da un’orda inferocita  di oltre centocinquanta creditori. 

Al di là comunque degli scrittori fantasma, un aiutino per le sue opere Dumas lo ricavava anche da testi altrui  (vedi il ciclo dei Tre moschettieri per cui si ispirò alle Mémoires de Monsieur d’Artagnan, versione romanzata di un moschettiere realmente vissuto) o  da fatti di cronaca.  Come nel caso di Montecristo per cui attinge a una efferata vicenda di crimini e vendette. Questa in breve la storia. 

Un poveretto, tal Pierre Picaud di professione calzolaio,  viene accusato di essere una spia al soldo britannico da tre amici invidiosi delle prossime nozze del loro “amico” con una ricca donzella di nome Marguerite. Pierre viene così messo in catene proprio il giorno degli sponsali per ordine del duca di Rovigo, generale e già a capo della gendarmeria imperiale nonché fedelissimo di Napoleone da cui aveva ottenuto il titolo nobiliare. Picaud, ignaro dell’accusa, rimane incarcerato per ben sette anni nella Fortezza  di Fenestrelle, in Val Chisone. Qui, come accadrà al suo emulo letterario, scavando una galleria finisce nella cella attigua dove si trova  in catene un uomo di chiesa, parimenti italiano come l’abate Faria, tal padre Torri, il quale in punto di morte gli lascia in eredità il suo tesoro che si trova nascosto a Milano. Nessuna fuga rocambolesca per Picaud:  liberato dopo la caduta di Napoleone nel 1814, forte del tesoro e di una falsa identità, progetta una feroce vendetta. Elimina a uno a uno coloro che lo avevano tradito, lasciando come unica traccia del suo delitto  una scritta con numero progressivo (numero uno, numero due, numero tre).

 

La vendetta più lunga e subdola è quella ordita ai danni di Mathieu Loupian, il quale, all’epoca di fatti iniziali, vedovo e con due figli a carico, aveva messo gli occhi sulla ricca fidanzata di Pierre, Marguerite che ora è sua moglie. In più, è diventato proprietario di un bel ristorante nel quale, sempre tramite raggiri, Picaud si fa assumere come cameriere. A questo punto si scatena: fa sedurre e metter incinta la figlia da un delinquente che si era spacciato per un aristocratico italiano e che il giorno delle nozze riparatrici scompare non prima di aver inviato un biglietto a ciascun invitato svelando la sua reale identità; riesce a traviare l’altro figlio di Loupian  con cattive frequentazioni e un furto per cui finisce in carcere per lunghi anni; fa poi incendiare il ristorante dell’uomo riducendolo sul lastrico e mentre Marguerite era nel frattempo morta di crepacuore, Picaud, fingendosi sempre solidale e affezionato al suo datore di lavoro, si offre di mantenere lui e la figlia in cambio però dei favori di quest’ultima. Non pago, durante una passeggiata notturna giunge al culmine della sua vendetta uccidendo  anche il Loupian (il numero tre). Ma poiché il male genera male, anche Picaud farà una brutta fine, ucciso da Allut, cioè colui che, in cambio di un diamante, aveva svelato  a Picaud appena tornato dal carcere sotto falsa identità  tutta la storia del suo arresto e delle persone coinvolte. Rifiutandosi di sottostare al ricatto di Allut che pretende altri soldi in cambio del silenzio, Picaud viene ucciso diventando il quarto e ultimo morto della tragica sequenza.

E l’isola di Montecristo, direte voi, con tutto il suo fascino e mistero, non c’entra proprio nulla? No, no, qualcosina riguarda anche l’isola toscana,  perché alla mente fervida di Dumas non doveva essere sfuggita  una leggenda relativa a Montecristo, in cui si vagheggiava di un tesoro presente nell’isola, frutto di donazioni ecclesiastiche, che era stato custodito e poi nascosto dai monaci dell’abbazia di San Mamiliano, edificata nel V secolo e poi abbandonata nel ‘500 a cause di frequenti incursioni piratesche. 

E giacché nelle leggende si nasconde spesso un fondo di verità, qualcuno di voi che abbia avuto bontà di leggere fin qui potrebbe decidere – ipso facto – di tentare la fortuna cercando la fortuna nell’isola di Montecristo. Buona fortuna! 

Ma, al rientro, niente vendette, per carità!

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Jenny Erpenbeck: “Kairos” (Sellerio, trad. Ada Vigliani), di Valeria Jacobacci

Trecentonovantuno pagine di pensieri , sentimenti, emozioni di una giovane donna in un particolare momento della sua vita ma anche della vita del suo paese: ci troviamo nel 1988 a Berlino, lei a Est del muro, lui a Ovest, fra poco il muro crollerà ma nessuno dei due può prevederlo e forse neanche auspicarlo. Infatti nella mente di lei campeggia lui, sono quindi in due nella sua testa ed è lei la protagonista, anche se il romanzo è narrato in terza persona e l’autrice usa sempre il tempo presente, quasi volesse abolire i passaggi temporali per privilegiare il continuum di un flusso di coscienza spiato dall’esterno. Questa tecnica, che fotografa l’istante e lo ferma, potrebbe creare un diaframma fra il racconto e il lettore, lasciando  libertà di scelta fra osservazione e immedesimazione ma è subito chiaro che la protagonista resta lei, la ragazza, che un giorno incrocia lo sguardo di uno sconosciuto sull’autobus preso al volo in un pomeriggio di pioggia.

Se la ragazza fosse la Marinella della ballata di Fabrizio de Andrè, “tu lo seguisti senza una ragione…” , il romanzo finirebbe molto prima ma Katharina non è una sprovveduta e non l’attende la morte ma una vicenda amorosa che giunge spesso a fargliela desiderare. In un rapporto asimmetrico nel quale fin dal principio un fascinoso scrittore cinquantenne concede alla bella studentessa universitaria una relazione senza diritti, deve essere soprattutto chiaro che lui si terrà come più gli aggrada una moglie, un figlio, un’amante fissa e molte amiche occasionali. Non le chiarisce che lei non potrà essere libera neanche in parte, del resto alla ragazza non importa.  E’ questa la prima chiave d’interpretazione: la manipolazione senza scrupoli del più forte sul più debole, del resto l’autrice chiarisce presto che il professore ha vissuto i primi anni della sua vita durante il nazismo, ha fatto parte della Gioventù Hitleriana.

Sarebbe però troppo facile attribuire a questo la tossicità del rapporto, lui si è allontanato dal modello malefico da molto tempo, è moderno, liberale, simpatico, trasmette da una radio la sua pregevole cultura, ama la musica classica, l’arte e, ovviamente, la letteratura. Gli incontri non sono occupati solo dal sesso, si direbbe che due anime si siano incrociate e che si amino incondizionatamente, al di là del bene e del male, si potrebbe dire. E’ così? Libri, sinfonie e gallerie d’arte sono interessi condivisi, i due bastano a se stessi, sono paghi di sé, si vedono nei caffè e nei ristoranti, la moglie di lui non prova neanche a indagare sulle sue giornate. Fin quando non lo caccia di casa.

Così per un po’ i due stanno insieme nella stanza da studentessa di Katharina, una magnifica Boheme carica di tenerezza. Quando e perché l’idillio finisce? Se solo Katharina fosse capace di approfittare del vantaggio conquistato le cose potrebbero volgere al bene ma, come in tutte le vite, le difficoltà si affacciano a rompere i più miracolosi equilibri. Katharina deve completare gli studi e lui non può perdere la famiglia. Lei si trasferisce per studiare e lui torna a casa. Finisce qui? Troppo facile.

La vita presenta il conto, i due si amano troppo per rinunciare e lasciarsi, bisognerebbe che oltre ad amarsi fossero capaci di volersi bene.  Forse non succede quasi mai ma nel caso di questa coppia è davvero impossibile. La città sta cambiando e così accade anche di loro, il crollo del muro non rimette le cose a posto, prima da Ovest si poteva andare a Est e non il contrario, era lui ad andare da lei e non il contrario, una metafora dell’asimmetria del rapporto? La libertà non coincide con i diritti, riconosciuti, per tardi che sia. Così la libertà non è per i due amanti. Katharina vive nonostante, che dovrebbe fare? Ha una storia con un compagno di corso, viene scoperta, pensa di poterne parlare con l’amante come aveva imparato a fare per ogni cosa della sua vita, come se lui fosse una parte non separata di se stessa.

Le conseguenze sono disastrose, lui non è affatto pronto per questo, soffre come mai prima nella vita. La lascia. Lei non accetta, non vuole essere lasciata e dovrà pagarne le durissime conseguenze. L’amore si ammala, come qualunque altra creatura vivente, lei sempre più vittima con colpe da espiare, fino a farsi frustare, a cambiare il sesso in tortura, tradisce ancora, perfino con una donna, non c’è altro da fare. Tutto può finire in un dramma a fosche tinte ma è proprio l’arrendevolezza di Katharina a salvarla, accetta di farsi tormentare anche psicologicamente pur di non essere lasciata. Lui registra cinque cassette della durata di un’ora ciascuna nelle quali elenca le sue colpe alle quali lei dovrà rispondere per iscritto. Sarà mai perdonata? Di cosa deve essere perdonata? Di avere ucciso l’amore.

Alla fine delle cinque cassette tutto è cambiato, la città più di qualunque altra cosa, i locali chiudono, istituzioni, imprese, uffici, vengono chiusi, lui non potrà più lavorare in una radio che non c’è più. Anche questa storia vede la fine, per inedia e disperazione, dopo aver resistito a lungo lei si arrende, e forse anche lui: dopo essersi lasciati e ripresi per tre volte, alla fine l’ultima è la definitiva, forse senza che neanche se ne rendano conto. Un’amara conclusione, in un clima di generale sconfitta. L’ex ragazzino della Gioventù Hitleriana  ha avuto una misteriosa vita da spia, della quale lei non ha mai avuto idea. Ora non c’è più niente da spiare. Il muro è caduto. Il crollo è assordante.

Il romanzo ha vinto l’International Booker Prize 2024. 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.