Sally Rooney: ‘’Intermezzo’’ (Einaudi, trad. Norman Gobetti), di Angela Molinaro

L’arte di raccontare un tempo sospeso

Cosa succede quando l’amore arriva nel mezzo del dolore? Quando la vita, all’apparenza lineare, si incrina in una pausa che le conferisce un nuovo asse di significato?

Intermezzo, il quarto romanzo di Sally Rooney, parte da qui: dal cuore sospeso del lutto, dal tempo intermedio in cui i personaggi non sanno se stanno andando avanti o tornando indietro. E in quel vuoto – tra fratelli che si perdono, amanti che si scoprono, figli che guardano ai padri con occhi nuovi – Rooney costruisce il suo romanzo più ambizioso, stratificato e, per molti versi, il più intimo. Un libro che si muove tra la perdita e la possibilità, senza la pretesa di spiegare le emozioni, ma con il talento raro di farle sentire.

Peter e Ivan Koubek sono fratelli, ma parlano lingue diverse. Peter ha trentadue anni, è un avvocato di successo, brillante ma irrisolto, alle prese con un’esistenza che sembra sfuggirgli di mano. Ivan, dieci anni più giovane, è un ex bambino prodigio degli scacchi, riflessivo, introverso, fuori sincrono con il mondo. La morte del padre li costringe a rivedersi, e lentamente – attraverso tensioni, silenzi e incomprensioni – a riscoprirsi.

Ognuno di loro, nel frattempo, intraprende una relazione sentimentale che sfida le aspettative e mette in discussione le loro certezze. Ivan si innamora inaspettatamente di Margaret, una donna più grande, separata, che gli offre uno spazio nuovo in cui essere visto per ciò che è, senza timore del giudizio. Peter si divide tra Sylvia, la sua ex compagna – intellettuale lucida ma segnata da un incidente che le ha causato un dolore fisico permanente – e Naomi, una giovane studentessa affascinante e sfuggente.

Intorno a loro, Rooney costruisce una rete delicata di legami: affetti che si cercano, si sfiorano e si fraintendono. Il titolo stesso è una chiave di lettura sottile ma potente. Nell’opera musicale, un intermezzo è un momento di passaggio, spesso lirico, tra due atti. Negli scacchi, è una mossa inattesa che interrompe lo schema previsto e sorprende l’avversario. Rooney sembra giocare con entrambi i significati: i personaggi si trovano in una fase della loro vita in cui tutto può cambiare, o restare immobile. Dove ogni gesto è carico di possibilità, ma anche di precarietà.

Peter e Ivan attraversano questo spazio in modi opposti. Il primo con ansia e inquietudine, alla ricerca di una direzione, ma spesso invischiato nei propri pensieri. Il secondo con sorpresa e apertura, lasciandosi stupire da ciò che non aveva previsto.

Rooney alterna le loro voci con grande finezza. A Ivan assegna uno stile spoglio, limpido, quasi infantile nella sua tensione alla chiarezza: idee rapide, convinzioni ideologiche acerbe, che si fanno via via più complesse. Peter, al contrario, è narrato con un flusso di coscienza quasi joyciano, fatto di frammenti, inversioni sintattiche, citazioni letterarie. Due stili distinti, perfettamente coerenti con due modi diversi di stare al mondo.

La prosa di Rooney resta minimalista, ma profondamente evocativa. Non cerca l’effetto, ma l’autenticità. E quando l’autrice osa – nella rappresentazione della sessualità o del dolore – lo fa con una grazia disarmante. Anche gli oggetti più quotidiani – un viaggio in macchina, un bicchiere d’acqua, un preservativo dimenticato nella valigia – acquistano spessore narrativo. Rooney riesce a rendere visibile ciò che, nella vita reale, è spesso solo un’impressione fugace.

Una delle scelte narrative più evidenti è quella di limitare il punto di vista alle voci maschili. Le figure femminili – Naomi, Sylvia, Margaret – ci arrivano attraverso lo sguardo e i silenzi dei fratelli. Questo le rende a tratti sfuggenti o simboliche, in particolare Naomi e Sylvia. Margaret, invece, è l’unica donna a cui Rooney concede una vera interiorità, e forse per questo è anche il personaggio femminile più riuscito: complessa, tenera, consapevole.

Ma in un romanzo che lavora per sottrazione, ogni omissione è anche una scelta. Proprio attraverso i limiti dello sguardo dei personaggi, Rooney chiede al lettore di immaginare ciò che non è detto e di abitare non solo ciò che è narrato, ma anche ciò che resta in sospeso. L’accento è posto proprio lì: nei vuoti, nei gesti incompiuti, nelle parole trattenute. È in quel “durante” incerto – l’intermezzo, appunto – che il romanzo trova la sua forza.

La pausa diventa centro narrativo, non un semplice momento di passaggio. È lì, nella sospensione tra prima e dopo, che i personaggi cambiano, si smarriscono, o forse si ritrovano. Rooney sembra suggerire che la vita sia fatta proprio di questi intermezzi: momenti in cui tutto vacilla e proprio per questo tutto può cambiare.

Intermezzo è un romanzo che cresce piano, come una musica che non ha bisogno di climax. È fatto di piccoli gesti, silenzi densi, dialoghi mancati. Ma anche profondamente vivo. Si ha la sensazione non di leggere i personaggi, ma di camminare accanto a loro. Non è un libro che ti prende per mano, ma uno che ti accompagna. Un romanzo da assaporare lentamente, da lasciar decantare. Perché in fondo è questo che sembra raccontare: la vita come un intervallo fragile ma reale, in cui possiamo ancora trovarci. E forse anche salvarci.

Angela Molinaro

Angela Molinaro: Laureata in Filologia Classica, insegna Latino, Greco e Cultura dell’Antichità nel cuore dell’Inghilterra. Ama trasmettere ai suoi studenti il fascino del mondo antico e la bellezza della parola. Viaggia con la stessa curiosità con cui legge: per incontrare mondi e conoscere storie. Per questo vive con la valigia sempre pronta e un libro nello zaino. Scrive e collabora con case editrici e riviste letterarie per dare forma a pensieri che nascono tra una lezione, un aereo e le fusa dei suoi due gatti neri.

Peter Handke: “Canto alla durata” (Einaudi, trad.Hans Kitzmueller) – Maurizia Maiano

Riflessione onirica sul tempo

“Chi non ha mai provato la Durata non ha vissuto./ La Durata non stravolge,/ mi rimette tutto a posto./ Senza esitazione rifuggo la luce abbagliante dell’accadere quotidiano/ e mi riparo nell’incerto rifugio della durata./
Durata si ha quando/ in un bambino/ che non è più un bambino/ – e che forse è già un vecchio -/ ritrovo gli occhi del bambino./ Durata non c’è nella pietra immortale/ preistorica,/ ma dentro il tempo,/ nel morbido./ Lacrime di durata, troppo rare!/ lacrime di gioia./ Incerte, non irrevocabili,/ non improbabili/ scosse della durata,/ custodite ora siete/ in un canto.”

Racconta Handke che gli venne in mente di scrivere della sensazione della Durata nel momento in cui decise di mettersi in ascolto, di raccogliersi in se stesso. Si sentì pervadere da un vento fresco e da un delicato accordo senza suono in cui tutte le dissonanze si confondono e si compongono insieme.

La Durata ha a che fare con gli anni e con i decenni della nostra vita, è la sensazione di vivere. Appartiene alla vita dell’anima osservare il vento che si muove sull’acqua. E’ il cinema più bello, non sottrae nulla, non si deve pagare.

Handke compie miracolosamente una congiunzione tra mondo romantico e contemporaneità. Il luogo della durata non ha coordinate spaziali o temporali: può essere un sentimento, a volte confuso con la nostalgia. Immagini che si sovrappongono senza cancellarsi, capaci di muovere il nostro animo all’improvviso, richiamate da una particolare sensazione di “riconnessione”.

Sembra una filosofia che vuole diventare poesia. E’ una riflessione rilassata -quasi onirica – e al tempo stesso precisa di uno stato d’animo difficilissimo da spiegare. Usare le parole in un doppio significato: uguale e contrario ricomponendolo nella lontanza: non c’è durata se non c’è leggerezza e fugacità.

Una poesia che spiega la filosofia delle piccole cose, dell’amore per le piccole cose che si ritrova nella natura, tra il rumore degli alberi, nel mercato con i suoi acuti e i suoi bassi, nell’abbaiare dei cani, quasi un Rondò, negli oggetti di casa: in un cucchiaio che lo ha accompagnato tutta la vita.

Aveva sempre pensato ad una casa spoglia, ama invece vedersi e sentirsi circondato dagli oggetti. Ama il suo “Umgebung” (l’ambiente che ci circonda) e gli piace questa parola perché gli trasmette la gioia dell’essere circondato e avvolto dalle cose. Le cose, il riverbero delle cose lo calmano. Si sente tutto il sentimento profondo della “Gemuetlichkeit” (intimità, uno spazio accogliente) austriaca, delle piccole case sul Danubio, piccole ed accoglienti nella pomposità assente dei mobili in stile Biedermeier (indica uno stile artistico, un periodo culturale caratterizzato da semplicità e sobrietà). Handke è un “Biedermeier” nel senso e nella forma più nobile della parola per quella contraddizione che rende ogni cosa uguale e contraria, lo è nell’amore per le piccole cose della quotidianità, per quell’attaccamento ai luoghi generato dall’esserne stato strappato in giovanissima età per sfuggire alla miseria e ad andare a vivere “separato” in un “Internat” (collegio). Il sentimento della lontananza dal luogo ha molto segnato la sua vita ma senza questo sentimento non si è uomini perché la “Heimweh” (nostalgia per la propria terra, per la casa lontana) non potrebbe esistere senza la “Fernweh” (nostalgia per i luoghi lontani, desiderio di partire) e questa senza quella.

“La Durata è una certezza, no! La più fugace di tutte le sensazioni, spesso più veloce di un attimo, non misurabile. Un solenne cosmico sentimento di gratitudine forse lo si può anche chiamare preghiera.”

Racconta Handke che nello scrivere il Canto alla Durata non aveva in mente una preghiera ma di descrivere momenti di gratitudine, immagini. In ogni momento della vita è racchiusa una immagine come un coleottero nell’ambra.
Non si sente cupo, la cupezza è una grave malattia, la tristezza è un sentimento diverso. Il male oscuro, la depressione, ecco com’è l’umanità di oggi, ma non si sente così.

Essere malinconico, racconta, sarebbe stato il suo ideale ma non c’è mai riuscito. “La tristezza è fertile, la cupezza è sterile. La gioia è feconda e creativa.”

Fotografie e immagini non sono la stessa cosa. La polaroid era un incantesimo e l’immagine veniva fuori dall’immagine, ci voleva del tempo, oggi è meno divertente.

La vita fugge e come si può parlare di durata in questa fugacità! Handke si lascia affascinare dall’immagine di una freccia scagliata verso l’eternità; nel silenzio di questi luoghi sa cosa fare; un rumore, che gli ha fatto ricordare suo nonno, è l’immagine che dall’io si diventa un noi… e parla di un amore al primo sguardo…e di una vita fatta di piccoli gesti quotidiani..
O Durata mia quiete e mia sosta..” e niente è più fugace della Durata..

Maurizia Maiano*

Peter Handke nasce a Griffen nella Carinzia, la regione più meridionale dell’Austria, nel 1942 da padre austriaco e da madre facente parte della minoranza slovena della regione. La madre morirà suicida nel 1971, evento che segnerà profondamente il giovane Handke. Il titolo della sua opera “Wunschloses Unglück, “Infelicità senza desideri”, scritta sull’onda del dolore per il gesto estremo della madre, sembra creare una congiunzione simbolico-semantica tra un destino individuale e quello storico di un paese la cui fine era segnata dall’emergere e dall’ affermarsi dei nazionalismi. La mancanza di desiderio è causa dell’insoddisfazione profonda, espressione di una malinconia dalla quale non si riesce ad uscire, perché deriva da regole interiorizzate che inibiscono il desiderio. Un nuovo mondo, in cui si è incapaci di vivere, quello che si prospetta alla madre di Handke e all’Austria-Ungheria, in cui non ci si riconosce più e in cui è troppo tardi per farne parte e cambiare. La prosa di Handke trova qui il via alla sua grande capacità di interiorizzazione e di analisi profonda del sé. Segna l’inizio di quel romanzo circolare che evoca anche nello spazio letterario quella ciclicità del tempo, della vita e della storia umana riempiendola di flashback e ripetizioni. La letteratura, lo scrivere diventano la sua grande passione. Abbandona gli studi di Giurisprudenza a Graz. Si cimenterà con la scrittura di pezzi teatrali, poi con racconti, romanzi, saggi, poesie e diari ai quali si può aggiungere anche qualche esperienza di sceneggiatore per il cinema.
La letteratura è per lui solo romantica. È polemico nei confronti della generazione di scrittori come Alfred Andersch, Heinrich Böll, Ilse Aichinger e Ingeborg Bachmann che facevano parte del “Gruppo 47” e volevano una letteratura impegnata e realistica. La sua è letteratura votata all’introspezione con una scrittura densa e minimale, altamente descrittiva e ricca di visioni quasi cinematografiche. Collabora con Wim Wenders e, dal suo romanzo “Prima del calcio di rigore”, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter del 1970, sarà tratto l’omonimo film e poi lavorerà ancora con Wenders per il più famoso “Il cielo sopra Berlino”. Dall’amore per l’allora Slovenia yugoslava, radicato nel “ventre materno”, nasce l’interesse per la regione balcanica. Handke è un figlio di quell’Austria- Ungheria del “Nachsommer”. L’immagine di quel mondo del passato e l’ideale di una convivenza multietnica e multireligiosa avrà il suo ruolo importante nella sua difesa di Milosevic e della Yugoslavia. “Un viaggio d’inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina ovvero Giustizia per la Serbia” sono, forse chissà, l’antefatto a “La notte della Morava”?

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Beppe Fenoglio: ‘’La sposa bambina’’ da “Tutti i racconti” (Einaudi), di Grazia Frisina

Mezza zingara è Catinina, sempre a giocare in strada con i maschi. 

Rapisce Fenoglio, narratore di brevi racconti, qui distante dal mondo della guerra partigiana, ma sempre dentro alla sua terra, le Langhe di bricchi e boschi, di pedaggere, aie e vendemmie.

Da un lato c’è lei, l’innocenza di una bambina con le sue biglie colorate per giocare a tocco e spanna o da tenere tintinnanti in tasca come bottino prezioso, dall’altro, a fare da contraltare, c’è il mondo contadino, paesano, arcaico, di dura esistenza, pesante di retaggi patriarcali, in cui i bambini, i figli, non hanno posto perché nascono già destinati a essere braccia da lavoro nei campi o a saldare prestiti insolvibili in combinati matrimoni. È quanto accade a Catinina, che, per un debito del padre, si ritrova – oggetto d’indennizzo – ad essere maritata a soli tredici anni senza neppure averne coscienza.

Sua madre si piegò e disse a Catinina: – Neh che sei contenta di sposare il nipote di questo signore?

Catinina scrollò le spalle e torse la testa. Sua madre la rimise in posizione: – Neh che sei contenta, Catinina? Ti faremo una bella veste nuova, se lo sposi.

Un racconto toccante, di struggente e sotterranea bellezza dello scrittore albese, inserito nella raccolta Racconti del parentado e del paese: una storia che oscilla in brevi sequenze, fra la cruda realtà fatta di grettezze, soprusi e imposizioni e l’imprevedibile affiorare di attimi di inibita delicatezza e poesia, appena appena percettibili.

Ecco, quindi Catinina, la protagonista, sposa bambina, che deve unirsi a un giovane, rozzo e brufoloso, ma già sistemato col suo commercio di stracci, che le si rivolge dandole del voi. Ma cos’è quel voi che lui pretende pure da lei stessa? Se non forse l’esito dell’aver respirato e assimilato, fin dalla nascita, l’aria greve di un ambiente in cui dagli uomini si esige fermezza autorità rispetto e severità? 

Perché così ha da essere, da secoli.

Occorre conformarsi, giacché la vita è solo sudore e lavoro: non c’è spazio né tempo per gli intenerimenti e le smancerie, né per carezze o gesti d’intima affettuosità. E lo sposo si adegua, senza consapevolezza; vi si adegua nel rapporto con la sua piccola donna, usandole anche violenza di cui, con un inedito impulso, presto si pente, sfiorandole i lividi lasciati sulla guancia dalle sue botte e piangendo. 

Quando si ritirarono per la notte in una stanza trovata dal parente, allora la riempì di schiaffi la faccia a Catinina. E nient’altro, tanto Catinina non era ancora sviluppata.

Al mattino Catinina aveva per tutto il viso macchie gialle con un’ombra di nero, lo sposo venne a sfiorargliele con le dita e poi scoppiò a piangere. Proprio niente disse o fece Catinina per sollevarlo, gli disse solo che voleva tornare a Murazzano. 

Una debolezza meschina e scandalosa negli occhi di un uomo, per quella cultura dove le lacrime sono una cascaggine, un fatto di femmine.

Eppure Catinina mostra capricciosamente moti di ribellione contro la durezza di quella realtà cui deve infine sottostare perché è la legge, la legge del matrimonio. Una durezza che tuttavia non scalfisce né impoverisce la sua infanzia.

In un’ingenuità tutta bambina, lei, dentro un bozzolo suo proprio, sottilissimo primitivo e irragionevole, sembra custodire un segreto che è quasi un talismano di salvezza, un magico antidoto alle brutture, alla disillusione: la vita è possibile se uno conserva in sé la levità del gioco, se dalle cose semplici e quotidiane si attingono allegrezza, gusto e colore, mentre tutto intorno è un immobile arrancare tra nebbia temperie sfinimento e povertà. È possibile, insomma, un distacco, una salvazione, magari desiderando un vestito rosso, colore assurdo per una cerimonia nuziale, o facendo una scorpacciata di mentini lungo il viaggio di nozze, fatto in concomitanza del commercio dello sposo verso Savona, o anche a snodarsi e a rider di gola insieme ad altri. O avere un poggiolo e un lume a petrolio in una casa che n’è priva. 

Oppure d’un tratto restare incantati, naso all’insù, per una luna fluttuante in cielo, ma così tanto vicina che pare li segua col suo faccione da mostro. E poi… poi quella prima volta del mare, al termine del viaggio nuziale sullo scomodo carretto a traino di una mula. Inattesa rivelazione: finalmente il mare! approdo epifanico. 

Un mare che lei ha sempre cercato di catturare dalle pupille di chi l’ha visto e vissuto. 

E noi adesso la osserviamo là, come se fosse sulla riva di un felice spaesamento, davanti a tutta quell’incredibile quantità d’acqua, nella sua esilità di bimba con gli occhi annegati nell’azzurro, fulminata dalla vastità, quasi spaventata, che dalla sua immaginifica testolina non sa altro che esclamare, come una tiritera, Che bestione! Che bestione!  Una liberazione!

Ora se lo stava godendo da due passi il mare, ma lo sposo le calò una mano sulla spalla e si fece accompagnare a stallare la bestia. Ma poi le fece vedere un po’ di porto e poi prendere un caffellatte con le paste di meliga. Dopodiché andarono a trovare un parente di lui.

Questo parente stava dalla parte di Savona verso il monte e a Catinina rincresceva il sangue del cuore distanziarsi dal mare fino a non avercene nemmeno più una goccia sotto gli occhi.

Fremito d’inosservata vita, creatura pura semplice autentica spontanea – che un po’ mi ricorda l’Eugenia di Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese – è Catinina, che dà anima alle cose più grandi di lei, che nel fondo di sé, inconsciamente, trattiene la meraviglia, una leggerezza infantile che non cessa di fermentare nel sangue, anche quando, divenuta giovanissima madre, dimentica di cunare il suo piccolo, presa com’è dalla foga contenta del gioco a tocco e spanna con i maschi, in strada.

Non cela la sua piemontesità, Fenoglio, trascinandoci in questa succinta storia, con uno stile singolarissimo, già incontrato nei suoi romanzi più noti, con un linguaggio di naturalezza, creativo e gergale insieme, così aderente alla realtà e al parlato. Mediante una lineare e intensa fabula, è abile nel rendere vive, concrete le scene che via via narra, senza mai indulgere al giudizio o al pietismo, ma tacitamente capace di avvicinare il cuore del lettore alla sostanza di una umanità che fatica e mostra un volto di pietra, sotto il quale si può intuire talora un soffocato fiorire di sensibilità, un cedere a una grazia imponderabile.

Un periodare essenziale, una scrittura diretta, senza fronzoli, abbarbicata al suolo – un po’ com’è la gente delle sue amate Langhe. 

Mentre si legge non ci si accorge come tutto fluisca, in una scabra musicalità, perfetto e immediato, che perfino nel non detto, nelle ellissi è percepibile tutta una galassia di significati di valori, vicende e conflittualità tanto da non avvedersi che anche tu sei entrato là dentro, in quella storia, che stai dietro ai passi di quei personaggi, ne senti le anime sofferte, le voci di rabbia e maledizione, il brusio di pena o di gioie passeggere, guardi il mondo coi loro occhi. 

Qui è manifesta la sua statura come autore anche di racconti.

E affascina Fenoglio con quei finali di una semplicità che coglie sempre alla sprovvista – dentro cui pare spesso palpitare un destino d’attesa tragedia – quasiché dispiace aver concluso la lettura. 

Inutile chiedersi che ne sarà di quella bambina e di quel pustoloso ragazzo, facile invece indovinare quale futuro li attenda, un futuro che non sarà altro che il perpetrare il passato di miseria e di fatica. 

A me non interessa sapere; non voglio vedere Catinina sottomessa e rassegnata nel suo domani di donna sfatta dalle tante gravidanze e dal lavoro; in una scena precisa, in un frammento di vita, lo scrittore l’ha fermata, là voglio continuare a immaginarla, affrancata da ogni legame, in quell’istante di culmine di spensierato gioco, felice all’aria aperta, con le sue biglie di vetro colorato: un fermo immagine, mezza zingara, in una infinita libertà.

Per sempre bambina!

Grazia Frisina

Grazia Frisina: Già docente di Lettere nelle scuole superiori. Le sue pubblicazioni: il romanzo A passi incerti (2009); il dramma poetico sulla Shoah Cenere e cielo (2015, messo in scena presso il museo della Deportazione di Prato), e Madri (2018), prefazione di Marinella Perroni, (tre pièces su alcune figure femminili del mondo biblico, dalla pièce Stabat Mater è stato realizzato un corto, girato nel carcere di Pistoia); le raccolte poetiche: Foglie per maestrale (2009), Questa mia bellezza senza legge (2012), Innesti (2016), Pietra su Pietra (2021), Avrei voluto scarnire il vento (2022), Storie senza approdo (2025), con illustrazioni dell’artista Edoardo Salvi. Il testo inedito Fiaba detta o fiaba scritta, a chi va storta a chi va dritta (2023) è stato messo in scena con la regia di Piera Rossi. Presso la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha curato La gioia diventa un dipinto, incontro sulla poesia di Emily Dickinson, tra arte e musica (2014), e il dialogo poetico: Ricordi come raccoglievamo i narcisi, sulla storia d’amore fra Sylvia Plath e Ted Hughes (2015). Presso la casa-museo Guidi di Firenze ha ideato e curato il dialogo poetico Il mare nel vento – Unavoce dentro l’altra, sull’amore fra Elizabeth Barrett e Robert Browning (2017). Ha partecipato al festival di poesia Notturni di versi di Portogruaro (2016 e 2021). È presente, con alcuni suoi componimenti, in varie riviste letterarie nazionali e internazionali.

Intervista a Marina Pierri per “Gotico salentino” (Einaudi, 2025), di Gabriele Torchetti

“Gotico salentino” è un romanzo che unisce la tradizione del gotico con l’attualità di tematiche come il transfemminismo, l’intersezionalità e il queer, raccontando la storia di Filomena, una “medium di provincia” che eredita una casa infestata nel Salento.
Marina Pierri, laureata in semiotica, studiosa di narratologia e cofondatrice del Festival delle Serie Tv, utilizza in questo suo primo romanzo una struttura epistolare e una scrittura che mescola l’italiano al dialetto di un Salento, aspro e cupo, dove gli spettri sono parte della vita quotidiana. Nell’intervista del nostro Gabriele Torchetti, la Pierri parla anche d’altro, dei suoi lavori precedenti, della Lila della Ferrante, della Serao e della Ortese, di Poe e delle sue autrici preferite del genere gotico e horror: Mary Shelley e Shirley Jackson. Su tutto questo la Puglia e la memoria di palazzi e campi assolati del Salento.

Ciao Marina e benvenuta a il Randagio, prima di tuffarci nel gotico salentino facciamo un passo indietro e torniamo a Lila (Giulio Perrone Editore), hai scritto “questo libro è il mio esorcismo”. Perché hai scelto di scrivere un saggio su una delle due protagoniste della tetralogia de L’amica geniale di Elena Ferrante? Il sottotitolo del libro è Attraverso lo specchio, qual è il riflesso finale che hai voluto lasciare ai tuoi lettori?

Potrà sembrare paradossale considerato il genere e la fama de L’amica geniale, ma io credo sia stata proprio Lila a condurmi per mano verso il mio primo romanzo. Lila è gotica: è lo spettro – erede del decadente e del misterioso di Matilde Serao, nonché del fantastico di Anna Maria Ortese – che si aggira su Napoli all’inizio e alla fine della tetralogia che, assecondando il movimento tipico della epopee, disegna e segue una spirale. Come la dea Ecate, dopo la sparizione di Tina Lila riceve doni oscuri dalla comunità del paese, al limite del sacrificio, e come fosse una medium ascolta le fondamenta della città, il passato impenetrabile e inconoscibile che tuttavia è in grado di interrogare tramite l’inquietudine che fa parte del suo corredo archetipico di personaggio. Del resto, ho maturato l’idea che vi sia un significato metanarrativo negli episodi di smarginatura di Lila: nel mio breve saggio la descrivo come glitch, come improvvisa percezione di precarietà del sistema-Rione che è in sé un teatro, una scenografia. Ho voluto scrivere di tutto questo perché sono laureata in semiotica, e pochi romanzi mi sono apparsi semioticamente più densi de L’amica geniale

Sei studiosa di narratologia, cofondatrice di FeST – Il Festival delle Serie TV che ora «rinasce» nel Milano Film Fest, insomma sei una vera e proprio esperta del linguaggio seriale e della sua continua evoluzione, a questo proposito mi vengono in mente le tue pubblicazioni per TlonEROINE – come le protagoniste delle serie TV possono aiutarci a fiorire, è un titolo eloquente che non richiede molte spiegazioni, la domanda è: come si sono evoluti i personaggi femminili seriali negli anni? E hanno contribuito in qualche modo alla causa femminista?

Certo, hanno contribuito enormemente, ma non c’è unidirezionalità: i movimenti femministi hanno informato e informano la scrittura di molte serie ed eroine, così come i movimenti femministi sono informati dalle serie e dalle loro eroine. Le storie per qualsiasi mezzo (romanzi, serie, film, videogiochi) non fanno altro che mostrare la strada verso la trasformazione e il cambiamento, ed è per questo che non solo le amiamo, ma ne abbiamo bisogno. La trasformazione è un lavoro sporco, non sempre ci accorgiamo di quanto leggere, guardare o giocare ci dia una mano a mettere in atto delle strategie utili a diventare chi desideriamo essere. In questo momento specifico, tuttavia, credo che il cinema e i videogiochi abbiano potenzialmente una marcia in più rispetto alle serie, che vivono un momento complicato dettato da una costellazione di fattori, primo tra tutti il test dei modelli di business dei vari broadcaster (mi riferisco a Netflix, Prime Video, AppleTv+, eccetera). Eroine, del resto, è un saggio di cinque anni fa, e credo oggi sarebbe possibile scriverlo, ma il vento di freschezza che lo ha ispirato ha cessato di spirare, ahinoi. Per il momento. Sì, credo sia una fase. Passerà. 

Gotico salentino (Giulio Einaudi Editore) segna un passo avanti nel tuo percorso di scrittrice. Com’è arrivata questa storia, quanto c’è di te in Filomena Quarta protagonista del romanzo e perché hai scelto di ambientare questa avventura in Puglia, nel Salento?

Una parte della mia famiglia è salentina; come racconto spesso, il mio trisavolo Giovanni Pasca è stato il primo concessionario delle terme di Santa Cesarea e ha fatto erigere uno straordinario palazzo eclettico nel quale non ho mai avuto il privilegio di entrare, perché è stato venduto all’asta dal mio bisnonno. Credo ci siano poche circostanze più inerentemente gotiche dell’aver perduto un gigantesco maniero ben prima che nascessi, lì dove la memoria degli antenati appare sigillata, o quasi sigillata. Peraltro, sono cresciuta in Salento e continuo a crescere in Salento. Forse per questo Gotico salentino è anche un romanzo generazionale, che spera di rappresentare i turbamenti di chi ha quarant’anni al di fuori delle retoriche un po’ usuali circa la «risoluzione» della propria vita. Le campagne assolate del Salento sono mutanti: nella notte si tramutano in un coacervo di rumori e ombre di complesso discernimento, ma soprattutto di indubbio fascino.

Come in tutti i gotici che si rispettano le ambientazioni sono molto importanti: un paesino nei pressi di  una palude, una vecchia casa decadente, una piccola comunità rurale sospesa tra presente e antiche credenze folkloristiche e superstizioni. Hai “studiato” o sono luoghi che in qualche modo ti appartengono?

Sono, da sempre, molto appassionata di genere. Il gotico è stato il mio ingresso nel genere quando ero davvero una bambina, proprio nella casa dei miei nonni dove ho letto per la prima volta La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe. Adoro anche la fantascienza, il fantasy, il giallo, il romance. Mi interessa la codifica del genere, di tutti i generi che sono costituiti da qualcosa di simile a mattoncini di Lego da combinare e ricombinare a proprio piacimento, sovvertendo i cosiddetti «luoghi comuni» propri di certe narrazioni, oppure rispettandoli. In Gotico salentino appaiono di proposito una pletora di elementi tipicamente gotici, alcuni dei quali da te menzionati. Aggiungerei un’enfasi su chi lavora alla e nella casa infestata, il gargantuesco tema della memoria famigliare degli avi, ovviamente gli spettri. Dopo Gotico, sempre per Einaudi, ho scritto una sorta di manuale di istruzioni del romanzo, che si intitola proprio Spettri. È un Quanto, dunque una pubblicazione unicamente digitale, ma lì ho provato a passare in rassegna i tipici tratti del gotico, specialmente di quello ottocentesco cui la mia storia si ispira più di tutto. 

A proposito di gotico e horror, Filo è una “medium di provincia” evoca fantasmi a sua insaputa: alcune presenze sono inquietanti altre invece decisamente confortanti. Vuoi dirci un po’ chi sono le co-protagoniste (vive e morte) di questa storia?

In Gotico ho evocato (in modo audace, suppongo!) le regine del genere, Mary Shelley e Shirley Jackson. Sono tra le mie scrittrici preferite, e ho condotto un lungo lavoro di documentazione biografica cercando di restituire loro una presenza attuale, sebbene nel romanzo appaiano nella forma di fantasmi (o fantasime, per meglio dire). Shelley e Jackson condividono, faccenda curiosa, alcune circostanze biografiche come la presenza di mariti difficili, ingombranti, spesso tirannici eppure amati, difficili da lasciare andare. E un atteggiamento verso la maternità che si è concretizzato in maniera diversa per l’una e per l’altra. Tra le co-protagoniste vive c’è Alba, la migliore amica di Filomena, su cui torna tra poco. 

I fantasmi del tuo romanzo non sono soltanto presenze dall’aldilà ma anche segreti e verità che portiamo dentro.

È sempre vero, nel gotico, o quasi sempre vero. In Spettri ho delineato la mia teoria della casa infestata come archivio, mutuando a mia volta una celebre teoria del filosofo Jacques Derrida – il cosiddetto mal d’archivio. In brevissimo, secondo Derrida ogni archivio è abitato da una pulsione di morte che si traduce in una resistenza all’ordine generato attraverso un criterio e interpretabile secondo una legenda. Per consultarlo, si chiede all’archivista. Ma nella casa infestata l’archivista esiste senza esistere, è lo spettro; nella casa infestata la memoria è ribelle e ambivalente, desidera e non desidera essere conosciuta e interpretata. Per questo la casa spaventa, si fa sentire, si rifiuta di scomparire così come chi non dovrebbe abitarla più da un pezzo, eppure la abita. La casa infestata è narcisista. Naturalmente, lo stesso Gotico salentino è fondato sul mal d’archivio. 

Il tuo è anche un romanzo epistolare, ogni capitolo si apre con una lettera destinata a una Dottoressa…

Sì, nella tradizione del gotico classico e del romanzo d’appendice. È una maniera per restituire l’immediatezza quasi diaristica dell’esperienza di Filomena nella Dimora Quarta, ma c’è anche un’altra ragione. Gotico richiede una notevole sospensione dell’incredulità, come tipico del genere, ma è radicato nell’archivio stesso, nella necessità di mettere ordine razionale nella propria vita; nel proprio passato, presente, e futuro. In questo senso, Filomena poteva essere una classica narratrice inaffidabile – ma non lo è. E non lo è perché è seguita, sebbene a distanza. Nelle prime bozze del romanzo la psicologa rispondeva, più tardi abbiamo optato per l’attuale silenzio oracolare (come lo descrive Filomena stessa) che lasciava maggiore spazio all’immaginazione. Ci sono anche altre ragioni per la presenza di una psicologa in Gotico, ma non voglio guastare l’eventuale piacere di leggere i ringraziamenti 

Veniamo a questioni che ci stanno a cuore, femminismo intersezionale e queer, sono presenti questi temi nella tua narrazione?

Parto dall’idea che non esista gesto non politico, e dunque non possa esistere un’arte non politica o separabile dall’artista. Gotico è un romanzo transfemminista e intersezionale perché il mio orientamento è transfemminista e intersezionale. Il gotico è un genere molto elitario: racconta di persone ricche e sospettose, vittime di invidia e rabbia sociale, in molti casi. Intersezionalmente, un lavoro sul privilegio nel gotico era inevitabile ed è un aspetto su cui mi sono concentrata molto, tra gli altri; l’ho fatto anche grazie all’aiuto della sensitivity reader Biancamaria Furci. C’è poi l’orientamento di genere: Filomena è bisessuale, il Santo è un uomo apertamente gay, Alba è una persona lesbica non binaria, Antonio contraddice i diktat del macho mediterraneo. Mary Shelley era probabilmente bisessuale e da qui origina il giro di vite fondamentale della trama del romanzo. Shirley Jackson aveva un rapporto oscuro e complicato con l’omosessualità, che tuttavia credo informi profondamente la sua scrittura. Insomma, sì, assolutamente sì: non sarei capace di scrivere nulla che non sia transfemminista, intersezionale e queer perché tutto quello che ho fatto e faccio si fonda sui medesimi pilastri. 

Gabriele Torchetti

Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

Fotografare fotografie. Italo Calvino e la nevrosi dell’uomo fotografico, di Dino Montanino

Il protagonista del racconto L’avventura di un fotografo, scritto da Italo Calvino nel 1955 e poi inserito nel volume Gli amori difficili del 1958, è Antonino Paraggi, un impiegato che esplica “mansioni esecutive nei servizi distributivi d’un’impresa produttiva”. A ridosso dei trent’anni, Antonino avverte un forte senso di isolamento perché tutti i suoi amici, uno dopo l’altro, si sono sposati e hanno cominciato a fare figli mentre lui è ancora scapolo e non sembra intenzionato a trovare una moglie. Ma c’è dell’altro. Gli amici sposati, come molti a quel tempo, sono stati contagiati da un morbo inguaribile: la sindrome della fotografia. Fanno parte di un vero e proprio esercito di dilettanti dell’obiettivo che condividono la passione fotografica, si scambiano opinioni sulle foto realizzate e non perdono occasione di vantarsi dei progressi raggiunti da attribuire soprattutto alle loro abilità tecniche e artistiche o, in qualche caso, alla bontà dell’apparecchio che hanno acquistato. Dopo aver fotografato tutto quello che c’è da fotografare, attendono con ansia di vedere le loro foto sviluppate e solo quando le hanno davanti prendono possesso della realtà fotografata e, ai loro occhi, le immagini catturate acquistano “l’irrevocabilità di ciò che è stato e non può più essere messo in dubbio. Il resto anneghi pure nell’ombra insicura del ricordo”. 

Antonino Paraggi ha la vocazione del filosofo. Vuole capire, sdipanare “il filo delle ragioni generali dai garbugli particolari” e si interroga continuamente sull’essenza dell’uomo fotografico. Molto presto si convince che l’ossessione per la fotografia è un “fisiologico effetto secondario della paternità”. Come già detto, i suoi amici sono genitori novelli e uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un figlio, è quello di fotografarlo. Ma c’è un problema: i bambini crescono in fretta e, di conseguenza, bisogna fotografarli continuamente, non ci si può fermare perché “nulla è più labile e irricordabile d’un infante di sei mesi, presto cancellato e sostituito da quello di otto mesi e poi d’un anno” e poi…  Seguire la crescita dei propri figli continuando a scattare fotografie diventa, per i genitori, un’ossessione pericolosa che, sostiene Antonino, li porterà inevitabilmente e inesorabilmente, alla follia. Riflessioni profetiche quelle di Paraggi: il “filosofo”, mentre si diverte con le sue elucubrazioni, non può immaginare che, come vedremo presto, chi corre il pericolo maggiore è proprio lui, lo scapolo”.

Nonostante le sue perplessità sui suoi amici fotografi, Antonino continua a frequentarli e partecipa alle gite fuori porta che vengono organizzate nei fine settimana. È un modo per vincere il senso di isolamento che lo pervade ma anche per continuare a esercitare il ruolo di osservatore critico che il protagonista del racconto si è attribuito. Nel corso di quelle escursioni, come possiamo facilmente immaginare, si scattano fotografie. Vengono immortalati i paesaggi naturali, montani o marini, ma, presto o tardi, arriva il momento della foto di gruppo, familiare o interfamiliare che sia. Chi viene chiamato a scattare queste foto? Antonino Paraggi, naturalmente, che, suo malgrado, si trova a svolgere il ruolo di fotografo. Come è facile immaginare, uno come Antonino non può essere un fotografo come tutti gli altri. Quando si trova tra le mani l’apparecchio fotografico, quasi istintivamente, invece di eseguire il compito assegnato, punta l’obiettivo per “catturare alberature d’imbarcazioni o guglie di campanili, o decapitare nonni e zii”. Gli amici, infastiditi, lo accusano di farlo apposta, di volere essere a tutti i costi originale. Ma non è così. Antonino si difende dalle accuse che gli vengono rivolte dicendo che lui vuole soltanto “servirsi della sua momentanea posizione di privilegio per ammonire fotografi e fotografati sul significato dei loro atti” perché, da quando ha cominciato a utilizzare la macchina fotografica, le sue acute riflessioni si arricchiscono di nuovi elementi e di nuove domande. Decidiamo di fotografare qualcosa perché ci sembra bello o la realtà ci appare bella perché è stata fotografata? E, rivolto ai suoi amici sempre più perplessi, afferma: “Basta che cominciate a dire di qualcosa: «Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!» e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografatile ogni momento della propria via. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia”. Anche quando gli amici non lo ascoltano più e lo considerano solo un rompiscatole, Antonino non demorde e continua con i suoi sermoni. Arriva a sostenere che chi decide di fotografare non può e non deve esercitare nessuna scelta. Dice che se lui si mettesse a fare fotografie, catturerebbe tutto, ogni attimo del soggetto fotografato, che il vero fotografo è colui che scatta almeno una foto al minuto. In caso contrario si cade inevitabilmente nella mediocrità perché la vera arte fotografica non può escludere i contrasti drammatici. Se si sceglie l’idillio, la consolazione, l’assenza di drammaticità, come fanno la maggior parte dei fotografi dilettanti, si evita la follia ma si piomba nell’ebetudine.

Nonostante la sua ostilità nei confronti della fotografia, Antonino Paraggi ha acquisito una certa dimestichezza con mirini ed esposimetri e, nel corso di una gita al mare, Bice e Lydia, due ragazze aggregate alla comitiva, gli chiedono di scattare delle istantanee che le ritraggano mentre giocano a palla sulla riva del mare. Accetta di fare le foto ma non può rinunciare alla sua vocazione di filosofo. Spiega alle ragazze la sua teoria sulle istantanee affermando che la foto spontanea, contrariamente a quello che tutti pensano, allontana il presente e assume subito un carattere nostalgico, “di gioia fuggita sull’ala del tempo”. Quando le foto verranno sviluppate, le ragazze restano colpite dal risultato. Antonino Paraggi, che gli piaccia o no, è diventato un bravo fotografo e, quando Bice gli chiede se ha voglia di scattare altre foto per loro due, accetta a una condizione: non devono essere istantanee ma foto in posa, come si facevano una volta quando le fotografie ufficiali, matrimoniali, scolastiche davano “il senso di quanto ogni ruolo o istituzione aveva in sé di serio e d’importante ma anche di falso e di forzato, d’autoritario, di gerarchico”. Insomma, secondo Antonino, ogni fotografia deve rendere espliciti i rapporti sociali invece di rimuoverli come avviene molto spesso nella pratica fotografica comune. Il “filosofo” scettico e critico sulla fotografia, accettando la sollecitazione di Bice, ha preso una decisione importante: la sua polemica antifotografica può “essere condotta solo dall’interno della scatola nera, contrapponendo fotografia a fotografia”. In Antonino è avvenuto un cambiamento irreversibile di cui egli stesso non è consapevole fino in fondo. Per adesso ha una sola certezza: per scattare foto in posa alla vecchia maniera, le uniche che lo interessano, è necessario dotarsi degli strumenti adeguati. Dopo lunghe ricerche tra i rigattieri della città, accompagnato da Bice e Lydia sempre più incuriosite, riesce a procurarsi una vecchia macchina a cassetta con scatto a pera completa di lastre. In una stanza del suo appartamento allestisce il suo laboratorio fotografico e invita le due ragazze a posare per lui, per fare delle foto coerenti con la sua “filosofia”. Lydia è diffidente e declina l’invito. Bice, al contrario, aderisce con entusiasmo. Si presenta il giorno dopo a casa di Antonino e diventa la sua modella. Con una docilità inattesa, si presta a tutte le richieste del fotografo che, dopo i primi scatti, non è convinto. Prima ancora di sviluppare le lastre sente che non potrà essere soddisfatto del risultato e presto capisce il motivo della sua frustrazione. “C’erano molte fotografie di Bice possibili e molte Bice impossibili a fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre”. La invita ad assumere le pose più st, la obbliga a travestirsi, a indossare i costumi più strani ma, nonostante Bice assecondi gli ordini di Antonino, lui continua a ripetere: “Non ti prendo, non riesco a prenderti”. L’atteggiamento autoritario del fotografo filosofo, gli ordini perentori che impartisce alla ragazza, mi fanno pensare quello che Susan Sontag, molti anni dopo la scrittura del racconto di Calvino, dirà a proposito del carattere predatorio dell’atto fotografico. “Fotografare significa appropiarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere. […] L’atto di fare fotografia ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere: equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto” (Susan Sontag, Sulla fotografia). Antonino Paraggi vuole “prendere” Bice, desidera possederla attraverso l’apparecchio fotografico. Il suo desiderio di possesso è un’evidente sublimazione del desiderio sessuale. Riesce a possedere la ragazza solo attraverso il filtro della macchina evidenziando, con il suo comportamento pateticamente autoritario, il carattere patologico della relazione instaurata con la donna. Riuscirà a farla sua, a prenderla solo quando lei, stanca di travestirsi e di eseguire gli ordini di Antonino, si mostrerà nuda davanti all’obiettivo. “Ecco, ora sì, così va bene, ecco, ancora, così ti prendo bene, ancora” dice lui. Poi, finalmente pago, esce dal drappo nero che guarnisce il vecchio apparecchio e, quando si trova Bice senza abiti che aspetta, le ordina di rivestirsi. Lei è delusa e piange. Lui è euforico, ha fatto l’amore con lei fermando la sua immagine dopo aver schiacciato la piccola pera che apre l’otturatore e non ha nessun bisogno che il suo corpo si unisca a quello della ragazza. La macchina fotografica gli permette di vincere la paura che prova per il sesso, di amare Bice rimuovendo definitivamente il timore del contatto fisico. Scopre di essere innamorato di lei e, ora che “l’ha presa” una volta, il suo amore non può avere limiti. Il suo diventa un desiderio sfrenato, incontrollabile, deve “prenderla” a ogni ora del giorno e con il vecchio apparecchio fotografico non è possibile. Compra macchine più moderne, dispositivi per poterla fotografare anche di notte mentre dorme. Lei lo ama e si ostina a scambiare come atti d’amore le violenze fotografiche di Antonino. Nel suo laboratorio “pavesato di pellicole e provini Bice s’affacciava da tutti i fotogrammi, in tutti gli atteggiamenti gli scorci le fogge, messa in posa o colta a sua insaputa”. Antonino ha messo in discussione la sua teoria secondo la quale solo le foto in posa hanno un senso. È ritornato all’idea che solo fotografando ogni attimo della vita di Bice, solo esaurendo tutte le immagini possibili di lei, sarà possibile possederla completamente. E allora la segue di nascosto, la fotografa per strada, vuole “prenderla” quando lei non sa che c’è lui a fotografarla. Vuole immortalare l’inconsapevolezza di essere fotografata.

Quando Bice, esasperata da questa passione ossessiva, lo lascia, Antonino cade in una crisi depressiva. Ma non smette di fare fotografie. “Con la macchina appesa al collo, chiuso in casa, sprofondato in una poltrona, scattava compulsivamente con lo sguardo nel vuoto. Fotografava l’assenza di Bice: […] portaceneri pieni di mozziconi, un letto sfatto, una macchia d’umidità sul muro”. Decide di comporre un catalogo di tutto ciò che, normalmente, è refrattario alla fotografia. Poi osserva i giornali vecchi disseminati sul pavimento del suo appartamento che ormai è in uno stato di abbandono. Si mette a fotografare anche quelli e osserva le immagini di “cariche della polizia, auto carbonizzate, atleti in corsa, ministri, imputati”. Prova invidia per i fotoreporter impegnati a seguire quello che accade nel mondo e si chiede se sia il fotoreporter il vero antagonista del fotografo domenicale. Prigioniero della sua ossessione, comincia fare a pezzi tutte le foto presenti nella sua casa, con Bice o senza Bice, “a tagliuzzare la celluloide delle negative, a sfondare le diapositive”. Ammassa tutti i frammenti ricavati sui giornali stesi a terra. “La vera fotografia totale è un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni”. Questo è quello che pensa. Piega i lembi dei giornali e crea un enorme involto da buttare nella pattumiera. Ma, prima di farlo, decide di fotografarlo. Lascia il pacco un po’ aperto in modo che nella foto che avrebbe scattato sarebbero state riconoscibili “le immagini mezzo appallottolate e stracciate e nello stesso tempo si sentisse la loro irrealtà d’ombre di inchiostro casuali”. Mentre prepara il riflettore capisce che “fotografare fotografie” è l’unica via che gli resta, “la vera via che lui aveva oscuramente cercato fino allora”. Non c’è più antagonismo tra fotografo dilettante e fotografo professionista, tra la quotidianità delle foto di Bice e l’eccezionalità dei grandi eventi politici, tra ciò che è fotografabile e le immagini dell’assenza. Il fotografo dilettante e quello professionista producono entrambi materiali destinati a fondersi in un patchwork pronto a finire nell’immondizia. 

Quando le immagini catturate dall’occhio fotografico si moltiplicano a dismisura, invadono la nostra esistenza, si mescolano e si sovrappongono come succede a ognuno di noi nella nostra vita quotidiana, ricordiamoci di Antonino Paraggi e della sua nevrosi paranoica perché, anche noi che viviamo nell’era della foto digitale, quando non avremo più nulla da fotografare, potremmo ridurci a “fotografare fotografie”. 

Dino Montanino

Dino Montanino, laureato in Lettere moderne presso l’università Federico II di Napoli, ha insegnato Italiano e Latino nei licei. È stato formatore in corsi di aggiornamento per docenti. Si occupa di teatro della scuola e ha condotto laboratori teatrali in qualità di esperto esterno presso molti istituti scolastici. È tra i fondatori dell’associazione culturale “Le macchine desideranti” nata con l’intento di diffondere la cultura teatrale e letteraria tra i giovani curando la drammaturgia di tredici spettacoli. Conduce laboratori di scrittura creativa e incontri letterari tematici presso associazioni culturali.