Theodor Fontane: “Effi Briest” (Feltrinelli, curatore E. Gianni), di Lavinia Capogna

L’innocente Effi Briest 

Theodor Fontane (Germania 1819 – 1898) era dai ritratti un classico personaggio ottocentesco, con grandi baffi, corpulento, un’aria arguta.

Di professione era farmacista ma mentre miscelava gli intrugli dell’epoca doveva immaginare molte cose; la sua attività parallela di scrittore è assai vasta: romanzi, racconti, poesie, articoli. 

Effi Briest“, pubblicato tra il 1894 e il 1895, dapprima in una rivista e poi in volume, è il suo romanzo più celebre, tradotto in numerose lingue. 

In Germania sono stati realizzati ben quattro film ispirati alla trama. 

Uno, del 1974, molto bello, venne diretto da un ventinovenne Rainer Werner Fassbinder ed intensamente interpretato da Hanna Schygulla. Ci si potrebbe domandare perché un romanzo di fine ottocento ambientato prima in Pommern (Pomerania) e poi a Berlino, capitale del Königreich Preußen (Regno di Prussia) avesse attratto il regista più particolare del nuovo cinema tedesco. 

Leggendo il libro si può comprenderne il motivo.

 

“Effi Briest” incomincia come un classico romanzo del tempo: Effi è una ragazza molto carina, diciassettenne, vivace, che vive spensieratamente insieme ai suoi amati genitori e ha tre care amiche. Suona un po’ il pianoforte, ricama, e non ha intenzione di sposarsi finché, inaspettatamente, non capita a casa loro un antico spasimante della madre, il barone Geert Innstetten, che ha 37 anni (un’età allora matura). 

Il barone ha un prestigioso incarico amministrativo, è laureato in legge, è agiato e tutto fa prevedere che farà una bella carriera.

Egli chiede la mano di Effi. Sia lei, sia i genitori acconsentono.

Ma ben presto il romanzo, ispirato ad un fatto di cronaca vera che suscitò grande clamore, prende una piega inaspettata e si legge tutto d’un fiato.

In questa storia tutto sommato semplice non vi è nulla di scontato perché Fontane elabora il testo con maestria.

Innstetten è un personaggio impeccabile, tutto ciò che dice sembra ragionevole, è ligio alle convenzioni sociali, lavoratore modello, ambizioso ma paziente.

Effi non è innamorata di lui ma lo stima. 

Egli la considera una bella fanciulla da dirigere e plasmare – un po’ come il Torvald di “Casa di bambola” di Henrik Ibsen (1879) considerava la moglie Nora. 

Solo se lei si concede qualche battuta scherzosa sui suoi ammiratori, il suo sguardo diventa duro. 

Ma dietro questa facciata si cela un marito freddo e senza alcun amore – anche se verso la fine egli dirà ad un amico di amare Effi. E forse per un attimo è sincero anche se per lui che cosa pensa la società è ben più importante della moglie. 

Non le dà supporto quando lei prova nostalgia della casa paterna e della sua cittadina bruscamente lasciata per un’altra, prende in giro un gentilissimo spasimante di lei, un farmacista un po’ gobbo, premuroso e ammodo. 

Nella piccola città prussiana in cui lui ha condotto la moglie, lei viene accettata di malavoglia dalla borghesia che Fontane descrive con pochi incisivi tratti: un ambiente di idee assai ristrette e molto conservatrici, si detesta sia la memoria di Napoleone, sia i cattolici, sia i moti libertari degli studenti, si invoca in modo retorico la patria, si osserva una religione di facciata, ci si scandalizza per i romanzi di Zola. 

Tutto ciò diventa oppressivo per Effi. Incomincia ad avere strane impressioni, teme i fantasmi, viene turbata da una misteriosa storia accaduta anni prima (qui il romanzo risente un po’ del gotico inglese e Fontane era un ammiratore della letteratura inglese).

Entra un po’ in confidenza con Roswitha, una giovane cameriera, che al suo paese era stata quasi uccisa dal padre, un contadino, perché incinta e le era stata tolta la sua neonata data in “adozione” a chissà chi (queste estreme violenze accadevano realmente allora).

Dopo poco tempo Effi ha una bambina che ama molto e verso cui il padre ha un comportamento cortese ma non affettuoso, che invita sempre al dovere.

Finché nella cittadina non arriva il maggiore Crampas. Ex commilitone di Innstetten, Crampas non ha nessuna particolare qualità ma neppure grandi difetti, ha i capelli e i baffi biondi rossicci, è noto per fare una discreta corte alle signore nonostante abbia una moglie depressa e due figli. 

Effi non rimane particolarmente colpita da lui, lo frequenta più per solitudine che per altro anche se Innestenn non approva le loro cavalcate sulla spiaggia d’inverno del mar Baltico. 

Sarà Crampas a trascinare Effi in una relazione sentimentale ma l’adulterio non è il tema del romanzo, il tema è un formidabile atto di accusa verso la società bismarckiana. La cosa più sorprendente è che esso provenga da un borghese, un distinto farmacista che aveva la bizzarra mania di scrivere romanzi. “Effi Briest” ci ricorda che la società emana norme e comportamenti severi e che diventa crudele verso chi osi innocuamente infrangerli.

Probabilmente fu questo ad attrarre Fassbinder – l’adeguamento alle convenzioni sociali che può condurre al crimine. 

E ciò rende “Effi Briest” un romanzo sempre attuale. 

Non sono mancati paragoni con “Anna Karenina” (1877) di Lev Tolstoj e “Madame Bovary” di Gustave Flaubert (1856) anche se sono romanzi molto diversi fra di loro. Effi Briest nella sua vivace ingenuità è molto tedesca così come Anna Karenina è profondamente russa e Emma Bovary una francese di provincia. 

Fontane registra accuratamente gli stati d’animo della sua eroina facendo di questo romanzo anche un romanzo psicologico. 

Presumibilmente “Effi Briest” sarebbe piaciuto allo psicoanalista Erich Fromm che scrisse un saggio sui danni del conformismo, “Fuga dalla libertà” (1941).

Thomas Mann lo pose tra i sei libri che avrebbe portato con sé e il suo dissidio tra vita borghese e vita d’artista o sregolata ha qualche analogia con la vitalità di Effi Briest e la rigidità di Innestenn.

Tra parentesi, un personaggio del libro al quale sono dedicate solo poche righe si chiama Buddenbrook. 

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora otto libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente” , (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari” .

E molto recentemente “Poesie 1982 – 2025”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Il Randagio e Insula Europea. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Lutz Seiler: “Stella 111” (Utopia Editore, trad. Paola Slaviero), di Claudio Musso

In queste pagine Lutz Seiler racconta i mesi immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino, ma non ne fa un romanzo storico né una cronaca politica. La DDR non viene mai nominata, la riunificazione resta sullo sfondo come un’eco lontana: al centro c’è un tempo sospeso in cui le certezze si sono dissolte e il presente diventa l’unico terreno da abitare. Tutto sembra avvenire fuori dal quotidiano in una dimensione che sfugge alla linearità della storia e che restituisce con forza l’esperienza di chi, in quel 1989, ha vissuto più il vuoto lasciato da ciò che era crollato che la promessa di ciò che sarebbe venuto.

Il titolo rimanda a una radio legata all’infanzia di Karl, il protagonista di questo romanzo: un oggetto che evoca un passato sereno, fatto di armonie familiari e scoperte, che non ha altro ruolo se non quello di segnale affettivo e memoria di un tempo perduto. Quel ricordo contrasta con l’animo inquieto del giovane, nutrito da una parte torbida e irrisolta. Karl porta con sé un passato disadorno e un rapporto disturbante con i genitori: li abbandona nella Turingia Orientale e li ritroverà anni dopo. La radio rappresenta allora un frammento di infanzia felice ma anche il limite oltre il quale quella felicità non si è più ripetuta.

L’incipit sorprende: non è il figlio, come molti suoi coetanei, a fuggire verso l’Ovest, ma i genitori, «interpreti principali della consuetudine», con una fuga studiata da tempo, a partire, lasciandogli la casa in una sorta di passaggio di consegne. Karl non cerca stabilità, non rincorre il benessere, ma si dirige, a bordo della sua eccentrica Zighuli, verso Berlino Est, verso la soglia dove si incontra la Storia. Qui si rifugia in una delle tante società a nicchia popolata da artisti, poeti, squatter, visionari e persone che si rifanno la carta di identità. Un luogo che si colloca ai margini sia fisicamente, nelle zone degradate della città, sia ideologicamente, fuori dalla propaganda ufficiale. E trova randagi come lui, senza più collari imposti, che cercano di fare branco e che popolano una sorta di libero ‘parco giochi’ di utopie. Al contempo si immerge in un tempo provvisorio, affidandosi alla precarietà e al qui e ora come forma di vita possibile, preferendo il margine alla sicurezza e la comunità improvvisata ma affiatata al modello dominante. Perché c’è un istante nella storia in cui tutto sembra possibile e nulla è ancora deciso. È quello tra un non più e un non ancora in cui le regole si allentano, i sogni si affacciano senza filtri e la mente elabora.

È qui che la dimensione psicologica si intensifica: nei volti dei personaggi che incontra, figure eccentriche, radicali, spesso borderline, Karl sembra ritrovare non solo nuovi compagni di strada, ma anche riflessi di sé, specchi deformanti che gli rimandano frammenti del proprio passato e di quello che non ha avuto modo di essere. Alcuni incontri hanno la concretezza ruvida del reale quotidiano, altri assumono quasi la consistenza del fantasma. Quelle cantine lasciate al logorio del tempo, quegli appartamenti abbandonati diventano così anche un nuovo spazio interiore in cui Karl, lasciandosi alle spalle «l’intero squallore della sua insufficienza» affronta i propri irrisolti e misura la propria capacità di trasformarli in possibilità di vita e, al contempo, di farne, senza sconti, la tara.

In quella che poi diventerà la celebre Prenzlauer Berg egli lavora come muratore e cameriere nel bar sotterraneo Assel, stringe legami con chi, come lui, sperimenta un’esistenza fuori dalle regole. Questa vita collettiva è instabile ma intensamente vitale: l’esperienza del presente prende il posto del futuro che non si conosce e del passato che non offre più appigli. Anche i genitori, dall’altra parte della cortina, scoprono che l’Ovest non è un approdo sereno ma un nuovo inizio fatto di difficoltà e adattamenti. Seiler mostra così che nessuno, in quel passaggio epocale, trova garanzie immediate: l’unico modo di esistere è muoversi nell’incertezza, trasformando la fragilità di passi incerti in possibilità.

La peculiarità del libro risiede soprattutto nella scrittura. Seiler proviene dalla poesia e si avverte: la sua prosa è densa, sensoriale, capace di trasformare gli oggetti quotidiani – una stufa, un mattone, un asello, una radio – in simboli vivi, dotati di una risonanza che travalica la materia. Ogni dettaglio diventa concreto e insieme poetico, restituendo non solo l’atmosfera di un’epoca ma la sua vibrazione più intima. Non è una lettura immediata: il testo è complesso, stratificato, ma proprio per questo riesce ad appagare il lettore con la ricchezza di immagini, la profondità dei personaggi e la densità di significati che emergono pagina dopo pagina, grazie anche all’attenta e vibratile traduzione di Paola Slaviero.

Da questa esperienza, controcorrente e, al tempo stesso, nella corrente, per Karl nasce l’approdo alla scrittura: non un gesto estetico ma la necessità di dare voce a un presente che altrimenti resterebbe muto. La poesia diventa l’unico modo per orientarsi in un mondo in trasformazione, per dare forma a ciò che è fragile, instabile, ma intensamente vissuto. Nello scrivere poesie egli attua una ricerca di identità in un mondo che gli sfugge, un gesto di resistenza contro la dispersione e la disgregazione che vede intorno a sé, un vissuto da elaborare per trasformare la propria esistenza in un linguaggio durevole, l’appartenenza ad una tradizione inserendosi, sopravvivendo, ad una comunità invisibile di voci.

“Stella 111” è dunque il romanzo di un passaggio: non documenta la storia, ma la trasfigura in esperienza universale. Racconta come, nel momento in cui le strutture di riferimento crollano, diventa possibile reinventarsi e cercare nuove forme di libertà e di definizione. Il gesto di Karl – lasciare la città per rifugiarsi nelle sue nicchie – non è soltanto un atto di ribellione, ma il tentativo di plasmare da sé la vita: perdersi pienamente, senza se, fuori dalla norma e dall’incasellamento, per poi ritrovarsi. È in questo smarrimento volontario che il testo trova la sua forza, come un invito a interrogarsi su cosa significhi oggi davvero abitare il presente quando ogni cornice sembra dissolversi. E, una volta compiuto questo primo passaggio decisivo, dare libero sfogo a forme espressive e strumenti interiori per orientarsi perché solo chi riesce a trasformare un tracciato di vita disorientata in occasione di riscatto può sentirsi veramente ‘a casa’ nel tempo che gli è dato.

Perché l’abitare l’oggi non è un traguardo che si raggiunge una volta per tutte, ma un compito quotidiano, un esercizio di attenzione e di invenzione. È, riprendendo Rilke, vivere le domande. Così forse un giorno, senza accorgercene, vivremo dentro le risposte.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

Perché leggere la letteratura tedesca: quattro romanzi per affrontare le domande che contano, di Claudio Musso

C’è chi dice che la letteratura tedesca sia ‘difficile’. Troppo seria, troppo filosofica, troppo cupa. Eppure, se mai c’è stato un tempo in cui valga la pena riscoprirla, è questo. Perché, più di altre, sa andare a fondo. Sa raccontare il buio senza cedere al nichilismo e, al tempo stesso, interrogare senza semplificare. In un’epoca come la nostra di rumore, slogan e risposte immediate, essa ci offre invece domande lente, necessarie, vitali. Non è una letteratura che consola. Non intrattiene ma trattiene noi lettori in una ragnatela da cui possiamo uscire se scorgiamo i fili che ci legano o dai quali ci lasciamo legare per liberarci.

Ed allora ecco quattro romanzi che, ciascuno a modo proprio, possono aiutarci a orientare lo sguardo in questo presente frastagliato. Ecco quattro ‘mattoni’, non solo di pagine ma di sostanza, che sono quelli che ci permettono di costruire per creare qualcosa o proteggerci.

Heinrich von Kleist, Michael Kohlhaas (trad. Paola Capriolo, Marsilio)

Giustizia e disobbedienza: quando la legge non basta.

Michael Kohlhaas è un commerciante di cavalli onesto, scrupoloso, fedele al diritto. Ma un giorno subisce un’ingiustizia che le autorità si rifiutano di sanare. Da quel momento la sua vita cambia: si trasforma in un vendicatore, guida una rivolta, sfida apertamente il potere. È un uomo che crede nella giustizia fino a diventarne vittima. Leggere oggi Kohlhaas significa riflettere su quanto può essere sottile il confine tra legalità e giustizia, tra ribellione e responsabilità morale. È una parabola inquietante e profonda che ci parla del senso di impotenza di fronte a istituzioni opache e contraddittorie. Un’esperienza fin troppo attuale?

«Poiché era uno degli uomini più integri, e allo stesso tempo più terribili, del suo tempo

Kleist non offre modelli morali rassicuranti, ma una domanda: cosa succede quando il diritto non difende più chi ha ragione? Esistono modi per non abbandonarsi alla giustizia privata?

Christa Wolf, Trama d’infanzia (trad. Anita Raja, e/o)

Memoria, colpa, coscienza: la Storia dentro di noi.

Christa Wolf torna alla propria infanzia vissuta sotto il nazismo e la rilegge alla luce del presente, nella Germania Est. È un tentativo sofferto, spesso ambiguo, di interrogare sé stessa e il proprio sguardo di bambina: perché non ha visto? Perché non ha capito? Cosa resta di quella bambina in lei, oggi? Trama d’infanzia è un romanzo, non tra i più noti in Italia, che parla del passato come materia viva, mai davvero superata. Oggi, in tempi di rimozioni rapide e di verità riscritte, ci invita a una forma di memoria vigile e intransigente.

«Può darsi che il nostro compito più importante sia quello di non dimenticare

Wolf scrive come chi scava nella propria voce per trovare un senso più grande. È un libro che ci insegna che la coscienza si costruisce lentamente. Nella fatica della memoria.

Franz Kafka, Il processo (trad. Ervino Pocar, Mondadori)

L’alienazione dell’individuo nell’era dell’assurdo

Josef K. si sveglia una mattina e scopre di essere stato arrestato. Nessuno gli dice perché e gli spiega nulla. Inizia così un processo senza accuse, in un tribunale senza regole, in un sistema che sfugge a ogni logica. Kafka non costruisce solo un incubo: descrive un’esperienza profondamente moderna. Nel mondo di oggi, tra burocrazie impersonali, algoritmi oscuri, decisioni che ci riguardano ma che non comprendiamo, il romanzo risuona con una forza nuova. È il racconto di chi cerca un senso dove il senso è stato cancellato.

«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato.» 

Kafka, sempre variamente interpretato e interpellato, certamente non ci rassicura. Ma ci aiuta a nominare l’assurdo e a resistervi. Ci invita a non accettare l’opacità come destino.

Jenny Erpenbeck, Di passaggio (trad. Ada Vigliani, Sellerio)

Una casa, cento anni, mille identità tedesche

Una casa sulle rive di un lago del Brandeburgo è la vera protagonista di questo romanzo. Passa di mano in mano, di epoca in epoca: una domestica ebrea costretta a fuggire, un funzionario nazista, un artista della DDR, una scrittrice della Germania riunificata. Ogni stanza, ogni oggetto, ogni albero ha una memoria. Erpenbeck racconta la storia tedesca del Novecento senza farne una lezione di storia. Lo fa attraverso le tracce lasciate da chi è passato: amori, lutti, silenzi. In un tempo segnato da smarrimenti identitari e fratture storiche, Di passaggio è una riflessione poetica su ciò che resta e su cosa significa “casa”.

«La casa sa tutto quello che accade.» 

Non esiste luogo neutro: anche i muri ascoltano. Anche le pietre hanno una storia da raccontare. In tempi di migrazioni e dislocamenti, è un libro di radici e di mutamento.

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Ciò che unisce questi quattro romanzi non è un’estetica comune o un’ideologia condivisa, ma è un’attitudine: la volontà di interrogare, in profondità, l’uomo, la storia, il potere, la responsabilità, il linguaggio. Leggerli oggi non significa cercare risposte immediate, ma aprirsi a domande che resistono. Sono opere esigenti, sì. Ma oggi più che mai abbiamo bisogno di letture che non semplifichino, che non blandiscano o cullino. Come scriveva Cesare Cases, la letteratura, e in particolare quella tedesca, ha questo compito essenziale:

«non ci dà risposte, ma ci pone le domande decisive

E in tempi incerti, che sempre ci saranno, è proprio dalle domande che dobbiamo ripartire.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

Klaus Mann: ‘’Speed. I racconti dell’esilio’’ (Castelvecchi), di Claudio Musso

Nel panorama della letteratura tedesca Klaus Mann è una figura ombra e in ombra. Non solo perché oscurata dalla fama internazionale e ingombrante del padre Thomas ma anche perché la critica e gli editori non gli hanno mai riservato una adeguata valorizzazione. Per quello che aveva da dire e per come sapeva dirlo. Nel rendere musica quelle note stonate in lui insite ma frenate dalla partitura dell’etica. Meritoria dunque è l’opera di ricupero dell’editore Castelvecchi che, negli ultimi anni, sta pubblicando, in nuove traduzioni, buona parte dei romanzi di questo scrittore, membro di una ‘royal family’ letteraria ma con un suo accento peculiare, divisivo, controverso, discusso, randagio, per quelle scelte estreme che si riversano anche nelle pagine dei propri scritti.

Klaus, che da questo momento smetteremo di chiamare “il figlio di Thomas Mann”, non ha mai imparato a vivere a metà. Per questo ha bruciato ogni ponte, anche verso sé stesso, in un’epoca di compromessi. E rivela la propria creatività letteraria quando dal 1933 abbandona la Germania, già nella morsa nazista, per girare ovunque nel mondo, fare esperienza di vita e di vite e scrutare gli altri, fino ad approdare negli Stati Uniti. Qui sceglie il proprio rifugio adottando quella filosofia del lontano, cara a Pirandello, con la quale osservare e osservarsi con distanza critica, frantumando il proprio ‘io’, vedendo le cose come stanno, in sé e nel mondo di fuori, quello che lo rifiuta e quello che lo accoglie, nella libertà tragica di poterlo dire. Consapevole inoltre che è sempre difficile non smarrire la strada quando tutto intorno a noi si incrina, vacilla e collassa: la patria è, certo, lontana, l’identità di fatto si scolora, ma servono nuove bussole che letteratura spesso offre a patto che non si finisca nel mero intrattenimento di sé e dei lettori ma si faccia la radiografia scritta del proprio Sé.

È nel turbine e, al tempo stesso, nella vertigine dell’esilio e della solitudine che Klaus sviluppa una incrollabile volontà di verità. Mai disgiunta da una forma di lotta contro i fascismi cercando di aprire gli occhi alla coscienza del mondo. È in questo contesto che nascono i racconti dell’esilio, scritti tra il 1933 e il 1943 e pubblicati su varie riviste americane e non. Ora sono stati riuniti, e si tratta in gran parte di inediti in Italia, nella raccolta ‘‘Speed’’ pubblicata dall’editore romano nella traduzione limpida e spesso miniaturistica di Massimo Ferraris. Racconti dai forti risvolti autobiografici, con pochi personaggi o ambientazioni tipicamente tedesche, come ci si aspetterebbe da un esiliato, ma che crescono progressivamente di sostanza quando Mann mette per iscritto, in maniera più immediata e pregnante, la ricerca della propria identità in un contesto di dislocamento interiore, l’esilio non tanto da un luogo fisico quanto dal proprio ‘io’, la dipendenza e l’autodistruzione, tutte tensioni interiori vissute e raccontate con una ipersensibilità e una lucidità morale di chi scrive non solo per raccontare ma per provare a esistere e resistere contro le tenebre di sé e degli altri.

In queste pagine troviamo ragazzi che si accorgono di non avere mai dato peso al tempo che passa e si aggrappano a ogni secondo rimasto per viverlo con tenacia e tenerezza, immersi nella tempestosa gioia dell’attimo presente e, al contempo, nella disperazione per quello che fugge. Ci sono altri che, persa ogni illusione, non vogliono più aderire ad una causa a lunga postulata perché decidono di annullarsi in stanze di infimo ordine in alberghi topaie nella patologia della solitudine tra droghe, cinismo e consapevolezze che il mondo non cambierà mai, neanche con l’apocalisse, pervasi da un irresistibile desiderio di non vita che non amareggia il volto ma semmai lo trasfigura.

Poi ci sono giovani male in arnese che non riescono a trovare lavoro e avere qualche soldo in tasca per potersi permettere una gita con la propria fidanzata e accettano di trasformarsi in una caricatura ambulante di un cuoco che annuncia l’apertura di un ristorante per le strade di Praga mentre tutti lo riconoscono e dalle loro ‘altezze’ se ne prendono gioco per come sia sceso in basso. Dall’altra parte c’è un giovane americano, figlio di papà, uno degli ‘sdraiati’ di Michele Serra, vacanziere, che vorrebbe diventare scrittore, un po’ lezioso e un po’ spocchioso, ma che in fondo si sente uno straniero in patria e, benché abbia fatto il giro del mondo, questo mondo se lo immagina diverso quando scopre che la solitudine è sempre uguale dappertutto. Ma non c’è solo del negativo: per quanto amaro, questo periodo non va dimenticato, anzi va vissuto, basta ombre in cui rifugiarsi, perché in fondo, sussurra Mann, contiene un trionfo irragionevole di quello che solo la gioventù, certo senza limiti, senza morali altre se non la propria, può iniziare a dragare la vita.

C’è poi una certa baronessa, l’ultima vera cortigiana del secolo, che non esce mai dal suo hotel e che appartiene ad un mondo che non c’è più. La donna vive non in una casa vera, ma in un luogo di transizione dove si è sempre ospiti. E in questo spazio chiuso e limitato si consuma la tragedia della condizione dell’esule, sospeso tra un passato lasciato alle spalle e un futuro incerto. Ma c’è anche l’incapacità di inserirsi completamente in un mondo che corre troppo velocemente (Speed), trovandosi in una situazione di blocco, riluttante e alienata a entrare nella società ospitante.

In questa catena di racconti, alcuni più riusciti di altri ma eloquenti chiaroscuri della personalità autoriale, incontriamo meno personaggi reali e molte proiezioni di Mann come osservato da un prisma, meno storie da leggere più camere d’albergo parlanti come non luoghi identitari e, proprio per questo, epifanici, abitate dallo status di emigrato che porta con sé tristezza e indegnità. E in queste pagine si stagliano con forza due racconti: Finestra con le sbarre, già uscito in traduzione italiana, pubblicato nel 1937 ad Amsterdam e Speed, scritto in ingleseinedito in Italia e pubblicato per la prima volta in traduzione tedesca nel 1990 nel volume di racconti della Rowohlt. Entrambi si rivelano, tra Monaco e New York, preziosi sismografi della complessa personalità del loro autore.

Nel primo c’è il racconto delle ultime ore di Ludovico II Re di Baviera che viene rinchiuso in un castello, non in uno di quelli arditi e superlativi di cui è stato ispiratore, ma in uno spazio che è chiuso all’esterno con le sbarre alle finestre messe, si dice, a scopo decorativo. In realtà la famiglia Wittelsbach ha deciso di richiudere il principe di mezzanotte e la sua ‘paranoia’, questa la diagnosi ufficiale e lapidaria, perché ritenuto pazzo. Per spartirsi il trono e per mettere il bavaglio ai sogni.

Ludwig è il diverso, l’uomo solo che ha perso tutti, anche se non vuole trattenere nessuno, che si sente a casa nella splendida solitudine dei suoi castelli che invece la scienza definisce patologica, è una finestra sull’anima sensibile che ha scelto la bellezza in un mondo che richiede brutalità di azioni e approcci. È un Lohengrin che attraversa candido su una barca trainata da un cigno le sponde di un’anima incandescente e di un’omosessualità sempre vissuta nell’ombra su acque inquiete dove i pensieri vanno oltre le loro stesse definizioni e portano all’estro geniale. Egli è giudicato ‘malato’ perché non serve, non produce, non combatte ma sogna. Klaus Mann, come in un autoritratto speculare, lo usa per parlare di sé, degli artisti, degli emarginati e degli idealisti in tempi oscuri, per dare voce alla dignità della solitudine contro il fanatismo collettivo e per celebrare il diritto a essere improduttivi, chiudendosi in una torre dorata, in un’èra che alita solo efficienza. 

Nel secondo incontriamo un austriaco che fugge a New York perché non ariano e con nozze naufragate. Vive in un ripostiglio che non può chiamarsi camera e durante le sue passeggiate notturne, lontano dal buio, dall’odore di polvere e dal senso di chiuso, incontra Speed, un ragazzo loquace quanto bizzarro, losco e probabilmente truffaldino e tossico, privo di punti di riferimento. Che è un po’ la persona sopra le righe che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo conosciuto e che non si prende troppo sul serio, che ci ha smosso per i suoi capricci, l’eleganza provocante, l’impetuosa vitalità, lo spirito malizioso ma anche la fluidità con cui attraversa il lecito e l’illecito.

L’uomo, che vive in una nebbia di costanti bugie e di deliranti fantasie, lo osserva, lo aiuta, si fa sfruttare e gli sembra di essere tornato a vivere. Ma Speed è un angelo della distruzione, attrae ma porta con sé il senso della rovina, di vuoto e di disorientamento della modernità americana. Per il narratore egli è oggetto di desiderio inappagabile, anche perché totalmente sfuggente, è una figura tragica segnata dalla solitudine e da una lenta discesa negli inferi in una conscia autodistruzione. Attraverso questa figura Mann offre uno spaccato intenso della sua vita interiore durante gli anni dell’esilio nell’attrazione verso figure limite dalla vita disordinata, che dipendono dalla dipendenza per l’incapacità di affrontare la realtà, che mantengono una barriera tra sé e gli altri, che non vogliono mostrare la propria natura forse perché non sanno ancora di quale sapore sia intrisa.

‘’Speed. I racconti dell’esilio’’ sono, certo, opere minori, tuttavia per chi non conosce Klaus Mann si configurano come una corsia preferenziale per cogliere il senso, mai unico, di una scrittura tersa ma dolente e per affrontare poi le opere di maggiore respiro come ‘’Mephisto’’, ‘’Il vulcano’’, ‘’Il punto di svolta’’, tra diagnosi su opportunismo, cronache di senza patria e lucide autoanalisi, nate negli stessi anni dei racconti dei quali hanno respirato le riflessioni e le rifrazioni esistenziali.

Queste pagine sono un sostrato di umane debolezze e di altrettanto umane altezze che ci permettono di immergerci nei mezzogiorni ciechi e nelle mezzanotti accecanti di uno scrittore che ha dato dignità letteraria alla doppia natura della dipendenza, sia come prigione sia come fuga, allo stato dell’esilio vissuto come una lunga insonnia e come un errare andando a chiedere alla luce se per caso ha visto orme di noi lungo le siepi o i gineprai della vita. Fuori da finestre con le sbarre, per poterci raccontare per quello che siamo, per lasciare traccia in questo mondo approfittando della distrazione dei nostri secondini, per osservare la vita altrui, libera, con malinconia e distanza.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

“Spazi di Lingua Tedesca” – Maurizia Maiano presenta la nuova rubrica

Deutschsprachige Literatur, Letteratura di lingua tedesca questo il termine che si usa per definire una letteratura che nasce nell’ampio spazio geografico centrale europeo e si intreccia a culture e tradizioni diverse che hanno creato nel tempo altri legami storici ed altre idee.

C’è una letteratura austriaca. Letteratura è lingua ed in Austria, com’è noto, si parla tedesco. Letteratura di lingua tedesca è in Germania, è stata nella DDR, è in Svizzera, era nell’impero Austro-ungarico di Francesco Giuseppe, comprendente i territori intorno a Praga e a Budapest fino al mar Nero, la Mitteleuropa: patria di Kafka ed ebreo di origine e in cui l’estraniamento diventa sintesi della condizione esistenziale dell’uomo nella famiglia, nel lavoro e nella società. C’è una letteratura di autori rumeni di lingua tedesca: Herta Müller e Paul Celan a conferma del fatto che lingua e storia, vita, cultura e tradizioni si intrecciano, altri passati, altri vissuti ed altro presente.

Avremmo avuto un Robert Musil, un Peter Handke ed uno Stefan Zweig senza la Storia ed il mito della Monarchia imperiale e regia attraversata dal Danubio che arriva fino al Mar Nero? Allora lasciamo che sia proprio quest’ultimo, Zweig, a raccontarcelo: “Se tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima guerra mondiale il tempo in cui sono cresciuto, credo di essere il più conscio possibile dicendo: fu l’età d’oro della sicurezza. Nella nostra Monarchia austriaca, quasi millenaria, tutto pareva duraturo e lo stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità” (“Die Welt von Gestern”- “Il mondo di ieri”).

Questa l’Austria di Zweig e che Handke erediterà come ricordo, immagine di un passato scomparso e che vivrà in lui nella stagione del “Nachsommer”, la stagione che segue all’estate, l’Autunno, in cui del naufragio dell’estate rimangono i colori vivi e ancora caldi delle foglie morte che inondano parchi e strade. Una letteratura, quella di Handke, che è antirealistica e apolitica. Lo scrittore incapace di agire nella realtà fa diventare le sue pagine luogo di azione e di ciò che non può realizzarsi altrove, il raccontare diventa il regno della nostalgia e della speranza. L’Austria è “la cosa grassa in cui sto soffocando”, scrive Handke e definisce la letteratura: “irreale, irrealistica. Anche la cosiddetta letteratura impegnata, benché si definisca realistica, è irrealistica e romantica”.

“Poetizzare significa trovare la verità più profonda che mai conoscerà un approdo definitivo. La Poesia nasce da un sentimento e fare poesia è la cosa più naturale nell’uomo, viene dalla rabbia, dall’amore o dallo sgomento”. Un modo autentico per rielaborare le emozioni. Il racconto ha qualcosa della dimora, per dirla in tedesco: della Heim (casa). L’esperienza si concretizza quando viene raccontata. Essa non è solo ciò che è stato vissuto ma anche un processo che ha luogo nella memoria, ricompone il vissuto e gli dà un senso. E’ un qualcosa che è andato perso, è uno smarrirsi ed un ritrovarsi. È qui che riscopriamo il passato e riallacciamo i legami con ciò che non abbiamo più (Paul Jedlowskij, “Il racconto come dimora”). È ciò che Handke riuscirà a fare ne “La notte della Morava”.

Molto intimista, dunque, la letteratura austriaca, anche quella dei due secoli passati, volta a descrivere ambienti contadini, il mondo dello Spießbürger, del piccolo borghese, abitante della Biedermeierzeit, età del Biedermeier, del probo fattore, bonario, conformista e filisteo. La vita si svolge tra “Kirche, Kinder und Kueche”, la donna divide ed organizza il suo tempo tra “chiesa, bambini e cucina”. Una sorta di società del “riflusso”, di un ripiegarsi nel passato caratterizzato dalla disillusione e dal disimpegno politico. Siamo già tra il 1815 e il 1848 e mentre in Germania ed in altri paesi europei iniziano le lotte per le libertà borghesi e per l’unità nazionale, in Austria queste si escludono, non è possibile conciliarle. Per l’abitante della “Cacania” lottare per le libertà borghesi e per la nazione significherebbe negare la propria di patria, quell’appartenenza ad un Impero che non nega le singole identità ma le esalta; tra i popoli c’è una sorta di osmosi, per cui il venir meno di uno determinerebbe un’amputazione nell’altro.

Altra è la letteratura tedesca, tutta rivolta al sociale ed al politico. Fichte sviluppa un’etica e una politica che enfatizzano il dovere dell’individuo di agire in accordo con il principio ideale e di contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e razionale. L’Io determina dunque il Non Io, la Natura, tutto ciò che sta al di fuori di sé. L’Io dell’idealismo classico è l’Io fichtiano, che guarda al “Non Io”, alla Natura, al mondo esterno per plasmarlo, vuole essere il “Genio creatore” che produrrà l’ottimismo dello storicismo ottocentesco sullo sfondo dall’idea della “pace perpetua kantiana” la cui più alta espressione artistica sarà l’ “Inno alla gioia” di Beethoven. Esaltazione di un mondo sognato eppur pensato possibile, perché dove soffierà lo “spirito della gioia tutti gli uomini diventeranno fratelli”. Per dirla con G. Lukacs la forma letteraria del “romanzo di formazione” diventa forma espressiva dell’epica moderna, dell’epopea borghese, in cui l’Io narrante racconta in prima persona il suo percorso di crescita: dalla rivolta alla famiglia, alla passione per il teatro e per l’arte, alle delusioni d’amore, fino all’accoglienza nella “Freimaurerei”, la Massoneria, dove imparerà tre virtù: Entsagung, Selbstbezwingung e Selbsbeschraenkung, rinuncia, autocontrollo, consapevolezza dei propri limiti. E’ la storia del Wilhelm Meister di Goethe che, alla fine del suo percorso, deciderà di diventare medico e lavorare per aiutare gli altri, per la giustizia sociale, per il bene comune e tutto accadrà nella “Neues Land”, quella terra oltre oceano già meta degli europei dal ‘600 in poi. Solo nell’impegno per la costruzione di un mondo migliore e nella dedizione all’altro è il senso della vita ed il superamento delle insoddisfazioni del giovane Wilhelm Meister di Goethe.

Questi i contenuti che pervadono la letteratura tedesca in tutte le epoche, anche se vogliamo fare un salto nel lontano medioevo del Parzival di Wolfram von Aschenbach. Ed anche il Romanticismo quando sogna è perché la fuga dalla realtà rappresenta il sogno che non ha potuto realizzare e il romanzo di formazione diventa un cammino interiore per comprendere se stessi, è l’ “Heinrich von Ofterdingen” di Novalis. Lo stesso Romanticismo non è altro che una rivolta contro l’industrializzazione che avanza e che minaccia di distruggere la natura: “Deutschland ein Wintermaerchen”, la Germania una fiaba d’inverno, scriverà Heinrich Heine, il più lirico e romantico tra i poeti tedeschi, sembrerebbe così, ma è anche colui che si scaglia contro l’essere troppo realisti ed incapaci di fare la rivoluzione come stavano facendo i francesi e vedeva in Napoleone l’immagine dello Spirito hegeliano fattosi carne! “Deutschland ein Wintermärchen” diventa il luogo in cui natura e sentimento di una patria ritrovata si congiungeranno.

Il presente, il XX sec. non smentirà questa tradizione. Gli eventi, le ideologie che lo travolgeranno non avrebbero non potuto non coinvolgere l’Arte cercando di smuoverne le fondamenta. Lo farà B. Brecht costringendo il teatro classico aristotelico, e fondato sulla catarsi, ad abdicare in favore del teatro epico. Il teatro epico si serve della terza persona per raccontare la storia sulla scena e di altri strumenti estranianti: cartelloni, interruzioni musicali, video e tutto questo per evitare l’immedesimazione dello spettatore che secondo le antiche regole avrebbe prodotto la catarsi. La catarsi non ci aiuterebbe a riflettere e a capire come funzionano i rapporti sociali per poterli cambiare e l’Arte se deve avere un senso deve svolgere una funzione didattico-pedagogica.

Sulla stessa onda scriverà e parlerà la letteratura della Repubblica Democratica Tedesca per cui l’Arte sarà lo strumento per la creazione di una società socialista giusta. “Der geteilte Himmel”, Il cielo diviso di Christa Wolf o la sua “Medea” ne sono l’esempio più lampante. Infine, il dramma del Nazionalsocialismo non poteva passare inosservato, richiama alla memoria quel tristissimo “Jeder stirbt für sich allein”, “Ognuno muore solo” e mette in evidenza una resistenza al Nazismo per chi vuole farci apparire la Germania di un solo colore. Infine, “Der Vorleser” “A voce alta” di Schlink, commovente e tragica analisi della rivisitazione di un passato che non si può dimenticare e che si inserisce in quella trama del dovere, che in tedesco ha due verbi per esprimersi: müssen e sollen e a cui sia Heinrich von Kleist, autore del ‘700, nel “Principe di Homburg” e sia Hannah Arendt nella “banalità del male” si richiameranno.

Infine la letteratura svizzera di lingua tedesca in cui gli autori sfoderano una grandissima capacità di autoanalisi nel confrontarsi con quelle che sono problematiche legate alla società del benessere e alle contraddizioni del capitalismo.

Maurizia Maiano

Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.