Due domande a Wanda Marasco per “Di spalle a questo mondo” (Neri Pozza, 2025), di Cristiana Buccarelli

La scrittrice napoletana Wanda Marasco con il romanzo Di spalle a questo mondo (Neri Pozza 2025) si è aggiudicata il Premio Campiello 2025.

Conosco Wanda Marasco da molti anni e immagino che vivendo in passato vicino alla Torre del Palasciano si sia sentita ad un certo punto attratta o forse anche trascinata, dalla vicenda umana del medico filantropo Ferdinando Palasciano e di sua moglie Olga Pavlova Vavilova, che lì abitarono; ritengo sia stato questo uno dei principali motori che l’ha spinta a richiamarli in vita attraverso la sua scrittura. 

Wanda Marasco anche in questo romanzo, così come in precedenza ne La compagnia delle anime finte e ne Il genio dell’abbandono (anch’essi pubblicati da Neri Pozza, rispettivamente nel 2015 e nel 2017), scava in profondità sul senso del dolore, interrogandosi sul bene e sul male da cui è pervasa l’umanità. Infatti anche Ferdinando Palasciano e Olga Pavlova Vavilova sono portatori della lacerante sofferenza o male del mondo, che vivono in maniera differente: lei attraverso una psico somatizzazione della sua zoppia, lui assorbendo come medico tutto il dolore degli altri e infine impazzendo. L’autrice in questo romanzo affronta con grande capacità il tema della follia, non considerandola mai qualcosa di lontano, ma una sorta di mistero della psiche umana.  

Ho voluto porre a Wanda due domande specifiche relative alla sua opera.

Cara Wanda, un elemento che mi interessa molto è il significato altissimo, visto da una prospettiva morale e medica della cura degli esseri umani, quello che spinge Ferdinando Palasciano a curare anche il nemico, pur essendo medico borbonico durante i rivolgimenti di Messina del ’47-’48 e la riconquista borbonica. In ciò mi è parso di trovare uno degli aspetti più grandi della missione di Palasciano, quando egli dice ‘’l’atto di curare non può fare differenza tra gli uomini’’. La medicina può essere dunque una missione sacra? Qualcosa che sfiora l’eternità?

La cura è l’ideale di Ferdinando Palasciano, è ciò che lo spinge a curare anche il nemico, perché a Messina, durante i moti del 48, comprende che l’atto di curare non può fare differenza fra gli uomini. Mentre era alfiere medico dell’esercito borbonico, sceglie di essere più medico che soldato. E la medicina è certamente una missione sacra. Palasciano può essere considerato un antesignano, un Gino Strada dei suoi tempi. Quanti medici e infermieri abbiamo visto anche morire, per esempio, nel periodo della nostra pandemia! Sì, è una missione sacra e credo che sia qualcosa che sfiora l’eternità, perché non c’è niente che debba permanere più dell’atto benefico verso la creatura umana. 

Leggendo i tuoi romanzi si ha la netta sensazione di una lingua nuova e antica, originalissima, di una lingua precisa ma al tempo stesso ricca e trasfigurata, attraverso la quale tu compi un lavoro abissale di scavo all’interno della psiche e dell’emotività dei personaggi. Qual è il tuo rapporto con la tua stessa lingua? 

La mia lingua è una lingua nuova e antica, nel senso che tiene conto della tradizione, ma, come sempre deve avvenire, la tradisce. E’ una lingua in cui si sono congiunte la istintualità poetica, la meditazione e la necessità di narrare. La lingua è forse il primo personaggio, per così dire, dei miei romanzi, che sono sempre caratterizzati da una alternanza di registri, dal comico al tragico. E qui, in Di spalle a questo mondo, con una prevalenza della prosa lirica, che mi consentiva il cosiddetto lavoro abissale e più profondo all’interno della psiche e della intensità dei vari personaggi. Il mio rapporto con la lingua è un rapporto di corpo a corpo, di mente a mente. Io stessa forse scrivo perché voglio essere scrittura, voglio diventare scrittura. Scrivo per questa indomabile necessità.

Cristiana Buccarelli 

Cristiana Buccarelli è una scrittrice di Vibo Valentia e vive a Napoli.  È dottore di ricerca in Storia del diritto romano. Ha vinto nel 2012 la XXXVIII edizione del Premio internazionale di Poesia e letteratura ‘Nuove lettere’ presso l’Istituto italiano di cultura di Napoli. Ha pubblicato la raccolta di racconti Gli spazi invisibili (La Quercia editore) nel 2015, il romanzo Il punto Zenit (La Quercia editore) nel 2017 ed Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) nel 2019. Con Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) ha vinto per la narrativa edita la V edizione del Premio Melissa Cultura 2020 e la IV edizione Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura 2020. Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo storico I falò nel bosco (IOD Edizioni), col quale ha vinto per la narrativa edita la XVI edizione del Concorso letterario Internazionale Città di Cosenza 2024. Nel 2023 ha pubblicato il romanzo Un tempo di mezzo secolo (IOD Edizioni), finalista per la narrativa all’XI edizione del Premio L’IGUANA- Anna Maria Ortese 2024. Nel 2025 ha pubblicato Taccuini di viaggio (Cervino Edizioni 2025). Collabora con la rivista letteraria Il Randagio.

“Filosofia in uniforme?”, di Vincenzo Franciosi

La polemica esplosa intorno alla richiesta del Ministero della Difesa di attivare un corso universitario di filosofia riservato ai militari presso l’Università di Bologna non è un incidente marginale né un conflitto locale. È il sintomo di qualcosa di ben più profondo: una tensione crescente tra l’autonomia dell’università e la volontà di alcuni apparati dello Stato di appropriarsi delle scienze umane per plasmarle a fini di legittimazione.

Che un’università pubblica abbia rifiutato di organizzare un corso chiuso, cucito su misura per un corpo armato, rientra perfettamente nella sua funzione istituzionale: difendere la propria libertà didattica e la natura pubblica del sapere. Invece il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha reagito con un attacco violento e sproporzionato, accusando l’ateneo di ideologismo, mancanza di senso dello Stato, persino di irresponsabilità. Una “sparata”, non trovo parola più adatta, che rivela un’idea distorta e pericolosa del rapporto tra potere esecutivo e autonomia accademica.

Per capire perché questo episodio sia così inquietante, occorre riflettere sul nodo centrale: la filosofia e l’apparato militare non sono due universi che possono convivere armonicamente. La filosofia non è un modulo di formazione professionale, né un camice morale che si indossa per nobilitare un mestiere. È un sapere critico, che interroga le strutture del potere, smaschera la retorica della violenza legittima e mette costantemente in discussione l’obbedienza, la sovranità, le narrazioni ufficiali. È un luogo di esposizione al dubbio, alla contraddizione, alla libertà interiore.

Le forze armate sono, per struttura, l’esatto contrario: un dispositivo che richiede disciplina, gerarchia, compattezza, sospensione del giudizio individuale. Il loro fine istituzionale è l’esercizio della violenza legittima dello Stato. In nessun momento della vita militare, né nella formazione né nell’azione, c’è spazio per la dialettica del pensiero come forma di liberazione. L’obbedienza è un valore, non un problema; la gerarchia è un principio, non un oggetto di discussione. L’ordine non si discute: si esegue.

È evidente che un sapere come la filosofia, se preso sul serio, è incompatibile con la logica dell’apparato armato. O si neutralizza il pensiero critico, o si mette in crisi l’istituzione militare. I corsi ad hoc servono proprio alla prima operazione.

Molte delle giustificazioni circolate in questi mesi parlano di “umanizzare” i militari, di renderli più consapevoli, più attenti ai diritti, più sensibili ai valori democratici. Ma questa retorica, apparentemente nobile, è profondamente ingannevole. La filosofia non nasce per umanizzare la violenza: nasce per smascherarla. Usarla come strumento di legittimazione morale di un apparato fondato sull’obbedienza e sulla forza significa rovesciarne la funzione. Un apparato armato non diventa più umano perché alcuni suoi membri ascoltano lezioni di filosofia, ma rimane ciò che è: un dispositivo che necessita, per funzionare, di ridurre il nemico a figura astratta, di sospendere la piena riconoscibilità dell’altro come persona, di trasformare l’obbedienza in virtù. Le scienze umane non mutano questa natura. Al massimo, la velano sotto un linguaggio colto.

Perché allora gli alti gradi militari insistono tanto su percorsi umanistici dedicati? Le ragioni sono strutturalmente politiche. Da un lato, c’è un bisogno di legittimazione simbolica: un ufficiale che può esibire crediti o titoli ottenuti in una prestigiosa università pubblica appare immediatamente più autorevole, più colto, più “civile”. È un capitale d’immagine che fa comodo. Dall’altro, c’è la volontà di costruire una nuova élite in uniforme, capace di muoversi con disinvoltura nei contesti civili, nei media, nella diplomazia. Una élite culturalmente presentabile, ma pienamente integrata nella logica gerarchica.

E poi, forse l’aspetto più decisivo, l’apparato militare cerca cultura, ma solo in forma controllata. Il contatto reale con il pensiero filosofico è pericoloso; genera dubbi, incrina certezze, apre conflitti interiori. La filosofia autentica non addestra: disobbedisce, insegue domande radicali, mette in crisi. È un rischio troppo grande.

Per questo i vertici militari non chiedono ai loro ufficiali di frequentare i normali corsi universitari insieme agli studenti civili. Chiedono percorsi separati, filtrati, schermati. Un ambiente sotto controllo, in cui i temi più critici possono essere modulati, attenuati, elusi. Dove non ci siano discussioni imprevedibili, né studenti disposti a dire ciò che un apparato armato non vuole sentirsi dire.

Il punto è proprio questo: il vero pericolo, per le forze armate, è il confronto con gli studenti civili.
Perché in un’aula universitaria reale l’ufficiale può trovarsi faccia a faccia con chi è pacifista o antimilitarista, con chi mette in discussione l’autorità statale, con chi non accetta come naturali parole come “nemico” o “missione”, con chi rifiuta la retorica dell’obbedienza come valore assoluto, con chi proviene da zone di guerra (si pensi, ad esempio, agli studenti palestinesi che sono riusciti ad arrivare in Italia con una borsa di studio universitaria).

In quel confronto il pensiero critico non è più astratto, ma diventa vivo, conflittuale. Ed è lì che l’istituzione militare vacilla. La filosofia non è più un ornamento: torna a essere pericolosa. La filosofia genera domande a cui la logica dell’uniforme non può rispondere senza incrinarsi: perché obbedire? che cos’è un dovere? che cosa legittima la violenza? cosa significa uccidere in nome dello Stato? I corsi ad hoc nascono precisamente per evitare tutto questo: non proteggono l’università dai militari, ma proteggono i militari dall’università.

Il comportamento degli atenei che hanno accettato di discuterne è stato spesso giustificato con formule generiche: Terza Missione, innovazione formativa, dialogo con il territorio, allineamento agli standard internazionali, formazione continua della Pubblica Amministrazione. Ma sono argomenti fragili. La Terza Missione riguarda la società civile, non i corpi armati. L’innovazione non consiste nel costruire percorsi chiusi per una categoria privilegiata. L’internazionalizzazione non giustifica la sospensione dei principi fondamentali dell’università. E la formazione dei dipendenti pubblici non può essere un alibi per trasformare la filosofia in un’appendice dell’apparato militare.

In questo contesto, la reazione di Crosetto all’Università di Bologna è stata particolarmente grave. Non perché un ministro non possa esprimere un’opinione, ma perché ha attaccato l’ateneo come se esso dovesse obbedienza alle forze armate. Ha insinuato che il rifiuto del corso fosse un tradimento dello Stato, una mancanza di senso civico. È l’affermazione implicita, ma chiarissima, che l’università debba servire l’apparato militare, non interrogarlo; che la cultura debba collaborare con la forza, non criticarla, che la filosofia debba legittimare, non disturbare. Un ministro della Difesa che rimprovera un’università pubblica perché non vuole piegare la propria offerta formativa a una richiesta delle forze armate compie un gesto che, in una democrazia matura, dovrebbe essere riconosciuto come profondamente inaccettabile. È un segnale sinistro, anzi, “destro”, soprattutto perché attacca proprio ciò che distingue una democrazia da uno Stato autoritario: il primato del sapere critico sul potere esecutivo, la libertà dell’università, la separazione tra cultura e apparato armato. Il nodo non riguarda solo un corso di filosofia, ma riguarda la domanda fondamentale: che cosa deve essere l’università? Un luogo di pensiero libero, aperto, conflittuale, dove civili e militari, se lo desiderano, studiano insieme da pari? Oppure un fornitore di servizi culturali da cui il potere può comprare legittimazione morale? La risposta, se vogliamo difendere la democrazia, dovrebbe essere evidente. L’università non può e non deve proteggere i militari dalla filosofia. E la filosofia non deve e non può essere messa in uniforme.

Vincenzo Franciosi

Vincenzo Franciosi è professore associato di Archeologia Classica. Ha scavato in vari siti dell’Italia meridionale quali Fratte (SA), Buccino (SA), Montescaglioso (MT), Pompei (NA). Ha pubblicato studi sulle importazioni ceramiche corinzie di età geometrica nell’isola d’Ischia e sulle loro imitazioni locali; sulla ceramica figurata attica del V sec. a.C.; sull’urbanistica pompeiana e sugli scavi dell’insula VII, 14 a Pompei; sul culto della Mefite in Valle d’Ansanto; sulla statuaria arcaica in marmo dall’Acropoli di Atene; sulla statuaria in bronzo dalla Villa dei Papiri ad Ercolano; sulla statuaria policletea. È stato insignito, per l’insieme degli studi e delle indagini condotti nel campo dell’Archeologia Classica, del Premio Anassilaos 2020-21 (XXXII-XXXIII) “Arte, Cultura, Economia, Scienze” – Premio Μνήμη per l’Archeologia, Reggio Calabria, 13 Novembre 2021.

Intervista alla traduttrice Elvira Grassi, di Silvia Lanzi

Perdersi tra le pagine di un libro, farsi prendere da una storia, dai suoi personaggi e dalle vicende di cui sono protagonisti.

Di più. Assaporare il testo, parola per parola, seguirne il ritmo come fosse una musica di sottofondo, che ci accompagna pagina dopo pagina.

Credo che chi ama leggere mi capisca: sono le parole a raggrumarsi in frasi che ci accompagnano, capoverso dopo capoverso, fino all’ultimo atto, nel quale si scioglie la trama e i protagonisti ci lasciano andare.

E se queste parole e queste frasi, originariamente, non fossero nella nostra lingua? Chissà quanta bellezza andrebbe persa, quante emozioni ci sarebbero precluse.

Ed è qui che arriva, provvidenziale, il traduttore che, con la sua fatica, ci permette di aprire scrigni e scoprire innumerevoli tesori ai quali attingere a piene mani e che, a volte, ci accompagneranno per sempre, incidendo si nella nostra memoria e cambiando, perché no, anche la nostra vita.

Di questo, e di molto altro, parliamo con Elvira Grassi, traduttrice letteraria con una predilezione per la narrativa irlandese. Nata ad Ancona, Elvira si trasferisce a Roma dove, nel 2005 fonda, insieme a Leonardo G. Luccone, lo studio editoriale Oblique. Ma lasciamo a lei la parola.

Cosa l’ha portata alla traduzione?

L’amore per la lettura. Ho lavorato parecchi anni in editoria – in vari ruoli – prima di dedicarmi alla traduzione letteraria con una certa costanza. La mia palestra principale è stata la revisione delle traduzioni altrui, è lì che ho capito che la traduzione era l’ambito editoriale in cui avrei voluto dedicare gran parte delle mie giornate. Tradurre è la forma più profonda di lettura, quando traduci capisci com’è fatto veramente un testo, ne conosci alla perfezione ogni elemento, ti immergi e indugi in quella lingua e anche in tutto ciò che non è espresso. Sono partita dalla lettura e sono arrivata alla lettura.

Quali sono le sfide che affronta ad ogni pagina?

La sfida principale è rispettare la forza espressiva dell’autore. Restituire la stessa qualità di scrittura, rendere il timbro, il registro, la cadenza, la scorrevolezza o gli attriti, la musicalità o le stonature del testo originale; fare attenzione alle specificità linguistiche e culturali e alla coerenza interna. Poi ogni pagina presenta problemi puntuali – giochi di parole, scarti linguistici, espressioni gergali o dialettali, tecnicismi etc. – ma questi si risolvono più o meno facilmente, facendo ricerche, studiando, utilizzando i tantissimi strumenti che abbiamo a disposizione. La sfida è la resa globale.

Quanto è importante conoscere, oltre alla lingua, il milieu culturale dell’autore e il mondo in cui si trova a vivere?

La cultura e il mondo in cui vive l’autore ne plasmano la scrittura. In genere prima di iniziare a tradurre un’opera, dopo averla letta, faccio una serie di ricerche sull’autore, leggo interviste, la rassegna stampa estera, cerco di capire quali sono le sue influenze, le letture: tutto materiale che mi aiuta a capire l’universo linguistico e culturale dell’autore, la sua visione letteraria, e che mi permette di tradurre meglio. L’autrice più complessa che ho affrontato finora è Anna Burns, la prima nordirlandese a vincere il Booker Prize con “Milkman” (da noi uscito per Keller), e non avrei saputo tradurla se non mi fossi prima informata sul contesto politico e sociale che ha segnato la sua giovinezza, sull’impatto che hanno avuto i Troubles nella sua quotidianità. Il suo mondo è quello traumatico del conflitto politico-religioso, e la sua scrittura lo rispecchia.

Come si comporta nella traduzione di una lingua che afferisce a contesti profondamente differenti l’uno dall’altro (penso, ad esempio, all’inglese che si parla in Inghilterra e a quello che si parla negli Stati Uniti, o al tedesco della Germania e a quello dell’Austria)?

L’italiano ha una complessità e vivacità linguistica che ci permette di rendere in maniera appropriata e credibile qualunque cosa. Mi è capitato spesso di tradurre il dialetto nordirlandese, che è quasi incomprensibile a una prima lettura, molto fisico, pieno di contrazioni, di strutture sintattiche inconsuete, di parole mai sentite, molto sonore, direi “carnose”, e in quei casi ho cercato di lavorare molto sul lessico italiano attingendo al parlato, ad alcuni regionalismi ormai entrati nell’uso (evitando comunque i dialetti) e di movimentare la prosa, il fraseggio, di sporcarlo. Stesso approccio – ma con risultati diversi ovviamente – ho usato quando ho dovuto tradurre l’inglese di un autore canadese nato a Trinidad, Ian Williams, o di una scrittrice americana nera, Angela Flournoy, che fa grande uso di slang. Credo sia il testo stesso – in qualunque tipo di lingua sia scritto – a dirti come tradurlo, a far uscire la parte di te più intonata a quella lingua.

E di quegli scrittori che scelgono una lingua di elezione e non quella nativa (ad esempio Nabokov), o che sono essi stessi traduttori (ad esempio Murakami)?

Ho tradotto un romanzo scritto in inglese da un’autrice romena, Sophie van Llewyn, e uno da un’autrice thailandese, Pim Wangtechawat. Due brave scrittrici contemporanee che hanno in comune uno stile particolare, evocativo ma spoglio, che costruiscono le frasi in maniera poco convenzionale, usano una punteggiatura non standard, e lavorano molto per immagini e metafore più che per ricerca e ricchezza lessicale. L’effetto è bello, perché si sentono tutti gli stridori della non lingua materna, e quello che ho cercato di fare è stato trovare nel mio bagaglio linguistico le stesse ruvidezze e di contenere le parole. Mi piace il miscuglio, mi piace leggere autori che scrivono per riprodurre la voce che hanno in testa e non per esibire una discutibile bella forma. Cosa ne penso degli autori-traduttori? Non si può generalizzare, ma il rischio di invasione di campo c’è sempre, e di esempi – passati e recenti – ne abbiamo a volontà, fatto sta che la traduzione rimane una eccellente palestra di misura e quindi di scrittura.

Cosa ne pensa del famoso detto di Bertrand: “Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli, e quando sono fedeli non sono belle”?

Fedeltà è una parola abusata in traduzione e questa immagine mi piace poco. Le traduzioni infedeli sono davvero belle? La traduzione è sì un lavoro autoriale, ma non ci si può dimenticare che non abbiamo scritto noi quel testo.

Più che di fedeltà parlerei di adesione – espressiva, ritmica, culturale. Aderire al testo originale, rimanere dentro la misura della scrittura che si ha di fronte, qualunque essa sia (articolata e dirompente o minimale e frantumata), senza snaturarla o dire meglio o di più, per me è questa la bellezza. 

E per finire, qual è il libro più ostico che ha tradotto?

Probabilmente quello che sto traducendo ora, una novella di Anna Burns, surreale, allegorica, criptica, ironica, una parodia del mondo dei supereroi. Un contesto inedito per lei, e direi anche per me. Quello che mi aiuta è ancorarmi al suo stile ricorsivo, serpeggiante e battente che ormai mi è familiare.

Quando leggerete un libro straniero, date un’occhiata a chi l’ha tradotto, e ricordatevi l’immenso lavoro che c’è dietro: persone come Elvira Grassi, che ringraziamo per la sua disponibilità, che operano la magia di restituirci, in una lingua diversa dall’originale, le  atmosfere, i dialoghi, le vicende – in una parola il milieu – di una storia, proprio il suo autore come l’aveva pensata 

Silvia Lanzi

Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).

Intervista a Angelo Scuderi per “Prima di dirsi addio” (Castelvecchi, 2025), di Loredana Cefalo

Ho conosciuto il romanzo di Angelo Scuderi, “Prima di dirsi addio”, edito da Castelvecchi, per caso, su Instagram, imbattendomi nell’hashtag #cercandobea.
Con la curiosità che mi contraddistingue, sono andata a scavare e ho trovato un racconto forte, dove tutti i sentimenti sono sospesi. Beatrice e Leonardo, i protagonisti, sono due ragazzi giovani, che si incontrano per caso in una stazione siciliana, ma la loro età non trasmette la spensieratezza che meriterebbe, bensì una sofferenza non risolta che nel dipanarsi del romanzo è un crescendo continuo di esperienze attraverso gli anni che passano.
Mentre leggevo sono stata a tratti catturata dal tono lirico e quasi onirico di alcuni passaggi e a tratti stupita da uno stile narrativo all’imperfetto, un tempo che ricorda i verbali delle forze dell’ordine, che dal presente non si stacca mai né dal passato né dal vissuto traumatico dei due protagonisti, che si sfiorano e si allontanano come gli estremi di una molla.
Ho apprezzato il finale inaspettato, così ho voluto fare una chiacchierata virtuale con Angelo Scuderi, per approfondire le tecniche e le ispirazioni del suo romanzo d’esordio, non potendo essere presente alla sua prossima tappa del booktour, a Catania il 5 dicembre alla libreria Mondadori.

L’episodio iniziale dell’incontro in stazione con una ragazza di nome Bea è un fatto realmente accaduto. Quanto è stato difficile o naturale trasformare un ricordo personale in una narrazione romanzata?

“Io sono della scuola dei mentitori cretesi, l’antico paradosso che non permette soluzione tra verità e bugia. E’ stato naturale ritrovare in quell’incontro giovanile con Bea, una idea funzionale alla storia. Bea, di Verona, era nel 2016 in viaggio di maturità classica a Taormina e si stava spostando a Tindari. Il fatto di conoscersi alla stazione, già abbastanza romantico, l’emozione nascente, non aver considerato di chiederle alcun contatto, relegato com’ero nell’imbarazzo e nella trasognanza, e lei là sugli scalini dell’autobus, in attesa forse che io le chiedessi qualcosa, un numero almeno, dopo avermi invitato a raggiungerla il giorno seguente. Tutto questo era materiale da racconto a mio parere. Ed era il momento di cominciare a mentire, anche allo scopo di ritrovarla e ringraziarla per avermi tanto ispirato, con così poco o con così tanto.”

Il romanzo è scritto prevalentemente all’imperfetto, un tempo verbale che in italiano suggerisce un’azione incompiuta, un qualcosa che dura nel tempo come i traumi dei protagonisti. Perché questa scelta singolare della narrazione temporale?

“L’imperfetto è il tempo della continuità nel passato, è il tempo della ripetizione agentiva. I due protagonisti sono, per ragioni diverse, ossessivamente ricondotti nel loro passato. Ho scelto l’imperfetto – e ne faccio un uso che è davvero molto raro, se non un unicum – per dare il senso di questo reiterato tentativo di riportare il passato nel presente, per creare un ponte, appunto, di continuità, tra queste due istanze temporali, e riconsegnare anche il senso della ripetizione martellante degli eventi trascorsi nella mente dei due personaggi. Solo in un punto del romanzo – quattro righe – viene usato il remoto, a cui da siciliano sono tanto affezionato. La puntualità del remoto infatti sigla un distacco netto da ciò che è accaduto, lasciandolo indietro, dicendogli addio.”

Il lettore viene a volte portato a “chiarire il presente attraverso il passato” tramite salti e flashback. Quali difficoltà hai incontrato nel mantenere un equilibrio tra la necessità di svelare il vissuto dei protagonisti e quella di mantenere la tensione narrativa?

“Da studioso di filosofia e psicologia ho un rapporto viscerale con la temporalità e con i ricordi. La tragedia dello scrittore sta nell’immaginare avendo di fronte un nulla di oggettivo. E’ la stessa tragedia del rammemorante, tragedia in senso sublime, perché è anche motivo di elevazione spirituale. Nelle allucinazioni controllate del sogno ad occhi aperti, che definisco, citando Bachelard, trasognanza, ritrovo il senso ultimo della letteratura. La tensione narrativa diventa una tensione delle tre dimensioni temporali in relazione alla distensione dell’anima. Mantenerle insieme è la funzione principale dell’anima, o dell’encefalo, per dirla con una terminologia più attuale. Materia e Memoria di Bergson è stata una lettura fondamentale durante la scrittura. Bisogna perdersi nei meandri oscuri del disvelamento dei ricordi, come accade ai personaggi.”

​Il segreto rivelato nelle ultime pagine conferisce una nuova chiave di lettura di tutto il romanzo: si passa dal destino al senso di colpa. Perché la scelta di collegare un amore tormentato a un ricordo così labile e sfumato come quello infantile?

“Non conosciamo l’origine del nostro turbamento, è una ricerca impossibile, difficile darne una maternità unitaria. Rileggere il momento del primo incontro tra Bea e Leo in stazione alla luce del finale è spiazzante, dà un senso nuovo alla storia, il senso del destino, dello scontro tra reminiscenza (Bea) e oblio (Leo). Ho voluto lasciare il lettore libero di interpretare il finale e di scandagliare il senso dalle azioni. Fa parte del mio approccio comportamentista, solo attraverso l’analisi del comportamento possiamo inferire significati e stati mentali delle persone, così dei personaggi. Cosa succede davvero? Cosa è ricordo e memoria e trauma? La cosa più straordinaria dei ricordi è che a volte sono veri. E’ nell’infanzia che bisogna ricercare l’origine del vero e del costruito.”

​”Non esiste lezione così atroce che un uomo non possa mai dimenticare.” E una frase che ricorre e che sembra essere smentita dalla condanna di Beatrice a ricordare tutto e per sempre. Quale lavoro di ricerca nella mente umana hai dovuto compiere per descrivere una differenza così pregnante fra chi ricorda tutto e chi tende a dimenticare?

“Hai colto perfettamente il senso tragico della storia. La narrazione si ispira alla tradizione della tragedia greca che respiro quotidianamente abitando a Siracusa. Avevo in mente di scrivere una storia che trattasse il tema della memoria e riflettevo sulla mia difficoltà nel rammemorare gli eventi della mia infanzia, laddove invece mia sorella riesce a ricordare tutto nei minimi dettagli. Da questo scontro di contrari nasce la tragedia, come in Antigone il fulcro è lo scontro tra legge positiva dello stato e massima morale individuale, così in Prima di dirsi addio rinveniamo l’idea forte dello scontro tra memoria e oblio. Sono Gian e Bea a pronunciare questa frase in momenti diversi, loro sono consapevoli, Leo, invece, crede di ricordare, ma crede, appunto.

“Prima di dirsi addio” è il tuo romanzo d’esordio. C’è già in cantiere un nuovo progetto letterario e, in caso affermativo, manterrai un’impronta legata all’introspezione e alla relazione o esplorerai generi diversi?

“Ho in cuore almeno due romanzi. Il primo, più metaletterario, ha l’intenzione di seguire le orme posate in nuce da Prima di dirsi addio, e di scandagliare il rapporto tra scrittura e memoria, tematica platonica sicuramente. L’altro è sorprendente, perché, immagino, che per le prime cento pagine segua la corrente intimista dalla mia scrittura, ma si riveli essere altro, chissà, forse anche un giallo o un romanzo politico o un distopico. Vorrei anche pubblicare i miei racconti, tutte finzioni della provincia di Messina.”

Questo romanzo è la tua soluzione per ritrovare una persona che ti è piaciuta per un attimo, ma che potrebbe rivelarsi più o meno interessante della donna narrata nel tuo libro. Accetti il rischio di incontrarla atraverso l’hashtag #cercandobea e rimanerne o tremendamente deluso o profondamente colpito?

“Dovremmo tutti promettere senza mantenere mai” viene detto nel romanzo. Sono sicuro che Bea è una persona straordinaria, mi sbaglio raramente. Come tutte le persone straordinarie deve poter deludere per essere reale. Storicamente, posso dirti che sono più deludente io, non ho alte aspettative, le chiedo quindi di non averne, nemmeno lei. #cercandobea è di tutti d’altra parte, tutti ricerchiamo qualcosa di perduto, Bea per me è metafora di tante cose, Prima di dirsi addio è questa ricerca.

Loredana Cefalo*

* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato. Dal mese di giugno scorso curo il podcast del Randagio “Capitolo Zero”.

Diego e Margherita intervistano il signor Orso, di Cinzia Milite

Ciao bambini e bambine!

Ci chiamiamo Diego e Margherita e siamo dei super amanti degli animali. Un pomeriggio, mentre curiosavamo tra gli scaffali della biblioteca in cerca di libri sulla fauna terrestre è successa una cosa pazzesca: un tipo piuttosto bizzarro sentendoci esprimere il desiderio di fare quattro chiacchiere con gli animali, si è presentato dicendo:

“Sono il professor Cosmo Mundis e posso aiutarvi: di recente ho inventato il “Versoconver”. Si tratta di un computer in grado di convertire i versi degli animali in parole comprensibili dagli umani. Basta scegliere con quale animale parlare cliccando nel database. Al cospetto dell’animale scelto occorre accendere il microfono ed è fatta: i versi di qualunque animale non saranno più un mistero!“

Ci ha spiegato poi, che gli animali comprendono le parole degli umani da sempre. Il professor Mundis ci sembrava un tipo con qualche rotella fuori posto, ma alla fine abbiamo voluto sperimentare quell’incredibile invenzione e…non ci crederete: funziona!

Vi raccontiamo l’intervista al signor Orso!

Diego: Margherita, oggi sono super emozionato. E tu? 

Margherita: Anch’io non sto nella pelle! La nuova proposta del professor Mundis di intervistare animali selvatici, anche lontani dalla nostra città, è fantastica.

Diego: Già! La nuova versione del Versoconver è fenomenale: ci farà fare video-interviste a distanza. Con chi cominciamo? 

Margherita: Mmm… ho sempre sognato di intervistare un orso. Che ne pensi? 

Diego: Bellissima idea! Però… un momento: in questo periodo gli orsi vanno in letargo, giusto? 

Margherita: Eh sì, da fine novembre. Ma se sono all’inizio del riposo, magari lo troviamo ancora mezzo sveglio. 

Diego: Proviamo! Sintonizziamo il Versoconver su Orso… fatto. Vedo una grotta tra la vegetazione fitta e un orso che dorme.

Margherita: Provo a chiamarlo: signor Orso? Signor Orso: Uaaawn… chi mi disturba? Avevo appena preso sonno… 

Diego: Ci dispiace disturbarla. Siamo desiderosi di farle qualche domanda e non siamo riusciti ad aspettare la primavera. Se preferisce, ci ricolleghiamo a marzo. 

Signor Orso: Non importa, ormai sono sveglio. Siete gli amici del professor Mundis, giusto? Farò un’eccezione per voi: avanti, domandate. 

Margherita: Grazie. In un film ho visto un orso che camminava come un essere umano: è vero o è finto?

Signor Orso: È tutto vero. Noi orsi abbiamo un’andatura plantigrada, come gli umani: appoggiamo tutta la pianta del piede a terra, non solo le dita o gli zoccoli. Così possiamo alzarci sulle zampe posteriori e stare dritti, quasi come voi. 

Diego: E sbadigliate e fate gesti simili agli umani, giusto? 

Signor Orso: Oh sì. Comunichiamo anche con il corpo: sbadigliamo, ci grattiamo, muoviamo le orecchie. 

Margherita: Molto interessante. Ora non vogliamo rubarle altro sonno. Se le va, possiamo consigliarle un libro che parla di un orso: dare consigli di lettura è la nostra specialità. 

Signor Orso: Certo, vi ascolto.

Margherita: Le consigliamo “L’orsetto Leonardo, il lupo e la mamma eroina”, scritto da Carla Negrini. Questo libro ci è piaciuto tantissimo perché racconta l’autunno nel bosco come se ci fossimo dentro anche noi. Leonardo è un orsetto curioso che gira con la sua mamma per cercare provviste prima del letargo e, mentre cammina, scopre un mondo pieno di cose nuove. Abbiamo imparato come nascono i funghi, con il cappello, le lamelle e le spore, e sottoterra il micelio che sembra una ragnatela invisibile. Abbiamo sentito quasi il pizzico dei ricci delle castagne e riso quando Leonardo dice “AHiA!” perché a volte imparare fa un po’ male ma poi passa. Intanto tutti gli animali si preparano all’inverno e il bosco sembra vivo e organizzato, tra chi fa scorte, chi migra e chi andrà a dormire a lungo.

Diego: Le illustrazioni sono davvero bellissime, con colori caldi che sanno di foglie, legna e aria fresca. I rossi, i gialli e i marroni dell’autunno riempiono le pagine e ti fanno venire voglia di toccare la carta per sentire le venature delle foglie. La notte è magica, la luna brilla e il lupo sulla collina ha una silhouette elegante. Si vedono le gocce di pioggia sulla pelliccia di mamma orsa, gli occhi lucidi di Leonardo quando è emozionato, e la dolcezza di Diana, la cerbiatta, che sembra chiederti di far piano per non spaventarla. Ogni immagine racconta più parole di una frase e a volte ci siamo fermati a guardare prima ancora di continuare a leggere.

Margherita: La parte che ci ha fatto battere forte il cuore è stata il canto del lupo Stefano. Lui ama l’Opera Lirica e soprattutto Puccini e quando sente Vinceròòò gli viene voglia di cantare alla luna. Uuuuuuuuuuuuu! Abbiamo capito che per lui ululare non è solo parlare con gli altri lupi, è proprio musica. All’inizio qualcuno lo aveva preso in giro e lui era scappato, e questo ci ha fatto pensare a quanto possono fare male le risate quando non sono gentili. Nel bosco però hanno imparato e adesso, invece degli applausi, gli lasciano dei piccoli regali silenziosi, come fiori e biscotti, e a lui brillano gli occhi.

Diego: Un altro momento che non dimenticheremo è il salvataggio di mamma cerva intrappolata in una tagliola. Mamma orsa è stata coraggiosissima e con la sua forza è riuscita ad aprire la trappola e a liberare la zampa. Ci siamo preoccupati perché pioveva forte e le mamme tardavano a tornare, e nella tana c’erano solo Leonardo e Diana che cercavano di farsi coraggio. Quando finalmente le mamme sono rientrate, bagnate ma sorridenti, abbiamo tirato un sospiro lunghissimo. Abbiamo pensato che nel bosco si può essere diversi e comunque aiutarsi, e che il coraggio a volte è silenzioso come una carezza.

Margherita: Questo libro ci ha insegnato tante cose senza sembrare una lezione. Abbiamo capito che i funghi non si raccolgono a caso perché alcuni sono velenosi, che i cerbiatti non si toccano altrimenti la mamma non li riconosce più, che le foglie cambiano colore quando la luce diminuisce perché la clorofilla va via e restano gli altri colori dell’autunno. Abbiamo imparato anche che i lupi non sono mostri, sono animali che comunicano tra loro e possono essere timidi e bravissimi artisti. E poi la frase che terremo con noi è che gli amici sono la famiglia che scegliamo, perché l’amicizia tra orso, lupo e cervi è una cosa che scalda il cuore.

Diego: I personaggi ci sono entrati subito nel cuore. Leonardo è curioso e dolce e fa domande che avremmo fatto anche noi. Mamma orsa è una vera supereroina, forte e calma, e quando serve diventa un abbraccio gigante. Stefano è timido ma ha una voce bellissima e ci insegna a non mollare i sogni anche se qualcuno non capisce. Diana è dolce e coraggiosa e ci ricorda che chiedere aiuto non è una cosa sbagliata. Tutti loro, insieme, fanno capire che la gentilezza è la lingua più facile da imparare.

Margherita: La fine è una coccola. Il vento diventa freddo, la tana è calda e il bosco augura buon letargo. Fuori si ferma Stefano e canta una ninna nanna speciale per Leonardo. Noi ci siamo immaginati sotto una coperta a sentire Uuuuuuu… e a guardare la luna dalla finestra. Abbiamo chiuso il libro piano piano, come quando spegni una luce e resti un po’ in silenzio per non rovinare un pensiero bello.

Diego: Consigliamo questo libro a chi ama gli animali, a chi è curioso di sapere come funziona la natura e a chi ha voglia di emozionarsi con una storia tenera e anche avventurosa. È perfetto da leggere in classe con la maestra, ma anche sul divano con qualcuno che ti vuole bene. Le illustrazioni stupende fanno venire voglia di tornare indietro a rivedere le pagine e di disegnare subito foglie, lupi e castagne.

Margherita: tenero, avventuroso e super istruttivo. Ci ha fatto venire voglia di cantare alla luna e di proteggere il bosco!

Signor Orso: Che bel consiglio, bambini. Sembra proprio il libro giusto per me. Lo leggerò quando mi sveglierò in primavera. 

Diego: Allora buon riposo e buon letargo, signor Orso! 

Margherita: Grazie per il tempo che ci ha dedicato. A presto! 

Signor Orso: A presto, ragazzi. Uaaawn… adesso chiudo gli occhi.

 Diego: Versoconver in standby. Alla prossima intervista!

Margherita: Missione orso riuscita. 

Cinzia Milite