Robert Musil: “L’uomo senza qualità” (Einaudi), di Maurizia Maiano

Incontro L’uomo senza qualità all’inizio del mio primo anno all’Università La Sapienza di Roma. Avevo diciannove anni e, con l’educazione ricevuta, era difficile capire – o forse accettare – perché qualcuno avrebbe dovuto scrivere di un uomo senza qualità. Ne fui subito colpita, era qualcosa che mi riguardava più profondamente di quanto allora potessi riconoscere.

Ulrich, il protagonista, viveva a Vienna, capitale della Cacaniala kaiserliche und königliche Monarchie – imperiale e regia, iperbole e sineddoche di un ordine fondato sull’immobilismo e sulle contraddizioni, sospesa tra sogno e declino. Era, almeno nelle intenzioni, un modello di convivenza; e qualcuno, come Hermann Bahr, scrittore ed interprete della fin de siècle viennese, vi aveva visto il primo tentativo di dare unità alla molteplicità dei  popoli che l’abitavano.  

Musil, con la sua lucidità quasi dolorosa, lo descrive come un organismo contraddittorio: il governo era clericale, ma lo spirito liberale regnava nel Paese. Davanti alla legge tutti i cittadini erano uguali, ma non tutti erano cittadini. C’era un parlamento, che faceva un uso così eccessivo della propria libertà da essere quasi sempre chiuso; e ogni volta che ci si rallegrava per il ritorno dell’assolutismo, la corona ordinava che si ricominciasse a governare democraticamente. Un luogo in cui la libertà veniva celebrata e allo stesso tempo soffocata. Bastava intuirne la fragilità per sentire che tutto stava per spezzarsi.

Ulrich mi sembrò subito un visionario, uno che guarda oltre la superficie delle cose. Restavo stupita dalla sua capacità  di raccontare la realtà nelle sue minime vibrazioni, nei suoi nodi invisibili, nelle sue possibilità latenti. Più lo leggevo e più sentivo che quel secolo che lui descriveva, con una scrittura precisa e rigorosa, diventava anche il mio: un luogo mentale, un modo di guardare. Per questo avevo denominato il romanzo la Bibbia dell’uomo del XX secolo, e lo sento ancora indispensabile anche per quello del XXI. Il primo volume era stato pubblicato nel 1930 e nel 1933 il secondo. Il terzo volume fu pubblicato postumo nel 1943. Casa Editrice P. Zsolnay Verlag.

Ulrich era un matematico che aveva scelto la letteratura. Questa scelta, in gioventù, mi confortava: anch’io non amavo i numeri. Il romanzo, I turbamenti del giovane Törless, mi aveva già insegnato quanto la matematica chiedesse un atto di fede: accettare gli assiomi, mai metterli in dubbio. Durante le interrogazioni a scuola non avevo altra via: se avessi rifiutato un postulato, non sarei potuta andare avanti nel  procedimento della descrizione di un teorema. A vent’anni avevo l’impressione che molte cose mi sfuggissero, e che alcune forse non le avrei mai pienamente comprese. Noi giovani della fine della seconda metà del XX sec. avevamo ancora punti di riferimento?

Chi è davvero questo uomo senza qualità?

Possedere delle qualità significa, in qualche modo, poterle riconoscere come reali, misurabili, quasi tangibili. Ulrich, invece, sembra privo di quel Wirklichkeitssinn, il senso della realtà che permette a ciascuno di noi di avere un’identità stabile,  un ruolo definito,  una traiettoria coerente. È naturale allora che un uomo incapace di trovare un punto fermo persino in sé stesso finisca un giorno per scoprire di non possedere alcuna qualità — o almeno nessuna che possa essere fissata una volta per tutte.

Musil sembra suggerire che le qualità non siano proprietà interne, ma emergano solo nella relazione: nel confronto continuo tra l’io e il mondo, tra chi guarda e ciò che viene guardato. Ulrich vive esattamente in questo spazio intermedio. Matematico per formazione, scienziato dell’animo per vocazione, osserva il reale come un insieme di fenomeni che si ricompongono ogni volta da capo, senza mai offrire una figura univoca o definitiva.

In questa prospettiva, il romanzo di Musil si intreccia con le intuizioni della filosofia di Popper. Contro l’ottimismo razionalista del Circolo di Vienna che sognava un universo completamente verificabile e separato dalla metafisica. Popper oppone l’idea di un sapere costruito sul dubbio: non è la verifica che fonda la scienza, ma la possibilità della falsificazione. È solo mettendo alla prova una teoria, esponendola al rischio di cadere, che si può parlare di vera conoscenza. Scrive Ulrich: nella scienza accade che ogni due o tre anni una cosa considerata un errore rovesci improvvisamente tutti i concetti o che una idea umile e disprezzata diventi regina di un nuovo mondo di idee, e tali avvenimenti non sono soltanto rivoluzioni ma conducono in alto come una scala celeste. … Ci si chiederà se davvero in questo mondo tutto proceda così alla rovescia da dover essere continuamente capovolto.

Il mondo — suggerisce Wittgenstein — è la totalità dei casi, un mosaico di possibilità che non si lascia mai chiudere in una formula definitiva. E Schnitzler, con la sua ferocia limpida, lo aveva già detto: Sicherheit ist nirgends, la sicurezza non esiste da nessuna parte.

Ulrich diventa il simbolo di questa modernità inquieta: un uomo che si muove tra le possibilità, privo di qualità fisse perché ogni qualità è sempre relativa, contingente, in divenire. Un uomo che non può aggrapparsi a nessuna certezza, e proprio per questo riesce a vedere ciò che gli altri non vedono? C’era qualcosa nella nostra fede nei valori e nella vita  che stava scricchiolando?

Ulrich si muove tra i casi, consapevole che l’uomo, fino ad oggi, si è affidato al principio di causa ed effetto per illudersi di essere al riparo dal caos. Ma egli ha compreso che il mondo non si lascia imbrigliare da questa logica lineare: pulsa invece secondo un principio di indeterminazione, fatto di variabili, deviazioni, possibilità. Ulrich è il Möglichkeitsmensch, l’uomo delle possibilità, colui che sa che la realtà non contiene soltanto ciò che è già accaduto ma anche ciò che non è ancora, ciò che potrebbe essere.

È questa rivelazione a rendere L’uomo senza qualità un romanzo vertiginoso: la consapevolezza che il possibile non è un territorio esterno, un altrove astratto, ma vive già dentro le cose, come una tensione silenziosa. E tuttavia, il possibile della Monarchia danubiana — quel groviglio di popoli, lingue, illusioni politiche — si dissolverà come un sogno non realizzato, lasciando dietro di sé solo frammenti e nostalgie.

Musil racconta la fine di un Impero e, forse, anche la fine di un’Europa. Una Hilflose Europa, inerme, come la definì lui stesso in un saggio del 1922: smarrita, senza consiglio, priva di una politica estera comune, incapace di tradurre in realtà le proprie possibilità. Un’Europa che avrebbe potuto essere diversa e che ancora oggi, guardandola retrospettivamente, ci costringe a riflettere sul suo destino incompiuto.

La vicenda si apre a Vienna, nel 1913, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, quando l’Impero austro-ungarico, ormai un gigante stanco sull’orlo del collasso, tenta ancora di preservare l’illusione della propria stabilità. Ulrich, il protagonista, un uomo sulla trentina, non possiede un’identità sociale definita né un ruolo cui aderire pienamente: esiste in una sorta di sospensione, estraneo tanto a sé stesso quanto al mondo che lo circonda.

Coinvolto quasi per caso, Ulrich viene nominato segretario dell’Azione parallela, iniziativa promossa per celebrare il settantesimo anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore Francesco Giuseppe, prevista per il 1918. Celebrazioni che non avranno mai luogo: lo scoppio della guerra travolgerà tutto, e la battaglia di Vittorio Veneto del 4 novembre segnerà la fine definitiva di quell’Impero che voleva eternizzarsi nei fasti delle commemorazioni.

Ma perché chiamarla Azione parallela? L’idea nasce come risposta alle celebrazioni dell’Impero tedesco di Guglielmo II, che di anni ne avrebbe celebrati soltanto trenta. È l’occasione perfetta, per Musil, per mettere in scena una satira pungente della burocrazia, della società e dell’intellighenzia austro-ungarica: un mondo che discute, pianifica, prolunga riunioni interminabili senza concludere nulla, mentre tutt’intorno gli equilibri politici stanno già crollando.

Su questo sfondo si intravede anche una nostalgia sotterranea, quasi un dissidio interiore: da un lato i Grandi tedeschi, che sognano un vasto spazio  esteso dalla Germania alla Mitteleuropa attraversata dal Danubio fino al Mar Nero; dall’altro i Piccoli tedeschi, che desiderano solo una piccola patria  fondata  sulla identità linguistica. Avrebbe potuto mai la Cacania – questo impero variopinto, fragile e contraddittorio – rinunciare a sé stessa, al suo mosaico di popoli, culture e contraddizioni?

È in questa tensione, tra grandezza sognata e fine imminente, che Musil fa vibrare tutto il romanzo: l’ultimo respiro di un mondo destinato a scomparire, mentre ancora finge di poter durare per sempre.

Ulrich –  anche se non è elegante chiamare qualcuno soltanto per nome – è ancora un ragazzo, sospeso tra infanzia e adolescenza, quando, in un compito scolastico dedicato al patriottismo, scrive che in Austria questa materia è particolarmente difficile da trattare. In Germania, osserva, ai bambini si insegna semplicemente a disprezzare le guerre dei piccoli austriaci, e si ripete loro che i francesi discendono da libertini privi di coraggio, pronti a fuggire come lepri alla vista di un soldato tedesco con una grande barba. E, invertendo i ruoli, con qualche opportuno ritocco, le stesse caricature vengono impartite ai bambini francesi, russi e inglesi, tutti fieri delle proprie vittorie nazionali. È noto che i bambini sono fanfaroni, e dunque il patriottismo, nelle sue forme più grossolane, si può inculcare con una facilità disarmante.

In Austria, però, la questione è diversa. Pur avendo vinto tutte le guerre della sua storia, l’Impero ha quasi sempre dovuto cedere territori subito dopo: un paradosso che svuota il trionfo del suo stesso significato. Da qui la conclusione di Ulrich: un vero patriota non deve necessariamente considerare la propria patria come la migliore. E a questa riflessione ne aggiunge un’altra, ancora più audace. Secondo lui, persino Dio, quando parla del mondo, lo fa usando il congiuntivo potenziale, perché mentre lo crea pensa che avrebbe potuto già farlo diverso.

È questa frase, brillante ma ambigua, a scatenare lo scandalo. Ulrich rischia l’espulsione dalla severa Accademia Teresiana e si salva soltanto perché gli insegnanti non sanno decidere se le sue parole siano offensive verso la patria o verso Dio. L’episodio rivela già allora ciò che Ulrich diventerà da adulto: uno spirito critico, insofferente alle formule vuote, pronto a smascherare le contraddizioni dei discorsi ufficiali. La sua intelligenza curiosa, non conformista, mette in crisi un sistema educativo che pretende obbedienza più che comprensione.

Il piccolo scandalo non è dunque un semplice incidente scolastico, ma il primo segnale di un pensiero che rifiuta verità assolute e preferisce muoversi nel territorio del possibile, dove anche Dio — come suggerisce Ulrich — potrebbe immaginare un mondo diverso. In questa vicenda si intravede già l’uomo senza qualità che sarà: un individuo che non si adatta al già dato, ma continua a interrogare ciò che gli altri accettano senza dubitare.

Nelle città del primo Novecento vediamo così aggirarsi gli Schwärmer, i fanatici, gli entusiasti del dover essere e mai dell’essere, privi di qualsiasi realismo. Sono convinti di poter salvare il mondo e credono nella Erlösungla salvezza. Colgono le debolezze della loro epoca, ma ignorano quella fondamentale: la fragilità dell’essere umano stesso. Per questo falliscono, pur trascinando con sé i giovani, che infiammano e illudono con i loro entusiasmi. Dall’altro lato ci sono i reazionari e i conservatori, convinti che la salvezza consista nel proteggere ciò che esiste, nel custodire l’ordine. Ma a entrambi — fanatici e conservatori — sfugge la stessa cosa: la necessità dell’analisi, del pensiero critico. Accanto a loro compare un’altra categoria: quella degli stupidi, specchio deformante ma rivelatore della stupidità degli intelligenti. Per Musil, infatti, l’intelligenza deve sapersi legare alla realtà e alla possibilità; quando non lo fa, rivela la propria fragilità.

Arnheim, trasparente ritratto di Rathenau – l’industriale e politico tedesco assassinato dai fascisti -, incarna il tentativo di conciliare capitale e cultura. Rappresenta quella borghesia colta, da Goethe ai Buddenbrook, che ormai non esiste più. Thomas Mann aveva sognato un capitalismo illuminato, ma questa borghesia fallisce proprio perché non comprende la realtà e non sa analizzarla. 

Musil-Ulrich non descrive Il mondo di ieri di Zweig, ma il mondo di oggi: un mondo che non ha capito se stesso, che parla molto ma non analizza, che usa parole alte senza il sostegno di un pensiero scientifico e lucido. È un mondo che vorrebbe armonizzare tutto, ma non possiede la consapevolezza necessaria per governare le differenze. In Musil non c’è nostalgia: c’è la certezza del crollo. È il mondo del fraintendimento, quello che porterà alla Prima Guerra Mondiale e, più tardi, agli anni Quaranta e alla Seconda. Ciò che era appena abbozzato nella figura dei fanatici finirà per prendere il potere.

Nel confronto incessante tra vecchio e nuovo si aprono dispute interminabili, chiacchiere che si travestono da dibattiti. Voci sedicenti innovative si contrappongono a posizioni conservatrici, quando non apertamente reazionarie. Chiacchiere che danno  corpo a idee inconsistenti, illusorie e persino pericolose.

Si discute di Pace all’interno di un impero che si vuole multiculturale, ma che in realtà è già una polveriera di nazionalismi pronti a esplodere. Si sogna un capitalismo capace di incorporare in sé lo spirito, anzi di assorbire la cultura nello spirito del denaro, nel tentativo disperato di tenere insieme Kultur e Zivilisation: la cultura autentica, che sono le nostre tradizioni, e cultura come modo di essere: quella modernità senz’anima che avanza inesorabile. E’ l’America? L’Amerikanertum di Heidegger? Edonismo, economicismo, way of life, il sogno americano che ci travolgerà? Saremo dopo ancora capaci di riconoscerci?

E oggi, nel pieno degli anni Venti del XXI secolo, quella complessità filosofica e quella visionarietà storico-politica risuonano ancora, come un monito rivolto al presente?

In questa Cacania che fatica a morire e continua a vivere per inerzia, si intrecciano molte storie. Vorrei soffermarmi su quelle che più mi hanno colpito: il caso Moosbruggerla storia di Walter e Clarissa e, naturalmente, l’enigmatico rapporto fra Ulrich e sua sorella Agathe.

Clarissa, moglie di  Walter e Walter amico di Ulrich fin dall’adolescenza, è una presenza inquieta, vulnerabile e insieme intensa, capace di illuminare  e complicare la dinamica tra i due. Clarissa è per Walter fonte di inquietudine. E’ per lui dovere affettivo e morale, un modo per sentirsi ancorato a terra. La osserva riversare un’energia quasi mistica nella cura dei malati di mente, fino a consumarsi in quella stessa follia che vorrebbe comprendere.

Nel legame tra i due uomini, Clarissa non è un semplice contorno: è una forza che introduce tensione, fragilità e domande senza risposta. Per Walter rappresenta una sorta di dovere affettivo e morale, un legame che lo richiama a terra, alla vita concreta.  Per Ulrich Clarissa è un enigma, gli appare di una sensibilità troppo acuta. Ulrich  osserva,  attratto e turbato a un tempo, quel suo modo di consumarsi nel sentimento e nell’idealità. In lei riconosce qualcosa che sfugge alla sua razionalità: un eccesso di vita, di dolore, di ardore. Così Clarissa diventa lo spartiacque tra i due. Walter, incapace di vivere il reale, la sua tiepidità lo fa sentire smarrito e inetto di fronte alla forza con cui Clarissa dona la sua disponibilità agli altri, mentre Ulrich ne coglie l’aspetto tragico e simbolico. 

Walter si perde nella sua passione per la musica dalla quale pretende qualcosa che nel quotidiano non può trovare, perché rimane confuso. Il suo legame profondissimo con Nietzsche ne fa avvertire tutta la tensione tra apollineo, perfezione della forma, e dionisiaco, slancio emotivo e irrazionale. La sua è una frustrazione creativa, sente di non essere abbastanza grande. Tutto questo lo porta a vivere l’impulso artistico come una ferita, un profondo senso di inadeguatezza, mentre Clarissa rappresenta il dionisiaco, la vita.

Non è un triangolo amoroso ma qualcosa di più sottile. Clarissa svela nel suo comportamento il limite umano del sogno estetico di Ulrich e del tentativo di concretezza di Walter.

Tra i tanti fatti che accadono a Vienna, in quel mondo in cui tutto sembrava avere una sicurezza ed una misura precisa, si staglia in modo quasi sorprendente la figura di Moosbrugger, un operaio ambulante, con un passato di operaio e di vita vagabonda. Egli viene accusato dell’omicidio brutale di una prostituta, ha una psiche instabile, allucinazioni e deliri.

Moosbrugger, antesignano delle tristi notizie di cronaca che affollano i nostri giornali e della nostra difficoltà di giudizio,  sembrava vivere in uno stato intermedio, come se non appartenesse del tutto né al mondo dei sani né a quello dei folli. L’incapacità di trovare un equilibrio tra psicologia, legge e morale là dove è venuta meno la responsabilità individuale. Ognuno vedeva in lui ciò che la propria scienza pensava di vedere Il giudizio si incrina non per una mancanza di prove ma per mancanza di un soggetto definito. Se un comportamento violento deriva da traumi neurologici, da disturbi borderline, scompensi chimici, psicosi episodiche non esiste più una netta distinzione tra malattia e normalità. Può una persona non padrona di sé essere colpevole. C’è in Moosbrugger un nocciolo oscuro dell’umano che nessuno, nessuna disciplina e nessun sistema riescono a decifrare del tutto. Profeta inquieto del nostro presente. 

Potremmo provare un confronto azzardato con la Beatrice di Dante?

Ulrich si reca al funerale del padre e, in quell’occasione, ritrova la sorella Agathe.  Agathe gli stava di fronte come un pensiero che egli non aveva ancora formulato.  Da questo incontro nasce un dialogo ininterrotto che accompagna entrambi fino alla morte di Ulrich, senza mai trovare una conclusione. È precisamente in questo colloquio sospeso che affiora una domanda decisiva: se la scienza probabilistica può offrire una rappresentazione attendibile del mondo, può estendere la propria validità anche all’anima? Può esistere una misura del sentimento, una formula capace di coglierne l’essenza? 

Accostare Agathe alla Beatrice di Dante è un gesto temerario, è come avvicinare due stelle lontane che illuminano due mondi diversi. Eppure, nel loro modo diverso di farsi luce, qualcosa risuona: entrambe sono figure attraverso cui un uomo tenta di varcare il limite del mondo visibile. Ritorna l’attrazione per quell’eterno femminino, das ewige weiblicheche è in noi.

Beatrice  appare a Dante come un soffio divino incarnato, creatura che porta in volto il riflesso del Paradiso. In lei lo sguardo non è domanda, ma certezza; non ricerca, ma rivelazione. Accoglie e conduce, e la sua parola non vacilla mai. È l’asse verticale su cui Dante si innalza fino alla visione ultima, là dove ogni desiderio si placa nella luce di Dio.

Agathe non rivela. Non guida. Non salva. È la sorella gemella dell’inquietudine, l’altra metà di un pensiero che non trova requie. Accanto a lei, Ulrich avanza in una regione dove il linguaggio è solo simbolo di un significato che non potrà mai essere detto, dove la ragione non aiuta, e il sentimento non si può più misurare. Agathe è l’altro stato, la compagna di un’ascesi rovesciata, non verso l’alto, bensì verso un nucleo senza forma: il punto in cui il mistico va a toccare l’indicibile. Sono la stessa cosa, ricerca e tensione sono le stesse, ma il linguaggio cambia.

Beatrice accompagna Dante e gli apre le porte del Paradiso, Agathe accompagna Ulrich fino alla soglia — e lo lascia lì, davanti a un Paradiso che non si lascia rappresentare. Non luce, ma bagliore; non compimento, ma desiderio di compimento. Una tensione romantica che si ripete nel XX secolo?

Agathe è una Beatrice secolarizzata di un mondo senza Dio, di cui ne conserva la nostalgia ed è così che si ferma là dove la parola manca e il silenzio comincia: è la mistica.

Il linguaggio della scienza non riuscirà a restituire la vibrazione dell’anima: Non tutto ciò che conta può essere detto. La mistica, il silenzio si fanno carico di ciò che sfugge al calcolo. E tuttavia l’uomo continua a violare quel silenzio: si sente costretto a parlare proprio dove le parole mancano, perché vi sono luoghi dell’esperienza in cui non è lecito tacere.

Il rapporto tra Ulrich e Agathe costituisce il cuore più enigmatico dell’Uomo senza qualità ed è la via attraverso cui Musil esplora l’altro stato cioè una forma di esperienza che sospende le categorie razionali e morali dello stato del giorno. Nel ritrovarsi, i due fratelli riconoscono una somiglianza originaria che li spinge verso una comunità a due, una sorta di mistica laica che dissolve i confini individuali. Tra loro si stabiliva un’intesa che non aveva bisogno di giustificarsi: era come se pensassero nello stesso luogo. L’inclinazione erotica che attraversa il loro legame non è semplice trasgressione, ma simbolo della volontà di oltrepassare le strutture istituzionali e psicologiche dell’esistenza moderna: nell’unione incestuosa si cela il tentativo di raggiungere un’unità radicale, analoga alle esperienze di annullamento del sé della tradizione mistica. Agathe diventa così la controparte speculare di Ulrich, la figura che ne risveglia la sensibilità verso un modo di essere più intenso e possibile. Tuttavia questa utopia rimane incompiuta: l’altro stato appare come un’esperienza-limite, un lampo di possibilità che non può essere stabilizzato nella vita quotidiana.

L’uomo senza qualità è, in fondo, un romanzo che avrebbe voluto avere una trama definita; ma il modo stesso in cui Musil racconta la realtà, urtando contro i fatti e contro i personaggi che li incarnano, lo conduce verso un’analisi sociale e filosofica così ampia che una narrazione lineare diventa impossibile. Ed è proprio da questa impossibilità che nasce la forza vertiginosa del romanzo

Bibliografia:

Progetto Musil – L’utopia della vita esatta

Aldo Venturelli

Edizioni Bulzoni 1980

Paradiso e naufragio

Massimo Cacciari

Einaudi 2022

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Theodor Fontane: “Effi Briest” (Feltrinelli, curatore E. Gianni), di Lavinia Capogna

L’innocente Effi Briest 

Theodor Fontane (Germania 1819 – 1898) era dai ritratti un classico personaggio ottocentesco, con grandi baffi, corpulento, un’aria arguta.

Di professione era farmacista ma mentre miscelava gli intrugli dell’epoca doveva immaginare molte cose; la sua attività parallela di scrittore è assai vasta: romanzi, racconti, poesie, articoli. 

Effi Briest“, pubblicato tra il 1894 e il 1895, dapprima in una rivista e poi in volume, è il suo romanzo più celebre, tradotto in numerose lingue. 

In Germania sono stati realizzati ben quattro film ispirati alla trama. 

Uno, del 1974, molto bello, venne diretto da un ventinovenne Rainer Werner Fassbinder ed intensamente interpretato da Hanna Schygulla. Ci si potrebbe domandare perché un romanzo di fine ottocento ambientato prima in Pommern (Pomerania) e poi a Berlino, capitale del Königreich Preußen (Regno di Prussia) avesse attratto il regista più particolare del nuovo cinema tedesco. 

Leggendo il libro si può comprenderne il motivo.

 

“Effi Briest” incomincia come un classico romanzo del tempo: Effi è una ragazza molto carina, diciassettenne, vivace, che vive spensieratamente insieme ai suoi amati genitori e ha tre care amiche. Suona un po’ il pianoforte, ricama, e non ha intenzione di sposarsi finché, inaspettatamente, non capita a casa loro un antico spasimante della madre, il barone Geert Innstetten, che ha 37 anni (un’età allora matura). 

Il barone ha un prestigioso incarico amministrativo, è laureato in legge, è agiato e tutto fa prevedere che farà una bella carriera.

Egli chiede la mano di Effi. Sia lei, sia i genitori acconsentono.

Ma ben presto il romanzo, ispirato ad un fatto di cronaca vera che suscitò grande clamore, prende una piega inaspettata e si legge tutto d’un fiato.

In questa storia tutto sommato semplice non vi è nulla di scontato perché Fontane elabora il testo con maestria.

Innstetten è un personaggio impeccabile, tutto ciò che dice sembra ragionevole, è ligio alle convenzioni sociali, lavoratore modello, ambizioso ma paziente.

Effi non è innamorata di lui ma lo stima. 

Egli la considera una bella fanciulla da dirigere e plasmare – un po’ come il Torvald di “Casa di bambola” di Henrik Ibsen (1879) considerava la moglie Nora. 

Solo se lei si concede qualche battuta scherzosa sui suoi ammiratori, il suo sguardo diventa duro. 

Ma dietro questa facciata si cela un marito freddo e senza alcun amore – anche se verso la fine egli dirà ad un amico di amare Effi. E forse per un attimo è sincero anche se per lui che cosa pensa la società è ben più importante della moglie. 

Non le dà supporto quando lei prova nostalgia della casa paterna e della sua cittadina bruscamente lasciata per un’altra, prende in giro un gentilissimo spasimante di lei, un farmacista un po’ gobbo, premuroso e ammodo. 

Nella piccola città prussiana in cui lui ha condotto la moglie, lei viene accettata di malavoglia dalla borghesia che Fontane descrive con pochi incisivi tratti: un ambiente di idee assai ristrette e molto conservatrici, si detesta sia la memoria di Napoleone, sia i cattolici, sia i moti libertari degli studenti, si invoca in modo retorico la patria, si osserva una religione di facciata, ci si scandalizza per i romanzi di Zola. 

Tutto ciò diventa oppressivo per Effi. Incomincia ad avere strane impressioni, teme i fantasmi, viene turbata da una misteriosa storia accaduta anni prima (qui il romanzo risente un po’ del gotico inglese e Fontane era un ammiratore della letteratura inglese).

Entra un po’ in confidenza con Roswitha, una giovane cameriera, che al suo paese era stata quasi uccisa dal padre, un contadino, perché incinta e le era stata tolta la sua neonata data in “adozione” a chissà chi (queste estreme violenze accadevano realmente allora).

Dopo poco tempo Effi ha una bambina che ama molto e verso cui il padre ha un comportamento cortese ma non affettuoso, che invita sempre al dovere.

Finché nella cittadina non arriva il maggiore Crampas. Ex commilitone di Innstetten, Crampas non ha nessuna particolare qualità ma neppure grandi difetti, ha i capelli e i baffi biondi rossicci, è noto per fare una discreta corte alle signore nonostante abbia una moglie depressa e due figli. 

Effi non rimane particolarmente colpita da lui, lo frequenta più per solitudine che per altro anche se Innestenn non approva le loro cavalcate sulla spiaggia d’inverno del mar Baltico. 

Sarà Crampas a trascinare Effi in una relazione sentimentale ma l’adulterio non è il tema del romanzo, il tema è un formidabile atto di accusa verso la società bismarckiana. La cosa più sorprendente è che esso provenga da un borghese, un distinto farmacista che aveva la bizzarra mania di scrivere romanzi. “Effi Briest” ci ricorda che la società emana norme e comportamenti severi e che diventa crudele verso chi osi innocuamente infrangerli.

Probabilmente fu questo ad attrarre Fassbinder – l’adeguamento alle convenzioni sociali che può condurre al crimine. 

E ciò rende “Effi Briest” un romanzo sempre attuale. 

Non sono mancati paragoni con “Anna Karenina” (1877) di Lev Tolstoj e “Madame Bovary” di Gustave Flaubert (1856) anche se sono romanzi molto diversi fra di loro. Effi Briest nella sua vivace ingenuità è molto tedesca così come Anna Karenina è profondamente russa e Emma Bovary una francese di provincia. 

Fontane registra accuratamente gli stati d’animo della sua eroina facendo di questo romanzo anche un romanzo psicologico. 

Presumibilmente “Effi Briest” sarebbe piaciuto allo psicoanalista Erich Fromm che scrisse un saggio sui danni del conformismo, “Fuga dalla libertà” (1941).

Thomas Mann lo pose tra i sei libri che avrebbe portato con sé e il suo dissidio tra vita borghese e vita d’artista o sregolata ha qualche analogia con la vitalità di Effi Briest e la rigidità di Innestenn.

Tra parentesi, un personaggio del libro al quale sono dedicate solo poche righe si chiama Buddenbrook. 

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora otto libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente” , (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari” .

E molto recentemente “Poesie 1982 – 2025”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Il Randagio e Insula Europea. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Lutz Seiler: “Stella 111” (Utopia Editore, trad. Paola Slaviero), di Claudio Musso

In queste pagine Lutz Seiler racconta i mesi immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino, ma non ne fa un romanzo storico né una cronaca politica. La DDR non viene mai nominata, la riunificazione resta sullo sfondo come un’eco lontana: al centro c’è un tempo sospeso in cui le certezze si sono dissolte e il presente diventa l’unico terreno da abitare. Tutto sembra avvenire fuori dal quotidiano in una dimensione che sfugge alla linearità della storia e che restituisce con forza l’esperienza di chi, in quel 1989, ha vissuto più il vuoto lasciato da ciò che era crollato che la promessa di ciò che sarebbe venuto.

Il titolo rimanda a una radio legata all’infanzia di Karl, il protagonista di questo romanzo: un oggetto che evoca un passato sereno, fatto di armonie familiari e scoperte, che non ha altro ruolo se non quello di segnale affettivo e memoria di un tempo perduto. Quel ricordo contrasta con l’animo inquieto del giovane, nutrito da una parte torbida e irrisolta. Karl porta con sé un passato disadorno e un rapporto disturbante con i genitori: li abbandona nella Turingia Orientale e li ritroverà anni dopo. La radio rappresenta allora un frammento di infanzia felice ma anche il limite oltre il quale quella felicità non si è più ripetuta.

L’incipit sorprende: non è il figlio, come molti suoi coetanei, a fuggire verso l’Ovest, ma i genitori, «interpreti principali della consuetudine», con una fuga studiata da tempo, a partire, lasciandogli la casa in una sorta di passaggio di consegne. Karl non cerca stabilità, non rincorre il benessere, ma si dirige, a bordo della sua eccentrica Zighuli, verso Berlino Est, verso la soglia dove si incontra la Storia. Qui si rifugia in una delle tante società a nicchia popolata da artisti, poeti, squatter, visionari e persone che si rifanno la carta di identità. Un luogo che si colloca ai margini sia fisicamente, nelle zone degradate della città, sia ideologicamente, fuori dalla propaganda ufficiale. E trova randagi come lui, senza più collari imposti, che cercano di fare branco e che popolano una sorta di libero ‘parco giochi’ di utopie. Al contempo si immerge in un tempo provvisorio, affidandosi alla precarietà e al qui e ora come forma di vita possibile, preferendo il margine alla sicurezza e la comunità improvvisata ma affiatata al modello dominante. Perché c’è un istante nella storia in cui tutto sembra possibile e nulla è ancora deciso. È quello tra un non più e un non ancora in cui le regole si allentano, i sogni si affacciano senza filtri e la mente elabora.

È qui che la dimensione psicologica si intensifica: nei volti dei personaggi che incontra, figure eccentriche, radicali, spesso borderline, Karl sembra ritrovare non solo nuovi compagni di strada, ma anche riflessi di sé, specchi deformanti che gli rimandano frammenti del proprio passato e di quello che non ha avuto modo di essere. Alcuni incontri hanno la concretezza ruvida del reale quotidiano, altri assumono quasi la consistenza del fantasma. Quelle cantine lasciate al logorio del tempo, quegli appartamenti abbandonati diventano così anche un nuovo spazio interiore in cui Karl, lasciandosi alle spalle «l’intero squallore della sua insufficienza» affronta i propri irrisolti e misura la propria capacità di trasformarli in possibilità di vita e, al contempo, di farne, senza sconti, la tara.

In quella che poi diventerà la celebre Prenzlauer Berg egli lavora come muratore e cameriere nel bar sotterraneo Assel, stringe legami con chi, come lui, sperimenta un’esistenza fuori dalle regole. Questa vita collettiva è instabile ma intensamente vitale: l’esperienza del presente prende il posto del futuro che non si conosce e del passato che non offre più appigli. Anche i genitori, dall’altra parte della cortina, scoprono che l’Ovest non è un approdo sereno ma un nuovo inizio fatto di difficoltà e adattamenti. Seiler mostra così che nessuno, in quel passaggio epocale, trova garanzie immediate: l’unico modo di esistere è muoversi nell’incertezza, trasformando la fragilità di passi incerti in possibilità.

La peculiarità del libro risiede soprattutto nella scrittura. Seiler proviene dalla poesia e si avverte: la sua prosa è densa, sensoriale, capace di trasformare gli oggetti quotidiani – una stufa, un mattone, un asello, una radio – in simboli vivi, dotati di una risonanza che travalica la materia. Ogni dettaglio diventa concreto e insieme poetico, restituendo non solo l’atmosfera di un’epoca ma la sua vibrazione più intima. Non è una lettura immediata: il testo è complesso, stratificato, ma proprio per questo riesce ad appagare il lettore con la ricchezza di immagini, la profondità dei personaggi e la densità di significati che emergono pagina dopo pagina, grazie anche all’attenta e vibratile traduzione di Paola Slaviero.

Da questa esperienza, controcorrente e, al tempo stesso, nella corrente, per Karl nasce l’approdo alla scrittura: non un gesto estetico ma la necessità di dare voce a un presente che altrimenti resterebbe muto. La poesia diventa l’unico modo per orientarsi in un mondo in trasformazione, per dare forma a ciò che è fragile, instabile, ma intensamente vissuto. Nello scrivere poesie egli attua una ricerca di identità in un mondo che gli sfugge, un gesto di resistenza contro la dispersione e la disgregazione che vede intorno a sé, un vissuto da elaborare per trasformare la propria esistenza in un linguaggio durevole, l’appartenenza ad una tradizione inserendosi, sopravvivendo, ad una comunità invisibile di voci.

“Stella 111” è dunque il romanzo di un passaggio: non documenta la storia, ma la trasfigura in esperienza universale. Racconta come, nel momento in cui le strutture di riferimento crollano, diventa possibile reinventarsi e cercare nuove forme di libertà e di definizione. Il gesto di Karl – lasciare la città per rifugiarsi nelle sue nicchie – non è soltanto un atto di ribellione, ma il tentativo di plasmare da sé la vita: perdersi pienamente, senza se, fuori dalla norma e dall’incasellamento, per poi ritrovarsi. È in questo smarrimento volontario che il testo trova la sua forza, come un invito a interrogarsi su cosa significhi oggi davvero abitare il presente quando ogni cornice sembra dissolversi. E, una volta compiuto questo primo passaggio decisivo, dare libero sfogo a forme espressive e strumenti interiori per orientarsi perché solo chi riesce a trasformare un tracciato di vita disorientata in occasione di riscatto può sentirsi veramente ‘a casa’ nel tempo che gli è dato.

Perché l’abitare l’oggi non è un traguardo che si raggiunge una volta per tutte, ma un compito quotidiano, un esercizio di attenzione e di invenzione. È, riprendendo Rilke, vivere le domande. Così forse un giorno, senza accorgercene, vivremo dentro le risposte.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

Thomas Bernhard : “Il nipote di Wittgenstein. Un’amicizia” (Adelphi, trad. Renata Colorni) – Maurizia Maiano

Il libro, dedicato all’amico Paul Wittgenstein, inizia con una sua esplicita richiesta a Bernhard:
“Duecento amici verranno al mio funerale e tu dovrai tenere un discorso sulla mia tomba.”
In realtà, al funerale andarono soltanto nove persone, e lo stesso Bernhard non poté essere presente, perché si trovava a Creta. Resta quindi il libro come testimonianza della profonda amicizia tra i due.

Paul Wittgenstein è il nipote del più celebre Ludwig Wittgenstein, autore del Tractatus Logico-Philosophicus. Il racconto è bellissimo: due persone legate da un’amicizia profonda, nonostante sembrino non aver condiviso molti momenti, trovano nel reciproco legame il confronto con un mondo dominato dalla finzione. La loro realtà autentica è fatta di malattie, ossessioni e sofferenze condivise, uno “spazio” in cui si riconoscono e che sentono vivo.
Entrambi erano ricoverati in ospedali vicini: Paul nel Padiglione Ludwig — un manicomio — e Bernhard nel Padiglione Hermann, un tubercolosario. Due strutture situate a circa duecento metri di distanza su due colline di Vienna. Entrambi avevano abusato della propria vita in modi diversi, manifestando un’avversione profonda verso se stessi. Quando quest’avversione raggiunse il suo culmine, ci furono i rispettivi ricoveri, che li plasmarono e li ristabilirono.
Questa convivenza con la malattia, vissuta in contesti così opposti (la comunità di “pazzi” e quella dei “tubercolosi”), riflette la condizione umana come un costante rapporto con ciò che ci circonda. Paul e Bernhard erano uguali e diversi allo stesso tempo. Paul, ad esempio, si commuoveva davanti ai poveri: una volta scoppiò in lacrime vedendo un bambino povero al Traunsee, cogliendone l’innocenza e l’indigenza. Bernhard, però, vide invece la madre astuta che aveva messo lì il bambino per suscitare pietà.
Questa scena rappresenta una chiave di lettura del Tractatus Logico-Philosophicus: i fatti sono ciò che vediamo, ma ciò che vediamo dipende dalla nostra prospettiva. Paul vede solo il bambino, Bernhard anche la madre, e così la realtà, i fatti, possono ingannare. È un richiamo all’inganno dell’informazione e del potere che può condizionarci con ciò che ci fa vedere o non vedere.

L’inganno della percezione si manifesta anche in momenti pubblici, come quando un ministro tiene una laudatio per Bernhard leggendone quattro appunti scritti da funzionari ignoranti e raccontando delle falsità su di lui (ad esempio che avrebbe scritto romanzi d’avventura o sarebbe uno straniero in Austria). Bernhard rispose con poche, frasi memorabili: l’uomo è un essere abbietto e la morte è certa per ognuno. Il ministro, furioso, lo insultò e se ne andò sbattendo la porta, seguito da tutti gli altri, compresi gli artisti e i critici letterari. Solo Paul rimase accanto a Bernhard, orripilato ma anche divertito dall’accaduto.

Il libro vuole essere il miglior elogio funebre per Paul, un amico che aveva profondamente migliorato la vita di Bernhard, rendendola possibile nonostante tutto. Le pagine fissano l’immagine di Paul, mettendo in luce ciò che li accomunava e ciò che li divideva. Non si tratta di un’amicizia semplice e spontanea, ma di un legame elaborato con fatica, mantenuto con cautela per proteggere la fragilità di Paul.
La narrazione si chiude con una passeggiata di Bernhard per Vienna: lo Stadtpark, il Cafè Sacher — un luogo dove veniva rispettato e mai disturbato — e il Braunerhof, il tipico caffè viennese che, pur infastidendolo, frequentava per l’insopprimibile sindrome dei viennesi di “andare al caffè”.

Paul si lasciò dominare dalla propria follia; Bernhard ne fece invece uno strumento di vita, ma forse proprio questa differenza rende la sua follia ancora più estrema.
L’amicizia tra i due è curiosa e complessa: Bernhard temeva l’incontro con Paul se questi si fosse presentato “nel suo abbigliamento da pazzo”, consapevole che Paul era il suo specchio e forse temeva se stesso. Per Paul era più semplice fare visita a Bernhard che viceversa. Questa ambivalenza rimane una domanda aperta, per una delle storie d’amore più strane e vere che abbia mai letto.

Informazioni sull’opera:
Il nipote di Wittgenstein (titolo originale: Wittgensteins Neffe) è stato scritto da Thomas Bernhard nel 1982. La traduzione italiana, pubblicata da Adelphi nella collana Fabula (2013), è curata da Renata Colorni.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Appunti sul Faust di Goethe, di Maurizia Maiano

Johann Wolfgang von Goethe nasce nel 1749 a Francoforte da una benestante famiglia borghese. La cultura dell’epoca è sintetizzata nelle sue opere. Nel Prometeo c’è tutto lo Sturm und Drang, ne I dolori del giovane Werther tutta la passione romantica che rompe con la ragione dell’Illuminismo, nella trilogia del Wilhelm Meister l’evoluzione del borghese dal momento della rivolta contro la propria famiglia fino al suo inserimento sociale come medico per operare in modo attivo nella società ed essere utile agli altri.

Il”Faust” riflette un personaggio storico effettivamente esistito: Johannes Georg Faust, nato nel 1480 nel Wuettenberg, che si attribuiva straordinarie qualità, ma era solo un intelligente ciarlatano. L’opera tutta possiamo considerarla espressione del classicismo di Weimar su cui si consoliderà l’amicizia tra Schiller e Goethe. Il Faust come sintesi letteraria della filosofia kantiana e dell’ Inno alla gioia di Beethoven.


Per avere accesso al significato profondo del Faust di Goethe bisogna cercare di spiegare la parola chiave per comprenderlo: la ”Sehnsucht,” termine romantico che non è nostalgia, nel senso in cui comunemente la intendiamo, ma desiderio del desiderio, tensione inappagabile che il Faust vorrebbe superare proprio stipulando il patto con Mefisto. Quest’ultimo avrebbe potuto conquistare la sua anima qualora Faust fosse riuscito a dire all’attimo: ”fermati sei bello”-“verweile doch, du bist so schön”- Faust non vorrà raggiungere fama, gloria e potere come il Faust di Marlow, ma semplicemente sentirsi appagato anche per un solo attimo nella sua vita. Il Faust di Goethe è la sintesi dell’essere Uomo e delle sue alterne vicende. Ma perché Faust, nonostante i suoi innumerevoli errori, sarà alla fine salvato? Nel prologo, nel dialogo tra il Signore, der Herr, e Mefisto, il primo affermerà che “l’uomo nella  sua tensione oscura  è sempre cosciente della retta via – der Mensch in seinem dunklen Drang ist des rechten Weges wohl bewusst”. In parole semplici l’azione ci induce all’errore. Così la romantica Sehnsucht  è in contrapposizione all’ideale classico, che sarà ricerca di equilibrio tra mondo esteriore e mondo interiore, tra tensione idealistica e senso della realtà, consapevolezza dei limiti che dobbiamo pur porci e diventa, in senso positivo,  lo “Streben nach” il tendere verso qualcosa, il motore di ogni azione umana. Essa è l’elemento determinante del Bildungsroman, Romanzo di formazione,  a cui il Faust, anche se conosciuto comunemente come tragedia, appartiene. E’ la Sehnsucht, lo Streben nach (il tendere verso qualcosa) che porteranno l’io narrante a raggiungere, attraverso l’Erfahrung, esperienza e l’Erlebnis, esperienza vissuta, l’Erfuellung, la realizzazione di sé, la pienezza.  Faust, desideroso di sapere, si rende conto di non saper nulla. Il suo è un sapere libresco, ciò che gli manca è la vita reale.


Il primo tentativo di Mefisto per conquistare l’anima di Faust è quello di condurlo nella Cantina di Auerbach a Lipsia tra gli studenti, ma egli non si sente attratto da quella vita. Mefisto lo porta, allora, nella cucina della strega dove viene ringiovanito. Gli farà poi conoscere Margarethe dalla quale si sentirà fortemente attratto, ma ciò che attrae Faust è la semplicità di Margarethe, è il vederla felice nel suo piccolo mondo. Affinché si consumi la storia d’amore tra i due sarà la stessa Margarethe a somministrare alla propria mamma un sonnifero che purtroppo sarà letale. Faust sedurrà la giovane abbandonandola subito dopo. Sarà sfidato a duello dal fratello di lei che ne vorrà vendicare l’onore. Mefisto condurrà Faust sul Brocken per fargli vivere la famosa notte di Valpurga abbandonandosi ai piaceri, ma egli è richiamato dall’immagine di Margarethe, donna –amore contro la donna –lussuria, ritornerà da lei e la troverà in prigione in quanto infanticida. Faust vorrebbe farla fuggire, ma lui è lì per il suo dovere di uomo, non per amore. Lei lo capisce e dichiarerà la sua volontà di espiazione.
Le successive esperienze di Faust sono legate al mondo della politica. Alla corte dell’imperatore insieme a Mefisto rimetterà a posto le finanze dello Stato.
 Lunga è la via della conoscenza ed anche l’Arte è un gradino nel percorso della conoscenza e della comprensione del senso della vita. Mefisto evocherà Elena di cui Faust si innamorerà. Elena simbolo della bellezza e dunque dell’Arte. L’unione tra Elena e Faust rappresenta l’incontro tra il mondo nordico-romantico e quello greco-classico. Dalla loro unione nascerà Euforione che ha la bellezza della madre ed il titanismo faustiano. Grecità classica e titanismo non sono equilibrati. L’elemento dionisiaco prevarrà in lui e sarà causa della sua fine. Euforione morirà lanciandosi, novello Icaro, da una rupe per unirsi a coloro che combattono in Grecia per la libertà, morendo chiede alla madre di non abbandonarlo, lei lo abbraccia e insieme svaniscono nel nulla, a Faust rimane tra le mani solo il velo di Elena. L’incontro con Elena, l’incontro con l’Arte, è un altro gradino dell’esperienza faustiana, ma non rappresenta l’assoluto, esso costituisce un momento nella formazione dell’individuo, ma non può sostituirsi alla realtà. L’Arte non può essere tutto nella vita dell’uomo, non è il suo ultimo senso. 
Faust è ora chiamato dall’imperatore che gli affida come feudo un litorale che dovrà strappare alla furia del mare, rendere fertile e qui fondare una nuova società dove gli uomini vivranno in pace e dove regnerà la giustizia sociale. L’idea più alta che l’uomo possa perseguire. Improvvisamente accade l’impensabile, a Goethe non sfugge niente del comportamento umano. Faust lavora alacremente ed in modo instancabile alla fondazione di questa nuova società. La sua è però una società artificiale e meccanizzata, nel suo desiderio di conquista e di potere la ybris non si acquieta e cosi ordina a Mefistofele di cacciare Filemone e Bauci, che li vivevano tranquilli, la capanna viene incendiata e l’anziana coppia muore tra le fiamme. E’ una società giusta quella che Faust crea? E’ una società  giusta che germoglia  da ciò che è ingiusto, “come la crescente  inclinazione ad imporre ciò che è giusto attraverso ciò che è ingiusto,  ma se si scruta in questo nuovo germe del giusto vi si scopre una macchiolina che si dilata “ (Italo Calvino) E’ cosi? La risposta rimane aperta. Ormai Faust è alla fine del suo cammino, la vecchiaia lo sopraffà, diventa ricurvo e cieco. Si sente  in pace e sereno e immagina la felicità degli uomini. Ora finalmente può dire all’attimo: “Fermati sei bello”. Sembrerebbe che Mefisto abbia vinto la scommessa e invece no.
Gli Angeli canteranno: “Es Irrt der Mensch solange er strebt”: “Colui che agisce sbaglia” e “Wer sich  streben immerbemüht, den müssen wir erlösen”, “Chi agisce deve essere salvato”.
Oggi  non abbiamo ancora smesso di porci la domanda: Come perseguire il bene senza fare il male? 

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.