Appunti sul Faust di Goethe, di Maurizia Maiano

Johann Wolfgang von Goethe nasce nel 1749 a Francoforte da una benestante famiglia borghese. La cultura dell’epoca è sintetizzata nelle sue opere. Nel Prometeo c’è tutto lo Sturm und Drang, ne I dolori del giovane Werther tutta la passione romantica che rompe con la ragione dell’Illuminismo, nella trilogia del Wilhelm Meister l’evoluzione del borghese dal momento della rivolta contro la propria famiglia fino al suo inserimento sociale come medico per operare in modo attivo nella società ed essere utile agli altri.

Il”Faust” riflette un personaggio storico effettivamente esistito: Johannes Georg Faust, nato nel 1480 nel Wuettenberg, che si attribuiva straordinarie qualità, ma era solo un intelligente ciarlatano. L’opera tutta possiamo considerarla espressione del classicismo di Weimar su cui si consoliderà l’amicizia tra Schiller e Goethe. Il Faust come sintesi letteraria della filosofia kantiana e dell’ Inno alla gioia di Beethoven.


Per avere accesso al significato profondo del Faust di Goethe bisogna cercare di spiegare la parola chiave per comprenderlo: la ”Sehnsucht,” termine romantico che non è nostalgia, nel senso in cui comunemente la intendiamo, ma desiderio del desiderio, tensione inappagabile che il Faust vorrebbe superare proprio stipulando il patto con Mefisto. Quest’ultimo avrebbe potuto conquistare la sua anima qualora Faust fosse riuscito a dire all’attimo: ”fermati sei bello”-“verweile doch, du bist so schön”- Faust non vorrà raggiungere fama, gloria e potere come il Faust di Marlow, ma semplicemente sentirsi appagato anche per un solo attimo nella sua vita. Il Faust di Goethe è la sintesi dell’essere Uomo e delle sue alterne vicende. Ma perché Faust, nonostante i suoi innumerevoli errori, sarà alla fine salvato? Nel prologo, nel dialogo tra il Signore, der Herr, e Mefisto, il primo affermerà che “l’uomo nella  sua tensione oscura  è sempre cosciente della retta via – der Mensch in seinem dunklen Drang ist des rechten Weges wohl bewusst”. In parole semplici l’azione ci induce all’errore. Così la romantica Sehnsucht  è in contrapposizione all’ideale classico, che sarà ricerca di equilibrio tra mondo esteriore e mondo interiore, tra tensione idealistica e senso della realtà, consapevolezza dei limiti che dobbiamo pur porci e diventa, in senso positivo,  lo “Streben nach” il tendere verso qualcosa, il motore di ogni azione umana. Essa è l’elemento determinante del Bildungsroman, Romanzo di formazione,  a cui il Faust, anche se conosciuto comunemente come tragedia, appartiene. E’ la Sehnsucht, lo Streben nach (il tendere verso qualcosa) che porteranno l’io narrante a raggiungere, attraverso l’Erfahrung, esperienza e l’Erlebnis, esperienza vissuta, l’Erfuellung, la realizzazione di sé, la pienezza.  Faust, desideroso di sapere, si rende conto di non saper nulla. Il suo è un sapere libresco, ciò che gli manca è la vita reale.


Il primo tentativo di Mefisto per conquistare l’anima di Faust è quello di condurlo nella Cantina di Auerbach a Lipsia tra gli studenti, ma egli non si sente attratto da quella vita. Mefisto lo porta, allora, nella cucina della strega dove viene ringiovanito. Gli farà poi conoscere Margarethe dalla quale si sentirà fortemente attratto, ma ciò che attrae Faust è la semplicità di Margarethe, è il vederla felice nel suo piccolo mondo. Affinché si consumi la storia d’amore tra i due sarà la stessa Margarethe a somministrare alla propria mamma un sonnifero che purtroppo sarà letale. Faust sedurrà la giovane abbandonandola subito dopo. Sarà sfidato a duello dal fratello di lei che ne vorrà vendicare l’onore. Mefisto condurrà Faust sul Brocken per fargli vivere la famosa notte di Valpurga abbandonandosi ai piaceri, ma egli è richiamato dall’immagine di Margarethe, donna –amore contro la donna –lussuria, ritornerà da lei e la troverà in prigione in quanto infanticida. Faust vorrebbe farla fuggire, ma lui è lì per il suo dovere di uomo, non per amore. Lei lo capisce e dichiarerà la sua volontà di espiazione.
Le successive esperienze di Faust sono legate al mondo della politica. Alla corte dell’imperatore insieme a Mefisto rimetterà a posto le finanze dello Stato.
 Lunga è la via della conoscenza ed anche l’Arte è un gradino nel percorso della conoscenza e della comprensione del senso della vita. Mefisto evocherà Elena di cui Faust si innamorerà. Elena simbolo della bellezza e dunque dell’Arte. L’unione tra Elena e Faust rappresenta l’incontro tra il mondo nordico-romantico e quello greco-classico. Dalla loro unione nascerà Euforione che ha la bellezza della madre ed il titanismo faustiano. Grecità classica e titanismo non sono equilibrati. L’elemento dionisiaco prevarrà in lui e sarà causa della sua fine. Euforione morirà lanciandosi, novello Icaro, da una rupe per unirsi a coloro che combattono in Grecia per la libertà, morendo chiede alla madre di non abbandonarlo, lei lo abbraccia e insieme svaniscono nel nulla, a Faust rimane tra le mani solo il velo di Elena. L’incontro con Elena, l’incontro con l’Arte, è un altro gradino dell’esperienza faustiana, ma non rappresenta l’assoluto, esso costituisce un momento nella formazione dell’individuo, ma non può sostituirsi alla realtà. L’Arte non può essere tutto nella vita dell’uomo, non è il suo ultimo senso. 
Faust è ora chiamato dall’imperatore che gli affida come feudo un litorale che dovrà strappare alla furia del mare, rendere fertile e qui fondare una nuova società dove gli uomini vivranno in pace e dove regnerà la giustizia sociale. L’idea più alta che l’uomo possa perseguire. Improvvisamente accade l’impensabile, a Goethe non sfugge niente del comportamento umano. Faust lavora alacremente ed in modo instancabile alla fondazione di questa nuova società. La sua è però una società artificiale e meccanizzata, nel suo desiderio di conquista e di potere la ybris non si acquieta e cosi ordina a Mefistofele di cacciare Filemone e Bauci, che li vivevano tranquilli, la capanna viene incendiata e l’anziana coppia muore tra le fiamme. E’ una società giusta quella che Faust crea? E’ una società  giusta che germoglia  da ciò che è ingiusto, “come la crescente  inclinazione ad imporre ciò che è giusto attraverso ciò che è ingiusto,  ma se si scruta in questo nuovo germe del giusto vi si scopre una macchiolina che si dilata “ (Italo Calvino) E’ cosi? La risposta rimane aperta. Ormai Faust è alla fine del suo cammino, la vecchiaia lo sopraffà, diventa ricurvo e cieco. Si sente  in pace e sereno e immagina la felicità degli uomini. Ora finalmente può dire all’attimo: “Fermati sei bello”. Sembrerebbe che Mefisto abbia vinto la scommessa e invece no.
Gli Angeli canteranno: “Es Irrt der Mensch solange er strebt”: “Colui che agisce sbaglia” e “Wer sich  streben immerbemüht, den müssen wir erlösen”, “Chi agisce deve essere salvato”.
Oggi  non abbiamo ancora smesso di porci la domanda: Come perseguire il bene senza fare il male? 

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Carlo D’Amicis: “Il grande cacciatore (e altre violenze)” – Terrarossa, di Carlotta Lini

Un’immersione tra l’umano e il disumano

Non mi ero ancora resa conto di avere una nuova vicina, finché un pomeriggio, dalla finestra del bagno, non la vidi a letto con il mio fidanzato“.

Così comincia “Il grande cacciatore (e altre violenze)” di Carlo D’Amicis, un romanzo breve già uscito nel 2011 e riproposto dalla casa editrice Terrarossa in una versione rivisitata e parzialmente riscritta; “un libro che – come dice l’autore in prefazione – già esiste e che nello stesso tempo è nuovo”.

La storia è narrata in prima persona dalla protagonista, un’infermiera insicura, con la sindrome da crocerossina e il timore costante di essere abbandonata. Nell’incipit D’Amicis la inquadra nell’attimo esatto in cui la sua vita cambia, ovvero quando, guardando dalla finestra, in un pomeriggio afoso e soffocante, vede il suo fidanzato in atteggiamenti intimi con l’avvenente vicina di casa.

Non ci sono piatti che volano, urla o pianti fragorosi, ma l’autore lascia che la violenza emerga in modo sottile e silenzioso. L’infermiera non reagisce apertamente, soffre in silenzio e finisce per accettare la vicina che dice “non mi pare il caso di litigare per un uomo”. E così, già dalle prime pagine, sorprendentemente, la donna ferita e tradita comincia a prendersi cura di Marilyn, la vicina ex-modella che gira “sempre mezza-nuda sotto la vestaglia”, instaurando con lei un rapporto quasi di amicizia e confidenziale. Sarà Marilyn stessa a raccontarle come ha conosciuto l’uomo: giacché i due sono ossessionati dalla presenza degli alieni (meglio nominarli “loro, essi”, o la loro vendetta sarà inesorabile), a farli incontrare è una rivista sugli ufo di cui entrambi sono abbonati. Nel frattempo, Adelmo, il fidanzato (non si sa più bene di chi, se di Marilyn o dell’infermiera o, più probabilmente, di entrambe), è un uomo assente, narcisista e anaffettivo, incapace di amare e di dedicarsi alle donne della sua vita.

Il triangolo relazionale si sviluppa in due spazi narrativi: l’appartamento condiviso e l’ospedale, dove i tre protagonisti si ritrovano in momenti diversi della storia. È un triangolo “relazionale” più che amoroso, perché l’amore è quasi assente o, quando presente, tossico.

E allora, dov’è l’amore? L’amore è portato delicatamente nella narrazione da un cane randagio, l’unico elemento di conforto e sicurezza riservato alla nostra protagonista. Nonostante l’iniziale riluttanza, col tempo l’infermiera capisce che prendersi cura di lui è la cosa più bella, e sana, che potesse capitarle. Tuttavia, la presenza del cane sconvolge ulteriormente l’equilibrio fragile e precario tra i tre.

Ecco che quindi arriva la violenza. Violente diventano le parole, i gesti e gli atti, compiuti e non. Tutti fanno violenza e tutti la subiscono, i ruoli di vittima e carnefice si alternano continuamente. D’Amicis ci regala una scrittura affilata e tagliente, e la mescola abilmente con un’ironia pungente e inaspettata. Il romanzo si rivolge con freddezza al lettore, in un crescendo di incredulità emotiva: davvero l’essere umano è capace di arrivare a tanto? 

“Volevo salvare il mondo, oppure farlo a pezzi”. (p. 33)

Questo libro merita di essere letto per le riflessioni che suscita, trascinandoci, pagina dopo pagina, in una spirale di passiva follia dalla quale riemerge solo chi è capace di provare emozioni. Gli interrogativi che pone sono gli stessi che forse si porrebbero gli alieni se ci osservassero da vicino: “Ma questi non erano gli umani?”

“Allora per non cedere definitivamente alle emozioni, corsi in bagno e mi detersi il viso con un batuffolo di ovatta. Mi sembrava di raschiare l’anima con la carta vetrata.” (p.31)

Carlo D’Amicis, redattore di Fahrenheit di Radio 3 e già autore Mondadori, Minimum Fax e 66thand2nd, gioca con i registri del grottesco e del quotidiano per raccontarci quella terra di nessuno ridotta e spaventosa tra “la fragilità che ci definisce umani e l’abiezione che ci rende disumani”. Le “altre violenze” del titolo non sono solo fisiche: sono piccole invasioni dell’altro, tentativi di possesso, manipolazioni affettive e slittamenti emotivi. Il romanzo interroga su cosa significhi davvero “prendersi cura” di qualcuno: è un atto di amore, di potere o di dipendenza? Chi sono i predatori e chi le prede in questa storia di apparente passività?

Consigliato a chi ama le narrazioni brevi ma dense, a chi cerca una voce fuori dal coro capace di unire sarcasmo e malinconia, e a chi non teme di esplorare le zone più torbide dei legami umani.

Carlotta Lini

Carlotta Lini è laureata in Lingue e Letterature Straniere e si occupa di contenuti editoriali, lettura professionale e comunicazione culturale. Dopo un’esperienza significativa nel mondo della moda e dell’imprenditoria creativa, si è dedicata alla scrittura e alla consulenza editoriale. Cura il blog I Need a Book – The Thrill of Literature, in cui approfondisce la letteratura classica e contemporanea attraverso recensioni, rubriche e interviste d’autore. Collabora con progetti editoriali e culturali, con uno sguardo attento alla parola e alla qualità dei contenuti. Per lei, leggere è una fortuna, non un semplice passatempo. È una ricchezza intima, personale, inalienabile. Un piccolo miracolo che possiamo compiere ogni giorno, sfogliando una pagina dopo l’altra, e scoprendo — ogni volta — che le parole sanno ancora sorprenderci. 

Isabel Allende: “Il mio nome è Emilia del Valle” (Feltrinelli, 2025 – trad. Elena Liverani), di Cristi Marcì

Il potere della parola quale strumento per salvarci di fronte al silenzio

Ambientato agli albori della prima guerra civile cilena scoppiata nel lontano 1891, la protagonista di questo splendido romanzo si fa portavoce di una delle pagine più cruente della storia sudamericana, dove il rispetto per la vita e l’amore nei confronti della propria terra segnano un profondo divario non solo all’interno del popolo cileno bensì fra gli alti esponenti di una politica sempre più corrotta.

Disposta a reprimere la voce della nazione in nome di un folle e assurdo amore: quello per la guerra.

Attraverso l’indomito coraggio della fiorente scrittrice Emilia del Valle il Cile assume negli articoli della giovane ed emergente reporter la forma di una lingua di terra violentata dalla cupidigia dell’Io e deturpata dalla brutalità dell’essere umano.

Rispetto ai quali sia il profumo del mare che le immense catene montuose possono soltanto piegarsi dinanzi alla logica di un’indicibile e inaudita violenza.

Impregnate di storia ma soprattutto di un florido desiderio di riscatto, ciascuna di queste pagine assume pian piano i contorni di una mappa dove la geometria dei sogni rivela le nebulose costellazioni di un viaggio pronto a rinnovarsi capitolo dopo capitolo.

La scrittura e ancor più le parole acquisiscono via via le sembianze di una creatura in grado tanto di raccontare quanto di imprimere quelle emozioni e quelle speranze che soltanto la guerra tenta spesso di dissolvere nella polvere da sparo, denunciando oltremodo le barbarie perpetrate dalle forze del Congresso cileno contro il governo dittatoriale dell’allora presidente Josè Manuel Balmaceda.

La nota autrice e giornalista cilena Isabel Allende offre dunque ai suoi lettori uno spaccato della propria terra d’origine dove la curiosità e il forte richiamo all’indipendenza di Emilia si traducono in un viaggio degno di essere vissuto, dove l’amore e la scoperta delle rispettive origini la porteranno in un luogo ricolmo di mistero: inaccessibile finanche alla cupidigia dell’uomo e ai suoi futili strumenti di morte.

Quello che maggiormente contraddistingue questo meraviglioso romanzo non è soltanto quel terribile amore per la guerra di cui parlava il noto psicoanalista americano James Hillman bensì la crescente presenza di un conflitto che sulle labbra e ancor più tra le mani dell’uomo si tramuta in legge assoluta: in una nuova norma.

Nondimeno quanto viene proposto lungo queste pagine è la descrizione di quello che purtroppo al giorno d’oggi siamo ormai abituati a vedere, a leggere e a sentire: rendendo il conflitto con il proprio simile l’unica legge vigente rispetto alla quale, per assurdo, l’essere umano rischia di identificare sempre più il valore della propria esistenza.

Se da un lato i governi dittatoriali hanno da sempre macchiato di sangue interi capitoli della storia dell’uomo dall’altro quest’ultimo, proprio attraverso le parole può gradualmente tornare a fiorire, facendo della scrittura nonché della narrazione il solo strumento con cui restituire alla vita di ogni giorno una dignità di fronte alla quale l’odio e il conflitto prima o poi esauriranno le proprie cartucce.

Il Cile quale terra ricca di analogie e preziose radici da riscoprire 

Il linguaggio analogico riflette quella dimensione simbolica grazie alla quale prendere le distanze da ciò che è ormai razionale e carico di significati ormai collaudati. 

Un vero e proprio strumento che garantisce l’accesso presso quell’apparato immaginativo e metaforico con cui riscoprire uno o finanche più dialoghi. 

Pertanto proprio attraverso questo graduale distacco si ha la possibilità di prendere coscienza circa l’esistenza di ulteriori forme di espressione, nuove modalità comunicative e soprattutto di un mondo inconscio che a nostra insaputa fiorisce dentro di noi. 

Quest’ultimo infatti sembra custodire al suo interno non tanto semplici contenuti quanto una vera e propria sequenza di materiali che se sotto il profilo onirico non tardano a presentarsi viceversa dal punto di vista linguistico sono pronti a tradursi in una trama, a volte indefinita e per questo del tutto originale.

Le parole dunque possono acquisire quella incerta fisionomia che alla stregua dei sogni altro non attendono se non di guidarci verso orizzonti lontani; pronte a comunicarci non solo qualcosa di nuovo bensì a mostrarci quella via grazie alla quale oltrepassare quei significati che spesso e volentieri rischiano di restringere il campo della nostra simbologia inconscia.

Nel corso dei secoli la letteratura si è sempre fatta portavoce di un qualcosa di nuovo, di inaspettato e spesso e volentieri di scomodo per la ragione ordinaria e abitudinaria. 

Nondimeno la struttura e gli stili che adornavano il contenuto di quanto riportato in forma scritta riflettevano il ponte di unione tra la dimensione cosciente e quella all’apparenza invisibile. 

Se le parole permettevano un trampolino di lancio verso la nostra interiorità ad oggi questa possibilità non sempre la si riscontra facilmente. 

In quanto difficilmente si è disposti a lasciarsi guidare da quanto di più misterioso e indecifrabile risiede entro gli anfratti della nostra anima. 

Tuttavia la lettura di questo romanzo riflette proprio l’invito a prendere contatto, nonché a riscoprire, quelle radici che se accolte sono in grado di svelare i volti di un percorso grazie al quale raggiungere mete lontane e che tuttavia non sapevamo di custodire nel nostro più intimo bagaglio.

Tantomeno di raccontare con la sola parola possibile: Viaggio.

Cristi Marcì*

* Cristi Marcì è uno psicoterapeuta psicosomatico junghiano. Grazie ai libri ha scoperto la possibilità di viaggiare con l’unica compagnia gratuita: la fantasia. Adora i gialli, la saggistica e i romanzi storici. Ad oggi ha pubblicato racconti brevi sulle riviste «Topsy Kretts», «Morel, voci dall’Isola», «Smezziamo», «Offline» «Kairos» e altre ancora. Scrive articoli per il periodico scientifico «Ricerca Psicoanalitica», «Arghia» e «Mortuary Street». Trovate una sua traccia anche su «Quaerere»

Sally Rooney: ‘’Intermezzo’’ (Einaudi, trad. Norman Gobetti), di Angela Molinaro

L’arte di raccontare un tempo sospeso

Cosa succede quando l’amore arriva nel mezzo del dolore? Quando la vita, all’apparenza lineare, si incrina in una pausa che le conferisce un nuovo asse di significato?

Intermezzo, il quarto romanzo di Sally Rooney, parte da qui: dal cuore sospeso del lutto, dal tempo intermedio in cui i personaggi non sanno se stanno andando avanti o tornando indietro. E in quel vuoto – tra fratelli che si perdono, amanti che si scoprono, figli che guardano ai padri con occhi nuovi – Rooney costruisce il suo romanzo più ambizioso, stratificato e, per molti versi, il più intimo. Un libro che si muove tra la perdita e la possibilità, senza la pretesa di spiegare le emozioni, ma con il talento raro di farle sentire.

Peter e Ivan Koubek sono fratelli, ma parlano lingue diverse. Peter ha trentadue anni, è un avvocato di successo, brillante ma irrisolto, alle prese con un’esistenza che sembra sfuggirgli di mano. Ivan, dieci anni più giovane, è un ex bambino prodigio degli scacchi, riflessivo, introverso, fuori sincrono con il mondo. La morte del padre li costringe a rivedersi, e lentamente – attraverso tensioni, silenzi e incomprensioni – a riscoprirsi.

Ognuno di loro, nel frattempo, intraprende una relazione sentimentale che sfida le aspettative e mette in discussione le loro certezze. Ivan si innamora inaspettatamente di Margaret, una donna più grande, separata, che gli offre uno spazio nuovo in cui essere visto per ciò che è, senza timore del giudizio. Peter si divide tra Sylvia, la sua ex compagna – intellettuale lucida ma segnata da un incidente che le ha causato un dolore fisico permanente – e Naomi, una giovane studentessa affascinante e sfuggente.

Intorno a loro, Rooney costruisce una rete delicata di legami: affetti che si cercano, si sfiorano e si fraintendono. Il titolo stesso è una chiave di lettura sottile ma potente. Nell’opera musicale, un intermezzo è un momento di passaggio, spesso lirico, tra due atti. Negli scacchi, è una mossa inattesa che interrompe lo schema previsto e sorprende l’avversario. Rooney sembra giocare con entrambi i significati: i personaggi si trovano in una fase della loro vita in cui tutto può cambiare, o restare immobile. Dove ogni gesto è carico di possibilità, ma anche di precarietà.

Peter e Ivan attraversano questo spazio in modi opposti. Il primo con ansia e inquietudine, alla ricerca di una direzione, ma spesso invischiato nei propri pensieri. Il secondo con sorpresa e apertura, lasciandosi stupire da ciò che non aveva previsto.

Rooney alterna le loro voci con grande finezza. A Ivan assegna uno stile spoglio, limpido, quasi infantile nella sua tensione alla chiarezza: idee rapide, convinzioni ideologiche acerbe, che si fanno via via più complesse. Peter, al contrario, è narrato con un flusso di coscienza quasi joyciano, fatto di frammenti, inversioni sintattiche, citazioni letterarie. Due stili distinti, perfettamente coerenti con due modi diversi di stare al mondo.

La prosa di Rooney resta minimalista, ma profondamente evocativa. Non cerca l’effetto, ma l’autenticità. E quando l’autrice osa – nella rappresentazione della sessualità o del dolore – lo fa con una grazia disarmante. Anche gli oggetti più quotidiani – un viaggio in macchina, un bicchiere d’acqua, un preservativo dimenticato nella valigia – acquistano spessore narrativo. Rooney riesce a rendere visibile ciò che, nella vita reale, è spesso solo un’impressione fugace.

Una delle scelte narrative più evidenti è quella di limitare il punto di vista alle voci maschili. Le figure femminili – Naomi, Sylvia, Margaret – ci arrivano attraverso lo sguardo e i silenzi dei fratelli. Questo le rende a tratti sfuggenti o simboliche, in particolare Naomi e Sylvia. Margaret, invece, è l’unica donna a cui Rooney concede una vera interiorità, e forse per questo è anche il personaggio femminile più riuscito: complessa, tenera, consapevole.

Ma in un romanzo che lavora per sottrazione, ogni omissione è anche una scelta. Proprio attraverso i limiti dello sguardo dei personaggi, Rooney chiede al lettore di immaginare ciò che non è detto e di abitare non solo ciò che è narrato, ma anche ciò che resta in sospeso. L’accento è posto proprio lì: nei vuoti, nei gesti incompiuti, nelle parole trattenute. È in quel “durante” incerto – l’intermezzo, appunto – che il romanzo trova la sua forza.

La pausa diventa centro narrativo, non un semplice momento di passaggio. È lì, nella sospensione tra prima e dopo, che i personaggi cambiano, si smarriscono, o forse si ritrovano. Rooney sembra suggerire che la vita sia fatta proprio di questi intermezzi: momenti in cui tutto vacilla e proprio per questo tutto può cambiare.

Intermezzo è un romanzo che cresce piano, come una musica che non ha bisogno di climax. È fatto di piccoli gesti, silenzi densi, dialoghi mancati. Ma anche profondamente vivo. Si ha la sensazione non di leggere i personaggi, ma di camminare accanto a loro. Non è un libro che ti prende per mano, ma uno che ti accompagna. Un romanzo da assaporare lentamente, da lasciar decantare. Perché in fondo è questo che sembra raccontare: la vita come un intervallo fragile ma reale, in cui possiamo ancora trovarci. E forse anche salvarci.

Angela Molinaro

Angela Molinaro: Laureata in Filologia Classica, insegna Latino, Greco e Cultura dell’Antichità nel cuore dell’Inghilterra. Ama trasmettere ai suoi studenti il fascino del mondo antico e la bellezza della parola. Viaggia con la stessa curiosità con cui legge: per incontrare mondi e conoscere storie. Per questo vive con la valigia sempre pronta e un libro nello zaino. Scrive e collabora con case editrici e riviste letterarie per dare forma a pensieri che nascono tra una lezione, un aereo e le fusa dei suoi due gatti neri.

Ruggero Cappuccio: “La prima luce di Neruda” (Feltrinelli), di Cristi Marcì

Il dono della poesia quale culla di antiche creature

Impregnate di mistero e salsedine d’oltreoceano, le pagine di questo romanzo svelano il legame antico tra il noto poeta cileno Pablo Neruda e la cantante Matilde Urrutia.

Il loro è un amore proibito ma al contempo privo di quei confini geografici e spaziali che attraverso le righe di questa storia delineano i binari dove il passato e il presente si congiungono tramite il dono del ricordo e di quella sola parola in grado di far germogliare l’imprevedibile: la fantasia.

Perché se ad occhi aperti ciò che è lontano appare drammaticamente irraggiungibile, viceversa, una volta abbassate le palpebre, la galassia dei ricordi traccia finanche le costellazioni ancora in procinto di brillare.

Per mezzo di questa fiaba, che attraversa la storia e la cultura della società cilena ai tempi di Pinochet, Ruggero Cappuccio disegna un labile confine tra sogno e realtà, oltre il quale il verbo della poesia incontra quell’indecifrabile logica dell’anima in grado di tramutare le emozioni in eterne creature viventi.

Tra un Cile prerivoluzionario e un’Italia costretta a risollevarsi dalle macerie del periodo bellico i versi del poeta si scontrano con quello che in quel medesimo periodo storico e socio culturale James Hillman aveva definito “un terribile amore per la guerra”: così immortale da far percepire a chiunque sceglierà di perdersi tra le sue pagine, come il passato non sia in fin dei conti “una terra straniera”.

Tra le pagine di questo meraviglioso romanzo si avrà il piacere di incontrare finanche i personaggi più illustri della letteratura e di ogni altra espressione artistica di quel tempo tra i quali: Alberto Moravia, Elsa Morante, Renato Guttuso e tanti altri ancora.

I quali alla stazione Termini di Roma non aspetteranno altro che di congiungere la propria voce con quella del maestro, colpevole di diffondere versi abietti e velenosi che a detta di molti, solo il comunismo poteva partorire a quei tempi: corrodendo lo spirito del popolo.

Eppure grazie alla forza prorompente della poesia si profila pagina dopo pagina la possibilità di rendere l’ignoto una dimensione in grado di restituire parole che non credevamo potessero ancora prendere vita né tantomeno fare proprie.

Quanto emerge dunque non è una semplice trama bensì un insieme di ramificazioni lungo le quali germogliano i semi di un presente e di un futuro ancora possibili e tuttavia ancora ignoti all’occhio della ragione.

Per una psicologia poetica a favore del mondo immaginale

Nel campo dell’alchimia con il termine albedo ci si riferisce ad una fase di transizione del materiale psichico che ciascuno individuo custodisce al proprio interno.

In accordo con il simbolismo cromatico questa variazione riflette in maniera sottile quelle alterazioni del substrato animico entro il quale si sviluppano tanto gli umori quanto le costellazioni oniriche.

In qualità di coscienza improntata ad Anima, l’albedo alchemico favorisce una rinnovata modalità di percezione rispetto alla quale lo sguardo e l’attenzione vanno oltre quegli attaccamenti obsoleti alla ricerca di un altrove, dove l’assenza di un luogo e uno spazio prestabiliti favoriscono una nuova ispirazione

La fase propriamente detta dell’imbiancamento rispecchia l’emergere di una coscienza psicologica dove la percezione e l’ascolto si tramutano gradualmente in quella fantasia creativa in grado di promuovere un distacco tanto dal passato quanto da ciò che non ne garantiva una possibile evoluzione.

Difatti, fino a quando la psiche continuerà a dibattersi nella nigredo, ossia quei pensieri e comportamenti ormai obsoleti, sarà emotivamente legata ai suoi attaccamenti passati e circoscritta così in materializzazioni che rischiano di bloccarne l’evoluzione.

Pertanto il processo di unione della mente con un terreno fertile e imbiancato prende spesso il nome di base poetica della mente, dove la coscienza non sarà più il prodotto di una grossolana materia cerebrale o peggio ancora il gretto risultato della società, ma al contrario un rispecchiamento, nonché un tripudio di immagini atto a generare e fecondare in una perpetua poiesi fantasie lontane da futili dittature.

Per addentrarci più in profondità verso una maggiore comprensione della mente è necessario volgere lo sguardo alla poesia e alla sua inafferrabile simbologia.

Bisogna dunque interpellare coloro i quali abitano la luna, ossia quei poeti che instancabilmente sottolineano come la poesia “offra manciate di terra imbiancata e pietre lunari”, le quali se maneggiate con fare immaginativo partoriscono sogni, idee, canzoni e storie ancora non scritte: veri e propri minerali lunari dal valore mitopoietico.

Cristi Marcì*

* Cristi Marcì è uno psicoterapeuta psicosomatico junghiano. Grazie ai libri ha scoperto la possibilità di viaggiare con l’unica compagnia gratuita: la fantasia. Adora i gialli, la saggistica e i romanzi storici. Ad oggi ha pubblicato racconti brevi sulle riviste «Topsy Kretts», «Morel, voci dall’Isola», «Smezziamo», «Offline» «Kairos» e altre ancora. Scrive articoli per il periodico scientifico «Ricerca Psicoanalitica», «Arghia» e «Mortuary Street». Trovate una sua traccia anche su «Quaerere»