Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta, regista romana, disabile da una quindicina d’anni che ha già pubblicato otto libri, tra cui alcune sillogi poetiche, un saggio e un romanzo immeritatamente passato in sordina intitolato “Il giovane senza nome”.
La storia è ambientata nel 1200 e si svolge in alcune località italiane: un paese di incerta localizzazione, Firenze, Bologna, Roma, l’Umbria, le Marche ma anche Toledo e non mancano riferimenti a Napoli e alla Provenza.
Il racconto è molto avvincente e pieno di colpi di scena ma, come dice l’autrice, “non è un fantasy né un romanzo storico”.
È un romanzo con una trama accattivante imprevedibile.
Non anticipiamo nulla: quello che possiamo dire è che i personaggi, dal simpatico ed intenso Gutierrez, al delicato ma determinato Giovanni, dalla bellissima Beatrix alla volubile Vereda, dalla maligna Violante alla commovente Judith sono tratteggiati a tutto tondo e sono pieni di sfaccettature. Ma è Isabella, il personaggio femminile, ad essere al centro della scena: stanca e delusa cambierà in modo incredibile la sua vita.
E così Agnolo e Antoniazzo, il feudatario.
E certamente non vanno dimenticati Matteo L’Alchimista e Gabriel l’Alemanno, le cui intricate vicende rendono la storia ancor più avvincente.
Al centro del romanzo c’è un grande segreto che ovviamente non sveleremo in queste poche righe: al lettore scoprirlo.
Lo stile di Lavinia è chiaro e scorrevole, semplice ma mai banale: i 42 capitoli in cui è divisa questa storia, che non esiterei a definire sontuosa, aiutano a non smarrirsi nei numerosi eventi di cui è costellato il libro.
Il Medioevo che l’autrice ci narra è ricostruito con grande accortezza ma senza pedanteria e ha una forte valenza sociale: nella vicenda non troverete donzelle, draghi o regine, cavalieri e duelli ma la vita reale che vi sorprenderà tenendovi incollati alla pagina. È anche per questo, oltre che per il suo innegabile valore artistico, che “Il giovane senza nome” si presenta come un’opera innovativa nell’odierno panorama letterario italiano.
Per poter dare vita alle vicende narrate in questo volume, Lavinia Capogna ha condotto un’ampia ricerca storica leggendo approfonditamente i lavori dei principali storici (prevalentemente italiani e francesi) che si occupano di questo periodo per certi versi ancora misterioso: nel romanzo vengono menzionati accuratamente ma senza prolissità, strumenti musicali e cibi, affreschi e testi letterari che contribuiscono a creare una cornice accurata e verosimile.
Il romanzo racconta anche di vicende amorose assai delicate, sia etero che omosessuali che l’autrice tratta in modo peculiare, inquadrandoli al di là dei frequenti luoghi comuni.
Nella storia si riscontra anche un’accurata ricerca psicologica che trova il suo culmine nella storia dei bambini tessitori che si dimostra un pezzo di alto livello letterario.
Concludo dicendo che vale davvero la pena di perdersi tra le pagine di questo libro che le case editrici si sono lasciate sfuggire in modo poco saggio.
Silvia Lanzi
Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).
Ho conosciuto Calvino, come molti, sui banchi di scuola: ho amato particolarmente Marcovaldo e le sue tenere e tragicomiche avventure. L’ho ritrovato, scrittore per adulti quando, qualche tempo fa, ho letto, su consiglio di mia moglie, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Ed è stato subito amore. Il libro è qualcosa di strepitoso, un incrocio tra matrioska e labirinto: storie dentro storie dentro storie. Racconti divergenti che si intrecciano come il filo di un gomitolo di lana. Iniziano. Si interrompono e si inseguono. Quando ne inizi una ti prende forte e vorresti sapere come finisce. Ma inevitabilmente viene interrotta da un’altra – e con quella nuova succede lo stesso e via così fino all’ultima pagina.
A volte si tratta di storie volutamente assurde o quantomeno improbabili e grottesche, ognuna scritta con uno stile diverso, unico, che intrigano e spiazzano e nelle quali sono nascoste suggestioni e rimandi a diversi altri autori. Calvino dissemina ogni storia di riferimenti apparentemente fantasiosi che sembrano creati ad hoc – gruppi etnico/linguistici dai nomi buffi e poco probabili, opere che sembrano pseudobiblia – che però, in effetti, sono reali. Segno senz’altro della grande erudizione dell’autore ma messi lì con una tale naturalezza, che sembrano parole e concetti di uso quotidiano, talmente banali da non dovercisi neanche soffermare. Il Calvino del “Viaggiatore” è sublime e frustrante. Sublime perché è scritto in maniera pressoché perfetta. L’autore infatti, ammicca al lettore, lo coinvolge fattivamente, direi che lo costringe ad amare l’intrecciarsi delle storie che scrive; frustrante perché, alla fine, la storia che dà il titolo al libro non compare nemmeno. E a me è venuta voglia di scriverla come una sorta di appendice-omaggio quasi un’esigenza fisica. Chissà che qualcuno non l’abbia già fatto.
Silvia Lanzi
Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).
“Le città invisibili“, pubblicato nel 1972, rappresenta un momento centrale nella produzione letteraria di Calvino, che ha abbandonato da tempo il neorealismo de “Il sentiero dei nidi di ragno” (1947), si è per aperto ad una dimensione fantastica già a partire dalla trilogia de I nostri antenati (Il visconte dimezzato è del 1952, Il barone rampante del ’57, Il cavaliere inesistente del ’59), ed entra definitivamente nel novero degli autori postmoderni. Il libro, che, com’è noto, è una raccolta di racconti e ha per protagonista Marco Polo che descrive a Kublai Khan, imperatore dei Tartari, alcune città del suo impero, consente all’autore di rinunciare ad una trama lineare, ad una narrativa tradizionale, per sostituirla con una raffinata serie di immagini poetiche e metaforiche.
Ogni città è un simbolo, uno stato dell’animo ed un’esperienza vissuta intensamente, un modo di essere, un peccato, una gioia, una conquista e una sconfitta, un amore corrisposto e una disillusione, un sogno e un’illusione, la pace e la guerra. “Invidia per chi è stato una volta felice, desideri chediventano ricordi“, è la città di Isidora; “strade deserte che si popolano di carovane, vie che portano al mercatoad incontrare gente che ti guarda dritta negli occhi” è Dorotea, la città e il desiderio; poi c’è Anastasia, “la città ingannatrice”, dove “si lavora sodo per otto ore al giorno e la fatica dà forma al desiderio e a sua volta prende forma da quella“; o Cloe “la più casta delle città, se gli uomini cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia di inseguimenti, di finzioni, di malintesi e la giostra delle fantasie si fermerebbe” e Armilla fatta di soli impianti idraulici, Leonia, dove si accumulano i rifiuti. Sono cinquantacinque le città descritte, immaginate come sogni, visioni, labirinti di simboli.
Il cammino raccoglie e contiene in sé le tre dimensioni del tempo: il presente, il passato e il futuro. Marco ha deciso di viaggiare e, alla domanda del Khan: “Viaggi per rivivere il tuo passato?” e che avrebbe anche potuto essere. “Viaggi per ritrovare il tuo futuro?”, risponde: “l’altrove è uno specchioin negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.”
Si può essere più bravi di così a raccontare il cammino dell’uomo? Ma chi è l’imperatore?Siamo noi nel momento della nostra vita che “segue all’orgoglio per l’ampiezza dei territori che abbiamo conquistato“, nel momento disperato “in cui si scopre che quest’impero, che era stato la somma di tutte le meraviglie, è uno sfacelo senza fine né forma e che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo e che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.”
Il destino a cui nessuna città sfugge è il nostro destino: ha la forma di uno scettro, ma non è altro che il testimone che aspettiamo con ansia per riprendere la corsa, diventando eredi della stessa rovina dei nostri predecessori. Continuità sempre uguale a se stessa dell’esistenza a cui nessuna interpretazione epistemologica, storica può sfuggire. Simboli, immagini concrete per rappresentare concetti astratti. Leggerezza ed esattezza della scrittura che traduce il significato in simbolo e diventa visibile.
Vanità e inconsistenza dell’esistenza: “tutto è inutile se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo, in una spirale sempre piùstretta, che ci risucchia la corrente.”
A questa affermazione del Khan, Polo risponde: “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui e ci sono due modi per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di nonvederlo più. Il secondo esige attenzione e apprendimento continui, cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.”
Un libro che avevo letto da ragazza, ma se non si hanno gli anni per leggere, dopo essere passati per la vita, non sarei mai riuscita a coglierne l’estrema bellezza ed inquietudine.
Maurizia Maiano*
*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.
Non è questa la sede per delineare una storia del secondo dopoguerra (né lo spazio lo consentirebbe), mi limiterò pertanto a richiamare alcune linee essenziali del quadro politico, economico e sociale italiano, quelle che possono risultare indispensabili per comprendere i fenomeni culturali e letterari in cui si inserisce il libro preso in esame “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino e di cui si prende in considerazione l’edizione Mondadori.
Il referendum del 2 giugno 1946 proponeva ai cittadini italiani la scelta tra la monarchia e la repubblica: l’esito delle urne sancì per l’Italia, uscita da vent’anni di dittatura fascista e dall’esperienza traumatica della guerra, l’assetto repubblicano. La Costituzione, elaborata da un’assemblea costituente ed entrata in vigore nel 1948, delineava gli ordinamenti di una repubblica democratica di tipo parlamentare. La legge elettorale con cui le camere erano elette era di tipo proporzionale, cioè ogni lista otteneva i seggi in proporzione ai voti ricevuti. La Costituzione nasceva dall’incontro delle forze politiche che avevano combattuto il fascismo durante la Resistenza e che avevano trovato espressione nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).
Il paese era uscito prostrato dalla guerra. I primi anni post bellici erano stati quindi segnati dal faticoso processo della ricostruzione: si trattava di ricostruire il tessuto urbano distrutto dai bombardamenti, ripristinare strade, ponti, ferrovie, riavviare la produzione industriale ed agricola, rimettere in piedi i servizi essenziali, l’amministrazione pubblica, gli ospedali, le scuole, il sistema finanziario e creditizio. Furono anni duri, di sacrifici e di miseria, soprattutto per i ceti più deboli, ma il paese, pur ferito profondamente dalla guerra, aveva ancora grandi risorse al suo interno, capacità di iniziativa e di lavoro. In quegli anni si verificò quindi un’accumulazione che fu la premessa di un vero e proprio decollo economico successivo.
In questo dopoguerra proseguono la loro attività le più importati case editrici nate fra le due guerre, alcune di grandi dimensioni e dall’organizzazione industriale, come Mondadori e Rizzoli, altre di dimensioni più artigianali, come Bompiani, Garzanti, Einaudi. Le case maggiori diventano dei veri e propri colossi dalla produzione estremamente differenziata, che va dalla narrativa italiana e straniera ai classici, alla saggistica, ai manuali, alla letteratura di massa, ai rotocalchi di informazione e popolari, ai quotidiani, ai fumetti.
Il presentarsi di una serie di fattori, nel periodo che si sta esaminando, ha creato le premesse per un sensibile allargamento del pubblico rispetto al periodo fra le due guerre: la scolarizzazione di massa e l’alfabetizzazione quasi totale della popolazione; la maggiore disponibilità economica all’acquisto di libri da parte dei ceti medio-bassi, grazie al cresciuto tenore di vita; il maggior tempo libero, per la riduzione dell’orario di lavoro e la diffusone del fine settimana lungo; l’estendersi e la maggior penetrazione dei canali di promozione (basti pensare alla forza di persuasione della televisione).
Il clima dell’immediato dopoguerra, caratterizzato dall’entusiasmo per la riconquista delle libertà civili e della fiducia in un rinnovamento profondo del paese, si riflette sugli indirizzi letterari. Si diffonde un senso di insofferenza per la letteratura del ventennio precedente: gli aspetti che soprattutto vengono criticati e rifiutati sono la concezione elitaria e aristocratica della scrittura, il culto della pura forma, il soggettivismo e il lirismo evasivo, l’astrattezza metafisica, la chiusura del letterato nella torre d’avorio e la sua mancanza di contatto con la realtà sociale. Oggetto di tale critica sono essenzialmente il Decadentismo e l’Ermetismo. Ora invece si sente fortemente la responsabilità civile e sociale dell’intellettuale. Il compito che gli viene assegnato è proprio quello di prendere contatto con i problemi reali del paese (le devastazioni materiali e morali della guerra, la miseria, la durezza del lavoro, i conflitti di classe, le lotte operaie, gli scioperi, le occupazioni di terre da parte dei contadini), di raggiungere mediante il suo lavoro letterario una più precisa conoscenza di essi e di contribuire fattivamente alla loro soluzione. La letteratura da compiaciuta auto contemplazione, deve trasformarsi, secondo la nuova mentalità che diviene dominante, in uno strumento di lotta politica, in un mezzo per incidere direttamente sulla realtà per cambiarla. Ma, se si escludono alcune personalità maggiori come Vittorini, Pavese, Moravia, Calvino, Fenoglio, la letteratura neorealista, nonostante il fervore civile e le buone intenzioni che l’animavano, non ha lasciato risultati di grande valore. Oggi appaiono anzi evidenti i limiti che la inficiavano: la mitologia populista, cioè l’idealizzazione del popolo come forza sana e incontaminata. Come portatore di tutti i valori morali e sociali positivi; lo schematismo ideologico elementare, che tende a contrapporre rigidamente bene e male, buoni e cattivi, senza alcuna complessità problematica; la riproduzione mimetica della semplice superficie del reale, l’incapacità di penetrare a fondo nelle sue contraddizioni; il bozzettismo provinciale e dialettale; l’usare tecniche narrative antiquate (ad esempio il narratore eterodiegetico onnisciente, che guarda dall’alto la materia giudicandola e commentandola) non più adatte a rendere la percezione contemporanea del reale, ignorando così le più avanzate soluzioni novecentesche, ma anche la lezione stessa dei tanto ammirati americani come Hemingway, Faulkner, Dos Passos, che impiegavano spesso tecniche d’avanguardia.
Il romanzo d’esordio di Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno” si colloca nell’ambito del Neorealismo, anche se poi l’autore prosegue in tutt’altre direzioni. Affrontando l’argomento della lotta partigiana, sulla base di un’esperienza vissuta in prima persona, lo scrittore trasferisce sulla pagina il clima di fervore degli anni post bellici, il bisogno di dare voce ad una vicenda collettiva che viene sentita come decisiva e che alimenta speranze in un cambiamento profondo della vita nazionale e della costruzione di un’Italia più civile e più giusta. Tuttavia Calvino non vuole offrire un quadro celebrativo ed agiografico della Resistenza, come egli stesso precisa in un’illuminante prefazione aggiunta al libro nel 1964: la banda partigiana che egli rappresenta è costituita dagli scarti di tutte le altre formazioni, da una serie di emarginati, di balordi, di “pìcari”. Con questo però, in polemica con i detrattori della Resistenza, egli intende dimostrare che anche chi si era impegnato nella lotta senza chiare motivazioni ideali sentiva <<un’elementare spinta di riscatto umano>> e si trasformava così in forza storica attiva. Si manifesta in tal modo quell’indipendenza intellettuale che contraddistingue poi sempre la posizione di Calvino, il suo rifiuto di sottostare ad una direzione politica della cultura, di ridurre la letteratura a celebrazione, a propaganda o a pedagogia, secondo normative imposte dall’esterno.
Ciò che allontana Calvino dagli standard neorealistici è ancora il fatto che, pur rappresentando figure e ambienti proletari e sottoproletari, il suo libro non rivela alcun intento documentario di tipo naturalistico. Anzi, la vicenda della lotta partigiana è trasferita in un clima fantastico, di fiaba. L’effetto è ottenuto presentando tutti gli eventi attraverso il punto di vista di un bambino. Il protagonista, Pin, è un ragazzino cresciuto nei vicoli della città vecchia di Sanremo, precocemente smaliziato, ma che conserva l’ingenuità e lo stupore tipici dell’infanzia: ai suoi occhi il mondo adulto, i rapporti umani, la politica, la guerra appaiono estranei, incomprensibili, assumendo una fisionomia incantata e magica, di favola. Lo scrittore, nella prefazione del 1964, ha modo di precisare che nell’estraneità dello sguardo del bambino si metaforizza il suo stesso rapporto con la guerra partigiana, l’inferiorità da lui sentita <<come borghese>> rispetto a quel mondo. Nel Sentiero appaiono così in germe le due direzioni che Calvino seguirà nel suo percorso letterario degli anni successivi: il realismo e la dimensione fantastica. Proprio nel clima realistico, ancora una volta, si inserisce il tema della lotta partigiana nei racconti di “Ultimo viene il corvo”, sia pur scritto in chiave fiabesca. La guerra partigiana vi conserva un posto importante, tuttavia rispetto al Sentiero la fiducia nella storia appare incrinata e affiorano inquietudini nuove: progressivamente si fa strada il timore che il sacrificio della lotta sia stato inutile e la vittoria possa essere vanificata.
Fin dall’inizio del romanzo è riconoscibile una situazione tipica della fiaba, il bambino solo e smarrito nella notte, in un luogo deserto. Fiabesco è anche il motivo dei noccioli di ciliegia lasciati da Pin come traccia per l’amico Lupo Rosso (ricorda Pollicino). La pistola nascosta dovrebbe rappresentare il mondo degli adulti, la guerra, ma nell’ottica del bambino diviene nient’altro che un giocattolo, o meglio l’oggetto magico delle fiabe: maneggiandola, Pin si immerge in avventurose fantasie, in cui assume il senso di onnipotenza tipico dell’infanzia. Fiabesco è ancora l’incontro con lo sconosciuto, proprio nel momento di massimo sconforto: il partigiano è il gigante buono, che nella fiaba è la proiezione della figura paterna, protettiva e rassicurante (funzione che si compendia nel particolare della mano <<grandissima, calda e soffice>>, che <<sembra fatta di pane>>. Nella banda partigiana Pin, sia pure a fatica, troverà la solidarietà umana e il calore che possono salvarlo dalla durezza della storia. Questo clima favoloso è ottenuto dallo scrittore attraverso la focalizzazione interna a Pin, filtrando tutto il racconto attraverso il suo sguardo infantile.
Proseguendo nella lettura, emerge come Calvino, nel raffigurare la lotta partigiana, voglia evitare la retorica celebrativa; c’è l’accozzaglia di emarginati e di sbandati, che non ha ben chiaro il motivo per cui combatte. Ma lo scrittore vuol dimostrare che ciò che non sminuisce il valore della loro lotta è che in essi c’è un’oscura, elementare esigenza di riscatto umano, che li trasforma in forze storiche positive. La Resistenza è poi ulteriormente straniata perché è vista attraverso una prospettiva del tutto estranea, dal basso, quella del bambino che vive come in un racconto avventuroso, a cui il mondo adulto appare lontano e incomprensibile.
Nel corso degli anni Cinquanta si manifestano già i segni dell’esaurimento del Neorealismo. All’inevitabile logoramento interno delle forme letterarie si aggiungono fattori esterni: la fine degli entusiasmi e delle speranze di rinnovamento civile propri dell’immediato dopoguerra, a causa della restaurazione conservatrice in atto; la crisi delle sinistre, determinata dalla destalinizzazione dell’Unione Sovietica e dell’invasione dell’Ungheria; il proporsi, con lo sviluppo industriale in Italia, di problemi che esigono nuovi strumenti conoscitivi ed espressivi. Appare nel 1959 <<Il Menabò>>, fondata a Torino da Elio Vittorini e lo stesso Calvino, alla cui base vi è l’intento di aprire gli orizzonti culturali, ma soprattutto di cercare gli strumenti per orientarsi nel <<labirinto>> della nuova realtà industriale avanzata, come precisa il fondamentale intervento di Calvino nel 1962 “La sfida del labirinto”.
Sonia Di Furia
Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.
“In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti. Passai per un ponte levatoio sconnesso, smontai di sella in una corte buia, stallieri silenziosi presero in consegna il mio cavallo. Salii una scalinata; mi trovai in una sala alta e spaziosa: molte persone- certamente anch’essi ospiti di passaggio, che mi avevano preceduto per le vie della foresta- sedevano a cena attorno a un desco illuminato da candelieri”.
Inizia così il racconto di Calvino, edito da Mondadori nella collana Oscar, con la presentazione dell’autore stesso e la postfazione di Giorgio Manganelli.
Il volume è composto di due testi: Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati. Nel primo le figurine che accompagnano il racconto riproducono il mazzo di tarocchi miniati da Bonifacio Bembo per i duchi di Milano verso la metà del XV secolo, che ora si trovano parte all’Accademia Carrara di Bergamo, parte alla Morgan Library di New York. Alcune carte del mazzo Bembo sono andate perdute, tra cui due molto importanti: Il Diavolo e La Torre.
Il secondo testo è costruito con lo stesso metodo mediante il mazzo dei tarocchi oggi internazionalmente più diffuso: L’Ancien Tarot de Marseille della casa B. P. Grimaud, che riproduce un mazzo stampato nel 1761 dall’incisore Nicolas Conver, maître cartier a Marsiglia e che, sbiadito e alterato dal tempo, è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Il mazzo marsigliese non è molto diverso dai tarocchi ancora in uso in gran parte d’Italia come carte da gioco; ma mentre in ogni carta dei mazzi italiani la figura è tagliata per metà e si ripete capovolta, qui ogni figura conserva la sua compiutezza di quadretto insieme rozzo e misterioso che la rende particolarmente adatta all’operazione di raccontare attraverso figure variamente interpretabili.
L’idea di adoperare i tarocchi come una macchina narrativa combinatoria venne a Calvino da Paolo Fabbri che, in un seminario internazionale sulle strutture del racconto del luglio 1968 a Urbino, tenne una relazione su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi. Di quell’apporto metodologico di ricerca, l’autore ha inteso prendere l’idea per cui il significato di ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono; partendo da questa idea, si è mosso in maniera autonoma, secondo le esigenze interne del suo testo.
Il riferimento letterario naturale è l’Orlando furioso; anche se le miniature di Bonifacio Bembo precedevano di quasi un secolo il poema di Ludovico Ariosto, esse potevano ben rappresentare il mondo visuale nel quale la fantasia ariostesca s’era formata.
Ogni carta è uno stemma e di carta in carta i narratori confessano le loro vicende tra incaute avventure e frettolosi amori. A uno a uno i taciturni ospiti seduti al tavolo diventano i protagonisti dei racconti e il lettore ne scopre vite e drammi, gioie e angosce infinite, in un gioco narrativo che coinvolge e sconvolge. A un certo punto nelle intenzioni dell’autore questo volume avrebbe dovuto contenere non due ma tre testi. Calvino avrebbe dovuto cercare un terzo mazzo di tarocchi abbastanza diverso dagli altri due. Ma quale avrebbe potuto essere l’equivalente contemporaneo dei tarocchi come rappresentazione dell’inconscio collettivo? Pensò ai fumetti, non a quelli comici, ma a quelli drammatici, avventurosi, paurosi: gangsters, donne terrorizzate, astronavi, vamp, guerra aerea, scienziati pazzi. Pensò di affiancare al Castello e alla Taverna, Il motel dei destini incrociati. Non andò oltre la formulazione dell’idea. Il suo interesse teorico ed espressivo per quel tipo di esperimento si era esaurito. Era tempo di passare ad altro.
Nel raccontare le storie altrui, quella dell’alchimista, della sposa dannata, del ladro di sepolcri, dell’Orlando pazzo per amore di Angelica, di Astolfo che sale sulla luna per recuperare il senno dell’amico racchiuso in un’ampolla (insieme a lacrime e sospiri d’amore, ozio, tempo perso nel gioco, desideri irrealizzati, doni fatti con speranza di ricompensa, tranne la pazzia, quella sta tutta sulla Terra), Calvino racconta la sua storia e la sua personale concezione della vita. Dissemina di qua e di là pensieri, riflessioni, opinioni, come quando scrive che: “Due diverse vie s’aprono a chi ha ancora da trovare se stesso: la via della passioni, che è sempre una via di fatto, aggressiva, a tagli netti, e la via della sapienza, che richiede di pensarci su e imparare a poco a poco“; oppure: “Il buffone ogni volta che apre la bocca, tra uno sberleffo e un lezzo, semina sospetti, dicerie denigratorie, angosce, allarmi“; o ancora riflette sul tempo che passa: “Per sentieri d’inchiostro s’allontana al galoppo lo slancio guerriero della giovinezza, l’ansia esistenziale, l’energia dell’avventura spesi in una carneficina di cancellature e fogli appallottolati“. E forse tutti ci riconosciamo in questo teatro della vita a cui Calvino ha tentato di dare ordine.
Sonia Di Furia
Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.