Un’ora in balia di Irène Némirovsky, di Teresa Lussone

Siamo a Parigi, all’inizio del Novecento. Il Carnevale di Nizza, testo che dà il titolo alla raccolta di racconti di Némirovsky appena pubblicata da Adelphi, si apre con uno scorcio su una delle piccole piazze più eleganti della città, Place de la Trinité, con il suo famoso giardinetto. L’inverno volge a termine, l’aria è mite. Si vedono due innamorati che passeggiano, lei con un abito lungo che striscia sulla ghiaia, lui con una paglietta e i baffi all’insù. E poi bambini che giocano, una bambinaia che culla un neonato mentre scherza con un soldato. Come se fosse un film, Irène Némirovsky immagina la musica che potrebbe fare da sottofondo alla scena, un valzer in cui si mescolano motivetti del tempo. Ecco comparire un vecchio dongiovanni con monocolo e ghette chiare. E poi una donna col volto coperto da una veletta di tulle con ricami su ricami che lasciano appena scorgere gli occhi luccicanti e inquieti di chi sta per raggiungere il proprio amante. Su di lei si posa lo sguardo da donna onesta di Simone, la protagonista del Carnevale di Nizza.

Simone è una tipica bellezza dell’epoca, un visetto fine e segnato, una vita florida. È la perfetta moglie borghese. Appena tornata a casa, nella sua cucina deliziosa come una casa di bambole, comincia a impastare… Eppure, un viaggio inaspettato a Nizza, durante il periodo del Carnevale, fa vacillare ogni sua certezza. Pur continuando ad amare il marito, Simone avverte dentro di sé sentimenti nuovi… Dopo un salto temporale di molti anni, la donna tornerà a riflettere su quell’episodio: nei suoi pensieri riconosceremo allora un’emozione tipicamente némirovskiana, una dolce nostalgia che accomuna molti racconti. A questo tema, però, se ne affiancano parecchi altri che ci danno idea di quanto è varia la scrittura di Némirovsky. 

I testi dedicati a Nonoche, con cui si apre la raccolta, sono delle scenette «infantili e allegre», come le definì l’autrice. Vi troviamo una ragazza un po’ sopra le righe, alla ricerca di un marito che la mantenga. Primissime prove della scrittrice, questi dialoghi comici saranno una sorpresa persino per i lettori più appassionati di Némirovsky. 

Nella Njanjia, invece, viene narrata la storia struggente di un’anziana donna che è stata costretta ad abbandonare la Russia e che non riesce ad adattarsi alla vita di Parigi, dove la neve non arriva mai… 

La sinfonia di Parigi racconta la storia di Mario, arrivato nella capitale pieno di belle speranze… Quanto ci ricorda Rastignac di Papà Goriot di Balzac? 

NataleLe rive feliciUn amore in pericolo svelano l’ipocrisia della vita borghese, come Némirovsky farà anche in Suite francese. La frustrazione per l’ambiente familiare torna anche nei Fumi del vino, vicenda ambientata durante la Guerra civile finlandese in cui vediamo in scena le più atroci passioni umane. E poi c’è Fraternità, dedicato a un’altra questione cara alla scrittrice, l’impossibile assimilazione di un ebreo.

La raccolta si chiude con I giardini di Tauride, ritrovato di recente da Elena Quaglia all’Institut Mémoires de l’Édition Contemporaine (a Caen), dove sono conservati tutti i manoscritti dell’autrice. Si tratta di un testo incompiuto in cui la storia della protagonista si alterna a delle annotazioni, un vero e proprio diario della scrittura in cui Némirovsky si interroga sulla forma del racconto e sulle differenze di questo rispetto al romanzo. Il racconto, difatti, non è il parente povero del romanzo, bensì un genere con caratteristiche proprie. La brevità della forma richiede una concentrazione della scrittura che non ha paragone con il romanzo. Nel racconto, si dice Némirovsky, occorre rinunciare al superfluo, «tutto deve essere fatto rapidamente», solo in tal modo si otterrà quell’intensità, che fa sì, come scrive Poe, maestro della forma breve, che in quell’ora consacrata alla lettura di ciascun testo, l’animo di chi legge sia completamente «in balia dello scrittore».

Teresa Lussone

Teresa Lussone è ricercatrice di Lingua e traduzione francese alla Università di Bari Aldo Moro. Specialista delle opere postume di Irène Némirovsky, ha curato con Olivier Philipponnat la nuova edizione di “Suite française” (Denoël, 2020) e di “Les Feux de l’automne” (Albin Michel, 2014).
Con Laura Frausin Guarino ha tradotto “Tempesta in giugno”, prima parte di Suite française (Adelphi, 2022). Ha scritto svariati articoli sull’autobiografia di Sartre e attualmente sta  preparando l’edizione di due opere di Sophie Cottin per Classiques Garnier. Ha curato per Adelphi la raccolta di racconti “Il Carnevale di Nizza” in libreria dal 21 gennaio scorso.

A.K. Blakemore: “L’insaziabile” (Fazi), la riproposizione di un mito, di Cristiana Buccarelli

Dopo aver letto circa un anno fa il romanzo di esordio di A. K. Blakemore Le streghe di Mannigtree (Fazi editore 2023), di cui scrissi all’epoca una recensione su Il Randagio, sono rimasta colpita molto favorevolmente da questa scrittrice così giovane e  promettente, pertanto ho affrontato di recente con grande interesse la lettura del suo secondo romanzo storico L’insaziabile (Fazi editore 2024) sempre con la traduzione di Velia Februari. 

Questo secondo romanzo, a mio avviso, conferma quanto sia valida la ricerca narratologica compiuta dalla Blakemore, la quale con uno stile elegantissimo e avvolgente, unito a una grande capacità narrativa, ci regala un nuovo romanzo che può definirsi davvero perturbante, nello stesso senso in cui l’autrice riporta questa parola in un dialogo tra i due medici Dupouis  e Courville che si occupano di Tarare, il tragico protagonista di questa storia, realmente vissuto nella Francia nel Settecento e testimone della Rivoluzione.

<<Però c’è qualcosa…qualcosa che non va in lui>> mormora Dupois. 

<<Si capisce al solo guardarlo, no? Qualcosa che va oltre la medicina>>  

<<Non c’è niente oltre la medicina>>, replica recisamente Courville. <<Solo ci mancano le parole per…>>

<<I tedeschi ce l’hanno una parola>>

<<Non hanno forse una parola per tutto?>>

<<Unheimlich>> conclude Dupuis. 

Nella postfazione l’autrice chiarisce la sua scelta di unire il dato storico e il mito e ci fornisce una spiegazione dell’elemento proprio che contaddistingue questo romanzo, il quale nasce sì dalla sua creatività, ma si basa anche sulla reale vicenda di un contadino francese apparsa sul “Journal de médicine, chirurgie, pharmacie” del 1804, pubblicata dal medico Pierre-Francoise Percy, che lo aveva avuto in cura, successivamente alla morte del soggetto in questione. Infatti nella postfazione la Blakemore scrive: <<Il mio intento nello scrivere questo romanzo non è stato rappresentare la verità, bensì offrire la più credibile riproposizione di un mito>>.

La Blakemore ha infatti la capacità di narrare le gesta quasi sovrannaturali di Tarare in maniera vivida e disturbante, così come solo una vera scrittrice può fare, sporcandosi le mani, immergendosi del tutto in un’esperienza umana abissale.  

Ma qual è la storia di Tarare? Credo sia una di quelle più tragiche e grottesche che si possano immaginare e ci viene raccontata da lui medesimo: un giovane uomo che nel settembre del 1798 sarà ricoverato all’Hospice civil de l’Humanitè di Versailles in condizioni disperate, e che prima di morire narrerà la sua vita alla giovane suora Perpetué. 

Egli nasce in un paese, lo stesso giorno in cui viene ucciso suo padre in una rissa, nel 1772 durante la festa di Saint Lazare. La madre giovane e poverissima per mantenerlo si dà alla prostituzione; in seguito quando Tarare è già adolescente la madre si lega a un farabutto che si dà ad affari poco leciti, tra cui il contrabbando del sale:

“…c’è stato un tempo in cui si contrabbandava il sale. Era una cosa che succedeva, ai vecchi tempi, quando il paese aveva un nome diverso. Quando gli uomini con le spade ingioiellate e le perruques bianche costringevano i contadini a contrabbandare il sale…”.

Nollett infatti è un essere crudele e anaffettivo, che prende di mira soprattutto Tarare, il quale è un ragazzino, semplice e ingenuo con un animo gentile, che non si uniforma allo stile di vita e alla disonestà del patrigno.

“Per dire qualcosa di buono su Tarare, forse basterebbe evidenziare che era incuriosito dal mondo e da tutto ciò che conteneva, e che questa curiosità in lui aveva generato una specie di amore. Forse basta dire che non c’era vera crudeltà in lui. Se la storia è un leone di pietra, Tarare è l’edera che gli invade la bocca”.

Quest’uomo terribile tenterà di ucciderlo, ma non ci riuscirà. Dal quel momento inizia la peregrinazione disperata di Tarare attraverso la Francia: incontrerà dei ladri saltimbanchi e girovaghi a cui si unirà. Ma dopo aver subito la violenza ignobile del patrigno e in qualche maniera un senso di abbandono al suo destino da parte della madre, Tarare cambierà per sempre. Comincerà a provare una fame incontenibile; l’homme sans fond divorerà qualunque cosa e sarà sfruttato da Lazou, il furbissimo capo dei saltimbanchi, come fenomeno da baraccone. 

Attanagliato da questo appetito insaziabile, nel costante desiderio di placare questa fame terribile, una volta giunto a Parigi si arruolerà nelle truppe rivoluzionarie, senza nessuna fede negli ideali rivoluzionari, ma esclusivamente nella speranza di essere nutrito. 

In realtà questa fame smisurata, nel senso in cui ce la descrive l’autrice, rappresenta un vuoto immenso, che è il vuoto di una creatura che si è sentita abbandonata; la sua condizione psicologica fa intuire come egli sia affetto da una forma di Picacismo, cioè un disturbo psicologico che spinge a ingerire qualsiasi cosa.

“L’unica cosa a cui pensa è la fame. La fame al mattino la fame alla sera la fame che lo sveglia di notte la fame su cui inciampa come una pietra smossa la fame che porta sulle spalle come una lettiga la fame amara la fame dolce (……..). Come domarla, se non può saziarla? Come affrontarla, se non è una creatura di carne e ossa? Non c’è rivoluzione che possa redimere Tarare. Lasciate cadere re e regine nella sua bocca spalancata e lui ne chiederà ancora”.

Le vicende di Tarare fino all’ultimo ricovero all’Hospice civil de l’Humanitè di Versailles, sono molteplici e, attraverso questa particolare vicenda umana, l’autrice riesce anche a raccontarci in maniera originale un momento storico cruciale che è quello della Rivoluzione. Siamo in un periodo di enorme scompiglio sociale: c’è l’odio verso gli aristocratici, il saccheggio delle loro case, ci sono le prime sommosse nelle campagne e nelle piccole città, c’è un richiamo del periodo del terrore e infine il preludio di quello che poi sarà l’impero napoleonico. La Blakemore scandaglia soprattutto il concetto di classe e il destino della povera gente, inoltre porta il lettore a interrogarsi sul senso ambiguo di questo nuovo mondo repubblicano che in realtà ripropone delle gerarchie di potere e di supremazia antiche quanto l’uomo stesso. 

L’insaziabile è un libro originale e struggente che si legge tutto d’un fiato. La storia di Tarare si conclude con le parole ‘’E tutto è perfetto, tutto è delizia’’, le quali, come rende noto l’autrice nella postfazione: <<provengono dalla descrizione dell’aldilà rivelata da una manifestazione spiritica …come riportato in ‘Immortali per caso, di uomini diventati divini senza volerlo’ di Anna Della Subin>>.

Cristiana Buccarelli  

Cristiana Buccarelli è dottore di ricerca in Storia del diritto romano. Ha vinto nel 2012 la XXXVIII edizione del Premio internazionale di Poesia e letteratura ‘Nuove lettere’ presso l’Istituto italiano di cultura di Napoli. Ha pubblicato la raccolta di racconti Gli spazi invisibili (La Quercia editore) nel 2015, il romanzo Il punto Zenit (La Quercia editore) nel 2017 ed Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) nel 2019. Con Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) ha vinto per la narrativa la V edizione del Premio Melissa Cultura 2020 e la IV edizione Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura 2020. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo storico I falò nel bosco (IOD Edizioni) con cui ha vinto per la narrativa la XVI edizione del Premio Nazionale e Internazionale Club della poesia 2024 della città di Cosenza. Nel 2023 ha pubblicato il romanzo Un tempo di mezzo secolo (IOD Edizioni) con il quale è stata finalista per la narrativa all’XI edizione del Premio L’IGUANA- Anna Maria Ortese 2024. Conduce da svariati anni laboratori e stage di scrittura narrativa. 

Il bitinicco arrabbiato – Vita agra di uno scrittore in libreria (Terzo Sberleffo): Il fuoco che ti porti dentro, Athos Zontini e altri paradossi della Letteratura, di Davide D’Urso

IL BITINICCO ARRABBIATO

VITA AGRA DI UNO SCRITTORE IN LIBRERIA

Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera – bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle”. 

Così scriveva Bianciardi, qualche tempo fa. Io sarò più misurato, mi limiterò a rompervi le palle.

TERZO SBERLEFFO 

IL FUOCO CHE TI PORTI DENTRO, ATHOS ZONTINI E ALTRI PARADOSSI DELLA LETTERATURA

Si fa un gran parlare – e a ragione – de Il fuoco che ti porti dentro, l’ultimo romanzo di Antonio Franchini, pubblicato dall’editore Marsilio. Il paradosso che qui s’intende affrontare è che il grosso dei lettori lo considera un nome nuovo – mentre l’autore, classe ’58, una dozzina di libri all’attivo, rappresenta da anni una delle voci più autorevoli del panorama letterario italiano. Gli addetti ai lavori, naturalmente, seguono da tempo il suo percorso, e con crescente interesse – benché, essendo lui un direttore editoriale, non si capisce mai quanto l’interesse sia rivolto allo scrittore e quanto al gigante dell’editoria che in effetti è.

In ogni caso, il fatto che sia poco conosciuto presso il grande pubblico è un fenomeno che desta non poche perplessità. Viene da chiedersi: dov’eravamo noi lettori quando, quasi trent’anni fa, usciva Quando vi ucciderete, maestro? o, poco più tardi, quell’altro capolavoro che ha per titolo L’abusivo? Ve lo dico io. Eravamo occupati a lamentarci. A guardare con nostalgia alla letteratura del passato rimpiangendo, che so, i Buzzati, i Cassola, i Bianciardi dei cosiddetti anni d’oro. Per non dire dei tre imprescindibili nomi – citati spesso congiuntamente, e quasi sempre a sproposito – Pasolini, Sciascia, Calvino. E forse, era solo un alibi di comodo per evitare di misurarci con un nuovo modo di fare letteratura.

Intanto, Franchini, ma anche Albinati, Walter Siti, Emanuele Trevi, Eraldo Affinati sfornavano un gioiello dopo l’altro. A distanza di trent’anni da Istruzioni per l’uso del lupoMaggio selvaggioIl contagioCampo del sangueScuola di nudo, questi scrittori sono ormai entrati a far parte del canone letterario, ottenendo perfino riconoscimenti di grande prestigio – per quanto, in alcune circostanze, i libri premiati non fossero i migliori della loro produzione. Insomma, una sorta di elogio alla carriera. Ed è probabile che un domani, paradossalmente, sentiremo ancora ripetere la solita nenia, questa volta dedicata a loro, i venerati maestri del futuro: non ci sono più i Franchini, gli Albinati, i Walter Siti di una volta! Dimenticando di aggiungere che quando pubblicavano le loro migliori opere erano ignorati dai più. 

Parallelamente, alcuni giovani ma già solidi autori stanno compiendo un percorso artistico di notevole interesse. Per ora ci limitiamo a ignorarli. Più in là decideremo se dare loro un premio. 

Un titolo su tutti? Orfanzia (Bompiani, 2016), di Athos Zontini. Un capolavoro. Dimenticato, ahimè. 

Ecco il punto. Ho la sensazione che l’industria culturale abbia talmente concentrato l’attenzione sul presente (sulle vendite, in particolare, da realizzare nell’immediato) da non concedere a uno scrittore la possibilità di trovare il proprio pubblico per dare vita a un dialogo sincero con i lettori. Lo stesso Franchini qualche anno fa scriveva: “Molte opere uscite dal dopoguerra all’inizio degli anni Sessanta hanno avuto tutto il tempo di farsi assorbire, di entrare nelle fibre profonde della società come una pioggia autunnale lenta e nutriente che imbeve il terreno poco alla volta”. 

Un libro, oggi, pochi mesi dopo la sua pubblicazione, è già considerato sorpassato. Nessuno più si mostra interessato ai temi che approfondisce, tanto meno all’autore che li affronta: né la critica, subissata di nuove uscite; né i librai, per la medesima ragione; né i lettori, che dalle proposte degli uni e degli altri dipendono. Non a caso si parla di novità del momento, perché sembra che la loro vita duri in effetti il lasso di un momento. Se una novità non fa immediatamente il botto – qualunque cosa voglia dire – è destinata a morire. Come se la letteratura, dopo secoli passati a indagare il Reale, inseguendo una qualche possibile forma di Verità, per quanto dolorosa, si debba oggi accontentare di esprimere un’arte minore, l’incomprensibile arte di fare il botto. 

E se cominciassimo a prenderci cura dei giovani autori? Leggendoli senza l’assillo di attenderci l’opera che cambierà il destino della letteratura? Dando non solo a questi scrittori il tempo di maturare, ma anche ai lettori la possibilità di seguirli nel loro percorso, crescendo insieme. Invece di abbandonarli a uno spietato quanto spesso ingiustificato oblio, dopo qualche mese di chiacchiericcio, per dedicarci con altrettanto fervore al nome successivo, e così via, in un circolo vizioso che non fa bene a nessuno. Eccetto ai bottegai dell’editoria, i rabdomanti del botto.

Ed evitando così di lamentarci un domani con il più stucchevole dei piagnistei: non ci sono più gli Zontini di una volta! 

Davide D’Urso


Davide D’Urso. Scrittore, libraio, operatore culturale. Dal 2013 dirige il punto vendita flegreo di Librerie.coop. Ha pubblicato “Il paese che non voleva cambiare” (Manni, 2007). “Incontri notevoli di un libraio militante” (Valtrend, 2012). “Tra le macerie”, (Gaffi – Italo Svevo, 2014). “I famelici” (Bompiani, 2021). “Fuoco sulla città” (Ad Est dell’Equatore, 2013) include il racconto, “Fuocoefiamme”. Nel 2022 viene scelto da Filippo La Porta per l’antologia “Gli occhi di Napoli” (Iod, 2022). I contigui è pubblicato all’interno dell’antologia “Napoli stanca”, a cura di Mirella Armiero (Solferino, 2023).

Elisa Chimenti: un punto di coesione fra l’Europa e il Mediterraneo, di Cristiana Buccarelli

 C’è una scrittrice e poetessa ormai quasi dimenticata che è stata una figura molto interessante e cosmopolita, di cui si è molto occupata di recente Camilla Maria Cederna, professoressa all’Università di Lille. Si tratta di Elisa Chimenti, la quale può collocarsi nell’orizzonte delle autrici della letteratura femminile dell’esilio, come le stesse scrittrici Agotha Kristov e Fausta Cialente, come la filosofa Maria Zambrano e molte altre.

Elisa Chimenti, poetessa, scrittrice e antropologa nasce a Napoli da genitori italiani nel 1883 e muore a Tangeri nel 1969 e può ritenersi una figura straordinaria, che ha messo in discussione qualsiasi forma di confine identitario. Da piccolissima si è trasferita con la famiglia da Napoli in Tunisia per dieci anni e poi a Tangeri in Marocco dove è cresciuta ed ha studiato una ventina di lingue, insieme ai testi di tutte le religioni monoteiste. È stata una donna di grande cultura, e queste sue ampie conoscenze sono presenti nella sua opera letteraria, infatti si tratta di una scrittrice ibrida, molteplice, con un pluringuismo che rappresenta bene il Mediterraneo. 

È stato un suo merito quello di aver riscritto e fatto conoscere le narrazioni di una tradizione orale di donne e di aver rappresentato questo patrimonio culturale femminile, attraverso i racconti di una raccolta che rappresenta un miscuglio di prosa e poesia: I canti delle donne arabe, pubblicata integralmente in Marocco nel 2009. Ciò avviene perché la Chimenti, giovanissima, segue il padre, il quale è andato via dall’Italia per questioni politiche, e che a Tangeri è diventato non solo medico del Sultano, ma anche medico del popolo e delle donne che va a curare nelle zone rurali. In questi luoghi lo segue la giovane Elisa come traduttrice e mediatrice tra medico e pazienti, così essa scopre un universo di storie presenti nella tradizione orale femminile berbera e raccoglie i racconti di queste donne nella raccolta sopra citata.

Elisa Chimenti in quegli anni si immerge totalmente nella cultura marocchina ed ebraica, a Tangeri frequenta una scuola ebraica e inizia a scrivere degli altri interessanti racconti tra cui Les Sortilège, tutti ambientati in Marocco.

A Tangeri tra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del nuovo secolo ci sono, per diversi motivi, molti immigrati ed esiliati europei, sono soprattutto spagnoli, tedeschi, francesi e italiani; questo è il contesto multiculturale in cui si forma l’autrice e ciò si riflette nella sua scrittura, infatti i suoi testi pubblicati in Francia e in Marocco sono espressione di una apertura linguistica e culturale. 

Sono stati ritrovati anche dei suoi testi inediti di poesia, pubblicati di recente per la rivista Atlante dell’Università di Lille; nella raccolta, intitolata Marra, lei si riferisce a un uomo amato e a una situazione sentimentale difficile che ha vissuto con un diplomatico e traduttore algerino, dopo essersi allontanata dal marito polacco, Dombrowskj, che aveva conosciuto durante un periodo di studio in Europa: quest’ultimo aveva gravi problemi psichici e aveva tentato di ucciderla subito dopo il matrimonio.

Tuttavia la Chimenti è una donna che non si fa fermare da nulla e che non demorde mai. Nel 1914 fonda a Tangeri con la madre una scuola italiana e interculturale molto apprezzata, quando poi il regime fascista italiano si infiltrerà anche a Tangeri, creando varie istituzioni tra cui un’altra scuola italiana, che ovviamente non è quella della Chimenti, lei e la madre riusciranno a trasferire la loro scuola in un palazzo del Sultano, ma saranno osteggiate dal regime e nel 28’ saranno costrette a chiudere la scuola che avevano fondato, trovandosi in una situazione economica difficile.

Eppure Elisa Chimenti continuerà a lavorare come scrittrice e anche come giornalista.

Al cuore dell’Harem (Edizioni E/O 2001) è l’unico romanzo della Chimenti pubblicato in italiano, a cura di Emanuela Benini. 

Il romanzo ruota attorno alla vita delle donne con le relazioni complicate che esse intrecciano, La protagonista, Lallà Sakina, attraversa una fase dolorosa della sua vita: suo marito, Si Bu Gemà, lavora presso la Legazione francese e intende prendere una seconda moglie. Sakina si ribella a questa decisione, anche se non direttamente, di fatto cerca di opporvisi in tutti i modi possibili. L’universo femminile che si raccoglie intorno a Sakina è costituito da donne musulmane, ebree, cristiane. I dialoghi sono molto importanti nel romanzo, essi affrontano temi vari: il velo, la poligamia, oggetto, peraltro, di riprovazione morale da parte dell’universo femminile raffigurato dall’autrice, il concubinaggio, la prostituzione. La lingua è un francese ibrido, meticciato; si tratta infatti di un francese ricco di termini arabi, berberi, ebraici e darija (cioè unione di diversi dialetti marocchini) e di una sintassi a sua volta frutto della confluenza delle varie lingue, ben salde nel bagaglio culturale della Chimenti. In pratica si è in presenza di una nuova lingua viva, espressiva, che molto deve all’influenza delle poesie e dei racconti della tradizione orale di cui si accennava prima. L’atteggiamento dell’autrice verso i suoi personaggi rivela una sensibilità particolare, una conoscenza approfondita della società a cui appartengono. Su questo mondo lei non si permette alcun commento personale, lascia, infatti, parlare le varie figure femminili ed ha uno sguardo leggermente ironico. Si sofferma sui destini di mogli, prostitute, bambini, ma anche degli animali e della natura, dei monti, delle piante, dei fiumi e del mare. Ci sono anche riferimenti al momento storico, alla presenza francese in Marocco, alle ribellioni in alcune zone del paese. Si delinea una Tangeri agli albori del protettorato, una città internazionale, cosmopolita, ma anche scossa dai segni di una crisi sociale di cui risente la vita dei suoi personaggi.

Elisa Chimenti è stata in vita molto poco conosciuta e in seguito del tutto ignorata; questo può spiegarsi con il fatto che non ha avuto un’unica identità culturale: nel suo caso lo sradicamento è avvenuto dall’infanzia e la sua opera può ritenersi parte di una letteratura femminile dell’esilio. Cioè la Chimenti può collocarsi tra quelle autrici che tra l’800’ e il 900’ hanno vissuto l’esilio per motivi familiari o politici e che hanno dovuto ricostruire la loro identità letteraria e linguistica altrove. 

Cristiana Buccarelli  

Cristiana Buccarelli è dottore di ricerca in Storia del diritto romano. Ha vinto nel 2012 la XXXVIII edizione del Premio internazionale di Poesia e letteratura ‘Nuove lettere’ presso l’Istituto italiano di cultura di Napoli. Ha pubblicato la raccolta di racconti Gli spazi invisibili (La Quercia editore) nel 2015, il romanzo Il punto Zenit (La Quercia editore) nel 2017 ed Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) nel 2019. Con Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) ha vinto per la narrativa la V edizione del Premio Melissa Cultura 2020 e la IV edizione Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura 2020. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo storico I falò nel bosco (IOD Edizioni) con cui ha vinto per la narrativa la XVI edizione del Premio Nazionale e Internazionale Club della poesia 2024 della città di Cosenza. Nel 2023 ha pubblicato il romanzo Un tempo di mezzo secolo (IOD Edizioni) con il quale è stata finalista per la narrativa all’XI edizione del Premio L’IGUANA- Anna Maria Ortese 2024. Conduce da svariati anni laboratori e stage di scrittura narrativa. 

“Stella Maris”: il testamento spirituale di Cormac McCarthy, di Cristiana Buccarelli

Stella Marisl’ultimo romanzo di Cormac McCarthypubblicato in Italia nel dicembre 2022 da Einaudi subito dopo Il passeggero nell’ottobre del 2022 (entrambe le opere sono tradotte da Maurizia Balmelli), è l’ultimo lascito spirituale di un grande scrittore dalla forza espressiva straordinaria.  

Si tratta di un romanzo realizzato interamente in forma dialogica, in cui la protagonista è Alicia Western, una matematica geniale di appena vent’anni, dottoranda presso l’Università di Chicago e consapevole di essere affetta da una forma di schizofrenia paranoide con tendenze suicide e allucinazioni visive e uditive, già da tempo diagnosticata. 

Siamo nel 1972 e il dialogo tra Alicia e il dottor Robert Cohen, lo psichiatra che la prende in cura, si svolge in più giorni e sempre all’interno di una stanza della struttura psichiatrica Stella Maris nel Wisconsin, dove la ragazza è arrivata di sua volontà qualche giorno prima in autobus e senza alcun bagaglio, portando con sé una busta piena di centinaia di dollari, parte dell’eredità lasciatale dalla nonna. 

Alicia racconta tranquillamente al dottore della schiera di personaggi allucinatori che l’accompagnano dall’adolescenza, tra i quali spicca quello che lei definisce il Talidomide Kid, un essere pennuto con cui ha dialogato nella sua mente per moltissimo tempo. 

‘’ A lei quanto reali sembrano? Cos’hanno? Qualcosa di onirico?

Non credo. Le figure oniriche mancano di coerenza. Ne intravedi dei pezzi e il resto ce lo metti tu. Un po’ come con il punto cieco. Mancano di continuità. Si tramutano in altri esseri. Senza contare che il paesaggio in cui si muovono è un paesaggio onirico’’  

La storia della famiglia di Alicia è abbastanza complessa: si tratta di una famiglia ebrea di origini rumene emigrata da molto tempo in America; in particolare il padre di Alicia aveva avuto un rapporto professionale con Oppenheimer e aveva fatto parte degli scienziati del progetto Manatthan che aveva portato alla realizzazione della bomba di Hiroshima e in Stella Maris tutta la questione, già considerata ne Il Passeggero, viene espressa in una forma più intima e umana. Alicia è vissuta da bambina con la madre e la nonna e il fratello Bobby, protagonista de Il Passeggero, al quale appare legata da un sentimento d’amore indissolubile e incestuoso.

‘’Sapevo che lui mi amava. Era solo spaventato. Sapevo da un pezzo che saremmo arrivati a quel punto (…) In macchina l’ho baciato. Ci siamo baciati due volte, per la precisione. La prima volta piano piano. Lui mi ha accarezzato la mano come se fosse una cosa del tutto innocente e si è girato per mettere in moto ma io gli ho messo la mano sulla guancia e gli ho girato la testa verso di me e ci siamo baciati di nuovo e stavolta non c’era nessuna innocenza e gli ha tolto il respiro. E l’ha tolto anche a me. Ho posato la faccia sulla sua spalla e lui ha detto non possiamo. Lo sai che non possiamo’’      

Ma mentre Alicia racconta questo al dottor Cohen, suo fratello è in coma irreversibile e non si incontreranno mai più. Tuttavia è importante ricordare che in America i due romanzi uscirono contemporaneamente e Bobby e Alicia possono considerarsi, secondo parte della critica, come due facce della stessa medaglia.

È infatti particolare come nel primo romanzo, Il Passeggero, ci sia solo Bobby in quanto Alicia è già morta suicida, per cui c’è un riferimento a quest’ultima solo attraverso dei brani in corsivo riguardanti i ricordi del passato, mentre in Stella Maris, Alicia, già all’inizio del suo lungo dialogo con il dottor Cohen afferma che suo fratello è in coma da tempo.

È come se i due personaggi protagonisti dei due romanzi siano in realtà due aspetti di una medesima personalità; lui la parte più razionale e lei quella più intima e indagatrice sull’esistenza nella sua totalità.    

McCarthy infatti, soprattutto attraverso il personaggio di questa giovane donna dall’intelligenza straordinaria, affronta il tema del rapporto tra la realtà e la sua possibile rappresentazione, richiamando Kant e altri filosofi sul problema della conoscibilità oggettiva della realtà.

’La natura spirituale della realtà è da sempre la principale preoccupazione del genere umano ed è ben lungi dallo smettere di esserlo. L’idea che tutto sia soltanto materia a quanto pare non ci sta bene’’

Quanto il fisico può essere complesso senza il metafisico? Attraverso Alicia l’autore propone delle riflessioni esistenziali e filosofiche sulle più grandi tematiche dell’uomo in ogni tempo. Inoltre la stessa struttura del libro in forma di dialogo ricorda i Dialoghi di Platone, il quale viene citato insieme a Kant con queste parole:

’Non sfuggirò mai a Platone. O a Kant’’

I temi fondamentali della natura del linguaggio, della matematica, della fisica quantistica e dell’inconscio vengono espressi con grande acume, lucidità e originalità dalla protagonista, la quale afferma ad esempio che la matematica sia un prodotto dell’inconscio e che di conseguenza anche la matematica sia un linguaggio che cerca di tradurre e fissare ciò che si nasconde dietro la realtà, ma che fa anche parte della natura stessa. 

E infine, a proposito del linguaggio in sé dichiara:

‘’…bisogna capire cosa è stato l’avvento del linguaggio. Per un bel po’ di milioni di anni il cervello se l’era cavata piuttosto bene senza (…) Ha cooptato quelle aree del cervello che erano meno attive. Maggiormente suscettibili ad essere assoggettate. Un’invasione parassitaria. (…..) Le uniche regole evolutive che il linguaggio osserva sono quelle necessarie alla sua stessa costruzione. Un processo avvenuto in poco più di un batter d’occhio.

Invece riguardo al concetto di universo, Alicia afferma:

’Una delle cose di cui ho preso coscienza è che l’universo è evoluto per miliardi e miliardi di anni nell’oscurità e nel silenzio assoluti e che il modo in cui lo immaginiamo non corrisponde a quello che è. In principio c’è sempre stato il nulla. Le novae che esplodevano in silenzio. Nell’oscurità assoluta. Le stelle, le comete fugaci. Nel migliore dei casi tutto di un’esistenza ipotetica. Fuochi neri. Come i fuochi dell’inferno. Silenzio. Nulla. Notte. Soli neri a guidare i pianeti in un universo dove il concetto di spazio era privo di senso per mancanza di una fine. Per mancanza di una nozione cui contrapporlo. E di nuovo la questione della natura di quella realtà che non aveva testimoni. Tutto questo finché la prima creatura vivente dotata di vista ha acconsentito a che l’universo si imprimesse sul suo apparato sensorio primitivo e tremulo e poi a corredarlo con colore e movimento e memoria. Ha fatto di me una solipsista dalla sera alla mattina e in qualche misura lo sono ancora’’

Si può dunque dire che con Stella Maris e il suo linguaggio sobrio ed esistenziale, pregno di immagini e di tracce simboliche, Cormac McCarthy riesca a esprimere il suo nichilismo e ci lasci, attraverso una sua personalissima e profonda interpretazione dell’esistenza, un prezioso testamento spirituale.      

Cristiana Buccarelli  

Cristiana Buccarelli è dottore di ricerca in Storia del diritto romano. Ha vinto nel 2012 la XXXVIII edizione del Premio internazionale di Poesia e letteratura ‘Nuove lettere’ presso l’Istituto italiano di cultura di Napoli. Ha pubblicato la raccolta di racconti Gli spazi invisibili (La Quercia editore) nel 2015, il romanzo Il punto Zenit (La Quercia editore) nel 2017 ed Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) nel 2019. Con Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) ha vinto per la narrativa la V edizione del Premio Melissa Cultura 2020 e la IV edizione Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura 2020. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo storico I falò nel bosco (IOD Edizioni) con cui ha vinto per la narrativa la XVI edizione del Premio Nazionale e Internazionale Club della poesia 2024 della città di Cosenza. Nel 2023 ha pubblicato il romanzo Un tempo di mezzo secolo (IOD Edizioni) con il quale è stata finalista per la narrativa all’XI edizione del Premio L’IGUANA- Anna Maria Ortese 2024. Conduce da svariati anni laboratori e stage di scrittura narrativa.