Remo Rapino: “Fubbàll” (Minimum Fax), di Gigi Agnano

“Certi giorni mi sento un albero di mele marce, altri un randagio smarrito che si allena a far finta di niente.

C’è un calcio che non esiste più da raccontare, un calcio periferico o di provincia giocato su campetti sterrati e polverosi, fatto di sacrifici e passioni autentiche, lontano dai riflettori, dal business e dai troppi soldi. In quegli stadi improvvisati, a bordo campo o dietro una porta senza rete, che ci fosse un sole africano, o il freddo e la pioggia, c’erano i tifosi, custodi di una passione che si tramandava di padre in figlio, che vociavano e urlavano, soffrivano e si dimenavano. C’era la poesia che va scritta di quei ricordi intimi, di un mondo di sentimenti che ancora scorre nelle vene di chi quel calcio perduto l’ha vissuto e masticato.

Con Fubbàll, Remo Rapino compone questo canto popolare, attacca con la colla di farina le figurine sull’album Panini dei calciatori anonimi, dimenticati, sempre perdenti tranne che in rare occasioni epiche, di un’epica da bar di paese che vale la pena celebrare e ascoltare.

Dodici biografie di uomini semplici – una per ciascun ruolo più quella dell’allenatore – che raccontano un calcio che si misura col sudore, le delusioni, i ricordi, le cicatrici e i rimpianti. Dodici uomini – avrebbe detto Gianni Mura e lo diceva di Pelè – “con niente di speciale”: dal portiere anarchico Milo il gatto con la dote del silenzio, che con quelle mani poteva fare solo il portiere o il carpentiere, al difensore coraggioso e macellaio, “limitato ma di cuore”, che si fa apprezzare non tanto per il talento ma per l’anima che mette in campo; passando per centrocampisti saggi e generosi, poesia e geometria, che fanno l’ uncinetto con i piedi “balzanti e sbirolenti”(Gianni Brera); fino all’attaccante segnato dalla vita e dagli infortuni. Dice il terzino Glauco: “non sempre la vita ti regala poesie, anzi spesso te le toglie”. 

I calciatori di Rapino ci portano con la mente alla poesia popolare di Saba, che in “Tre momenti” raccontava il calcio come un atto gioioso di comunione umana (“Festa è nell’aria, festa in ogni via,/ se per poco, che importa? “) e al Pasolini frequentatore assiduo a Bologna dello stadio Comunale e dei prati di Caprara (“i pomeriggi più belli della mia vita”), quello della rubrica “Il caos” per il settimanale Il Tempo dove poneva il suo sguardo critico sul “corpo dell’atleta”, evidenziando contraddizioni sociali e culturali che ancora oggi si rispecchiano nello sport. I personaggi marginali di Rapino hanno l’umanità e l’ironia delle voci di Soriano, quelle dei giocatori “tristi che non hanno vinto mai” di De Gregori, che affrontano la fatica e non si arrendono; richiamano alla memoria il calcio di “splendori e miserie” di Eduardo Galeano, per cui quando c’è la partita “si ferma il respiro del Paese, tacciono i politici, i cantori e i ciarlatani da fiera, gli amanti frenano i loro amori e le mosche interrompono il volo”.

Fubbàll è così la testimonianza che si fa canto corale di un calcio che non c’è più, ma che sopravvive pulito e genuino nei cuori di chi l’ha amato, un atto di memoria che restituisce dignità e valore a vite altrimenti anonime e sogni sui quali “si deve leggere la scritta Fragile”. Il lettore non legge solo storie di calcio, ma di quelle storie riconosce il pregio anche se il calcio non gli interessa affatto, perché Rapino, con uno stile in bilico tra l’ironico e il poetico, tratteggia esistenze polverose, intrise di nostalgia e va al nocciolo di un mondo complesso e passionale, profondamente umano. I suoi personaggi non sono supercampioni tatuati dalla testa ai piedi, ma persone normali che, come tutti noi, si accapigliano con la vita e perdono palla all’ultimo dribbling.

Remo Rapino, abruzzese, è stato docente di storia e filosofia. Dal 1993 ha pubblicato numerose opere di poesia e narrativa. Nel 2019 esce con Minimum Fax il suo romanzo più noto e apprezzato “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”, che si aggiudica l’edizione 2020 del Premio Campiello, risulta finalista del Premio Napoli e candidato allo Strega. Sempre con Minimum Fax ha pubblicato nel 2021 “Cronache dalle terre di Scarciafratta” e nel 2023 la raccolta di racconti Fubbàll, vincitore del Premio per la Letteratura Sportiva Gianni Mura. In questi giorni è in uscita la sua ultima fatica dal titolo “La Scortanza”.

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori de “Il Randagio – Rivista letteraria“, nato il 15 ottobre 2023, anniversario della nascita di Italo Calvino.

Ottobre: il mese di Calvino al Randagio, di Gigi Agnano

“Improvvisamente ha guardato negli occhi i suoi lettori e ha detto con voce chiara e netta: cercate pure dentro di me, non troverete nulla.” (Ernesto Ferrero, Italo, Einaudi, 2023)

Il 15 ottobre rappresenta per noi de Il Randagio una data dal duplice valore simbolico: non solo celebriamo il secondo anniversario della nostra rivista, ma rendiamo anche omaggio a uno dei più grandi autori italiani del Novecento, Italo Calvino, nato proprio il 15 ottobre del 1923. Per questo, nella prima metà del mese, lo spazio che Il Randagio cerca faticosamente di ritagliarsi tra i Social sarà interamente dedicato a Calvino. Dal 1° al 15 proporremo una serie di articoli, disponibili anche sul nostro sito, per invitare a rileggere la sua opera e approfondire qualcuna delle tematiche che lo hanno consacrato come pilastro imprescindibile della letteratura contemporanea.

Ancora oggi ci chiediamo perché, due anni fa, decidemmo di far coincidere la nascita della nostra rivista con quella di Calvino, e la risposta ha certamente a che fare con l’ammirazione, con il fascino, la simpatia, la profondità, l’ironia, l’eleganza che per noi questo autore rappresenta. Ma è soprattutto un aspetto “caratteriale” a farcelo sentire vicino in modo speciale, come accade solo a pochi grandi classici. È un paradosso: in un panorama letterario contemporaneo dominato dall’autofiction, dal racconto confidenziale e dalla narrazione intima, noi avvertiamo quasi d’istinto una più profonda confidenza con “lo scrittore invisibile”, l’autore che si mostra poco, il timido, lo schivo. Quell’autore che, come ricordava Citati, «non sapevi mai su quale ramo dell’immenso albero della vita facesse il proprio nido», lo “scoiattolo con la penna” che balbetta di una “balbuzie interiore”, lontano da ogni compiacimento narcisistico e quasi mai protagonista diretto dei propri racconti. Scriveva di lui Pasolini in un poemetto del 1960 “ la sua semplicità / non grigia, la sua misura non tediosa, / la sua chiarezza non presuntuosa. / Il suo splendido amore per il mondo / lievitato e contorto della favola”.

Calvino è il Randagio letterario per antonomasia. Con le sue sperimentazioni narrative, i continui “cambi di rotta”, le variazioni di stile e voce, permette a noi lettori randagi di vagabondare tra mondi e generi diversi senza mai perdere il piacere di leggere: dal realismo del “Sentiero dei nidi di ragno” al meraviglioso fantastico della trilogia “I nostri antenati“, fino a “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, dove dieci incipit di romanzi, tra loro diversissimi per genere (romanzo d’ambiente, psicologico, poliziesco, erotico ecc.), per tradizioni narrative (americana, latino-americana, russa…) e per fonti d’ispirazione (Borges, naturalmente, ma anche Juan Rulfo, Onetti, Nabokov, D.H. Lawrence, Tanizaki, Kawabata, Joseph Roth, Thomas Bernhard, Graham Greene, Landolfi) si intrecciano in una sfavillante fantasmagoria letteraria.

Calvino ci affascina perché, quando pensi di averlo compreso, ti depista; quando credi di averlo riconosciuto, finge di essere un altro; se t’illudi di averne individuato le tracce, le confonde o le cancella. Questo suo essere sfuggente lo ha pure teorizzato: nella fondamentale prefazione all’edizione del 1964 del Sentiero, scrive: «Quando cominciai a scrivere storie in cui non entravo io, tutto prese a funzionare: il linguaggio, il ritmo, il taglio erano esatti, funzionali; più lo facevo oggettivo, anonimo, più il racconto mi dava soddisfazione». E ancora, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, Flannery, uno degli autori degli incipit, esprime il desiderio di cancellare se stesso «e trovare per ogni libro un altro io, un’altra voce, un altro nome, rinascere».

Calvino si definiva uno “scrittore invisibile”, un osservatore defilato la cui presenza emerge appena nei mondi fantastici e nei personaggi simbolici o metaforici nati dalla sua straordinaria immaginazione.

Con gli articoli che proporremo nei prossimi giorni, Il Randagio intende entrare con la consueta modestia, in punta di piedi e – come si usava un tempo – «con le pattine», in alcuni tra i mille frammenti di quei mondi, di quei personaggi, nelle molteplici “invisibilità” calviniane. Ci piacerebbe che questo ottobre non fosse soltanto un compleanno, ma una vera esperienza di conoscenza, riscoperta e rilettura di un autore capace di insegnarci a guardare la realtà da angolazioni inattese.

Per noi, ottobre è il mese di Calvino: lui gioca a nascondino, e noi lo andiamo a cercare.

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori de “Il Randagio – Rivista letteraria“, nato il 15 ottobre 2023, anniversario della nascita di Italo Calvino.

Georgi Gospodinov: “Il giardiniere e la morte” (Voland, trad. Giuseppe Dell’Agata), di Gigi Agnano

Nell’ultimo canto dell’Odissea assistiamo a uno dei momenti più intensi e toccanti della letteratura universale. Ulisse, dopo un decennio di peregrinazioni, torna a Itaca in incognito e, travestito da mendicante, si reca al podere dove lavora il padre Laerte, ormai anziano e in abiti trasandati. Non riconosciuto, Ulisse lo elogia per la cura delle piante e, solo dopo qualche tentennamento, si rivela, ma Laerte scettico gli chiede una prova. Ulisse gliene fornisce due: mostra la cicatrice di una vecchia ferita lasciata da un cinghiale e elenca con precisione gli alberi da frutta (peri, meli, fichi, viti) che il padre gli aveva donato da bambino. La commozione è tale che Laerte sviene tra le braccia del figlio.

Se si volesse immaginare una serie televisiva, l’ultimo libro di Georgi Gospodinov, “Il giardiniere e la morte”, tradotto da Giuseppe Dall’Agata e pubblicato da Voland, rappresenterebbe probabilmente il “sequel” dell’episodio omerico.

Con un incipit che trasforma il lutto in poesia – “Mio padre era un giardiniere. Ora è giardino.” -, Gospodinov elabora un commosso addio al padre; un testo intimo che rappresenta con estrema delicatezza la tenerezza e il dolore imparagonabili che si provano dinanzi al tramonto e alla perdita di un genitore.

Scritto su un taccuino con la stessa mano che ha stretto quella del padre malato di cancro, il libro è una raccolta di frammenti, di ricordi che attraversano le diverse stagioni della vita di entrambi, di riflessioni sull’invecchiamento e la malattia, di aneddoti che trasudano malinconia ma anche un lieve umorismo (“le storie divertenti per ogni evenienza”). Emerge così il ritratto di un uomo forte, temprato da una vita dura, riservato, spesso assente, incapace di dimostrare l’affetto con abbracci o baci, eppure generoso nell’affrontare le difficoltà con un “niente di grave”, una formula per non essere di peso ai figli, per rassicurarli, equivalente ad un “non preoccupatevi, va tutto bene”.

A chi è chiuso e introverso spesso accade di dedicarsi a un’attività solitaria e il padre, infatti, riserva tutte le sue attenzioni e  la sua gentilezza ad un giardino. Gli si dedica con ostinazione – arando, seminando, innaffiando – anche e soprattutto quando la diagnosi è chiara, le forze cominciano a mancare e la malattia inizia a prendere il sopravvento. È la sua lotta contro l’inevitabile. È evidente la metafora che interessa Gospodinov come figlio e scrittore: le piante e gli alberi per il giardiniere sono come per il narratore i ricordi e le storie, gli sopravvivono. Il giardino come la pagina scritta, mantiene viva la memoria di chi se ne prende cura; continua a crescere, a fiorire e a produrre frutti anche quando chi lo ha piantato non c’è più. Il giardino come la scrittura, come ogni atto di creatività e di cura, è un presidio di vita contro la morte.

Già in “Fisica della  malinconia” Gospodinov aveva fatto ricorso al mito di Sherazade, la narratrice delle “Mille e una notte”. Come Sherazade guadagna un giorno di vita dispensando ogni notte una storia nuova, così ne “Il giardiniere e la morte” le storie che l’autore raccoglie nel taccuino e la cura del giardino da parte del padre sono un modo per ritardare la fine, per resistere al dolore e mantenere vivo ciò che è prossimo a sparire. 

Scrive Gospodinov: “Questo non è un libro sulla morte ma sulla malinconia per la vita che se ne va”. O ancora: “Mio padre è morto e mio padre sta morendo – sono due frasi del tutto diverse. La prima è un fatto, una conclusione, l’altra è un romanzo”. In tal senso, “Il giardiniere” più che un libro sulla fine – che in quanto fine non ha più nulla da raccontare – è paradossalmente un libro sulla vita (“La morte è un ciliegio che matura senza di te”). 

Infatti, benché l’opera descriva l’esperienza dolorosa di accompagnare il padre fino all’ultima soglia, Gospodinov riesce a trasmettere una sensazione primaverile di rinascita, una “luce morbida” e un calore consolatori. Il libro ci dona un sillabario della tenerezza, una grammatica delle emozioni familiare a chiunque abbia affrontato un’esperienza simile. Più che un romanzo, il libro sembra nascere come un percorso di scrittura terapeutica teso a elaborare il lutto, che l’autore ha solo successivamente deciso di condividere con i lettori. 

“Dei padri si scrive con maggiore difficoltà. Forse perché nell’infanzia continua a esistere un invisibile cordone ombelicale con la mamma, lei è ovunque intorno a te, lei ti prepara il pranzo, lei si prende cura di te quando sei malato, ti mette la mano sulla fronte, lei è l’aria in cui tu nuoti. Il padre è una cosa più opaca, incerta e oscura, talvolta minaccioso, spesso assente, aggrappato al bocchino della sigaretta, lui nuota in altre acque e altre nuvole”.

Pur potendo apparire confinato nell’ampia gamma di scritti spesso tutti uguali sulla perdita dei genitori, inclini a cadere in cliché sdolcinati e in lacrimevoli luoghi comuni (romanzi un po’ furbi che sfruttano il fatto che il lettore non fatica ad identificarsi e a commuoversi); “Il giardiniere e la morte” si distingue per il rigore di una prosa essenziale, misurata e lontana da qualsiasi enfasi. Gospodinov offre una narrazione priva di artifici melodrammatici, ricca di autentica intensità emotiva e profondità di pensiero, che si inserisce in modo coerente e significativo nel suo straordinario percorso narrativo. 

“Mio padre se n’è andato. Non so cosa fare.”

Come tutta la produzione pregressa (“Romanzo naturale”, “Fisica della malinconia”, “Cronorifugio”), anche “Il giardiniere” si confronta con i temi e le riflessioni cari all’autore bulgaro: il tempo, la memoria, la perdita, la malinconia. E come spesso accade nei suoi libri, una vicenda intima diventa l’occasione per raccontare una storia collettiva: la morte del padre coincide simbolicamente con la fine di un mondo e di una generazione cresciuta a cavallo della caduta del regime.

Quello che in quest’opera forse un po’ manca – parliamo di un libro scritto, per ammissione stessa dell’autore, in soli quattro mesi – è lo slancio di originalità, la ricchezza di sfaccettature, di riflessioni, di digressioni bizzarre, di spunti geniali che aveva caratterizzato i suoi lavori precedenti. Se Gospodinov dovesse un giorno – magari anche quest’anno – aggiudicarsi un meritatissimo Nobel, probabilmente non sarà per quest’opera; tuttavia “Il giardiniere e la morte”, per il suo carattere delicato e commovente, potrebbe rappresentare un ottimo primo approccio alla narrativa dell’autore di “Cronorifugio” e di “Fisica della malinconia“, che comunque conferma il suo immenso talento e la statura di una delle voci più importanti della letteratura contemporanea. 

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori de “Il Randagio – Rivista letteraria“, nato il 15 ottobre 2023, anniversario della nascita di Italo Calvino.

Nadeesha Uyangoda, “L’unica persona nera in una stanza” e “Corpi che contano”, di Gigi Agnano

La concomitanza con l’appuntamento referendario, in particolare con il quesito sulla cittadinanza, offre al Randagio l’occasione perfetta per parlare di Nadeesha Uyangoda e dei suoi libri.

Non mi piace annoiare il prossimo raccontando aneddoti personali, ma per presentarvela, faccio un’eccezione… giurando di non rifarlo più!
Qualche mese fa, durante un viaggio in Indonesia, mi è capitato un episodio che ancora oggi mi fa sorridere con una punta di fastidio. Sono un terrone doc, cresciuto all’ombra del Vesuvio, e quando sei lontano da casa e incontri altri italiani, scatta spesso quella voglia di scambiare due chiacchiere, magari condividere un pezzo di viaggio. Durante un’escursione in barca, mi ritrovo con una coppia anziana di veneti, rilassata, simpatica, persino di centrosinistra. Tutto tranquillo, finché, costeggiando un’isoletta con un villaggio di baracche malconce, tra lamiere arrugginite e legno marcio, il marito guarda la scena e dice alla moglie: “Pensa come stanno messi ‘sti marocchini!” Poi si volta verso di me e aggiunge: “Scusa, eh!”
In quel “scusa” c’era un universo di sottintesi. Non si stava scusando per un’espressione infelice, ma per dirmi che, nonostante la mia napoletanità, non mi considerava – bontà sua – parte di quella categoria marocchina che, nella sua testa, era sinonimo di miseria, arretratezza, ecc…

Un momento imbarazzante, a prenderlo bene anche un po’ comico, che mi ha fatto riflettere su come il pregiudizio possa infilarsi in episodi apparentemente banali. Ci sono infatti occasioni che ti pongono di fronte a piccole espressioni di razzismo che, pur sembrando innocue o dette en passant, sono insopportabili quanto i grandi gesti d’intolleranza. Quelle parole, magari sussurrate, ti ricordano che il pregiudizio può ferire anche senza essere urlato. Talvolta basta un dettaglio, una smorfia, per capire quanto il razzismo sia radicato e difficile da estirpare.

Ma, per fortuna, a me episodi come questo capitano raramente. Mettiamoci invece nei panni di “una persona nera” in un Paese come il nostro, dove le battute insolenti o certi sguardi sono all’ordine del giorno.

È qui che entra in gioco Nadeesha Uyangoda, una voce che dovremmo tutti ascoltare. Nata a Colombo nel 1993, dall’età di sei anni in Brianza, la Uyangoda è una scrittrice italiana di origini singalesi che, con due libri, un podcast e articoli su giornali e riviste prestigiose, racconta l’Italia da una prospettiva che manca ancora quasi del tutto nel dibattito pubblico. La sua forza? Sa parlare di temi seri – a volte dolorosi – con una leggerezza e un’ironia che ti fanno sentire come se stessi chiacchierando con un’amica brillante, sincera, intelligente, mai scontata.

Il suo primo libro, “L’unica persona nera nella stanza” (66thand2nd, 2021), è un reportage sulla quotidianità di chi vive in un Paese dove essere neri può significare soltanto che sei “straniero” e “extracomunitario”, anche se sei nato e cresciuto qui. Non si tratta solo di razzismo esplicito, fatto di insulti o gesti eclatanti. La Uyangoda ci mostra quanto siano insidiose le microaggressioni che non fanno rumore, quei momenti apparentemente innocui che però pesano. Come quando sei l’unica persona nera in un gruppo e tutti ti guardano come se fossi un’eccezione, o ti chiedono “di dove sei veramente?” come se la tua risposta non possa essere “Italia”. Oppure quando vieni invitata a un evento non tanto per le tue idee, ma perché serve una “quota nera” per evitare critiche. L’unica persona nera nella stanza è quella cui l’impiegato di banca si rivolge col “tu”, ritornando al “lei” col cliente successivo; è la bambina cui la maestra dice “Nadeesha, tu la tesina la fai sul tuo Paese”, intendendo ovviamente lo Sri Lanka. L’unica persona nera nella stanza è quella che esce con tuo figlio al quale chiedi “quanto sia scura”. Sono tutti episodi che evidentemente fanno pensare ad un memoir, ma il libro è anche un serissimo piccolo saggio sulla società italiana, che parla di noi tutti, rivelando un razzismo “ordinario” che spesso non riconosciamo nemmeno.

Nel suo secondo lavoro, Corpi che contano (66thand2nd, 2024), la Uyangoda scrive con un registro da saggio del legame tra corpo, sport e identità, confrontando i ricordi d’infanzia legati al proprio corpo con le vicende di atleti razzializzati che hanno trasformato le loro capacità fisiche in una professione. Attraverso queste storie lo sport si rivela un modo per realizzare un riscatto sociale, un mezzo per abbattere muri e preconcetti, ma anche uno strumento di potere politico e controllo culturale. E il corpo dell’atleta diventa un simbolo, il ring sul quale si affrontano pregiudizi, discriminazioni e aspettative della società. È un corpo che viene celebrato, ma anche valutato, mercificato, controllato, politicizzato. L’autrice mette in chiaro quanto il razzismo sia ancora presente nel mondo dello sport e quanti stereotipi continuiamo a portarci dietro quasi per abitudine o per inerzia. Come per esempio l’idea che certi corpi siano “fatti” per alcuni sport e non per altri solo perché appartengono a una certa “razza”, oppure la convinzione ancora molto radicata che esistano sport “da maschi” e sport “da femmine”. Con un tono sempre intelligente e mai pedante, Nadeesha disfa queste narrazioni e ci invita a riflettere.

Ecco quindi perché è il caso di leggere i suoi libri. Perché Nadeesha Uyangoda ci regala una lente nuova per guardare l’Italia, quella delle persone nere o appartenenti a minoranze spesso invisibili. Con i suoi scritti e il podcast “Sulla razza“, sfida pregiudizi, parla di razzismo sistemico e di mancanza di rappresentanza in politica, media e cultura. Come dice lei: “Negli ambienti culturali italiani i neri esistono come oggetto del discorso, quasi mai come soggetto”. I suoi libri non solo informano, ma spingono a interrogarsi e a cambiare, a partire dai piccoli gesti quotidiani.
Se vogliamo quindi capire cosa significhi essere una persona di colore in Italia oggi, iniziamo da Nadeesha. Ci lascerà con tante domande, ma anche con la voglia di fare la nostra parte. Seguiamola sui Social, dove, per esempio, il giorno 6 giugno scrive: “La settimana prossima mi scade il permesso di soggiorno (che non è più illimitato, ma va rinnovato ogni 10 anni). […] L’anno scorso ho iniziato il lungo processo verso la domanda di cittadinanza (ho avuto l’appuntamento per la legalizzazione a febbraio 2025, ad oggi non ho ancora ricevuto il documento). Non raccontiamoci tante storie: il referendum potrebbe portare la concessione della cittadinanza da 13 a 8 anni per gente che vive, lavora, va a scuola e paga le tasse in Italia. Non risolve il divario di potere tra passaporti, non è risolutivo in tema di cittadinanza, non snellisce le pratiche burocratiche. Non è poi molto, ma anche quel poco è importante perché concede in tempi meno incivili i diritti politici a persone che, pur nascendo o crescendo o vivendo in questo paese, non riescono a partecipare alla cosa pubblica.”

IL RANDAGIO SUGGERISCE: ANDIAMO A VOTARE!”

P.S. Non c’entra niente, ma Nadeesha e io tifiamo per la squadra di calcio Campione d’Italia: forza Napoli sempre!

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori de “Il Randagio – Rivista letteraria“, nato il 15 ottobre 2023, anniversario della nascita di Italo Calvino.

Cristiana Buccarelli: “Taccuini di viaggio” (Cervino edizioni), di Gigi Agnano

Cara Cristiana,

dopo aver letto i tuoi Taccuini, ho sentito il desiderio di scriverti perché mi sono riconosciuto nella tua stessa inquietudine, quella che ci spinge verso strade lontane alla ricerca non solo di nuovi luoghi, ma anche – in qualche modo – di noi stessi.

Il tuo lavoro è un atlante narrativo di terre diverse, una galleria di panorami culturali e ritratti umani, di paesaggi non solo geografici, ma profondamente esistenziali. Mi hai fatto sentire un compagno di viaggio nelle tappe di un cammino che attraversa un Messico rarefatto, i mercati del Guatemala con la loro densità cromatica abbagliante, fino agli odori e alle voci del Marocco che si presenta come una visione, dove ogni pietra racconta storie e i vicoli sono labirinti nei quali si entra per perdersi. La tua scrittura cattura ogni luogo con una sensibilità che trascende la descrizione turistica, toccando corde ben più profonde.

Sono racconti che evocano un’esperienza sensoriale intensa: sentiamo il calore della giungla di Tikal, la luce mediterranea di Rodi, il “silenzio tenero e compatto” del Sahara. C’è una forma di purificazione nelle esperienze rievocate, come quando la guida Kareem versa acqua sui tuoi capelli e sul corpo, creando un momento tanto tattile quanto spirituale (forse anche sensuale). E attraverso la tua scrittura, anche noi lettori ci purifichiamo bagnati dalla stessa acqua a Chellah come a Rodi, a Tulum o sul Bagmati. Ci immergiamo nella stessa luce e respiriamo la stessa aria, accarezzati o sferzati dallo stesso vento, sia che lo chiami “Meltemi” in Grecia, “forte vento di mare” a Essaouira o semplicemente “folate” a Berlino.

A proposito di Essaouira, immagino abbiano raccontato anche a te la leggenda di Jimi Hendrix che, affascinato dalla bellezza del luogo, nel ‘69 voleva acquistare il vicino villaggio di Diabat per farne una comune hippie. Me ne sono ricordato perché la tua narrazione è intrisa di musica, dai Cure al fado, da Mozart a Vivaldi; e di poesia – quella che citi nei tuoi pellegrinaggi letterari e quella che scrivi tu stessa con delicatezza a chiusura del volumetto.

Per quel po’ che ti conosco, non mi sorprende la tua attenzione all’elemento linguistico: le citazioni dal Popol Vuh, l’arabo, il kalimera a Rodi o il namastè in Nepal, le riflessioni sui culti nordici diventano chiavi per aprire – come scrive Daniela Marra nell’introduzione – “nuove porte percettive” in cerca di un contatto autentico con le tradizioni e le culture incontrate.

Parlando di viaggi, sorrido pensando che torneremo a discutere del tuo libro sulla rivista letteraria che abbiamo voluto chiamare Il Randagio. C’è qualcosa di perfettamente calzante in questo, come se il “randagiare” fosse essenza del nostro essere lettori e viaggiatori. Mi viene in mente Foster Wallace quando diceva: “Un vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.” È questo l’invito che il tuo libro porta con sé: viaggiare per guardarsi dentro con occhi rinnovati, più profondi e consapevoli – che, se ci rifletti, è lo stesso invito che noi del Randagio rivolgiamo a chi affronta il viaggio della lettura.

Fabio Stassi, in un’intervista che ci ha rilasciato qualche giorno fa, ha definito il suo “Bebelplatz” un “libro ornitorinco” per la molteplicità di generi che contiene. Credo che questa definizione si adatti perfettamente anche ai tuoi Taccuini, che sono diario di viaggio, raccolta poetica, memoir e reportage insieme. Amo gli autori che sanno districarsi tra spazi fisici e interiori, in particolare mi piacciono quei libri che nascono dall’inquietudine per cui manca sempre un luogo alla geografia personale dell’autore e del lettore.

Grazie per aver condiviso la tua meravigliosa sete di viaggio.

Con stima e affetto

gigi 

 Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori – il 15 ottobre 2023 – de “Il Randagio – Rivista letteraria“.