Yasmina Reza: “La vita normale” (Adelphi, trad. Davide Tortorella), di Valeria Jacobacci

 Yasmina Reza è principalmente una drammaturga ma scrive anche romanzi molto apprezzati dalla critica e dai lettori; del 2024 è l’opera “La vita normale”, pubblicata da Adelphi in Italia come altri suoi scritti di successo internazionale. Si tratta di una raccolta di racconti più o meno brevi,  ispirati quasi sempre dalle scene di processi da lei personalmente seguiti nelle aule di un tribunale.

“Edith Scaravetti ha ucciso suo marito Laurent Baca di notte, con un colpo di carabina 22 long rifle alla tempia. Mi occorre un bel po’ per mettere a fuoco il suo viso, benché l’aula sia piccola e la mia panca abbastanza vicina. Con i capelli neri tirati indietro, il corpo rattrappito, come congelato, guarda fisso un punto poco più in là delle sue scarpe.” (Il rovescio della vita)

“Il 3 agosto 2021, in un convoglio della linea 13 della metropolitana in direzione Chatillon, Dalila ha fatto un piccolo massacro. Ha pugnalato al torace un giovane fattorino nero, ricoprendolo di insulti razzisti… ” (Disperatezza)

E’, nell’insieme, il ritratto epocale di una società il cui tratto comune è l’assenza di consapevolezza, come se tutti i personaggi, uomini, donne o bambini, vecchi o giovani, di qualunque classe sociale, si trovassero privi di coordinate, spogli di informazioni valide, senza difese, soprattutto da se stessi. A fare da protagonista il completo abbandono dell’essere umano, alla mercé di impulsi che non è in grado di dominare e che, soprattutto, non comprende affatto. Merito dell’autrice è l’aver messo il dito nella piaga, un cinismo cieco non dovuto a durezza d’animo ma a mancanza di comprendonio. Da questo suo punto di vista i processi sono completamente inutili poiché nessuno degli imputati capisce che cosa ha fatto, smarrito nel “tutto si equivale” e nel “tutto è possibile”.  Molte volte però il processo non c’è e il racconto è descrizione dietro una fotocamera di persone prese a caso come esempio di possibili, o molto probabili, storie e biografie, tutti possono essere tutti.  Ancora Pirandello? Forse per caso. In alcuni processi quello che viene rappresentato è il degrado sociale, una donna uccide il marito alcolizzato e violento e lo seppellisce in giardino, poi sposta il corpo, lo immerge nel cemento, viene scoperta e processata: ha subito stupro e violenza da ragazzina  e questo è il risultato. 

I riferimenti a esperienze personali dell’autrice si inseriscono senza problemi e senza chiedere il permesso, non è una voce fuori campo, è la coscienza che manca ai personaggi. I riferimenti  letterari e culturali sono espliciti, a Borges, per esempio, o a se stessa, quando cita  “Il dio del massacro” la commedia da cui fu tratto il film “Carnage” di Roman Polanski.  Yasmina Reza può permetterselo. Non manca la critica a un mostro sacro come Faulkner e all’illeggibile “Assalonne, Assalonne!”.

Ma torniamo ai processi, qual è l’interesse di Yasmina Reza per i processi? Sono descrizioni, immagini fotografiche, in un certo senso, sono tratti fotografici quelli che vengono descritti, fotogrammi che nascondono o svelano come quando il fotografo è un artista che coglie l’anima con l’obiettivo. Forse è questo l’unico modo attualmente possibile di indagare la realtà. Fra tutti primeggia il tema della morte, niente di gotico o grottesco, come si è abituati a pensare, enigmatica sì! Che sia morte naturale o violenta, improvvisa o annunciata. Anche la morte del suo amico editore, Roberto Calasso, del quale le arrivano per posta i due ultimi libri, senza dedica, perché la morte interrompe lo scambio. Non per chi scrive, come Yasmina Reza, o per chi edita i libri altrui, come Calasso, padre della Casa editrice Adelphi. 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Charles Dickens: “Martin Chuzzlewit” (Adelphi, trad. B. Oddera), di Lavinia Capogna

Charles Dickens e la grande delusione del buon Tom Pinch

Charles Dickens usciva spesso di sera tardi dalla sua bella e piacevole casa nel centro di Londra (che, detto per inciso, ho visitato) e andava a passeggiare nei sobborghi. Erano luoghi di grande povertà e anche di malavita ma nessun malfattore importunava quel distinto signore. Dickens era abbigliato sempre in modo molto accurato e faceva queste passeggiate notturne per osservare e poi denunciare con grande forza nei suoi romanzi e nei suoi interventi pubblici le estreme diseguaglianze della società britannica. 

Egli era nato in una famiglia borghese ma il padre era stato imprigionato per debiti e a 12 anni era dovuto entrare come operaio in una fabbrica di lucido da scarpe. Fu un’esperienza traumatica ed egli si salvò solo per il suo grande amore verso la lettura e il suo talento letterario. 

Nel sesto dei suoi quindici romanzi, “The Life and Adventures of Martin Chuzzlewit” (oggi intitolato sia in italiano sia in inglese solo “Martin Chuzzlewit”), che egli considerava, come attesta una lettera scritta al suo amico e primo biografo, John Forster, il migliore che avesse scritto fino ad allora, attaccava la media piccola borghesia nel proverbiale personaggio di Mr. Pecksniff. 

Il libro si ambienta in una cittadina vicino a Salisbury nel sud ovest dell’Inghilterra, a Londra e negli Stati Uniti (che lo scrittore aveva a lungo visitato). 

Seth Pecksniff è il cugino di Martin Chuzzlewit senior, un testardo milionario, che ha una serie di parenti di vario grado e condizione sociale, che aspettano solo che egli rediga un testamento (allora non esistevano obblighi legali). L’anziano milionario, afflitto da alcune malattie, si tiene alla larga da loro e ha anche frettolosamente ripudiato il suo omonimo nipote, il ventenne Martin Chuzzlewit (dal quale il romanzo prende il nome). Tiene presso di sé solo una delicata ragazza, Mary Graham, un’orfana che ha allevato e che deve sopportare una vita di privazioni (“Quelle prove giovanili l’avevano resa altruista, costante, seria e devota” – scrive Dickens) e alla quale ha deciso di lasciare una cifra infinitesimale del suo patrimonio. 

Pecksniff, che è uno dei personaggi principali di questo romanzo corale, si spaccia per architetto e agrimensore ma in realtà si limita ad affittare stanze in casa sua a prezzi esorbitanti a giovani aspiranti architetti che poi fa esercitare in inutili lavori che spesso rivende di soppiatto. Compunto vedovo, rigorosamente abbigliato di nero, che straparla sempre di virtù, ha due figlie antipatiche che ha chiamato Mercy e Cherry (abbreviazioni di Misericordia e Carità). 

Solo cinque anni dopo l’uscita del libro, come attesta il prestigioso dizionario Merriam Webster, il vocabolo ‘pecksniff’ entrava nel vocabolario inglese come aggettivo per indicare un “ipocrita” o più esattamente “un gesuita”, nel significato che questa parola ha in italiano traslato. 

Il falso virtuoso ha però un instancabile ammiratore ed è il personaggio più bello del romanzo: Tom Pinch. 

Molti ritengono che sia lui il vero protagonista del libro. Il giovane Martin Chuzzlewit è piuttosto egoista, viziato e volubile invece Pinch (che in inglese vuol dire ‘pizzicotto’) è un opposto: ha circa 30 anni, è quasi calvo, timido, intelligente, viene sottovalutato da tutti, gira per la cittadina con qualche libro nelle tasche del suo cappotto striminzito, possiede solo un vecchio violino e ama suonare l’organo nella chiesa anglicana solo per sé stesso quando le funzioni sono già finite. 

Pecksniff tratta Pinch con grande condiscendenza e si spaccia per il suo benefattore quando in realtà ha depredato la povera nonna di Pinch, una ex governante, si è impossessato del denaro di lei e ha preso in casa il nipote. 

Pinch svolge la mansione di segretario di Pecksniff, ottemperando a varie incombenze. Ma al tempo stesso anche Pecksniff ha bisogno di Pinch: tutti ammirano la sua innocenza e ciò gli porta lustro. 

Sia Pinch sia il giovane Martin si innamorano di Mary Graham. 

Non si può raccontare l’avvincente ed imprevedibile trama del romanzo, che, come tutta l’opera dickensiana, ha uno sfondo sociale, in cui egli, muovendo – needless to say – con abilità i suoi personaggi, facendo parlare ognuno secondo la propria classe sociale, alterna il suo usuale senso di humour, un’atmosfera spesso dark e memorabili descrizioni. Tra i personaggi non mancano un criminale e due esilaranti malavitosi, Tigg e Slyme. 

A far loro da contrappunto ci sono il generoso proletario Mark Tapley, in qualcosa affine al Sam Weller de “Il Circolo Pickwick”, il bel John Westlock e la dolce Ruth, sorella di Tom. 

Un altro personaggio esilarante è quello di Sarah Gamp, una specie di infermiera che si occupa sia di nascite sia di funerali sia di ammalati, gira sempre con un ombrello nero (e da allora nello slang britannico il termine gamp significa “ombrello”), beve troppo alcool e ha l’abitudine di conversare amabilmente, prendendo il tè delle cinque, con una gentile signora, Mrs. Harris, che purtroppo ha la particolarità di… non esistere! 

Grandioso è infine il vecchissimo Mr. Chuffey, che tutti ritengono quasi incapace di intendere e di volere e che invece avrà un ruolo determinante nel romanzo.

Splendida la descrizione di Londra nella nebbia del primo mattino e dei quartieri poveri, la poco raccomandabile Pensione Togders, la rabbia malinconica del giovane Martin senza uno scellino nonché il viaggio degli immigrati negli Stati Uniti che Dickens descrive come una terra di predatori rapaci ed infingardi (eccetto il cordiale Mr. Bevar) – il che gli valse lettere di protesta ed insulti da parte della stampa e di lettori d’oltreoceano. 

Il capitolo XXXI di “Martin Chuzzlewit” è, secondo me, una delle cose più belle mai scritte da Charles Dickens perché racconta la grande delusione a cui va incontro il buon Tom Pinch dopo aver saputo cose inaspettate e negative su Pecksniff…

Egli descrive magistralmente la costernazione e l’estremo smarrimento che si prova quando qualcuno che ci è caro si rivela differente da come lo avevamo creduto.  

Il capitolo è talmente intenso che si potrebbe quasi pensare che lo scrittore abbia attinto emotivamente da una sua vicenda privata. 

Bibliografia:

Charles Dickens Martin Chuzzlewit (Adelphi) 2007 – nell’edizione ci sono le riproduzioni di alcune stampe originali del 1800 che rappresentano varie scene del romanzo. 

Charles Dickens Martin Chuzzlewit (versione originale – Penguin Books) 2012

Lavinia Capogna*

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora sette libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente”, (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Insula Europea, Stultifera Navis e altri website. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Thomas Bernhard : “Il nipote di Wittgenstein. Un’amicizia” (Adelphi, trad. Renata Colorni) – Maurizia Maiano

Il libro, dedicato all’amico Paul Wittgenstein, inizia con una sua esplicita richiesta a Bernhard:
“Duecento amici verranno al mio funerale e tu dovrai tenere un discorso sulla mia tomba.”
In realtà, al funerale andarono soltanto nove persone, e lo stesso Bernhard non poté essere presente, perché si trovava a Creta. Resta quindi il libro come testimonianza della profonda amicizia tra i due.

Paul Wittgenstein è il nipote del più celebre Ludwig Wittgenstein, autore del Tractatus Logico-Philosophicus. Il racconto è bellissimo: due persone legate da un’amicizia profonda, nonostante sembrino non aver condiviso molti momenti, trovano nel reciproco legame il confronto con un mondo dominato dalla finzione. La loro realtà autentica è fatta di malattie, ossessioni e sofferenze condivise, uno “spazio” in cui si riconoscono e che sentono vivo.
Entrambi erano ricoverati in ospedali vicini: Paul nel Padiglione Ludwig — un manicomio — e Bernhard nel Padiglione Hermann, un tubercolosario. Due strutture situate a circa duecento metri di distanza su due colline di Vienna. Entrambi avevano abusato della propria vita in modi diversi, manifestando un’avversione profonda verso se stessi. Quando quest’avversione raggiunse il suo culmine, ci furono i rispettivi ricoveri, che li plasmarono e li ristabilirono.
Questa convivenza con la malattia, vissuta in contesti così opposti (la comunità di “pazzi” e quella dei “tubercolosi”), riflette la condizione umana come un costante rapporto con ciò che ci circonda. Paul e Bernhard erano uguali e diversi allo stesso tempo. Paul, ad esempio, si commuoveva davanti ai poveri: una volta scoppiò in lacrime vedendo un bambino povero al Traunsee, cogliendone l’innocenza e l’indigenza. Bernhard, però, vide invece la madre astuta che aveva messo lì il bambino per suscitare pietà.
Questa scena rappresenta una chiave di lettura del Tractatus Logico-Philosophicus: i fatti sono ciò che vediamo, ma ciò che vediamo dipende dalla nostra prospettiva. Paul vede solo il bambino, Bernhard anche la madre, e così la realtà, i fatti, possono ingannare. È un richiamo all’inganno dell’informazione e del potere che può condizionarci con ciò che ci fa vedere o non vedere.

L’inganno della percezione si manifesta anche in momenti pubblici, come quando un ministro tiene una laudatio per Bernhard leggendone quattro appunti scritti da funzionari ignoranti e raccontando delle falsità su di lui (ad esempio che avrebbe scritto romanzi d’avventura o sarebbe uno straniero in Austria). Bernhard rispose con poche, frasi memorabili: l’uomo è un essere abbietto e la morte è certa per ognuno. Il ministro, furioso, lo insultò e se ne andò sbattendo la porta, seguito da tutti gli altri, compresi gli artisti e i critici letterari. Solo Paul rimase accanto a Bernhard, orripilato ma anche divertito dall’accaduto.

Il libro vuole essere il miglior elogio funebre per Paul, un amico che aveva profondamente migliorato la vita di Bernhard, rendendola possibile nonostante tutto. Le pagine fissano l’immagine di Paul, mettendo in luce ciò che li accomunava e ciò che li divideva. Non si tratta di un’amicizia semplice e spontanea, ma di un legame elaborato con fatica, mantenuto con cautela per proteggere la fragilità di Paul.
La narrazione si chiude con una passeggiata di Bernhard per Vienna: lo Stadtpark, il Cafè Sacher — un luogo dove veniva rispettato e mai disturbato — e il Braunerhof, il tipico caffè viennese che, pur infastidendolo, frequentava per l’insopprimibile sindrome dei viennesi di “andare al caffè”.

Paul si lasciò dominare dalla propria follia; Bernhard ne fece invece uno strumento di vita, ma forse proprio questa differenza rende la sua follia ancora più estrema.
L’amicizia tra i due è curiosa e complessa: Bernhard temeva l’incontro con Paul se questi si fosse presentato “nel suo abbigliamento da pazzo”, consapevole che Paul era il suo specchio e forse temeva se stesso. Per Paul era più semplice fare visita a Bernhard che viceversa. Questa ambivalenza rimane una domanda aperta, per una delle storie d’amore più strane e vere che abbia mai letto.

Informazioni sull’opera:
Il nipote di Wittgenstein (titolo originale: Wittgensteins Neffe) è stato scritto da Thomas Bernhard nel 1982. La traduzione italiana, pubblicata da Adelphi nella collana Fabula (2013), è curata da Renata Colorni.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Inès Cagnati: “Génie la matta” (Adelphi – trad. Ena Marchi), di Cristi Marcì

Alla ricerca di un luogo sicuro

Scritto interamente in prima persona, le pagine di questo splendido romanzo danno voce a un vissuto familiare in grado di annientare a più riprese finanche l’ultimo briciolo di speranza.

Se da un lato la voce narrante di Marie trascina il lettore negli abissi più profondi dell’animo umano dall’altro i gesti materni di Eugènie, conosciuta da tutti in paese come Gènie la matta, confermano gradualmente come non sempre il desiderio genitoriale, specialmente quello materno sia in grado di aprirsi alle richieste di un figlio e ai suoi bisogni primari.

Tantomeno al più genuino dei suoi desideri: quello di un abbraccio.

Composto da una prosa a tratti delicata altre crudelmente diretta, Inès Cagnati descrive ed esplora le complesse dinamiche del rapporto tra una madre e una figlia dove il contatto è pronto a trasformarsi repentinamente in una distanza, una carezza in un possibile schiaffo e la ricerca di un luogo sicuro in un monito ripetitivo, sordo e travolgente: Non starmi tra i piedi.

La storia narrata dalla figlia Marie è quella di una bambina alla costante scoperta di un posto irraggiungibile in cui il linguaggio della madre è sempre più inaccessibile e il profumo degli abbracci un aroma pronto a dissolversi in vane aspettative.

È il diario attraverso il quale sia le parole che i ricordi tentano disperatamente di tracciare una linea di congiunzione tra un passato che si desidera rimuovere e tacere il più possibile e un presente fatto di gesti pronti ad allontanare ogni minima richiesta di contatto.

Il tempo non sempre guarisce le ferite

Un’unica trama dove vicende lontane si insinuano in modo vischioso nel cuore delle due protagoniste, rendendo il loro rapporto un’eterna etichetta sottoposta alla critica di molti e alla sensibilità di pochi e rispetto alla quale il desiderio di maternità viene puntualmente macchiato dalla vicenda che ne ha corrotto, se non addirittura insozzato, le fondamenta.

Le tematiche del trauma e dell’abuso viaggiano difatti sui binari prima del pregiudizio e poi dell’odio in maniera talmente silenziosa da corrodere inizialmente la vita di Eugènie, bandita sia dalla madre che dal resto della famiglia, e successivamente quella di una figlia non voluta e tantomeno desiderata ancora prima di venire al mondo.

Eppure quello che le pagine del diario svelano tra le innumerevoli tracce di inchiostro è la forte perseveranza a non mollare la presa anche quando tutto sembra ormai perduto, nonostante il crudo distacco alimentato tanto dal giudizio quanto dall’ostinazione a vedere un evento traumatico quale lo stupro come qualcosa di definitivo.

Nata da uno stupro Marie si scopre infatti portatrice di un vuoto che tanto il mutismo quanto l’isolamento materno pagina dopo pagina possono soltanto ingigantire, restituendole in maniera amplificata l’eco di una mancanza che ad occhi chiusi assume sempre più le sembianze di una preghiera.

Leggerlo non è semplice perché richiede un tempo dove la frustrazione si mescola chimicamente alla speranza creando una miscela in cui il sogno e il riscatto per una vita migliore fanno i conti con la recrudescenza dell’animo umano: capace soltanto di annientare i propri simili e ripetendo loro ancora una volta

Non starmi tra i piedi

La relazione madre bambino sotto il profilo perinatale. 

La relazione tra la madre e il bambino inizia a fiorire già a partire dal periodo della gravidanza, la quale promuove il graduale sviluppo di un legame caratterizzato dal “comportamento di annidamento” (Grussu, P., Bramante, A., 2016).

Se da un lato il feto va percepito come una nuova vita di cui legittimare ogni forma di espressione non sempre viene percepito come tale; spesso infatti proprio perché la gravidanza non sempre risulta programmata e desiderata, da parte della madre può esserci una percezione distorta rispetto a chi porta in grembo percependo di conseguenza il feto come un intruso vero e proprio. 

Si può pertanto ipotizzare che una scarsa relazione tra la madre e il feto possa inficiare successivamente quella tra la madre e il bambino.

Tra quelli infatti maggiormente predisponenti possono esservi la storia personale pregressa e familiare che possono risultare idonee e positive ad un quadro psicopatologico generale o specifico per il periodo perinatale.

Quanto colpisce è come la suscettibilità circa l’esordio di una condizione psicopatologica e/o psichiatrica sia determinata e ancor di più preceduta da fattori di ordine biologico, psicologico, ormonale e non ultimo di tipo psicosociale (Treloar, S, A., 1999, Harris, B., 1996).  

Tutto questo in epoca perinatale può avere ripercussioni sulla salute materno-neonatale e sul successivo sviluppo del bambino (Oates, M., 2003). 

Le cure antenatali non sempre infatti risultano sostenute da una buona presa di consapevolezza materna e da una rete sociale adeguata; spesso donne con una storia psichiatrica alle spalle non solo risentono di una mancanza di supporto, ma cosa ancor più invalidante mancano di una valida autonomia decisionale che eviti di spingerle o meno ad avere rapporti dalle gravidanze inattese (Barkla, J., Byrne, L., 2000).

Come sottolineato da Bennedsen questi fattori possono essere collegati ad outcome cioè ad esiti materni fetali e neonatali negativi; inoltre come ripreso da Christian, intercorre uno stretto legame tra i meccanismi biologici sviluppatesi nel corso della vita materna e le complicanze osservate in gravidanza (Bennedsen, B, E., Mortense, P, B., 2001).  

Se quindi i genitori e nello specifico la madre, registrano su di sé una difficoltà nel sapersi prendere cura in maniera reciproca, tale aspetto si ripercuoterà a livello cognitivo e comportamentale nel bambino e ancor prima che venga al mondo, si evidenzierà come sottolineato da O’Donnel una predisposizione all’astinenza neonatale; aumentando così il rischio di un’esposizione fetale rispetto sia a fattori preesistenti sia alla gravidanza e non ultimo rispetto al parto (O’Donnell, M., Nassar, N., Leonard, H., 2009). 

Laplante ha infatti rimarcato come l’epoca prenatale sia un periodo di estrema suscettibilità e più nello specifico come il tono dell’umore materno possa provocare ricadute sul cervello fetale, attraverso l’alterazione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene materno; valorizzando sempre più il rapporto tra livelli di cortisolo della madre e quelli fetali trasmissibili attraverso la placenta (Laplante, D, P., Barr, R, G., 2004). 

Alcuni studi hanno confermato ed evidenziato come livelli elevati di ansia e dunque di cortisolo materno in gravidanza possano predire e determinare in epoca prenatale una condizione definita cortisolemia (Sarkar, P., Bergman, K., 2007), portando così il bambino ad un probabile futuro sviluppo di pattern ansiogeni. 

Nondimeno, come indicato da Sandman e Tegethoff, la correlazione tra condizioni psicosociali disfunzionali ed un probabile background materno psicopatologico, può rappresentare indicatori di salute che verranno trasmessi alla prole. 

Un’ esposizione fetale prolungata rispetto a questi fattori risulta pertanto di cruciale importanza (Sandman, C, A., 2012, Tegethoff, M., 2011). 

Le nostre esperienze dunque non si dispiegano nel vuoto ma al contrario prendono vita, forma e sviluppo all’interno di un corpo con una propria vulnerabilità legata sia a sequenze nucleotidiche inerenti i geni, sia a meccanismi epigenetici che ne controllano e ne modificano l’espressione.  

Ciò che nel genitore si riflette come qualcosa di non risolto determina l’emergere di una gamma di comportamenti che prende il nome di “paradossi biologici”, i quali – come riportato da Hesse – non solo forniscono al bambino una specifica interpretazione della sicurezza ma interferiscono con lo sviluppo dei processi di regolazione affettiva, di funzioni narrative e integrative (Hesse, E., Main, M., Abrams, K, Y., 2003).  

Il rischio principale è dato quindi dalla possibilità che l’adulto trasmetta al futuro bambino processi disfunzionali e disturbanti di auto organizzazione e autoregolazione. 

Cristi Marcì*

* Cristi Marcì è uno psicoterapeuta psicosomatico junghiano. Grazie ai libri ha scoperto la possibilità di viaggiare con l’unica compagnia gratuita: la fantasia. Adora i gialli, la saggistica e i romanzi storici. Ad oggi ha pubblicato racconti brevi sulle riviste «Topsy Kretts», «Morel, voci dall’Isola», «Smezziamo», «Offline» «Kairos» e altre ancora. Scrive articoli per il periodico scientifico «Ricerca Psicoanalitica», «Arghia» e «Mortuary Street». Trovate una sua traccia anche su «Quaerere»

Thomas Bernhard : “Correzione” (Adelphi, trad. Giovanna Agabio) – Maurizia Maiano

A volte mi passa per la mente di non svelare la storia della mia vita

Thomas Bernhard

L’Impero Austro-ungarico era stato simbolo dell’unità nella molteplicità e dal suo esempio sarebbero dovuti nascere gli “Stati Uniti d’Europa” come era nel sogno di Rodolfo d’Asburgo-Lorena, unico figlio di Franz Joseph e Sissi,  finito tragicamente a Mayerling con la sua amante Maria Vetsera. Dopo la prima guerra mondiale invece si passa dall’ Oesterreich, Regno d’Oriente, all’Austria piccola nazione. Una tra le tante e, rispetto alle altre, destinata a “soccombere”, per usare un termine caro a Bernhard, ovvero a negarsi nella “Grande Germania” e ritrovarsi invasa ed occupata prima dai tedeschi e poi dagli Alleati fino al 1955.

Spesso i destini personali si intrecciano stranamente con quelli più grandi della Storia e sono la cronaca annunciata di un tragico epilogo. Lo spazio dell’Arte diventa vetrina del malessere. In “Correzione”, un romanzo del 1975 dello scrittore austriaco Thomas Bernhard, l’autore utilizza in maniera ricorrente una formula – “così Roithamer” – per sottolineare il carattere tormentato del suo protagonista, ossessionato dalla volontà di correggere il mondo esterno e se stesso, fino al suicidio come correzione estrema. 

Thomas Bernhard nasce nel 1931 in Olanda. La madre, abbandonata dall’uomo che l’ha messa incinta – Thomas non conoscerà mai il padre -, lascia l’Austria per andare da un’amica in Olanda che, non volendola tenere in casa in quello stato, l’accompagna in un convento per ragazze traviate a Herleen. Dopo la nascita, madre e neonato vengono allontanati dal convento e andranno a Rotterdam. Qui il piccolo Thomas sarà lasciato in custodia ad una donna che vive in una barca fino al compimento del primo anno di età, quando madre e figlio torneranno in Austria. Saranno i nonni a prendersi cura di lui e loro le persone che amerà di più. Questi episodi segneranno la vita dello scrittore che sarà in ogni sua fase travagliata e sofferta. Lo accompagnerà il sentirsi non adeguato, mai all’altezza, come colui che è capitato al mondo per caso e la cui vita non è stata desiderata. E la ricerca ossessiva della perfezione sarà il tema più rilevante di “Correzione”, uno dei suoi più importanti romanzi.

Tre sono i personaggi che si muovono nel racconto: Roithamer, figura ispirata al filosofo Ludwig Wittgenstein, Höller l’imbalsamatore e l’anonimo Narratore.

Il romanzo inizia quando ormai tutto si è concluso. E’ una storia che si sviluppa in un presente che è già passato. Roithamer, il protagonista, si è suicidato ed il Narratore viene invitato da Höller per riordinare le opere postume che il comune amico, con disposizione testamentaria, gli ha destinato. Nella soffitta della casa di Höller, che si trova nella valle del fiume Aurach, il Narratore troverà migliaia di fogli sparsi scritti da Roithamer, ma anche il voluminoso manoscritto, ossessivamente corretto, intitolato A proposito di Altensam – la cittadina nell’Alta Austria della famiglia Roithamer – dove si narra tra l’altro della costruzione di una casa a forma di cono. Sarà a forma di cono – simbolo di perfezione, completezza e totalità – la casa ideale che Roithamer vuole costruire per Margaret, la sorella, l’unica che egli amasse nella famiglia. Questa però muore dopo aver visto il cono e Roithamer, schiacciato dalle sue ossessioni, si suicida.

Molte sono le metafore e le simbologie. La soffitta di Höller, curiosa l’assonanza con il corrispettivo tedesco per inferno, diventa  la rappresentazione visuale della mente del Narratore, negli scaffali libri e pagine strappate affisse alle pareti: Novalis, Wittgenstein, Schopenauer, Hegel, Montaigne, Pascal. Spartiti musicali sparsi qua e là.  Si noti la strana coincidenza con la soffitta di Harry Haller ne Il lupo della steppa (1927). Altensam è l’assenza di pensiero, il simbolo di tutto ciò che è gretto nella cultura austriaca, le regole ormai superate, ma ancora da rispettare, i pregiudizi di convenzioni sociali che Freud e, prima di lui Arthur Schnitzler, autore de La signorina Else (1924) e Doppio Sogno (1925) per citare i più famosi, con ironia avevano  iniziato a scoperchiare. La casa a forma di cono è il pensiero martellante di Roithamer, a cui lavorerà  per tutta la vita. Sarà costruita nel Kobernaußerwald e Kobern è una caverna, quindi una casa in un bosco che è una caverna così come la casa di Hoeller, l’Inferno, è stata costruita sull’Aurach. Una soffitta, una similitudine che riproduce la tensione in cui visse Roithamer.  Una casa costruita sulla roccia e tra le cui fenditure, in un punto perfettamente centrale scroscia l’acqua dell’Aurach. E’ come ascoltare voci che vengono dal profondo e che di notte diventano più nitide e più chiare e non ci parlano più in modo sommesso e indistinto. Nell’oscurità del Kobernaußerwald e tra lo scrosciare dell’Aurach incomincia il racconto asfissiante, ripetitivo, martellante della voce del Narratore, dell’amico di Roithamer, così Roithamer.

L’Austria di “Correzione”, l’Austria degli anni ’70 e’80, è un’Austria non ancora cambiata e in cui tutto all’esterno continua a mantenere l’ordine di sempre, che sia imbiancato di neve o che splenda il sole, con i gerani sui balconi o le “Dachslavinen”, lastre di ghiaccio sui tetti e pronte a precipitare  sui marciapiedi, rigorosamente recintatiappena il Föhn, vento caldo proveniente dall’Est, fa alzare la temperatura. L’Austria, la cittadina di Altensam sono questo: “ordine sotto forma di disordine” e lui, Roithamer, l’aveva capito da subito che ad Altensam non ci poteva vivere. Perché il padre lascia la proprietà proprio a lui che odiava? Una risposta c’è! In un’altra sua opera il narratore dirà che “l’eredità è un modo per imbavagliare i propri figli”, che è l’impossibilità ad essere se stessi. I fratelli vivono ad Altensam e sperperano un sacco di quattrini riempiendo il guardaroba di vestiti mentre Roithamer, immerso nel suo studio in un paese straniero, non ha neanche il tempo di comprarsi un paio di pantaloni nuovi. La sua felicità era quella di poter realizzare con i milioni che gli aveva lasciato suo padre, e dopo aver liquidato i fratelli, il suo progetto, la costruzione di un cono, di una casa a forma di cono per rendere felice la sorella. Ma quando il cono, la casa sarà pronta, la casa perfetta sarà pronta, Margaret morirà. Il cono stesso, l’emblema per eccellenza della ricerca di perfezione nell’ordine, è destinato a dissolversi nella natura dopo la morte della sorella. Semplice, panta rei, tutto scorre, ogni cosa raggiunge il suo apice e poi ridiscende, si infrange e poi ricomincia, è nella natura delle cose, tutto è provvisorio, la vita è provvisoria. La felicità non esiste avremmo detto, siamo felici per un po’ di tempo e poi tutto finisce, ogni cosa non dura in eterno e bisogna essere pronti per ricominciare. Qui tutto si ferma, nelle pagine di Bernhard che racconta di Roithamer c’è solo un continuo volteggiare dei pensieri su se stessi, una eterna ghirlanda brillante che si avvolge su se stessa, pensieri che ritornano, vanno e vengono e da cui non si esce mai. Dostoevskiano mondo del sottosuolo. Non viviamo forse così?

Concludiamo con questa citazione che restituisce al romanzo una bellezza ed una leggerezza semplice, unica, strana, antica e sempre nuova nella forma e nel contenuto, dopo aver teso l’orecchio per cogliere un senso difficile da distinguere nel rimbombare martellante, ripetitivo  ed ossessivo di parole sempre uguali e quasi senza senso che ci giungono attraverso lo scrosciare dell’acqua tra le rocce. La rosa di carta gialla mi appare un delicato simbolo per l’artificiosità dell’Arte che pur ci sostiene accarezzandoci nelle incombenze della vita quando non riusciamo a trovare una soluzione e ancor di più un senso.

Rothaimer vinse al tiro a segno 24 rose di carta gialla e le regalò tutte meno una ad una ragazza sconosciuta che nel passargli accanto gli aveva ricordato sua sorella. La rosa custodita è l’emblema della possibile felicità, di una chance che, sebbene rifiutata era a portata di mano. Una rosa che racchiude l’enigma di una vita nel gesto di un ventitreenne che dona tutti i suoi anni ad una sconosciuta in una serata di felicità. La vita trascorre tra due poli di esperienza. Il primo coincide con la gioventù e la scoperta del mondo: è la realtà che si apre in tutte le sue forme. Poi si diventa adulti “rinunciando a noi stessi a poco a poco, siamo rimasti uguali, siamo diventati diversi”. Il secondo polo ha a che fare con il graduale addio alle cose e alle persone, gravato dalla consapevolezza che niente di ciò che potremo sperimentare e conoscere avrà lo stesso impatto, la vivida pienezza delle prime ruvide scoperte. E che dire del grumo di nostalgia per le vite non vissute? Quelle che abbiamo costeggiato per un po’ prima di dare le spalle a un futuro che all’istante si impolvera: “in contemplazione della rosa di carta gialla, nient’altro”..

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.