Sebastiano Martini: “Il frastuono del mondo” (Voland, 2025), di Valeria Jacobacci

La vicenda inizia sul Molo Audace, ci troviamo a Trieste, protagonista un agente immobiliare di cinquantacinque anni, una persona comune, fatta eccezione per una sensibilità particolare che gli fa volgere lo sguardo intorno cogliendo ogni sfumatura, ogni colore e, soprattutto, ogni suono, o, meglio, rumore.

E’ un fastidioso acufene il segnale di un disagio interiore più profondo, che emerge come una rimozione freudiana ostinata e intransigente.  Lo vediamo scrutare il Grattacielo Rosso, come lo chiamano i triestini, un grande palazzo del Novecento, Palazzo Aedes, oppure Palazzo Berlam, dal nome dell’architetto.

E’ lì dentro che Orlando dovrà entrare per svolgere il suo lavoro di intermediario per l’affitto di appartamenti, incarico ricevuto via internet dal Gruppo Generali che nel Palazzo ha sede. L’incarico non è particolarmente prestigioso né abbastanza remunerativo da giustificare il viaggio da Asti, città dove risiede. Inoltre non è il solo ad essere stato ingaggiato, un gruppetto di persone aspetta come lui l’ora dell’appuntamento. Orlando non si unisce agli altri, aspetta per conto suo che siano le tre e mezza in punto, orario dell’incontro. Il senso di estraneità è contemperato dall’aria profumata di salsedine che il vento solleva mitigando la calura di un’estate particolarmente afosa.

E’ questo il pregio dell’autore, porgere ogni senso all’immaginazione di chi legge, trascinandolo in una realtà virtuale che è il segreto della letteratura.

Con Orlando Ferrero siamo in piedi di fronte alla mole del Palazzo Rosso, in fastidiosa attesa, dominati dalla struttura e sul punto di sparirvi all’interno. Messaggi affettuosi partono dal cellulare e trascrivono non le impressioni ma la concretezza degli impegni e delle azioni di sempre, concludendosi con “Un bacio”. Quel bacio tranquillizzante interrompe il fastidio dell’acufene e dell’attesa.

Dopo l’appuntamento di lavoro Orlando è libero di gironzolare in città, sceglie come alloggio l’Hotel Tre merli, con accesso al mare. Perché non andare a fare una nuotata? Quello che per gli altri è svago e refrigerio per lui è oppressione e fastidio, non gli piace il chiasso dei bagnanti e quello sovrastante dei bambini, quando la pausa del pranzo li sostituisce con l’acciottolio di piatti e bicchieri non è ugualmente possibile sostituirli con lo sciabordio delle onde sugli scogli o con quello dello stridio dei gabbiani.

Ogni singolo rumore è insopportabile e amplificato, non serve coprirlo con la musica in cuffia, percepita come falsa, neanche il silenzio è possibile, perché allora il rombo del sangue nelle orecchie o del respiro si impongono petulanti e inarrestabili.

Dopo un breve riposo Orlando è per strada, in cerca di un posto appartato dove prendere un caffè lontano dai turisti. Gli affari si portano avanti senza troppi inconvenienti, fra il fastidioso ronzio dell’albergo e i giretti per una città bella ma oppressa dalla calura.

Solitudine e acufeni intervallati dai messaggi al cellulare. Che cosa ha realmente condotto Orlando Ferraro a Trieste? Un nome prende forma in una pagina del giornale “Il Piccolo”, sfogliato per caso al tavolino di un bar. E’ Simone Nardi. Si fa strada nel buio di un passato adolescenziale del tutto dimenticato. L’acufene incalza, bisogna consultare un otorino, perché non farlo nei tempi vuoti a Trieste, senza aspettare di far ritorno ad Asti?

Ci troviamo seduti in una sala d’attesa, ognuno seduto con un cellulare fra le mani, Orlando sofferma lo sguardo sulle pareti, dove sono esposte fotografie dell’artista Anne Gerdes. Bambini, di solito neonati o appena sbocciati nella corolla di un fiore, fiabescamente rappresentati dall’obiettivo della fotografa australiana, alludono a una possibile realtà di felice poesia.

Poi tocca sottoporsi alla visita, soddisfacente per l’udito di Orlando , definito perfetto, del tutto insoddisfacente per l’acufene, che non ha nessun possibile rimedio. Impossibile liberarsene.

Come è impossibile liberarsi del nome Simone Nardi. L’amico dei quindici anni emerge dal passato, è l’inizio di una serie di flash back.  Appuntamenti in un luogo convenuto per i compagni di scuola, “la fioriera”, sicuramente dotata di “muretto”, ad Asti, come nelle città degli anni ’70, un po’ ovunque in Italia. Amicizie e primi amori, una ragazza amata da entrambi, Orlando e Simone,  un futuro davanti e la passione condivisa per una chitarra, che Simone suona benissimo mentre Orlando sta provando  come si fa a ricavarne i motivi di moda. Poi una notte, un incidente. A Trieste Simone si è trasferito con la famiglia dopo quella notte che ha segnato un destino.

Sono passati quarant’anni ma, per quanto ci si possa illudere, il passato non passa, non come avevamo pensato che sarebbe passato. Impiccato e imbavagliato, un uomo che si chiamava Simone Nardi è stato ritrovato sotto un ponte. Che cosa l’ha indotto a uccidersi? Qualcuno l’ha ucciso? E’ possibile rintracciare la famiglia? Quale rapporto può esserci con l’antico incidente? Comincia così un thriller, non solo nell’intreccio della vicenda, ma nell’intimo della coscienza di Orlando Ferrero.

 Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Valentina Santini: “Latte guasto” (Voland, 2025), di Valeria Jacobacci

La  Maremma di Grosseto fa da sfondo a questa narrazione di Valentina Santini, classe 1983, scrittrice e sceneggiatrice di lavori televisivi, psicologa, editor e copywriter. L’indagine psicanalitica è peculiare di questo romanzo, interamente raccontato dall’interno di una coscienza, quella della protagonista, che ha perso la possibilità di rivelarsi attraverso le parole perché non ha voce per pronunciarle. Le parole in realtà ci sono e occupano tutto lo spazio esistenziale ma non servono a niente; la bambina, Viola, protagonista fragile e spettatrice di vicende più grandi di lei, ne è soffocata e oppressa ma incapace di liberarle dal profondo di se stessa: il mutismo selettivo, in seguito a un episodio traumatico, glielo impedisce.   Lo sfondo della vicenda è rappresentato dalle condizioni penosamente drammatiche di un piccolissimo centro, è Quattrostrade, vicino Ribolla.

In questa località, nel 1954, quarantatré persone morirono in un’esplosione di gas, avvenuto nella miniera di carbone Camorra, che fu in seguito chiusa. Nessuno risarcì le famiglie di quanti vi avevano lavorato ed erano morti. Si parlò di un semplice evento casuale. Il villaggio minerario della Montecatini era sorto intorno alla miniera e dopo l’incidente cessò di dare da vivere ai superstiti. Restavano i campi e gli orti.

Diversi anni dopo, in un orto entra Viola, che frequenta le scuole elementari e non si sente del tutto accettata dalla madre, cupa e schiacciata da una vita di donna tradita, e dal padre, amareggiato dall’aver perso il lavoro ed essere poi restato invalido in un incidente, presso la stazione di Scarlino, dove è operaio.

Viola entra in un giardino dopo la scuola per rubare ciliegie da dividere con l’amica del cuore, Sara. E’ una bambina come le altre ma entra in quel giardino e quando ne esce non parla più. Da quell’orto esce una piccola persona ingabbiata in un segreto che non può essere rivelato. La memoria però è intatta e le parole fluiscono in un quaderno che racchiude la sua storia. Su questa vicenda, la vita di una bambina confidata al suo diario, si riflettono il dolore e la solitudine di personaggi intrappolati in destini angusti e in drammi irrisolvibili. Al quaderno dell’infanzia segue quello dell’adolescenza e, infine, il terzo, destinato a chiudere la vicenda e a liberare le parole che dai quaderni voleranno fuori e saranno forse finalmente pronunciate.

Il pregio della scrittura di questo “Latte guasto” sta nel flusso del pensiero che trasporta il lettore nella mente di Viola e in qualche modo lo trasforma in Viola. E’ il mistero della mente umana, sede dell’individualità di ognuno, mai davvero comunicabile all’esterno. La mente è anche lo specchio dove si riflettono gli altri, spiati e indagati dalla singolare prospettiva di chi può solo congetturare sulla realtà altrui e su come funzionano le cose, come sono fatti i singolari meccanismi delle vicende umane.

Viola si porta dentro il suo segreto e contribuisce in questo modo alla rovina della madre, dentro di lei c’è invece l’unico desiderio di non farla soffrire e di proteggerla dalla verità. Bambini, adolescenti e adulti sono chiusi in compartimenti stagno dai quali è impossibile liberarsi. L’incomunicabilità è trasversale a età, temperamento e condizione sociale. Il padre e la sua amante sono adulti consapevoli della propria colpa, che nascondono per vergogna e rimorso; i ragazzacci, pronti alla violenza e allo stupro, sono rozzi e ignoranti, non possono crescere, troppo vigliacchi e istintivi. Paolo, unico personaggio positivo, è capace di amare Viola nonostante il suo mutismo ed è disposto a farlo anche a costo della vita. In scena entra anche la musica con la sua magia. Alla morte improvvisa del padre, Viola va a lavorare, come badante di una ragazza gravemente malata, in casa di un maestro di canto e pianoforte, del quale una delle allieve è Sara, l’antica compagna di scuola di Viola. La musica che arriva dal pianoforte non ha bisogno di parole per esprimersi ma Sara canta e le parole volano libere. Tuttavia nessuno è veramente libero, neanche la morte porta la libertà, i morti non sono mai davvero morti,  qualcosa di loro torna continuamente indietro.

Per fuggire via e ritrovare la voce, affinché le parole possano librarsi in libertà, c’è bisogno del fuoco, un fuoco liberatorio e purificatore. 

 Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Edurne Portela: “Maddi oltre il confine” (Voland, trad. di Giulia Di Filippo, 2025), di Silvia Lanzi

Il nuovo libro di Edurne Portela “Maddi oltre il confine” inizia come un monologo, anzi come una lunga preghiera a Dio, in cui la protagonista racconta di sé.

Una pennellata dopo l’altra, questo dialogo interiore ci restituisce Maddi, piano piano, e così il lettore si trova nel cuore della sua vicenda quasi senza accorgersene.

Credo che sia questo uno dei punti forti del libro: una narrazione che non soverchia, ma porta quasi per mano chi si accosta a questa storia che parla di una donna straordinaria che si dà da fare come corriere: in tempo di guerra – siamo negli anni ’40 del secolo scorso – inizia a contrabbandare beni voluttuari al di là del confine – in Spagna, per integrare i guadagni di un’attività non sempre florida. La sua vicinanza alla Resistenza, che all’inizio non la segna più di tanto, con il prosieguo della vicenda, complice anche la requisizione del suo hotel da parte dei nazisti, diventa la sua ragione di vita, e da tiepida simpatizzante ne diventa un membro molto attivo.

Maddi è una donna forte, insolita per quei tempi: divorziata, manda avanti un albergo con un socio molto più anziano di lei e, per sbarcare il lunario nei momenti di poco afflusso turistico si dedica ad un commercio non proprio legale. Molto religiosa, non manca mai alla messa domenicale dove viene regolarmente umiliata non potendo accostarsi all’eucarestia.

Insieme a lei ci sono tanti altri protagonisti che influenzeranno grandemente la sua vita: un figlio non esattamente suo, l’anziano socio (poi marito), varie figure della Resistenza da cui si farà coinvolgere un po’ alla volta (uno tra tutti il pizzicagnolo del suo paese), la nipote che la seguirà nella sua avventura, un sacerdote un po’ particolare…

Il racconto di Maddi, a cui la Portela dà un particolarissimo accento spesso drammatico ma anche ironico e forte, nasce da un incontro fortuito dell’autrice con un archivio storico dove è documentata, in modo spesso frammentario e contraddittorio, la vita di María Josefa Sansberro, nata a Oiartzun (una cittadina dei Paesi Baschi spagnoli) nel 1895 e che negli anni ’30 gestiva un albergo molto popolare ai piedi del monte Larrún, al confine tra Spagna e Francia.

È proprio per colmare alcune lacune e risolvere contraddizioni che la Portela ha iniziato ad inventare. Non ad inventare tout court, ma ad immergersi nel personaggio di Maddi per farne emergere tutta la complessità. E a compulsare decine se non centinaia di testi, tra cui studi, memoir, saggi, volumi, lettere e diari per dare spessore agli altri personaggi, ai luoghi e agli ambienti in cui si svolge la vicenda. Non contenta delle letture fatte, la Portela ha parlato a lungo con chi Maddi l’ha conosciuta e con figli e nipoti di chi, purtroppo, è morto nel frattempo.

Ne risulta un romanzo corale, in cui la fantasia e la verosimiglianza hanno riempito in modo superbo gli interstizi lacunosi e privi di documentazione. 

Una denuncia contro la barbarie dell’uomo, un memoir antifascista perché, afferma l’autrice, non è possibile non schierarsi.

Maddi diventa così la portavoce di tutti quegli individui, uomini e donne, che hanno concretamente fatto qualcosa contro l’atrocità nazista e di cui si sono perse tracce e nomi.

La storia di Maddi diventa una parabola e uno sprone per non dimenticare.

Edurne Portela ci accompagna in un luogo lontano, sia nello spazio che nel tempo, per farci conoscere una donna concreta, forte e testarda, una donna vera, che con le sue luci e ombre ci fa rivivere in modo privilegiato, uno dei periodi più bui della nostra storia recente.

Silvia Lanzi*

Edurne Portela presenterà “Maddi oltre il confine” a Napoli, alla libreria Luce di Lorenzo Marone giovedì 4 dicembre alle 18.30; e a Roma, alla Nuvola Centro Congressi dell’EUR (Sala Antares), il 6 dicembre alle 14,30 nell’ambito di “Più Libri Più Liberi”.

*Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).

Remo Rapino: “Fubbàll” (Minimum Fax), di Gigi Agnano

“Certi giorni mi sento un albero di mele marce, altri un randagio smarrito che si allena a far finta di niente.

C’è un calcio che non esiste più da raccontare, un calcio periferico o di provincia giocato su campetti sterrati e polverosi, fatto di sacrifici e passioni autentiche, lontano dai riflettori, dal business e dai troppi soldi. In quegli stadi improvvisati, a bordo campo o dietro una porta senza rete, che ci fosse un sole africano, o il freddo e la pioggia, c’erano i tifosi, custodi di una passione che si tramandava di padre in figlio, che vociavano e urlavano, soffrivano e si dimenavano. C’era la poesia che va scritta di quei ricordi intimi, di un mondo di sentimenti che ancora scorre nelle vene di chi quel calcio perduto l’ha vissuto e masticato.

Con Fubbàll, Remo Rapino compone questo canto popolare, attacca con la colla di farina le figurine sull’album Panini dei calciatori anonimi, dimenticati, sempre perdenti tranne che in rare occasioni epiche, di un’epica da bar di paese che vale la pena celebrare e ascoltare.

Dodici biografie di uomini semplici – una per ciascun ruolo più quella dell’allenatore – che raccontano un calcio che si misura col sudore, le delusioni, i ricordi, le cicatrici e i rimpianti. Dodici uomini – avrebbe detto Gianni Mura e lo diceva di Pelè – “con niente di speciale”: dal portiere anarchico Milo il gatto con la dote del silenzio, che con quelle mani poteva fare solo il portiere o il carpentiere, al difensore coraggioso e macellaio, “limitato ma di cuore”, che si fa apprezzare non tanto per il talento ma per l’anima che mette in campo; passando per centrocampisti saggi e generosi, poesia e geometria, che fanno l’ uncinetto con i piedi “balzanti e sbirolenti”(Gianni Brera); fino all’attaccante segnato dalla vita e dagli infortuni. Dice il terzino Glauco: “non sempre la vita ti regala poesie, anzi spesso te le toglie”. 

I calciatori di Rapino ci portano con la mente alla poesia popolare di Saba, che in “Tre momenti” raccontava il calcio come un atto gioioso di comunione umana (“Festa è nell’aria, festa in ogni via,/ se per poco, che importa? “) e al Pasolini frequentatore assiduo a Bologna dello stadio Comunale e dei prati di Caprara (“i pomeriggi più belli della mia vita”), quello della rubrica “Il caos” per il settimanale Il Tempo dove poneva il suo sguardo critico sul “corpo dell’atleta”, evidenziando contraddizioni sociali e culturali che ancora oggi si rispecchiano nello sport. I personaggi marginali di Rapino hanno l’umanità e l’ironia delle voci di Soriano, quelle dei giocatori “tristi che non hanno vinto mai” di De Gregori, che affrontano la fatica e non si arrendono; richiamano alla memoria il calcio di “splendori e miserie” di Eduardo Galeano, per cui quando c’è la partita “si ferma il respiro del Paese, tacciono i politici, i cantori e i ciarlatani da fiera, gli amanti frenano i loro amori e le mosche interrompono il volo”.

Fubbàll è così la testimonianza che si fa canto corale di un calcio che non c’è più, ma che sopravvive pulito e genuino nei cuori di chi l’ha amato, un atto di memoria che restituisce dignità e valore a vite altrimenti anonime e sogni sui quali “si deve leggere la scritta Fragile”. Il lettore non legge solo storie di calcio, ma di quelle storie riconosce il pregio anche se il calcio non gli interessa affatto, perché Rapino, con uno stile in bilico tra l’ironico e il poetico, tratteggia esistenze polverose, intrise di nostalgia e va al nocciolo di un mondo complesso e passionale, profondamente umano. I suoi personaggi non sono supercampioni tatuati dalla testa ai piedi, ma persone normali che, come tutti noi, si accapigliano con la vita e perdono palla all’ultimo dribbling.

Remo Rapino, abruzzese, è stato docente di storia e filosofia. Dal 1993 ha pubblicato numerose opere di poesia e narrativa. Nel 2019 esce con Minimum Fax il suo romanzo più noto e apprezzato “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”, che si aggiudica l’edizione 2020 del Premio Campiello, risulta finalista del Premio Napoli e candidato allo Strega. Sempre con Minimum Fax ha pubblicato nel 2021 “Cronache dalle terre di Scarciafratta” e nel 2023 la raccolta di racconti Fubbàll, vincitore del Premio per la Letteratura Sportiva Gianni Mura. In questi giorni è in uscita la sua ultima fatica dal titolo “La Scortanza”.

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori de “Il Randagio – Rivista letteraria“, nato il 15 ottobre 2023, anniversario della nascita di Italo Calvino.

Intervista a Valerio Aiolli per “Portofino blues” (Voland, 2025) – Capitolo Zero: Ep.4 del videopodcast a cura di Loredana Cefalo

Ep.4 Valerio Aiolli, autore di “Portofino blues” (Voland, 2025).

La lettura di “Portofino Blues” di Valerio Aiolli è un’immersione profonda e inquietante nel mondo dorato e marcio delle élite italiane tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni 2000.

Il libro, che fonde cronaca e finzione, si serve del mistero della scomparsa della contessa Francesca Vacca Agusta per tracciare un ritratto impietoso di una società in disfacimento.

​L’autore sceglie una struttura narrativa complessa e non lineare, un mosaico di voci, testimonianze, articoli di giornale, frammenti e dettagli delle giornate della contessa e di chi le ruotava attorno e pensieri intimi dei personaggi che sfociano nella fiction.

Questa tecnica frammentaria non solo tiene alta la tensione, ma serve anche a svelare, strato dopo strato, un mondo fatto di apparenze, dove il lusso ostentato nasconde un vuoto interiore e una profonda solitudine.

Il tono a volte distaccato e a volte immersivo, ci porta dentro ad ogni capitolo, con un gioco di luci sui fatti di cronaca narrati e sui risvolti delle indagini, alternati alle ombre della vita e dei ricordi degli attori principali della vicenda.

“Fuori” e “Dentro” sono i distinguo che accompagnano il lettore facendogli comprendere dove inizia la fiction e finisce la realtà. Una efficace espediente narrativo in cui si succedono stile da reportage e flusso di coscienza.

Il variare temporale tra il “prima” e il “dopo” la tragica scomparsa della contessa crea un’atmosfera sospesa,  in cui Portofino stessa diventa un personaggio, un luogo “blues”, di sofferenza, di lamento e solitudine che riflette l’ambiguità dei suoi abitanti.

​Al centro del romanzo non c’è solo il “caso” Vacca Agusta, ma una critica sociale tagliente. Aiolli lega la vicenda personale della contessa a eventi storici come Tangentopoli, puntando il faro sul legame indissolubile tra potere, denaro e corruzione. Il libro svela come il mondo del “jet set” sia spesso un’illusione, un circolo vizioso di arrivismo e dipendenze, dove la ricchezza non è quasi mai genuina, ma una contaminazione dovuta alla vicinanza a “supernova altolocate.”

​Le figure femminili sono descritte in modo particolare: non sono semplici vittime, ma “tigri servili a comando,” donne che usano la loro bellezza e il loro fascino come armi per sopravvivere e scalare posizioni sociali.  Un tipo di femminilità che suscita negli uomini paura, spingendoli a comportamenti violenti per mantenere una imposta immagine “maschia.”

​Oltre al ritratto sociale, il romanzo si spinge nella quotidianità dei personaggi. La ricostruzione degli ultimi momenti e pensieri della contessa, nei capitoli finali, è particolarmente toccante.

Emergono i temi della paura di invecchiare, come sintomo della non accettazione della morte. L’autore ci invita anche ad una analisi profonda su quanto la ricerca disperata dell’eterna giovinezza e di un’immagine perfetta sia un’altra metafora del vuoto di un’epoca che ha fatto della superficialità il suo credo.

​Come va a finire la vicenda? Il libro lascia al lettore la scelta fra il credere all’ipotesi del suicidio della protagonista o alla congiura di interessi omicida. Ci si schiera per l’una o l’altra possibilità durante il percorso di lettura, ma il mistero non è svelato.
Resta a voi, accomodarvi sul divano e immaginare, attraverso le pagine, com’è andata davvero. Come in una docu-fiction letteraria, dove è la nostra personale sensibilità rispetto ai fatti narrati a fare da guida.

Loredana Cefalo*

* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Adoro le colline, il profumo della pioggia, l’odore di castagne e camino, che mi porto dentro come parte del mio DNA.

Ho una grande curiosità per la tecnologia, infatti da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato.