Intervista a Chiara Maci per “Quelle due” (Mondadori, 2025), di Loredana Cefalo

Ho seguito con piacere, sui social network,  il racconto del booktour di Chiara Maci, nella sua nuova veste di romanziera, in giro per l’Italia bollente di fine giugno, fra un bicchiere ricolmo di bollicine ghiacciate e il suo sorriso inconfondibile e rassicurante che emerge ogni giorno dalla sua pagina Instagram.

Il suo primo lavoro letterario, “Quelle due” edito da Mondadori, è un delicato inno alle donne, attraverso quattro generazioni. 

Un romanzo di formazione che traccia le linee di un dolore taciuto, narrando la trasformazione del rapporto madre-figlia attraverso ricordi e verità celate. 

Fra una tappa e l’altra siamo riuscite a ritagliarci un angolo di chiacchiere virtuale e mi fa piacere condividere con tutti, randagi e non, quello che ci siamo dette, che va sempre un po’ oltre le pagine scritte.

Chiara, guardando alla tua carriera sempre in evoluzione, mi viene in mente il tuo “nograzienonsipreoccupi” di Adele, la tua protagonista. Nel tuo ritmo incessante vita – lavoro come affronti i momenti in cui pensi di non riuscire a portare avanti tutto?

Credo che la cosa più difficile, per quelle come me, sia imparare a chiedere aiuto. Sono cresciuta con la convinzione di poter fare tutto da sola e allo stesso tempo, riuscendoci poco alla volta, ho avuto la conferma che, sopportando, tutto era possibile. Fondamentale è stato capire che sopportare non vuol dire essere forti e di conseguenza fermarsi e chiedere aiuto perché da soli, spesso, non ci si salva. 

Il tuo romanzo d’esordio “Quelle due” esplora temi a te molto vicini, non sono autobiografici ma prendono spunto anche dalla tua esperienza. Da dove nasce l’esigenza di trasporre in un libro una vicenda che riecheggia in modo così forte la tua biografia di madre single?

Dalla voglia di comunicare qualcosa di bello, un lavoro fatto su me stessa che andava condiviso con chi in qualche modo si riconosce in Adele. Ma anche in Mia. 

L’accettazione della propria storia è qualcosa di intenso, forte. Qualcosa che cambia radicalmente il modo di vedere il percorso fatto e quello ancora da fare. 

Il mio libro vuole essere un augurio a tutte le donne affinché riconoscano la loro unicità nella propria storia. 

Famiglia e legami sono un pilastro della tua comunicazione. Come donna e madre, come ti relazioni con i pregiudizi che la società ancora riserva alle famiglie monogenitoriali in particolare quelle al femminile?

C’è tanto da fare, ancora. Le famiglie monogenitoriali non si conoscono e di conseguenza non vengono riconosciute. Da un punto di vista burocratico è tutto complesso e i retaggi passati ahimè non si superano con una generazione. Ma sono positiva sul lavoro che si sta facendo e che verrà fatto dalle nuove generazioni.

Se tornassi indietro, di cosa avresti bisogno nel momento della decisione di diventare madre? E che consiglio offriresti a una donna che si trovi ad affrontare la tua scelta?

Di sentirmi dire “ci sono io”. Non solo come madre sola ma come madre e basta. 

Nel momento in cui diventi genitore è fondamentale sapere di poter contare su un appoggio. E quindi il mio consiglio è quello di non voler fare le wonder woman ma di appoggiarsi a un genitore, un amico, una persona di fiducia. 

Un tema toccante del romanzo è quello dei bambini costretti a crescere troppo in fretta, un fenomeno che spesso riguarda le femmine. Dal tuo punto di vista, in che modo questa “adultizzazione” precoce può condizionare la capacità di una donna di essere libera e di sviluppare un pensiero autonomo in futuro?

I bambini dovrebbero essere bambini. E a volte succede che, da genitori, riponiamo troppe responsabilità su un figlio e sulla sua crescita precoce. Il “sembra un piccolo adulto” è un’espressione usata moltissimo come un complimento, ma non lo è.

Un genitore deve lavorare su se stesso per non trasmettere ai figli crepe e responsabilità ma allo stesso tempo una madre deve lavorare sulla propria libertà, perché da una madre libera nascono figli liberi. 

Il romanzo esplora due paure genitoriali archetipiche: quella di commettere errori le cui conseguenze ricadono sui figli e quella di dover, un giorno, lasciarli andare. Al di là della finzione letteraria, come convive Chiara Maci con queste preoccupazioni?

Come tutte le mamme, piena di paure e con la convinzione che, come fai fai, sbagli sempre. Ma in fondo ogni età, propria e dei figli, porta con sé cambiamenti e inevitabili momenti di crescita. Non arriverò pronta al lasciarli andare ma vivrò ogni momento con la consapevolezza di quello che è giusto. 

Hai lasciato il tuo segno nel mondo digitale, in quello televisivo e ora in quello editoriale. Guardando al futuro, c’è un nuovo orizzonte professionale che ti affascina o un progetto che senti ancora di voler realizzare?

Non penso mai al segno che lascio, ma penso piuttosto alla mia esigenza di condividere qualcosa di vero, di bello, che parte sempre da dentro. A volte è la cucina, a volte la ceramica, quasi sempre la scrittura. 

Loredana Cefalo*

* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato. Dal mese di giugno scorso curo il podcast del Randagio “Capitolo Zero”.

Valeria Jacobacci: “La stamperia dei libri proibiti” (La valle del tempo), di Silvio de Majo

Il romanzo storico è decisamente nelle corde di Valeria Jacobacci. E lo è ancora di più quello che delinea la vita, i tormenti, gli amori di figure femminili che appartengono al passato di Napoli. Muovendosi fra Settecento e Ottocento, ha scritto due libri: uno pubblicato nel 2002, “Io, Teresa Filangieri”, che racconta la vita della figlia del generale Carlo, e quindi della nipote del grande giurista Gaetano, una esponente della nobiltà che profuse grande impegno in una serie di iniziative umanitarie nei confronti dei derelitti di Napoli nel XIX secolo, sia nell’epoca borbonica, sia soprattutto in quella postunitaria; l’altro, pubblicato nel 2005, intitolato “Passioni giacobine”, trascina il lettore dentro il 1799, ricostruendo le vite e gli amori di donne e uomini vissuti a cavallo della rivoluzione napoletana. 

    In seguito  Valeria ha scoperto il Cinquecento e vi è entrata dentro con tutta se stessa, fornendo un pregevole esempio del giusto e suggestivo rapporto tra storia e letteratura. E’ il secolo del Rinascimento, delle corti, dei nomi celebri e dei grandi eventi , della asperrima lotta tra le due superpotenze dell’epoca, la Francia e la Spagna, della Riforma protestante e della Controriforma, del nepotismo papale, in cui un ragazzo di 14 anni, Alessandro Farnese, uno dei personaggi su cui ruota il romanzo che qui si presenta, viene fatto cardinale dal nonno, papa Paolo III.

   E Valeria questo secolo lo sente suo, come suo lo sentiva Maria Bellonci, autrice del bel romanzo “Rinascimento privato”, dato alle stampe nel 1986 e insignito del Premio Strega l’anno successivo. Come è noto è la vita , raccontata in prima persona, di Isabella d’Este, marchesa di Mantova (in quanto moglie di Francesco Gonzaga) , straordinario esempio di donna colta e raffinata, di sovrana illuminata nell’Italia delle Signorie. E’ la stessa Isabella che Valeria immagina abbia salvato dal sacco di Roma del 1527 la neonata Settimia Jacobacci, la protagonista del nostro romanzo, e, orfana, l’abbia portata con sé per allevarla nell’eleganza e nella ricercatezza della sua corte. Settimia è pertanto come Isabella donna colta, amante della poesia e della musica, indagatrice dell’animo umano, aperta a esperienze diverse da quelle canoniche riservate alle donne: mogli e madri.

  Nel romanzo non mancano mirabili intrecci e suggestivi incastri e la vicenda raccontata si svolge tra la Napoli del Viceré duca d’Alba, dove Settimia con il marito Renzo porta avanti una casa editrice, la Roma in cui è dominante la figura del cardinale Farnese, ormai quarantenne, di cui Settimia è (non tanto) segretamente innamorata, la Rotterdam luterana dove si rifugiano Luca, ex amante di Settimia, e i suoi amici, gli Adelfi, fautori immaginari di un cattolicesimo diverso di impronta erasmiana, e infine la Parigi e la Francia della regina Caterina de’ Medici e della nobiltà legata alla corona, da cui scaturisce l’infame Claude Gouffier, il Barbablù della nota fiaba di Perrault, che il romanzo svela come sia in realtà un personaggio storico.

     Con Settimia altre donne e le loro storie occupano gli spazi letterari e storici del romanzo: Pudentilla, la compagna di Annibal Caro, segretario del cardinale Farnese, dedita all’arte medicinale è amica carissima di Settimia; Nencia, la moglie e salvatrice di Luca; Claude de Beaune, quarta moglie del marchese Claude Gouffier, vittima del marito, ma anche del cinismo della regina e di Alessandro Farnese, suo antico amante e padre della sua figlioletta, che il cardinale non ha esitato a sottrarle. Sono quattro eroine, non tutte appartenenti al modo ricercato delle corti rinascimentali, perché Nencia appartiene alle classi subalterne, ma con intelligenza e spirito di iniziativa riesce a contrastare  gli eventi avversi ed anzi a trarne profitto, a basare su di essi la propria fortuna.

    Con queste donne e in particolare con Settimia, l’autrice è estremamente solidale e non solo perché crede fermamente di succederle, come il cognome suggerisce, ma perché si immedesima empaticamente con tutte le loro storie, i loro appassionati amori, i successi e gli insuccessi, le vittorie e le atroci sconfitte. Rappresentano tutte, pur nelle loro diversità, il suo modello di donna.

Silvio de Majo

“La stamperia dei libri proibiti” sarà presentato a Napoli, nell’ambito di Napoli Città Libro, il 14 giugno alle ore 17.00.

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.    

Paul Auster: “L’invenzione della solitudine” (Einaudi, trad. Massimo Bocchiola), di Vincenzo Vacca

Il libro di Paul Auster, “L’ invenzione della solitudine” , si divide in due parti. La prima è intitolata “Ritratto di un uomo invisibile” e narra delle emozioni e dei ricordi di un uomo  – costituisce una parziale autobiografia dello stesso autore  – in ordine alle caratteristiche del  rapporto che sin dalla nascita ha avuto con il proprio padre.

Lo stile è semplice, particolarmente ricco di significati, e molto introspettivo e personale.

Auster segue l’ onda dei ricordi e, pertanto, scava senza infingimenti la figura del padre e come questi riteneva opportuno esercitare la sua figura paterna.

In realtà, il lettore verrà a conoscenza di una vicenda fortemente drammatica che investì il padre dello scrittore in tenera età, segnandolo profondamente. 

Di conseguenza, ne risentì anche l’ intera relazione tra genitore e figlio. 

Una relazione oscura, costituita da affetto negato o, quanto meno, non espresso.

Lo scrittore, dopo la morte del padre, si ritrova a dover svuotare la casa di quest’ultimo, “una abitazione imponente” che diceva molto “del suo mondo interiore”.

Una abitazione che non veniva pulita anche se esteriormente sembrava in un buon stato: un perfetto rispecchiamento di chi ci abitava, vale a dire di una persona che apparentemente sembrava equilibrata, calma ma, invece, era preda di una forte rabbia trattenuta a stento.

Il libro è una sorta di continua spola tra passato e presente, nonché è attraversato da una ricerca di significato nei confronti del comportamento delle persone ma anche nel rapporto tra le stesse e gli oggetti.

La morte del padre è per Paul Auster una causa scatenante per confrontarsi con se stesso, con il proprio passato e futuro. Uno sprone per cercare attivamente le risposte alle domande che la vita ci pone continuamente e provando, quindi, a non essere travolti dal caso.

È chiaro che il viaggio interiore porta a galla inevitabilmente emozioni assopite che adesso, con la morte improvvisa del padre, vengono a galla tutte insieme e l’ uomo prova quasi una sensazione di soffocamento. Infatti, fin da piccolo ha cercato inutilmente di avvicinarsi al proprio genitore, impermeabile alle emozioni.

Ha provato a legarsi a lui, a sentirsi amato, ma il tutto è rimasto nell’ ambito dei desideri.

Ecco perché la scrittura diventa lo strumento per andare a fondo in quanto lo scrittore si sente in qualche modo protetto dalle sue stesse parole.

La scrittura come ancora di salvezza per un uomo che ha avuto un padre che ha scelto la solitudine per sé e per tutti quelli che a lui sono vicini.

Con la  seconda parte del libro, intitolata “Il libro della memoria“, l’ autore analizza in modo meno lineare il proprio io nel rapporto con il figlio Daniel.

In questa seconda parte, volutamente frammentaria, composta di immagini, istantanee, citazioni e pensieri, Auster credo che voglia comunicare la difficoltà ad essere padre, il fondato timore di non riuscire a trasmettere fino in fondo l’ amore per il figlio.

Ne viene fuori, però,  una certa verbosità, non priva però di genialità e di originalità, basti pensare alle considerazioni sul caso e come esso può influenzare la nostra vita. 

È  sublime lo scavo dell’ intimità poetica che fa Auster di un bambino mentre gioca. Il gioco come anticipazione di un mondo a cui aspira il bambino. 

Lo scrittore, citando Freud, afferma che:

 ” l’ attività poetica quanto la fantasticheria costituiscono una continuazione e un sostitutivo del primitivo gioco di bimbi”

Paul Auster è stato un gigante della letteratura e questo libro permette di gustare molto bene il suo stile di scrittura. 

Vincenzo Vacca 

Marcella Formenti: “La morte della Romanziera” (Morellini), di Vincenzo Vacca

Sin dalle prime pagine, Marcella Formenti, con il suo libro “La morte della Romanziera” cattura il lettore. Lo coinvolge in pieno nelle atmosfere siciliane degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. 

Un primo merito di questo bel libro sta nel richiamare e farne respirare in pieno lo spirito, la passione, l’ entusiasmo delle battaglie del movimento contadino siciliano contro il latifondo. 

In una terra come la Sicilia, di fatto, lottare contro il latifondo significa lottare contro la mafia, e precisamente, Cosa Nostra.

Non bisognerebbe mai dimenticare che quel movimento pagò un carissimo prezzo di sangue: furono uccisi dai mafiosi circa 40 promotori ed organizzatori di quelle battaglie, per lo più sindacalisti e socialisti.

Per nessuno di essi è stato condannato definitivamente un solo assassino.

Ecco perché Marcella Formenti ha un grande merito con il suo libro: recupera la memoria di una parte della storia d’ Italia dimenticata da gran parte dell’ opinione pubblica.

Provando ad anticipare poco del libro che è pur sempre un giallo, è il caso di evidenziare come l’ autrice valorizza il protagonismo delle donne in quel frangente storico.

Certo, il libro in questione è frutto della immaginazione creativa di Formenti, ma la riuscita letteratura, e questa lo è a pieno titolo, sta nella capacità di scrivere di personaggi finti – ma non falsi – che assumono su di sé le tipiche caratteristiche di persone in carne e ossa che hanno vissuto il luogo e il tempo narrati.

Altro recupero che fa la scrittrice è la figura del bandito Giuliano, nonché la strage di Portella della Ginestra, avvenuta il 1947, quando la banda criminale del citato fuorilegge sparò contro una folla di contadini che stavano festeggiando il primo maggio, facendo ben 11 morti.

L’ autrice offre al lettore le atmosfere, le ambiguità, le complicità della Sicilia e dell’ intero Paese – con uno suo specifico stile, ma che un pò ricorda quello di Leonardo Sciascia – in un passaggio storico delicato dell’ Italia, vale a dire la fine degli anni quaranta del secolo scorso.

Nasce un nuovo Stato che è sicuramente democratico, ma che si porta dentro una certa continuità con quello precedente e con quello prefascista.

L’ abilità di Marcella Formenti sta nel fatto che lei  fa percepire la mancata radicale discontinuità tra vecchia e nuova statualità soprattutto nella mirabile descrizione dei personaggi letterari che, di volta in volta, si affacciano nella storia narrata.

Il contenuto del libro è incentrato sulla morte di una donna,  Tindara Persichini, socialista. Una morte causata da un motivo apparentemente chiaro, ma che, in realtà, si pone al centro di una fitta rete di indifferenza, di ambiguità, di maldicenza, di opportunismo ammantato di desiderio di giustizia. Una morte avvenuta in un periodo nel quale il bandito Giuliano risultava imprendibile.

Ma l’ autrice, in questo vortice di sentimenti,  di omissioni, di ipocrite finalità alla lotta alla delinquenza organizzata strumentalizzata per scopi di stabilità politica, riesce paradossalmente a individuare un filo di umanità, di gratitudine nei confronti della donna uccisa che è amata e rispettata da una moltitudine di persone.

Leggere “La morte della Romanziera ” costituisce una vera e propria immersione nella Storia, ma attraverso le storie di individui. Individui che hanno tutti, come è inevitabile,  le loro zone d’ ombre, ma alcuni riescono a mettere in luce una forma di empatia con la donna morta e, più in generale, una connessione con la sofferenza umana. 

Vincenzo Vacca 

I lupi di Willoughby Chase di Joan Aiken, trad. Irene Bulla, illustratore Pat Marriott (Adelphi), di Cristina Marra

Bonnie e Sylvia sono due bambine coetanee, diverse per formazione e strato sociale e destinate a incontrarsi per condividere un’avventura che le catapulta in una realtà opposta a quella di appartenenza. Frutto della genialità narrativa della scrittrice Joan Aiken ( Sussex 1924- 2004), prolifica e geniale, figlia dell’autrice canadese Jessie McDonald’s e del poeta premio Pulitzer americano Conrad Aiken, il mondo immaginario che fa da sfondo a “I lupi di Willoughby Chase”, di cui le giovanissime cugine sono le protagoniste, è un’alternanza di luoghi-simbolo che vanno dal tunnel  sottomarino che unisce Dover a Calais, alla sontuosa villa di Willoughby, al bosco innevato.

L’autrice che, secondo lo studioso Brian Phillips “mise la sua fervida immaginazione al servizio di una meravigliosa intelligenza pragmatica, dando vita a libri che attingono a piene mani all’innata follia della letteratura e alla misteriosa saggezza che essa può conferire”, con “I lupi di Willoughby Chase” inaugura il primo romanzo della serie delle Cronache dei lupi, pubblicato nel 1962 e ambientato nell’Inghilterra immaginaria del 1830 in cui arrivano di branchi di lupi attraverso il canale che unisce Calais a Dover.

Illustrato da  Pat Marriott e tradotto da Irene Bulla, il libro è un romanzo di formazione e di avventura che inneggia al rispetto della natura e avverte che il pericolo è incombente anche dove meno ce lo aspettiamo.

I libri della serie delle Cronache dei lupi di Aiken rappresentano un importante snodo nell’attività letteraria dell’autrice che scrisse ripetutamente fino alla morte avvenuta nel 2004. Il successo editoriale della serialità in Inghilterra approda ben presto anche sul grande schermo con l’adattamento cinematografico del 1989.

Finalista al premio Andersen 2024, il romanzo accompagna il lettore in un viaggio avventuroso che inizia col tragitto in treno da Londra della piccola Sylvia per raggiungere la cugina Bonnie. Lungo il viaggio le carrozze sono spesso attaccate da branchi di lupi e “quando i lupi si accorgono che un treno sta rallentando, cominciano a correre verso la stazione e si appostano in attesa dei passeggeri” ed è sempre una corsa contro il tempo per chi arriva e per chi parte e Sylvia attesa da Bonnie si avvia sana e salva verso la grande tenuta.

Ma la paura e le trappole per le giovani cugine non scompaiono all’interno delle mura domestiche anzi si palesano in modo subdolo e opportunistico. Un piano criminale è stato orchestrato per danneggiare l’intera famiglia e sarà il coraggio unito a una determinazione che diventa maturità e voglia di giustizia da parte delle protagoniste ad avere la meglio.

In una lotta tra male e bene inserita in un’ambientazione gotica e cupa, la ferocia umana si dimostra peggiore di quella animale. Aiken infatti imbastisce una trama in cui il territorio è presidiato da lupi famelici pronti ad attaccare e mette sul chi va là l’intera popolazione  ma la situazione vale anche come monito che non sempre il male e la cattiveria stanno fuori, all’esterno, o lontane da noi, ma spesso covano dentro l’ambito familiare in cui la sincerità e il disinteresse non sono sempre validi.

Aiken predilige le zone d’ombra in cui “il realismo ottocentesco scivola nel folklore e nel fantastico”, infarcisce la storia di cliché e scene spesso paradossali, e inquietanti, come pure di personaggi assurdi e accadimenti improbabili. Del resto non poteva essere altrimenti per una scrittrice  che scrisse oltre cento romanzi e scelse di vivere col marito in un autobus!

Cristina Marra