Il bitinicco arrabbiato – Vita agra di uno scrittore in libreria (Secondo Sberleffo), di Davide D’Urso

IL BITINICCO ARRABBIATO

VITA AGRA DI UNO SCRITTORE IN LIBRERIA

Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera – bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle”. 

Così scriveva Bianciardi, qualche tempo fa. Io sarò più misurato, mi limiterò a rompervi le palle.

SECONDO SBERLEFFO 

E comincerò raccontando di questo spettro che si aggira non so se per l’Europa, di certo qui da noi, alla periferia dell’impero. Una figura che si riconosce da lontano, mentre pian piano si avvicina alla libreria. È la signora che vuole effettuare un cambio. Entra, ci porge lo scontrino, poi dice: è un doppione! In passato, i clienti restituivano il libro avvolto dentro una confezione regalo. Oggi, non più. Oggi sono essi stessi gli artefici dell’acquisto. 

Questo fenomeno ha preso vita qualche anno fa, a causa delle trovate di marketing di una casa editrice particolarmente aggressiva. Si dice sempre così, oggi, quando si vuole annacquare la verità. L’italiano possiede una gamma pressoché infinita di termini che consentono a chiunque intenda guardare in faccia la realtà, di tratteggiare con notevole precisione i contorni di qualunque personaggio. Ma la lingua è uno strumento che va adoperato con cautela, perché se utilizzata con sincera onestà intellettuale può rivelarsi particolarmente dolorosa, diventa letteratura. E allora, in luogo di azienda senza scrupoli che tende a rastrellare il maggior numero di clienti vendendo loro sempre lo stesso libro, meglio editore aggressivo. Insomma, questo editore disegnava copertine che richiamavano alla memoria altre copertine, pubblicava romanzi che rievocavano altri romanzi, con dei titoli che ricalcavano precedenti successi. In copertina quasi sempre campeggiava l’immagine di un uomo che indossava un saio davanti alla porta di una antica chiesa, e sulla testa di quest’ultimo spiccava la parola cattedrale o monastero (basilica no, suonava consolatorio invece che inquietante). Oppure vangelo, manoscritto o codice (tomo o volume, niente da fare. Nemmeno trattato o saggio. Evocava burocrazia invece che profezia). Infine, seguiva l’aggettivo proibito, o maledetto. Al massimo antico. Ulteriori aggettivi che riconducessero al gotico non ve n’erano e così l’editore s’è arrangiato rispolverando l’antico gioco delle tre carte riproposto in salsa editoriale, sciorinando una serie pressoché infinita di cattedrali maledette, vangeli altrettanto maledetti oppure proibiti, come le antiche profezie dei monasteri, proibite a loro volta, a causa per lo più di un templare.

Per farla breve, a furia di scrivere sempre lo stesso libro col medesimo titolo e copertina pressoché identica, i clienti finivano per fare una gran confusione, ritrovandosi poi tra le mani il famigerato doppione. Doppione che poi, come il Glen Grant che girava di casa in casa negli anni ’80, passava di mano in mano fino all’inesorabile epilogo, la bancarella.

La signora, quella del cambio, mastica un altro genere di narrativa. Ma il risultato non cambia, è sempre lo stesso libro, sempre lo stesso plot. Eccolo. Il romanzo della scrittrice del momento (nasce una scrittrice ogni momento. Scrittori, niente. Non si ha memoria di un uomo che figuri come autore di queste storie) narra le prodezze di una giovane donna (giovani uomini, niente. Non si ha memoria di un uomo che risulti protagonista di queste storie) che nell’Italia rurale che va tra la fine dell’800 ai primi anni ’60, grazie alla sua intelligenza, sensibilità, pervicacia, carisma, e mille altre doti, riesce a emanciparsi dalla propria condizione. La copertina, da La solitudine dei numeri primi in poi, non può non raffigurare un volto. Ma, vista l’ambientazione, si è reso necessario il passaggio dalla fotografia al dipinto. E così le librerie traboccano di ritratti di dame dell’800 che guardano assorte all’orizzonte.

Fortuna che ci sono i giapponesi a dare colore alle copertine. E a rassicurare i consumatori con le loro storie di rinascita – poi il cerchio si è allargato agli orientali tout court per cavalcare più efficacemente il business. In questi romanzi, insieme ai luoghi, hanno molta importanza le bevande. Tè e caffè su tutti. Il sakè no, chissà perché. Poi si è passati alla cioccolata. E invece delle cattedrali, a ospitare queste storie, oltre che ristoranti e caffetterie, ci sono librerie e biblioteche, oppure lavanderie e minimarket. E gatti, gatti dappertutto. Nemmeno un cane.

Intanto – e questo mi sembra il punto e, insieme, la nota dolente del discorso – molte case editrici sono diventate aggressive, nel senso annacquato di cui sopra. E così succede che, mentre l’editore che ha dato vita al filone di successo, seguita a pubblicare i libri dello stesso autore citando orgogliosamente (per non dire riproducendo clamorosamente) copertina titolo e storia del libro campione d’incassi, le altre, che intendono cavalcare l’onda delle vendite, si devono arrangiare. Ed ecco che sugli scaffali ci ritroviamo tutti insieme: A volte basta un gatto (Garzanti), insieme a I gatti di Shinjuku (Einaudi), Se i gatti scomparissero dal mondo (Einaudi), La mia vita con i gatti (Einaudi) e il più recente Indagine di un gatto (Mondadori). Lei e il suo gatto (Einaudi) è già un ricordo. Una novità invece è Un gatto per i giorni difficili (Rizzoli). Ma come dimenticare Cronache di un gatto viaggiatore (Garzanti). E poi, col tempo – un tempo brevissimo, ormai. Le novità commerciali durano qualche mese in libreria, poi un nuovo gatto, pardon, un nuovo libro sostituisce la precedente novità. Col tempo, dicevo, i titoli finiscono per accavallare un tema di successo all’altro. Sembra quasi che si parlino tra loro. Il caffè della luna piena (Mondadori) è ambientato in una caffetteria, naturalmente. Ma chi gestisce il locale? Un gatto! Il magico studio fotografico di Hirasaka(Feltrinelli) ha come protagonista un fotografo. Però c’è un gatto in copertina, ci sarà una ragione. Spero. E Mentre aspetti la cioccolata (Garzanti), Ci vediamo per un caffè (Garzanti). Per pranzo invece suggerisco Le ricette perdute del ristorante Kamogawa (Einaudi), senza dimenticare Le ricette della signora Tokue (Einaudi) e La cucina degli incontri della signora Megumi(Rizzoli). Dopo pranzo, ci vuole il dolce. Ecco La pasticceria incantata (Mondadori). Dopodiché, se vi doveste macchiare con tutte queste smielate pietanze, c’è Una piccola lavanderia a Yeonnam (Nord), tra Il grande magazzino dei sogni (Mondadori) e L’emporio dell’amore della famiglia Botero (Giunti), Alla fermata dei desideri (Garzanti), dov’è Il minimarket della signora Yeom(Salani). Conosco bene la zona. Poiché sono un lettore forte, passo spesso da quelle parti, per salutare Le libraie Kichijoji(Einaudi). Pare che i tempi non siano favorevoli per i libri. Fortuna che ci sono i gatti. Pensano a tutto loro. C’è Il gatto che voleva salvare la biblioteca e Il gatto che voleva salvare i libri, entrambi per Mondadori. Ah, non fatemi ricordare I miei giorni alla libreria Morisaki (Feltrinelli), ne ho passati lì di bei momenti – per la cronaca, anche qui c’è un gatto in copertina. Come del resto sono stati belli I miei giorni alla libreria della felicità (Newton Compton). Poi basta, ho smesso. No, non di leggere, di entrare in libreria.   

Davide D’Urso


Davide D’Urso. Scrittore, libraio, operatore culturale. Dal 2013 dirige il punto vendita flegreo di Librerie.coop. Ha pubblicato “Il paese che non voleva cambiare” (Manni, 2007). “Incontri notevoli di un libraio militante” (Valtrend, 2012). “Tra le macerie”, (Gaffi – Italo Svevo, 2014). “I famelici” (Bompiani, 2021). “Fuoco sulla città” (Ad Est dell’Equatore, 2013) include il racconto, “Fuocoefiamme”. Nel 2022 viene scelto da Filippo La Porta per l’antologia “Gli occhi di Napoli” (Iod, 2022). I contigui è pubblicato all’interno dell’antologia “Napoli stanca”, a cura di Mirella Armiero (Solferino, 2023).

Il bitinicco arrabbiato – Vita agra di uno scrittore in libreria (Primo Sberleffo), di Davide D’Urso

IL BITINICCO ARRABBIATO

VITA AGRA DI UNO SCRITTORE IN LIBRERIA

Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera – bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle”. 

Così scriveva Bianciardi, qualche tempo fa. Io sarò più misurato, mi limiterò a rompervi le palle.

PRIMO SBERLEFFO 

Ma starò anche attento a lasciare uno spiraglio di speranza, in ossequio ai dettami della comunicazione contemporanea. Non sia mai che quei quattro lettori rimasti si avviliscano. La clientela, si sa, non va contrariata in nessun caso. 

E sì, la clientela. Perché è solo questo ormai che riconosciamo nell’altro, un consumatore e niente più. 

Nulla di sorprendente. Siamo un Paese che vive alla giornata. In qualunque contesto lavorativo, l’unico dato che conta sono i numeri che ognuno è costretto a snocciolare per garantirsi lo stipendio. 

E raggiungere il budget del mese e poi quello del primo semestre e infine dell’anno, invece di essere uno strumento di verifica della qualità del proprio lavoro, s’è trasformato nel lavoro in sé. Cosa si venda in tutto questo frattempo è diventato di conseguenza marginale. 

Da un certo punto di vista è anche più comodo. Per servire un lettore occorre preparazione. Bisogna non solo conoscere gli autori, leggerne i libri, informarsi presso i giornali, le riviste specializzate. È necessario anche saper distinguere e inoltre valorizzare il progetto letterario di una casa editrice rispetto a un’altra, seguire le fiere, i premi letterari. Una fatica! Con i consumatori è tutto più facile. Si cavalca il fenomeno mediatico del momento e tanti saluti alle recensioni dei quotidiani! 

Un tempo ci si doleva del fatto che la politica avesse ceduto il primato all’economia. Ecco, nel nostro piccolo, abbiamo fatto lo stesso, il mondo editoriale ha ceduto il primato ai media, vecchi e nuovi. E così ci siamo adattati a vendere le opere di gente che, più che scrivere, buca lo schermo con la propria simpatia. Ma il budget, per l’appunto, è garantito, e nessuno si lamenta. Del resto, perché lamentarsi? Si rischierebbe di fare la figura dei reazionari e basta. Mentre chi ostenta interesse per i fenomeni social che piacciono tanto ai ragazzini, dimostra non solo di essere aperto alle novità ma, assecondando il gusto dei figli, riesce a compiacere anche le madri, e magari a vendere loro qualche libro. Meglio di così! 

Insieme ai piacioni della rete, c’è un secondo fenomeno che l’industria culturale sta cavalcando senza freno, i libri che instillano fiducia in se stessi. Non sono saggi. Qualcuno è addirittura collocato nel settore di Narrativa. Mentre il grosso entra di diritto nel genere che oggi va per la maggiore, la Varia. Gli autori di queste opere hanno una sola cosa in testa, dimostrarci quanto valore abbia il quotidiano di ognuno di noi – anonimo solo a un occhio poco attento, il nostro. Meriterebbero un plauso, per la pervicacia con cui si ostinano a confortarci. Anche se non sono un granché. Infatti, più che stimarli, siamo loro grati.

La scintilla di speranza. Una signora entra in libreria. Non saluta. Il mio è il punto vendita di una catena di librerie e la gente dà per scontato che i rapporti siano impersonali. Reagisce perciò con sorpresa quando, oltre al buongiorno, le chiedo delle sue letture. Chiacchieriamo per qualche minuto, le suggerisco diversi libri, ne prende un paio. Settimane dopo torna soddisfatta. Sulla base delle sensazioni che certi titoli le hanno trasmesso, le propongo altri romanzi. La storia si ripete, va avanti per mesi, anni. Nasce un legame.

Siamo all’oggi, ormai ci diamo del tu, siamo diventati amici. Anzi, di più, abbiamo costituito una piccola comunità – conosco le figlie, mi ha presentato sua sorella. Il marito no, i mariti non leggono quasi mai. 

Questo è il senso e, insieme, il sogno di un libraio. L’unico uomo che insegue ancora un’Utopia. Credendo egli, attraverso la letteratura, di cambiare le persone, e alla fin fine il mondo. Almeno ci prova, il nostro ultimo eroe romantico.

Davide D’Urso


Davide D’Urso scrittore, libraio, operatore culturale. Dirige una libreria nei Campi Flegrei. Esordisce con la raccolta di racconti “Il paese che non voleva cambiare” (Manni, 2007). Successivamente, cura per il sito on-line della Fondazione Premio Napoli la rubrica “In mezzo ai libri”; i racconti apparsi sul sito confluiranno poi nell’antologia “Incontri notevoli di un libraio militante” (Valtrend, 2012). Nel 2013 partecipa all’antologia “Fuoco sulla città” (Ad Est dell’Equatore) con il racconto “Fuocoefiamme”. Nel 2014 è la volta di “Tra le macerie”, romanzo pubblicato per l’editore romano Gaffi. Il suo ultimo lavoro, I famelici (Bompiani) è uscito nel 2021.

Alla riscoperta di un incanto sconosciuto. Intervista a Francesco Vitucci, direttore della collana Arcipelago Giappone di Cristina Marra

La letteratura giapponese appassiona e incuriosisce i lettori italiani, dai romanzi storici, ai gialli, alle fiabe sono tante le opere che l’editoria offre ma è alla scoperta di nuove suggestioni e incanti del Sol Levante che ci conduce Arcipelago Giappone la nuova collana di Luni editrice diretta da Francesco Vitucci. Coordinatore del Corso di Studi in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia
e dell’Africa Mediterranea e professore associato di Linguistica Giapponese al Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, Vitucci racconta a Il Randagio una collana che regala una nuova visione delle produzioni giapponesi scevre da cliché con pubblicazioni marginali, in Arcipelago Giappone è il Giappone stesso a occupare un margine, in quanto protagonista naturale, e non forzato, di un universo letterario che può sopravvivere anche in assenza di fiori di ciliegio, samurai e, più di recente, personaggi che galleggiano in uno sbando postmoderno suggestivo quanto sterile.

Francesco, benvenuto a Il Randagio e complimenti per la tua collana. Con quali obiettivi nasce Arcipelago Giappone e che narrativa propone?
Questa collana nasce dalla ferma convinzione che la letteratura giapponese debba emanciparsi non solo dall’alone esotico che la precede, ma soprattutto dai soliti cliché mediatici che l’hanno trasformata in una bolla di speculazione in cui il lettore attento scoverà una vasta strategia di marketing, poco Giappone e magre tracce di letteratura. Accanto a questa urgenza negativa, che nasce dal lento, puntiglioso scontro con un mercato frettoloso, ce n’è un’altra positiva, forse più ingenua ma senz’altro più sincera: ridare voce a testi che ci piacciono, talvolta marginali a causa di critiche sbadate, e salvarli dopo anni di silenzio. Può sembrare un paradosso, ma il criterio della marginalità è centrale, oltre che terapeutico sotto vari aspetti. Innanzitutto, una letteratura ai margini del mainstream aiuta a evidenziare per contrasto gli ormai noiosi vizi di tutto ciò che è commerciale. In secondo luogo, in Arcipelago Giappone è il Giappone stesso a occupare un margine, in quanto protagonista naturale, e non forzato, di un universo letterario che può sopravvivere anche in assenza di fiori di ciliegio, samurai e, più di recente, personaggi che galleggiano in uno sbando postmoderno suggestivo quanto sterile. In altre parole, vogliamo proporre un vigoroso antidoto all’immaginario che già Italo Calvino, nel 1976, prendeva in giro nell’ottavo incipit di Se una notte dʼinverno un viaggiatore, dove “sul tappeto di foglie illuminato dalla luna” si svolgeva un prototipo di affaire galante giapponese, tanto scabroso quanto rarefatto, in un’elegante residenza circondata da alberi di ginkgo e popolata da esotiche chincagliere che – ci auguriamo! – non troverete nella nostra collana.

Da direttore di collana che scelte fai?
Todorov sosteneva che la letteratura esiste in quanto sforzo di affermare ciò che il linguaggio ordinario non dice e non può dire, e questo è il criterio che ci guida nel cercare autori la cui voce sia ancora chiara dopo un secolo, se non di più. È difficile intraprendere una ricerca di testi validi senza incorrere in accuse di snobismo, ma questa è solo un’altra ricaduta di quel marketing che spaccia per liberalismo la vendita indiscriminata di prodotti abborracciati.
Fatta questa premessa, naturalmente abbiamo dei criteri selettivi autonomi che non nascono da una ripicca verso la grande editoria. Ho piacere di citarne due: l’esitazione del lettore di fronte a un avvenimento straordinario – un sentimento che, tipicamente, è la letteratura fantastica a innescare – e la testimonianza letteraria di eventi eccezionali – siano essi fiction, quindi esperienze del pensiero; reali, ossia esperienze fatte dal vivo corpo degli autori; o un amalgama di questi due orizzonti. La scelta, dunque, non è certo casuale, poiché insinua nel lettore un vivo straniamento, indispensabile a fargli porre due domande molto rare ai giorni nostri: “che cosa ho appena letto?” e, soprattutto, “dov’è finito il Giappone che pensavo di conoscere?”. Crediamo che coltivare questi dubbi sia un importante contributo non solo alla letteratura giapponese, ma anche alla strutturazione di un più ampio atlante letterario in cui il Giappone (altro paradosso!) smetta di essere soltanto un’isola.

Sono già in libreria otto titoli, mi riassumi di che si tratta?
All’attivo abbiamo una piccola, vivace miscellanea. Troverete letteratura fantastica nutrita di folklore (Labirinto d’erba di Izumi Kyōka), testi mitografici intrisi di mistero (Il libro dei morti di Orikuchi Shinobu), toccanti riflessioni sul senso del narrare (La luce, il vento, il sogno di Nakajima Atsushi), testimonianze di lucida, comprensibile follia (L’inferno delle ragazze di Yumeno Kyūsaku), schegge rutilanti di un Giappone ormai scomparso (I miei ricordi del principe Nalin in Un’estate a Zushi, di Tachibana Sotoo), favole struggenti che riguardano chiunque (Favole del Giappone, di Niimi Nankichi), e tanto altro. Insomma, come Bazlen fece già a suo tempo, anche noi, nel nostro piccolo, cerchiamo opere che possano essere considerate il distillato di una conoscenza esperienziale irripetibile, capaci a loro volta di trasformarsi nell’esperienza del lettore, invitandolo tacitamente a una continua metamorfosi.

L’interesse per la cultura e la letteratura giapponese è sempre più in crescita, secondo te cosa incuriosisce i lettori?
Una risposta cinica? Il suo esotismo, che poi è anche la sua debolezza. Ci auguriamo che, negli anni a venire, le letterature dei paesi asiatici come quella giapponese possano essere affrontate anche da un pubblico generalista non più come isole remote di utopico escapismo, ma come un
arcipelago che, a ben guardare, somiglia molto a casa nostra.

Sei docente e traduttore, quali sono le letture fondamentali per entrare pian piano nel mondo letterario giapponese?
Ancora una volta non vorrei peccare di snobismo, ma credo si debba cominciare da ciò che ha preceduto l’ipercontemporaneo. Io, ai tempi in cui ero studente, ero rimasto affascinato da Diario di un vecchio pazzo e La chiave di Tanizaki, ma anche da Il monaco del monte Koya di Izumi Kyōka e da Il padiglione d’oro di Mishima Yukio. Sono gusti del tutto personali, ma credo abbiano contribuito a solleticare la mia personale curiosità verso una letteratura con la quale avevo voglia di “entrare in contatto”.

Cristina Marra