Yasmina Reza: “La vita normale” (Adelphi, trad. Davide Tortorella), di Valeria Jacobacci

 Yasmina Reza è principalmente una drammaturga ma scrive anche romanzi molto apprezzati dalla critica e dai lettori; del 2024 è l’opera “La vita normale”, pubblicata da Adelphi in Italia come altri suoi scritti di successo internazionale. Si tratta di una raccolta di racconti più o meno brevi,  ispirati quasi sempre dalle scene di processi da lei personalmente seguiti nelle aule di un tribunale.

“Edith Scaravetti ha ucciso suo marito Laurent Baca di notte, con un colpo di carabina 22 long rifle alla tempia. Mi occorre un bel po’ per mettere a fuoco il suo viso, benché l’aula sia piccola e la mia panca abbastanza vicina. Con i capelli neri tirati indietro, il corpo rattrappito, come congelato, guarda fisso un punto poco più in là delle sue scarpe.” (Il rovescio della vita)

“Il 3 agosto 2021, in un convoglio della linea 13 della metropolitana in direzione Chatillon, Dalila ha fatto un piccolo massacro. Ha pugnalato al torace un giovane fattorino nero, ricoprendolo di insulti razzisti… ” (Disperatezza)

E’, nell’insieme, il ritratto epocale di una società il cui tratto comune è l’assenza di consapevolezza, come se tutti i personaggi, uomini, donne o bambini, vecchi o giovani, di qualunque classe sociale, si trovassero privi di coordinate, spogli di informazioni valide, senza difese, soprattutto da se stessi. A fare da protagonista il completo abbandono dell’essere umano, alla mercé di impulsi che non è in grado di dominare e che, soprattutto, non comprende affatto. Merito dell’autrice è l’aver messo il dito nella piaga, un cinismo cieco non dovuto a durezza d’animo ma a mancanza di comprendonio. Da questo suo punto di vista i processi sono completamente inutili poiché nessuno degli imputati capisce che cosa ha fatto, smarrito nel “tutto si equivale” e nel “tutto è possibile”.  Molte volte però il processo non c’è e il racconto è descrizione dietro una fotocamera di persone prese a caso come esempio di possibili, o molto probabili, storie e biografie, tutti possono essere tutti.  Ancora Pirandello? Forse per caso. In alcuni processi quello che viene rappresentato è il degrado sociale, una donna uccide il marito alcolizzato e violento e lo seppellisce in giardino, poi sposta il corpo, lo immerge nel cemento, viene scoperta e processata: ha subito stupro e violenza da ragazzina  e questo è il risultato. 

I riferimenti a esperienze personali dell’autrice si inseriscono senza problemi e senza chiedere il permesso, non è una voce fuori campo, è la coscienza che manca ai personaggi. I riferimenti  letterari e culturali sono espliciti, a Borges, per esempio, o a se stessa, quando cita  “Il dio del massacro” la commedia da cui fu tratto il film “Carnage” di Roman Polanski.  Yasmina Reza può permetterselo. Non manca la critica a un mostro sacro come Faulkner e all’illeggibile “Assalonne, Assalonne!”.

Ma torniamo ai processi, qual è l’interesse di Yasmina Reza per i processi? Sono descrizioni, immagini fotografiche, in un certo senso, sono tratti fotografici quelli che vengono descritti, fotogrammi che nascondono o svelano come quando il fotografo è un artista che coglie l’anima con l’obiettivo. Forse è questo l’unico modo attualmente possibile di indagare la realtà. Fra tutti primeggia il tema della morte, niente di gotico o grottesco, come si è abituati a pensare, enigmatica sì! Che sia morte naturale o violenta, improvvisa o annunciata. Anche la morte del suo amico editore, Roberto Calasso, del quale le arrivano per posta i due ultimi libri, senza dedica, perché la morte interrompe lo scambio. Non per chi scrive, come Yasmina Reza, o per chi edita i libri altrui, come Calasso, padre della Casa editrice Adelphi. 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Claudio Magris: “Tempo curvo a Krems” (Garzanti), di Maurizia Maiano

Claudio Magris, germanista e scrittore nato a Trieste nel 1939, non ha certo bisogno di presentazioni. È stato definito il “cantore” della finis Austriae e della cultura mitteleuropea: basti pensare a opere come Lontano da dove o Danubio. Ha dedicato attenzione anche ad autori italiani di confine, come Biagio Marin e Italo Svevo, e più in generale alla crisi della letteratura contemporanea. Accanto ai saggi, è autore di narrativa: tra le opere più significative vi è Tempo curvo a Krems, che dà il titolo ad uno dei cinque racconti della raccolta pubblicata da Garzanti nel 2019.

In questi testi i protagonisti fanno i conti con un tempo che sembra fermarsi, ma che continua a scorrere inesorabile verso la foce del Danubio. Non il Mar Nero, come si direbbe seguendo la geografia, ma Krems: la cittadina della Wachau che, nel racconto, diventa simbolicamente l’Oceano, un cerchio che abbraccia il mondo. Le sue acque scorrono e, nello stesso istante, ritornano; le rive si specchiano l’una nell’altra. È l’immagine di un tempo che smette di espandersi in linea retta e si curva, trovando una suggestiva raffigurazione anche nella copertina del libro.

Che cos’è un’immagine, se non l’intrinsecamente  statico in contrasto con lo scorrere eracliteo? I cerchi concentrici creati da un sasso gettato nell’acqua: un punto in cui passato e futuro si incontrano nell’eterno presente. E’ qui che letteratura e scienza si sfiorano. Può la letteratura illuminare concetti della fisica quantistica e, viceversa, la fisica aiutare la comprensione della letteratura? In queste pagine le immagini scientifiche si adagiano morbidamente sul racconto, trasfigurando la realtà in simbolo.

Il “cono di luce” di Penrose, per esempio, mostra che nulla può viaggiare più veloce della luce: alla base sta il passato, al vertice il futuro, all’interno un agitarsi di punti, di monadi che, incontrandosi, generano infinite possibilità. Stati finzionali (si chiamano così in fisica quantistica gli stati potenziali, tutto ciò che potrebbe essere) che, in letteratura e in filosofia, diventano lo spazio dell’anima: ciò che tutto contiene. L’indeterminismo quantistico, con le sue possibilità multiple, trova un’eco nell’invenzione letteraria, che crea universi possibili e li rende esperienza umana.

Il tema centrale del libro resta però la vecchiaia: un avanzare per indietreggiare, come scrive Magris:  ci si inoltrava in un territorio sconosciuto per sottrarsi alla realtà che premeva da tutte le parti spigolosa ed invadente. Il mondo continuava ad affluire generoso verso di lui ma a poco a poco aveva sentito  la necessità di arginarlo, di deviare se possibile quel fiume e di erigere qualche barricata contro la vita che avanzava. È il tempo in cui si erigono argini e si cercano ripari contro l’invadenza del mondo, mentre tutto continua a fluire intorno. 

Tempo curvo a Krems è il racconto più complesso della raccolta: qui il tempo fisico si piega e diventa quasi metafisico, toccando le corde dell’interiorità.

Lo spunto narrativo nasce da un episodio casuale: durante una conferenza a Krems, una signora triestina ricorda al protagonista la compagna di liceo Nori, di cui egli era innamorato a diciassette anni. Quel nome riaccende memorie sopite, che sembrano tornare a vivere come presenti. Il fatto che Nori le avesse parlato di lui lo stupì alquanto, ma si lasciò viziare da quella fantasia come da una musica. Era una dilazionata rivincita. Qualche tempo dopo, un amico a Roma gli dice di aver incontrato Nori e di aver parlato con lei di lui. Incuriosito, l’uomo la chiama: ma mentre tenta di presentarsi, dall’altro capo del telefono riceve un saluto festoso, come se fossero amici di lunga data. Un evento banale diventa allora un cortocircuito spazio-temporale, in cui effetto e causa si confondono, e il presente sembra modificare retroattivamente il passato.

Magris gioca qui con le teorie della fisica e le trasforma in metafora esistenziale: può un passato che non è mai stato realmente vissuto essere creato da un evento successivo? Può il presente riscrivere ciò che è stato? Così, la legge newtoniana dell’azione e reazione e la relatività di Einstein diventano immagini narrative della memoria, del desiderio di eternità, della tensione tra apparire ed essere. Quella  familiarità  al telefono era dunque l’effetto di una conoscenza reciproca che per forza doveva esserci stata nel passato e quindi  modificava quest’ultimo, risaliva nel tempo a creare, decenni addietro, qualcosa che allora non c’era stato.  Può un passato che non è mai esistito  essere modificato dalla casualità di un evento presente?

Potremmo continuare con l’esperimento  di John Archibald Wheeler della doppia fenditura ed eseguito in laboratorio. L’ossservazione può influenzare retroattivamente il passato di un evento quantistico. La realtà non è fissata finché non viene misurata e l’osservatore gioca un ruolo attivo nella creazione della realtà.  Da qui la sua famosa sintesi: “Nessun fenomeno è un fenomeno fino a quando non è un fenomeno osservato.” 

In un esperimento classico decidiamo l’assetto prima che il fotone parta. Nel delayed choice (scelta ritardata), invece, il fisico decide dopo il passaggio del fotone durante il percorso.

Incredibilmente, l’esito sembra “adattarsi” alla scelta finale, come se la decisione presente influisse retroattivamente sul comportamento passato. Possiamo usare quanto affermato da Wheeler per lasciare una conclusione aperta al racconto di Magris?

La riflessione si allarga alla nostra epoca, segnata dal culto della giovinezza nella convinzione di poter sfuggire alla fugacità e transitorietà dell’esistenza. Magris, al contrario, offre una visione in cui il passato si allinea al presente, e la morte stessa diventa forma di eternità: Muori e divienicosì veramente sei,  riecheggia la massima goethiana. Eterno  dileguare, eterno  essere,  il  fiore  muore nel  frutto,  dunque  è  il  frutto. Non solo gli esseri viventi, ma anche gli oggetti, gli elementi del paesaggio  subiscono mutamenti  temporali dilatandosi in un tempo infinito.  Ma se non c’è più quel tempo, se non esiste, si può dire cos’era, com’era? Il non-essere non è. La Storia non si fa con i se e con i ma. Un semplice detto popolare che si applica alla Grande Storia e alla Storia personale di ogni uomo.  

Tempo curvo a Krems rimane di raffinata filosofia per l’anima,  ci invita a riflettere sul valore del passato, della memoria che diventano eterno presente: la leggera brezza estiva che entrava dalla finestra, vicina al telefono, era un vento degli spazi infiniti, in cui tutto è presente e simultaneo, il roteare di un pianeta e la luce di una stella che giunge da tanto lontano. Forse il Danubio nei pressi di Krems era l’Oceano. Per noi Krems diventa la metafora che abbraccia i passaggi della vita e medita sul crepuscolo dell’esistenza. E cos’è la vita eterna se non la limpida luce che splende negli occhi immortali di Nori, che non invecchia. Paradosso temporale poiché la trasformazione sul cono di luce all’infinito è possibile solo per corpi fisici senza massa. La familiarità tra i personaggi è descritta come un effetto della relatività ristretta di Einstein secondo cui  si tratta di fenomeni che  avvengono in assenza di gravità dove due eventi non possono essere ordinati nello spazio-tempo in modo assoluto, mentre il tempo curvo fa parte della relatività generale dove la gravità causata da massa e energia determina la curvatura dello spazio e quindi il tempo scorre in modo diverso a seconda  della sua posizione gravitazionale. Allora l’amore, l’amore tra i personaggi è oggetto di un maleficio o di un paradosso temporale?

Un P.S. al commento

Quanti libri ci consentono un viaggio nel tempo, in quanti libri ritroviamo luoghi in cui abbiamo vissuto, esperienze simili del nostro vissuto, ricordi che si affacciano e che attraverso le pagine riviviamo. Nel regno dei libri, tra le sue pagine, tutto acquista un’aureola di strana bellezza, la semantica diventa simbolo, ciò che non avremmo mai potuto vedere. È come sentirsi parte di un mondo di eletti in piena consapevolezza.

Ho comprato il libro perché il titolo Tempo curvo a Krems mi ha fulminato, cosa racconterà Magris, anche Magris conosce Krems? Un luogo in cui avevo vissuto da ragazza.  Krems, cittadina della Wachau, valle in cui scorre il Danubio l’Oceano che stringe in cerchio il mondo, acque che scorrono e nello stesso istante ritornano, rive che  si rispecchiano  sempre  nelle  sue  onde e sulle cui rive si stagliano silenziosi, severi e colmi di Storia conventi che accoglievano le scuole per i cadetti della nobiltà ed alta borghesia austro-ungarica come Stift Goettweig, che vedevo dalla finestra della mia stanza ed ancora Stein, Klosterneuburg, Stift Melk und Weisskirchen. Tutto mi riporta indietro nel tempo.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Alexandre Dumas: “Cagliostro” (Roberto Nicolucci Ed.), di Cristi Marcì

C’era una volta Cagliostro 

Ambientato agli albori della rivoluzione francese la figura di Giuseppe Balsamo viene magistralmente introdotta da Alexandre Dumas quale abile stregone e schietto illusionista, in grado di forgiare la trama di uno dei più grandi capolavori storici della letteratura.

Attraverso le inestimabili pagine, impregnate di politica, intrighi di corte e desiderio di riscatto lo scrittore e drammaturgo francese invita i suoi ignari lettori a perdersi tra i vicoli e i palazzi di un’epoca lontana ma al contempo adornata di sfumature e imprevedibili colpi di scena.

Sin dalle prime pagine, il padre di Edmond Dantès traccia un impervio sentiero che porterà il conte di Cagliostro all’interno di un nascondiglio dove le sorti del mondo dovranno obbedire solo ed esclusivamente a un’unica legge: abolire la monarchia vigente in Francia e presente al contempo nelle restanti parti d’Europa.

Il tutto costituendo le prime logge massoniche attraverso le quali ridisegnare un nuovo ordine mondiale dove sia la fratellanza sia l’uguaglianza difficilmente potranno vedere la luce del sole.

La scienza dell’illusione

Il personaggio di Giuseppe Balsamo, in arte Conte di Cagliostro, in arte Conte di Fènix si introduce abilmente tra i salotti damascati della monarchica vigente ordendo complotti e manovrando le vite dei principali reggenti della corona.  

La stregoneria è infatti uno degli strumenti maggiormente impiegati dal negromante capace peraltro di sedurre tanto il fascino della nobiltà parigina quanto la curiosità di chiunque desideri perdersi tra le pagine di questo splendido romanzo.

Scienza e illusione si mescolano vicendevolmente creando un’alchimia pronta a vacillare al minimo schiocco di dita, rimettendo in discussione un equilibrio dove la ragione cede sovente il posto alla pura follia e alla perdizione del proprio senno.

L’arte dell’inganno e dell’illusione creano quella miscela di ingredienti che dalla penna di Dumas si tramuta celermente in una pozione dal retrogusto amaro, in grado finanche di avvelenare il palato più fine e di obnubilare l’ultimo residuo della propria coscienza. 

Tuttavia attraverso questo viaggio ricco di colpi di scena conosciamo non solo la figura di Cagliostro bensì quella di tanti altri indimenticabili personaggi come quella di Althotas, maestro e precettore del protagonista e detentore di una antica verità che cercherà in tutti i modi di raggiungere: anche a costo della morte.

Storia e alchimia si fondono in un susseguirsi di fuochi d’artificio svelando in chiave simbolica quei numerosi materiali grezzi e atavici, di cui è connotata la psiche umana ma che all’unisono devono sottoporsi al travaglio di un’intima maturazione che spesso e volentieri rischia puntualmente di dissolversi.

La nigredo alchemica

L’aspetto nondimeno affascinante risiede proprio nella visione, nonché nella descrizione dell’animo umano adombrato da una corruttibile nigredo alchemica, la quale in maniera perpetua si riflette esclusivamente su una ubris sempre più inafferrabile.

Secondo la visione proposta dallo studioso junghiano James Hillman la corruttibilità dell’anima umana risiede proprio in un ripiegamento della propria immagine al di fuori della propria psiche a discapito di quanto già si custodisce ma non si conosce ancora.

In base a quanto proposto dallo psicoanalista americano e in relazione alle vicende storiche prerivoluzionarie proposte in questo romanzo, l’opera di Dumas non solo offre uno spaccato socio culturale tra la nobiltà e il popolo francese bensì quella cupidigia che da ambo le parti altro non desidera se non la propria affermazione a discapito dei propri simili.

Ed è proprio tra le strade di Parigi e la reggia di Versailles che spiccano le figure di Luigi XV, di Madame Dubarry (la favorita del re) del conte di Richelieu e di Gilbert, le quali sembrano illusoriamente manovrate dalla voce magistrale di Acharat: negromante per natura, alchimista per eccellenza e illusionista per diletto.      

Cristi Marcì*

* Cristi Marcì è uno psicoterapeuta psicosomatico junghiano. Grazie ai libri ha scoperto la possibilità di viaggiare con l’unica compagnia gratuita: la fantasia. Adora i gialli, la saggistica e i romanzi storici. Ad oggi ha pubblicato racconti brevi sulle riviste «Topsy Kretts», «Morel, voci dall’Isola», «Smezziamo», «Offline» «Kairos» e altre ancora. Scrive articoli per il periodico scientifico «Ricerca Psicoanalitica», «Arghia» e «Mortuary Street». Trovate una sua traccia anche su «Quaerere»

Krisztina Tóth: “Gli occhi della scimmia” (Voland, trad. Mariarosaria Sciglitano), di Vincenzo Vacca

Il libro di Krisztina Tóth “Gli occhi della scimmia”, tradotto da Mariarosaria Sciglitano, è da considerare una opera letteraria capace di scavare nel destino delle persone che vivono sotto la cappa dei regimi autocratici. 

Può apparire distopico, ma, in realtà, il contenuto del libro rispecchia, in tutto o in parte, una concreta situazione in cui vivono già diversi popoli sotto la cappa asfittica di regimi tirannici che, non solo negano i diritti fondamentali dei cittadini, ma controllano con ogni mezzo le vite private delle persone con lo scopo di soffocare sul nascere qualsiasi comportamento che, in qualche modo,  possa generare delle forme di ribellione o di semplice dissenso nei confronti del regime autoritario.

Nel libro si ipotizza che nel Paese in cui si racconta la storia – senza precisare né il nome, né il periodo e questo lo rende ancora più profetico – sia avvenuta una guerra civile che si è conclusa con l’ avvento di un sistema politico dispotico. 

Questo, naturalmente, ha effetti anche sulla vita quotidiana di tutti gli abitanti che saranno indotti in modo diretto o indiretto a badare esclusivamente alle piccole incombenze delle loro esistenze, al ménage famigliare e a come conservare il proprio lavoro. 

Infatti, una protagonista del libro a un certo punto dice: “…Del mio lavoro all’ università,  è brutto a dirsi ma è così,  mi vergognavo alquanto. Imbottivamo le teste degli studenti di menzogne, nella migliore delle ipotesi di mezze verità,  inorridivamo se qualche volta ci facevano delle domande.  Non sapevamo mai se ci stessero davvero chiedendo qualcosa o se si trattasse solo di una provocazione…”.

È il caso di evidenziare che, tra gli  esiti  della menzionata guerra civile, emerge una esasperata diseguaglianza sociale tale che coloro che fanno parte dei ceti poveri vengono confinati in  zone del Paese circoscritte con l’ unica preoccupazione che entrino il meno possibile in contatto con i componenti dei ceti privilegiati. Una diseguaglianza sociale codificata, ritenuta insormontabile, data una volta per tutte.

Uno dei protagonisti principali del libro è un certo dottor Kreutzer, psichiatra, che tiene quotidiane sedute psicoanalitiche, ma il vero scopo di tali sedute non è quello di guarire i pazienti. Il vero scopo è un altro e lo scoprirà il lettore. 

Inoltre, Kreutzer è una persona afflitta da una serie di ossessioni che vengono meravigliosamente e terribilmente raccontate dall’ autrice con qualche punta di ironia. Sì, anche di ironia perché il libro ha il pregio di una sua scorrevolezza, senza perdere una acuta finezza letteraria.

Sono davvero esilaranti le modalità con le quali la scrittrice descrive i rapporti tra il dottor Kreutzer e la sua famiglia, in particolare con la moglie, restituendo al lettore un idealtipo di una persona che fa parte dell’ ingranaggio tirannico a cui si è già accennato. 

Ma un aspetto del libro che va particolarmente sottolineato è il fatto che l’ autrice sia riuscita a raccontare come anche persone non esattamente in cima alla scala sociale, grazie a un abile intreccio di omertà e sottili ricatti creati astutamente dal regime, si rendono complici di ingiuste e illegali azioni che tornano utili alla costruzione di un consenso di massa.

Infatti, basti pensare che a un certo punto una donna che lavora in un ospedale afferma: “…La maggior parte delle volte portavano giù i pazienti nell’ ufficio dell’ interrato per fargli firmare vari documenti. Bisognava provvedere quando erano ancora fisicamente in grado di farlo, vale a dire quando gli si poteva ancora mettere in mano una penna…la maggior parte di chi scriveva le dediche redigeva una lunga e dettagliata confessione dei crimini commessi durante la guerra civile, risarcendo spontaneamente lo Stato con la cessione di beni mobili e immobili…”.

Non manca l’ indicazione degli effetti di una certa campagna sovranista, così egemone di questi tempi, a tal punto che una donna dice (al lettore il compito di scoprire chi): “…c’erano alcune parole che la signora… era in grado di pronunciare solo con voce strozzata o accompagnandole con determinati gesti e mimica. Una di queste era la parola “straniero”. Quando in un dato contesto capitava questo termine, lei abbassava la voce e pronunciava la parola in modo sommesso, con prudenza, come un monaco medievale il nome di Satana, quasi a temere che al proferirla la persona potesse materializzarsi là, nel soggiorno…”.

La Tóth riesce a far percepire al lettore anche un tipico clima dei regimi assolutistici facendo riferimento a una certa entità, superiore a tutto e a tutti, che per l’intero libro viene indicata solo con un acronimo: “GUN”. E solo alla fine del libro viene svelato (anche questo lo scoprirà il lettore proseguendo la lettura). Può sembrare una cosa di poco conto, invece, a parere del sottoscritto, questo artificio letterario, considerato il contesto, rende l’intera narrazione ancora più immersa in una realtà sinistra, fortemente foriera di angoscia se non di terrore.

La lettura de “Gli occhi della scimmia” è stimolante. Ci pone di fronte a gravi domande sul presente e sul futuro prossimo. Ci fa assaporare cosa possono diventare, e in parte già sono diventate, le nostre vite in un contesto sociale e politico opprimente.

Vincenzo Vacca

Francis Scott Fitzgerald: “Il grande Gatsby” (trad. Natalia Di Chicco, Armando Curcio Editore), di Mauro Di Ruvo

Così continuiamo a remare, barche controcorrente, sospinti senza tregua nel passato. Il grande Gatsby. La traduzione del grande sogno americano. 

“Non si può ripetere il passato” è la frase che viene rivolta a Gatsby dal suo coetaneo Nick. Gatsby, ripetendosela come domanda, risponde: “Non si può ripetere il passato? Ma certo che si può”.

È uno dei dialoghi in cui ci imbattiamo quando leggiamo “Il grande Gatsby”, un’opera che rese la bastevole celebrità al suo autore Francis Scott Fitzgerald tanto da essere trasposta postuma nell’omonimo film diretto da Bad Luhrmann ottantotto anni dopo. 

Il film del 2013 ha saputo infatti tradurre la poliedrica blasfemia del protagonista attraverso l’interpretazione magistrale di Leonardo Di Caprio, che ha impresso nella immaginazione dei lettori posteri, già spettatori, la sovrimpressione della fine di un “grande sogno americano”. 

Il capolavoro di Fitzgerald ha interrogato molte coscienze per quasi un intero secolo, intrappolandone il cuore dentro la gabbia dell’interpretazione. Si sono avvicendate perciò molte traduzioni del testo americano sulla scia della contemporanea resa cinematografica. 

Il livello interpretativo dunque della storia del miliardario  Jay Gatsby si appiomba con tutta la sua gravità sul terreno extradiegetico, e nello specifico, sulla zona semiotica.

Questa la ragione di una nuova edizione del testo nella prossimità d’ occasione del suo centenario che intercorre proprio adesso, dotata di un nuovo respiro narrativo che trova la sua principale espressione nuovamente nell’atto traduttivo che mai deve risultare scontato al lettore. 

Il grande Gatsby edito da Armando Curcio Editore lo scorso maggio 2024 è la riproposizione di una grande soluzione, quella della sua comprensione. E la soluzione ci è offerta dal lavoro di traduzione svolto da Natalia Di Chicco, esperta traduttologa e interprete linguistica, che ha introdotto l’occhio del lettore all’interno di un nuovo trasferimento semantico che risulta quasi immaginifico.

Di Chicco preleva la patina soprastante la parola del significato madrelingua così come un restauratore preleverebbe la delicata pellicola pittorica di una tavola raffaellesca. Ciò che risulta alla fine dei lavori di Natalia Di Chicco è infatti una lecita opera di “restauro del testo”.

Il progetto con cui l’autore americano scrisse The Great Gatsby era corrisposto all’idea di lanciare addosso a una presunta società spettatrice l’inesorabilità matrigna dell’amore. Un amore che nasce non dall’unione ma proprio dalla divisione degli sguardi, l’uno verso il futuro l’altro reduce del passato. È la partenza del povero Jay Gatsby dalla sua terra che lo farà innamorare non della giovane Daisy Buchanan, ma della sua idea giovanile, fino a quando il ricordo avrà assunto sufficiente ricchezza nelle tasche di un nuovo Gatsby miliardario da contrabbando. 

La speranza di Jay si è permutata in brama di conquista mentre le sue ambizioni emergevano sempre più concrete a compimento. L’impossibilità che condanna il protagonista a ricrearsi non solo una vita ma una maschera perpetua, è la molla che spinge ogni sua azione verso un diritto di appartenenza ex statu di un amore sospeso, e per tanto atteso. 

Il matrimonio di Daisy e Tom è il tormento onirico da cui fugge, e deve necessariamente fuggire, la fantasia di Jay che meglio ci appare in tutte le sue tonalità psicologiche grazie alla vorrei interna narrante di Nick Carraway, un giovane trasferitosi anche lui come Gatsby nel West Egg di Long Island, diventando proprio vicino di casa dell’oscuro miliardario. 

L’intreccio ha da qui inizio, una volta che le fastose cene e banchetti organizzati frequentemente nella villa di Gatsby gli valgono dall’esterno, dall’autore al lettore, la similitudine col Trimalcione petroniano, Nick si scopre cugino di Daisy mentre proprio lui dovrebbe fare da complice al piano di Gatsby per la riconquista della ragazza. Una serie di svelamenti e rivelazioni incrina drasticamente i rapporti dei componenti di questo triangolo, fino a che la vendetta non prende il volto di un duplice omicidio. La morte accidentata di Myrtle Wilson e l’uccisione di Gatsby nella sua piscina. 

L’elemento di agnizione tragico che segna la conclusione degli scandali episodici tramati nelle maglie di una elite sociale, viene a definirsi la solitudine del singolo innamorato.

Nella solitudine si risolvono i toni inizialmente comici e in questa sempre si risolvono i finali tragici dell’apparenza umana. 

Ciò a cui l’amore di Gatsby deve tenere fronte è un magma incandescente di ambiguità e perversità. È questo il pavimento su cui poggiano i piedi dell’alta società americana, e le sue fiamme linguistiche traspaiono in tutta la loro atrocità dalla scelta lessematica di Natalia Di Chicco. 

Le concentrazioni delle espressioni in piccole formazioni periodali sono stavolta, a differenza delle precedenti versioni traduttive, più secche, meno distese, più brachilogiche e  intuitive, capaci di restituire il senso di assonanza tra ironia e bugia del testo. 

Il tema del sogno è l’involucro che riveste ogni forma dialogica nella sua assopita compostezza stilistica che il traduttore equamente distribuisce senza sbalzi tonali nelle 206 pagine di questa edizione romana. 

La nostalgia di una giovinezza perduta e mai vissuta accumula alla fine della storia i racemi di un giaciglio per il lettore che ha interrotto l’incubo della sua illusione: il vero amore. 

La barca su cui Jay Gatsby è costretto a navigare lungo la corrente del tempo, ha i remi saldi verso il futuro ma ancorati al piacere del passato.

Mauro Di Ruvo

Mauro Di Ruvo: Critico d’arte, classicista e medievista, si occupa di diritto romano a Perugia e di politica interna presso il giornale “Lanterna”. Si è anche occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista “Nuova Antologia” e collabora con la Fondazione Spadolini. È autore del romanzo Pasqualino Apparatagliole (2023, Delta Tre Edizioni), e curatore della recensione al libro Oltre il Neorealismo. Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo di Gabriella Izzi Benedetti, già presidente del Comitato per l’Unesco, per la collana fiorentina “Libro Verità”. Ha già curato per la “Delta Tre Edizioni” le prefazioni alla silloge Lo Zefiro dell’anima (2019) di Pasquale Tornatore e al romanzo Le memorie del dio azteco (2021) dello storico Saverio Caprioli. A Ottobre 2024 ha tenuto e curato il convegno accademico “L’eidolon di Dante. Il codice dell’Inferno” a Foligno e nella Chiesa del Purgatorio recentemente è stato relatore della lectio magistrali “Dante, l’Inferno, Saffo”.