Milan Kundera: “Lo scherzo” (Adelphi, trad. A.Barbato), di Valeria Jacobacci

Lo scherzo” è il primo romanzo di Milan Kundera, finito di scrivere nel 1965, fu pubblicato nel 1967, quando l’autore era ancora membro del partito comunista cecoslovacco. Ma: “La storia è leggera al pari delle singole vite umane, insostenibilmente leggera, leggera come una piuma, come la polvere che turbina nell’aria, come qualcosa che domani non ci sarà più.” 

     

Nel 1968 la Primavera di Praga cambia completamente le prospettive, Kundera accoglie con speranza il movimento, rappresenta finalmente la sua personale visione del socialismo. Sarà la causa della sua seconda espulsione dal partito, che lo costringe a lasciare l’incarico di docente all’Università per emigrare poi in Francia. I rapporti con la Cecoslovacchia sono interrotti, scrive in francese, per molti anni non permette che i suoi romanzi siano tradotti in lingua ceca. “L’insostenibile leggerezza dell’essere” è stato pubblicato in Cecoslovacchia solo nel 2006.

    “Lo scherzo” ha sicuramente una forte impronta autobiografica, sempre più interessante, man mano che il tempo passa, illuminando gli eventi successivi, forse consequenziali dei fatti storici narrati e delle relative vicende umane.

      Il nome del protagonista è Ludvick, lo stesso del padre e del cugino di Kundera.

     Il padre era direttore dell’Accademia musicale di Brno, pianista famoso, il cugino, più grande di età, era un artista poliedrico, scrittore, pittore, studioso del dadaismo. 

       E’ evidente come questa formazione di stampo occidentale e liberale mal si adattasse a un qualunque regime, benché la passione per il partito fosse in lui sincera e appassionata.

       E’ infatti questa la nota dolente. Il disinganno politico è il leit motiv di tutta l’opera, si svolge con ritmo musicale come la sinfonia che l’autore avrebbe composto se non avesse optato per la letteratura. Così la polifonia dei personaggi si sviluppa per contrapposizioni e controcanti, riproponendo la stessa storia da punti di vista diversi. 

    Oltre al protagonista, Ludvick, i personaggi sono: Helena, giornalista, comunista sincera, moglie dell’uomo che condanna Ludvick a lasciare il  partito e gli studi, sottoponendolo alla leva e poi al carcere, rubandogli la giovinezza, la speranza e l’amore;  c’è poi Jaroslav, amico di gioventù, testimone della passione per la musica popolare, anima e propaganda del partito, ispirazione  di musicisti come il russo Šostakovič, che combinava la tradizione russa con le correnti occidentali del Novecento, censurato e riabilitato solo dopo la morte di Stalin; Kostka, uno dei narratori, è il medico che gli deve un favore e gli presta l’appartamento, dove Ludvick incontra Helena, la possiede senza esserne attratto fisicamente e al solo scopo di vendicarsi del marito, Pavel. E poi le donne, oltre Helena, una categoria a parte, creature astruse, inconoscibili, incomprensibili. 

     Un giorno Ludvick torna nella sua città, la trova brutta, con la piccola piazza che sembra il cortile della caserma dove è stato rinchiuso da ragazzo, sulla piazza affaccia la camera d’albergo che ha prenotato, si presenta squallida e inadatta all’incontro con Helena. Così gli viene in mente il dottor Kostka, che risolve il problema prestandogli casa sua ma lo porta anche, del tutto inconsapevolmente, a rivedere l’amore della sua vita: Lucie Sebetkova.

Ludvick ha bisogno di un barbiere, forse per rendersi piacevole e in ordine per la giornalista che deve incontrare il giorno dopo, e, nel negozio dove il dottore lo accompagna, prende posto sulla poltrona girevole abbandonandosi alle cure di una donna senza guardare il suo aspetto. 

   E’ una pagina da non perdere. L’amorevole cura di mani estranee diventa carezza conosciuta e dimenticata, conservata in un angolo dell’essere, fin quando lo sguardo corre allo specchio dove si rivela un viso ma è impossibile incrociare occhi che guardano altrove. 

    Quando il lettore vorrebbe saperne di più la parola passa ad Helena, che nel capitolo successivo racconta l’appuntamento del giorno dopo con l’uomo che potrebbe, se lo volesse, portarla via dal marito e dalla figlia.

    E’ patetica. “Che la tristezza non sia unita al mio nome” pensa Helena citando Fucik, lo scrittore cecoslovacco assassinato dal regime nazista, eroe e difensore del comunismo. Questa passione politica la connota, in questa si riconosce ed è l’unica cosa alla quale resta fedele. Infatti tradisce regolarmente il marito, non lo ama più da tempo, forse perché a sua volta ha una relazione con una ragazza, molto  più giovane di lei. 

    Quando si sono sposati erano compagni di partito. Era stato il partito a imporre a Pavel di sposarla: niente di privato fra i compagni, tutto in comune, perfino l’amore. 

    Di recente Helena non ha esitato a denunciare i costumi scorretti di una compagna che ha una storia con un uomo sposato. Il partito li obbliga a lasciarsi, la ragazza perde il lavoro, Helena non ha rimorsi. Domani andrà da Ludvick.  

    Il tragico (e comico) errore di Helena è di fraintendere del tutto le intenzioni di Ludvick, che ai suoi occhi appare leggero, innamorato, divertente, sincero. 

Ludvick  è  tutt’altro, si dimostra cinico, spietato, avvelenato, ma la sua attitudine a fraintendere le donne è del tutto giustificabile.  

Com’è brutta la Morava!” esclama affacciandosi sullo squallido paesaggio del lungofiume.

  “ Tutto aveva avuto origine – ricorda –  dalla mia infausta tendenza agli scherzi idioti e dall’infausta incapacità di Marketa di capire gli scherzi. Marketa apparteneva a quel tipo di donna che prende tutto sul serio.” 

La cartolina con lo scherzo recitava:  “L’ottimismo è l’oppio dei popoli. Lo spirito sano puzza d’imbecillità. Viva Trockij! Ludvick” 

Marketa è bella e stupida, anche l’ideologia lo è. Stupido e ottuso è lo spirito del partito, nazista o comunista che sia. 

    La ragazza prende tutto alla lettera, e tuttavia non avrebbe fatto caso alle frasi di Ludvick, canzonatorie del suo ingenuo entusiasmo, che scambia un ritiro imposto per un premio. Tutti gli amici dell’università la prendono in giro ma nessuna testimonianza si leverà in difesa di Ludvick quando la cartolina viene intercettata e lo fa passare per dissidente e trockista. Niente potrà convincere i suoi giudici che si trattava di uno scherzo. 

     Ludvick si convince poco per volta della propria colpevolezza, tanto forte è il condizionamento ideologico. E’ proprio questo il dramma.

    Marketa ha un’indole buona (oltre che stupida), presa dal rimorso per aver abbandonato Ludvick al suo destino di traditore, gli propone di tornare con lui, in realtà per redimerlo, secondo il cliché di moda.

   Finalmente il giovane millantatore, che si fa scudo dell’umorismo per darsi il coraggio di accostare una ragazza, di avere un’esperienza sessuale che finora non ha avuto, potrebbe raggiungere il suo scopo. Ma non è così che intende soddisfare il suo desiderio. È stato innamorato, non è sentirsi perdonato di una colpa che non ha commesso il modo per realizzare un sogno.

  E’ la perdita dell’innocenza. Si tratta davvero di innocenza? Non è forse una maschera quella che indossava quando, cercando di conquistare Marketa, si fingeva spregiudicato, esperto, sicuro di sé?

   Da questo momento il dubbio è la diretta e vera conseguenza dello scherzo. 

    E’ propria di Kundera l’analisi dello stato di coscienza, la ricerca della verità interiore. Anche il più puro dei sentimenti, come la fedeltà al partito o l’innamoramento, possono  avere un’ambiguità di fondo. Ne deriva un tetro pessimismo, una depressione che Ludvick interpreta come malinconia, dalla quale si allontana quasi suo malgrado, seguendo i compagni della caserma nelle rare libere uscite  a caccia di prostitute. 

   Niente può cambiare la parte buona che ha dentro, nessuna donna merita disprezzo, non è il soddisfacimento dell’istinto che può placare la malinconia, lo sa Ludvick, e in fondo lo sanno anche i suoi compagni. Le ragazze disposte a darsi dietro compenso non sono vere prostitute, vanno nei locali per incontrare i soldati delle caserme vicine, sembrano voler consolare, svolgere un compito, fanno parte di un sistema. 

    Ludvick è perso: fuori dal partito e dagli studi non è niente, sembra un frate francescano che abbia smarrito la fede e, nonostante tutto, resti un mistico. Gli tocca subire la punizione da parte di un tribunale che somiglia a quello dell’Inquisizione: il tribunale di un partito che più di tutto teme appunto la perdita del credo da parte di quanti ne fanno parte. 

    Nelle numerose interviste concesse, Kundera torna spesso sull’idea dei totalitarismi che trattano gli esseri umani come bambini, deresponsabilizzandoli, chiedendo loro di non pensare, non decidere, di abbandonarsi a una volontà superiore. 

    Nel 2008 è stato trovato un documento negli archivi della polizia di Praga che farebbe pensare a una delazione ad opera di Kundera contro un ragazzo accusato di spionaggio. Sarà proprio questo giovane, condannato a ventidue anni di reclusione, ad aver ispirato il personaggio di Ludvick?  

   La biografia dello scrittore contiene abbastanza elementi da far pensare che l’esperienza del rifiuto e l’abbandono della patria gli siano stati sufficienti a elaborare la sua visione del mondo. Se fosse anche presente il rimorso? Sì. Il rimorso fa parte di tutto questo, se non nello specifico caso (che non è possibile chiarire) nella comune responsabilità  di aver partecipato a un piano che, piuttosto che salvifico, si è rivelato distruttivo.

    Le donne hanno un ruolo fondamentale in questo sistema di pensiero, nessuno più di loro è capace di non pensare, di abbandonarsi all’emozione, al sentimento e alla passione, capace anche di cambiare e di perdonare. Se c’è qualcosa che Ludvick non sa fare è perdonare. In lui l’assenza di giustizia provoca desiderio di vendetta, a lungo meditata e portata a compimento con risultati sorprendenti. 

    Non così per Lucie, della quale gli sfugge completamente il senso della personalità e, fino all’ultimo, il mistero della storia. 

Perseguitata e derisa per aver subito uno stupro, la ragazza viene riabilitata troppo tardi e troppo tardi Ludvick capirà i motivi della sua ritrosia.

  “E fu allora che vidi per la prima volta Lucie – racconta –  perché non le passai accanto senza fermarmi?

   Lucie sarà capace di amarlo incondizionatamente, senza pretendere niente e tuttavia senza darsi mai, almeno non fisicamente.

    Sarà lo scioglimento di questo mistero a lenire infine l’animo esacerbato di Ludvick? 

   Le persone contro le quali sferra la sua vendetta ne usciranno indenni. Al contrario, sembrerà proprio questo l’inizio di una vita guarita da ogni veleno, in qualche misura, sanata.

La patria tornerà a essere bella, forse non dovrà vergognarsi di averla amata, tanto tempo fa.

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Antonio Franchini: “Il fuoco che ti porti dentro” (Marsilio), di Valeria Jacobacci

In copertina l’immagine di una giovane donna (da una foto di Charles H. Traub, Naples, 1985) suggerisce quel fuoco di cui il titolo precisa, perfetta sintesi della storia, “che ti porti dentro”.

La ragazza non è una signora, appare scanzonata, stringe fra due dita affusolate, l’indice e il medio della mano destra, un mozzicone di sigaretta che regge fra le labbra, consumato quasi fino al filtro, mentre gli occhi scuri leggermente socchiusi ammiccano di sfida, il viso è angoloso ma i tratti sono regolari. Piccoli cerchi si intravedono alle orecchie, i capelli sono bruni, il pullover è rosso, un paio di occhiali da sole sono infilati nello scollo, non sono appariscenti, le unghie sono laccate di rosso ma tagliate corte. La sua età non arriva ai trenta, non trapela l’adolescenza o l’infanzia, non si prevede una vecchiaia. 

    

Come tutte le immagini, informa su luci e colori tralasciando sensazioni tattili e olfattive, anche per questo, nel primo paragrafo del primo capitolo la frase “mia madre puzza” colpisce il lettore come un affronto, invitandolo a continuare a suo rischio e pericolo. Può darsi che alcuni abbiano chiuso o siano andati poco più avanti per riprendere la lettura in un altro momento, o non riprenderla affatto, una reazione comprensibile considerando quanto la madre, il suo odore, il calore e la morbidezza del suo corpo siano alla radice della vita di ogni essere umano. Poco conta la proposizione concessiva che precede: “Benché da molti sia considerata una bella donna”. 

La prima pagina continua impietosa, senza parafrasi e senza allusioni, con il preciso intento di provocare da subito repulsione e disprezzo. Mettendo subito le cose in chiaro, l’autore avvisa che “nessuno di noi si sente in imbarazzo, nessuno prova vergogna”, il corpo umano puzza, come testimoniano le filastrocche imparate dalla nonna che parlano di puzze e puzzette, i bambini di solito ridono, si divertono: al mondo puzzano tutti, i bambini più degli altri. 

Allora qual è il problema?  Arriva il momento della fuga. Lontano dalla madre, lontano dal Sud, lontano dalle contraddizioni. Perché i figli possono odiare? Di solito lo fanno quando sono o si sentono respinti, quando non si riconoscono in chi li ha messi al mondo, quando non sono incoraggiati. In questo libro di memorie non solo la madre è protagonista, entrano in gioco la storia e la terra. 

La storia è quella che dagli anni Sessanta arriva ai giorni nostri, la terra è un meridione contraddittorio e diviso fra città e provincia, non troppo diverso, se si riflette, dalla dicotomia città-campagna presente anche al Nord, come in alcuni romanzi di Pavese. A questo segue la naturale contrapposizione Nord Sud.

Nel napoletano, in realtà, le differenze esistono molteplici nelle diverse classi sociali, sono frammiste a pregiudizi  ostinati, si sviluppano in stratificazioni complicate e antiche, si scontrano e si affrontano in una lotta senza fine. Non è la cultura che manca. Tutti, più o meno, ne posseggono una parte cospicua, fatta di sovrapposizioni di epoche e influenze diverse, il risultato di un irrimediabile cinismo sviluppato forse nei secoli.      

Angela, la madre mai chiamata mamma, ma sempre con il suo nome di battesimo, che, fra l’altro e chissà perché, non le piace, viene in città dalle montagne del Sannio, da un paesino del beneventano, Cautano, è di umili origini, quando si trasferisce in città, a Napoli, è solo una bambina, il padre muore quasi subito, con la madre e una sorella affronta le difficoltà e la miseria del dopoguerra. 

Aiutate da alcuni parenti di condizioni sociali più elevate, le donne riescono a superare le iniziali difficoltà, una sorella si ammala e muore, l’altra, Angela, conquista il cuore di un quarantenne della buona borghesia, scapolo, deciso, dopo alcune storie d’amore, a crearsi una famiglia con una donna di vent’anni più giovane, estranea al suo ambiente. Si tratta forse di una scelta di comodo, ma c’è un prezzo da pagare ed è quello dell’impossibilità di intesa fra educazione e gusti diversi, pagheranno i figli questa incongruenza di base.

A questo punto è Napoli la protagonista, o, meglio, il teatro di un intreccio che rappresenta gran parte del tessuto sociale così spesso descritto e analizzato da scrittori e commediografi, fino a creare stereotipi, categorie false o travisate, spesso lontane dalla realtà perché non si tratta di un’unica realtà. Il cliché è nel teatro di Eduardo ma esistono altre dimensioni. Viene in mente una versione di Napoli, quella descritta nei romanzi della Ferrante, dove “Un’amica geniale” scavalca con intelligenza le distanze sociali, sicuramente meno vera, meno interessante e priva di drammaticità, molto diversa dalla protagonista di questo romanzo, una storia, in ogni caso, spostata più avanti di qualche decennio, dove si sente, nonostante tutto, l’odore di cucina e i pettegolezzi delle portinerie.

Le canzoni romantiche ottocentesche, le gouaches del Settecento restano nei salotti, la generazione alto borghese che ha vissuto guerra e dopoguerra frequenta i circoli dove si va in barca a vela e si gioca a carte, non si può fare a meno di pensare a “Ferito a morte” di Raffaele La Capria, è questo l’ambiente al quale appartiene il marito di Angela.

Lei, invece, è consapevole di una difformità di fondo, aggravata dal fatto di venire dalla provincia, ma non lo riconoscerà mai, tutto si tramuta in odio, nel disprezzo che non dipende dalla consapevolezza di un’ingiustizia, più auto inflitta che voluta da altri, è, piuttosto, un senso di superiorità, il suo, con il quale combatte tutto e tutti sentendosi scaltra, più dotata di chiunque, in diritto di criticare, infierire, giudicare.

  Almeno è così che il figlio la percepisce. Angela ha frequentato il liceo classico e la Facoltà di Lettere ma parla esclusivamente in dialetto, un napoletano ricco di sfumature diverse tratte dal Sannio, origini di cui è orgogliosa perché i Sanniti sconfissero e umiliarono i Romani alle Forche caudine. Quasi tutti nel romanzo parlano in napoletano, in stridente contrasto con la prosa elegante del narratore, c’è differenza fra il napoletano parlato dalle persone colte e quello aspro di Angela, arricchito di continue invettive fra le più truci e volgari.

C’è da immaginare le difficoltà e le sofferenze dei figli, costretti a vivere nel contrasto fra la vita esterna e quella fra le pareti domestiche, dove il padre si muove come un fantasma, in un alone discreto di profumo, in abiti ricercati o in pigiama e veste da camera. 

Non è in questo il vizio capitale della donna. Il suo peccato è una cattiveria di fondo che le fa negare qualunque valore umano, è lo scherno, l’aggressività con la quale si scaglia contro il mondo intero. E’ davvero così? E’ questo il fuoco che la brucia dall’interno? Perché? 

E’ un vizio personale o la prerogativa di una napoletanità esattamente opposta all’immagine comune di “gente col cuore in mano”? Una questione di quartiere? Perfino la gente  umile a Posillipo o a Chiaia è diversa da quella del Vasto o della Ferrovia. Eppure Angela costringe il marito ad abbandonare l’antica  via Bausan per una casa rumorosa nel caotico centro a ridosso della Stazione dei treni, la “ferrovia”.

Anche questo fa parte di una particolare concezione borghese: il marito accontenta la moglie nelle sue richieste e in cambio ha la libertà di vivere fuori casa, nel suo studio di commercialista o nei circoli che lei non frequenta. Non ha nessuna importanza che la donna abbia modi da megera e abbia portato in casa una madre che è peggiore  di lei, le donne contano molto poco, l’importante è vivere la propria vita, fuori della famiglia e nonostante la famiglia.

Un padre da odiare? No. La colpa è della madre, mai solidale, neanche con le altre donne, soprattutto con le altre donne. La sua colpa è la protervia.

Difficile dire se questa condizione, aggravata da un orgoglio smisurato, sia stata la conseguenza di un difficile dopoguerra, se abbia colpito solo una città come Napoli, o se sia una dimensione umana che si raggiunge quando imitare modelli considerati superiori appare un’impresa impossibile che genera solo odio, se questo accada ad alcune persone in particolare o si tratti di un problema più specificamente sociale. 

In alcuni luoghi comuni di Angela si vedono chiaramente le grettezze di ambienti molto ristretti, l’angustia dei paesi piccoli, dove l’artigiano è di più del contadino, dove le donne stanno appostate dietro le finestre per spiare le malefatte altrui, quelle stesse che una volta in città pensano di poter diventare furbe e accalappiare mariti o amanti che le mantengano, quelle che non hanno riguardo per la virtù e oltraggiano chiunque, virtuoso o vizioso che sia. E’ questo il cattivo odore.

 E’ davvero così? Si tratta esclusivamente di questo? 

Questo romanzo non parla di questo. Non si tratta di questo. Il lettore si accorgerà di essersi sbagliato. Allora non potrà fare a meno di sentirsi scosso. E commosso. 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Barbara Kingsolver: “Demon Copperhead” (Neri Pozza, trad. Laura Prandino), di Valeria Jacobacci

Voluta e dichiarata l’allusione al David Copperfield di Dickens, in questo lungo romanzo, con l’ovvia differenza stilistica. E  guerra, anch’essa dichiarata, ai preconcetti, agli snobismi, alle incomprensioni, a ingiustizie e ostilità, più ancora che all’indifferenza, nei confronti di chi è debole in partenza, perché povero, oppure appartenente a una minoranza etnica o culturale o, anche (il caso del protagonista) un po’ tutte le cose insieme ed altre ancora, mali tipici dei nostri giorni. E al suo personaggio la Kingsolver, che con questo romanzo ha vinto il Premio Pulitzer 2023, non fa mancare proprio niente delle umane disgrazie. 

Un nome, quello dell’autrice, che a noi, non anglofoni e abituati alle traduzioni letterali e scolastiche, fa pensare a qualcuno che il “re” lo “scioglie” nell’acido. Ha un senso se il riferimento a un re ci porta a pensare a sudditi senza diritti o quasi. Sui nomi l’autrice indugia parecchio, il suo protagonista si chiama Copperhead, che vuol dire Testa di rame, il nome di un serpente, temibile ma tanto raro da essere leggendario.

    

A parte ciò, questo Pulitzer tocca temi attuali  e scottanti della società americana dei nostri tempi. 

La storia è ambientata nei Monti Appalachi, nella zona orientale dell’America del nord, che attraversano molti stati americani, e in parte anche il Canada, dalla Pennsylvania fino alla Georgia. Il nome Appalachi venne dato per la prima volta nel ‘500 dagli esploratori spagnoli, che da un villaggio indiano in Florida lo estesero all’intera zona montuosa, la tribù era Alpachen. 

Moltissimi film sono stati girati fra queste montagne, cosa che non ha reso la zona più ricca o turisticamente fortunata. Quello che la contraddistingue è un certo isolamento dalle grandi città e condizioni di vita piuttosto precarie. Ne fa le spese Damon, che racconta se stesso fin dal momento in cui è venuto al mondo.

La caratteristica di Demon (“demonio”) è di avere i capelli rossi e fluenti e incredibili occhi verdi, caratteristiche che ha ereditato dal giovane padre, morto per un incidente sulle rocce di un fiume in piena, mesi prima della sua nascita. Sono le particolari caratteristiche dei Melungeon, gruppo meticcio probabilmente formatosi da una colonia bianca mescolatasi con una tribù nativa, con successivi contributi afroamericani. Il motivo per cui  tali caratteristiche sono rimaste costanti  è l’isolamento delle regioni montuose, poco abitate e favorevoli a matrimoni fra parenti.

Demon è quindi Copperhead, Testa di rame, per il colore della sua chioma, ma anche per la somiglianza con l’astuto e invisibile serpente, è dotato infatti di una straordinaria forza di carattere che gli consentirà di sopravvivere a difficoltà e ingiustizie di ogni genere. La sua mamma è una diciottenne biondissima, timida e fragile, e irrimediabilmente drogata, che vive in una casa mobile ai limiti di un bosco.

I vicini di casa, e in qualche modo la sua unica e affettuosa famiglia, che lo accompagnerà nei pericolosi anni di un’infanzia da orfano, sono i Peggot, proprietari della casa mobile che ospita Damon e sua madre nei suoi primi sei anni di vita. Sono Mr e Mrs Peggot a raccogliere il neonato nel suo sacco amniotico, mentre la madre giace a terra incosciente, fra una bottiglia di vodka e i resti dell’Oxy, un medicinale che viene dato quasi gratuitamente per lenire il dolore ma ha tutti gli effetti di una droga.

A Demon sono accordati giorni felici fra i boschi, in compagnia dei figli e nipoti dei Peggot, Maggot, in particolare, uno strano ragazzino dai capelli lunghi, destinato a diventare sempre più strano crescendo, e zia June, che lo proteggerà per tutta la sua esistenza. Fin quando nella sua vita appare Stoner, il nuovo compagno della mamma che lo tormenta psicologicamente e lo malmena fisicamente.

Il dato saliente di questa narrazione è la voce narrante: Demon. Tutto passa attraverso di lui come un flusso di coscienza in uno slang che non deve essere stato facile tradurre. E’ un modo per entrare in un mondo saltando le descrizioni, il lettore vede, ascolta e riflette con la testa del protagonista, come se avesse una telecamera impiantata nel suo cervello. Da questa prospettiva assiste al funerale della madre, sfilano davanti ai suoi occhi le assistenti sociali che devono decidere della sua vita. E poi, fra alterne vicende, la grande delusione: i Peggot non possono adottarlo.

Incominciano le dickensiane avventure del piccolo orfano, da una fattoria dove è costretto a lavorare come un mulo, insieme a ragazzini dati in affidamento, in attesa di adozioni che non arriveranno mai, alla famiglia con quattro figli che spende i soldi del suo mantenimento facendogli patire la fame e costringendolo a lavorare. Alla fine, l’avventura delle avventure. Con una scatola di latta, contenente i risparmi messi faticosamente da parte, nascondendoli alle brame degli affidatari, scappa, una sera, diretto ad un paese vicino, dove sa che vive sua nonna paterna, mai conosciuta. Verrebbe  in mente il racconto di De Amicis, “Dagli Appennini alle Ande”, salvo che ormai alla crudeltà ottocentesca si è sostituito un cinismo contemporaneo, fatto di droghe e speculazioni moderne.

    

E’ un deciso cambio di prospettive quello che attende Demon alla fine di questo viaggio. Dopo essere stato derubato della preziosa scatola da una vecchia prostituta, riesce a trovare la casa di suo padre e, grazie alla somiglianza con lui, ad essere riconosciuto. Deve ringraziare la sua testa rossa e i suoi occhi verdi.

Non è tutto. La nonna lo affida a un vecchio amico, il coach di football della scuola dove il nipote sarà iscritto. La sua diventa la vita di uno studente americano delle scuole medie, abita in una grande casa, ha cibo, abiti e un’amica: Angus. Colmo del lieto fine, diventa un idolo del football della scuola, assicurando alla sua squadra una vittoria dietro l’altra. 

Ma stiamo parlando di un romanzo di seicentocinquanta pagine e la storia non finisce qui. Un giorno un giocatore della squadra avversaria lo atterra e lo riempie di botte, sotto la massa di corpi che lo sovrasta Demon sente spezzarsi un ginocchio, che non potrà più guarire. 

La musica cambia e la fortuna fa un’altra giravolta.

Proprio quando tutto va meglio tutto va anche peggio. E’ la storia delle droghe immesse fra i montanari in modo subdolo da chi le produce.

Zia June è infermiera e sa come vanno queste cose: nella valle non c’è lavoro, la gente disperata ha poco da fare, sono montanari, presi in giro per il loro accento nelle città, nipoti di minatori che lavoravano in miniere ormai chiuse da tempo, gente che non ha più un’identità. La droga costa poco, gli affari si fanno con lo spaccio facile perché tutti i giovani si drogano e diventano a loro volta spacciatori. Il primo passo si fa negli ospedali, con ricette facili che provocano assuefazione agli antidolorifici.

Non sto raccontando tutta la trama. C’è altro. 

Dory, una ragazzetta esile, affaccendata nel curare un padre di cui è unica figlia non è da meno. 

Il ginocchio dolorante e inguaribile, la perdita del ruolo di star nella squadra di football e Dory segneranno la vita di Demon. Chi legge scoprirà come.

     

Sono evidenti le tematiche di fondo di questo libro premiato per la sua attualità.

Ormai  i veri derelitti ed emarginati in America non sono gli afroamericani, o i messicani che premono ai confini, non sono quegli immigrati che, appena integrati, fanno scudo contro gli altri che tentano di fare altrettanto, non sono gli antichi abitanti, i nativi americani, ancora nelle riserve o resi invisibili, assimilati o neutralizzati. Non sono questi oggetto di razzismo. Il politically correct protegge molte categorie. Quelli veramente emarginati sono i “bianchi poveri non laureati”.

Fra questi ci sono le minoranze non protette da nessuno, soprattutto fra le montagne degli Appalachi, dove la modernità delle istituzioni di assistenza sociale è fittizia: gli assistenti sociali e gli insegnanti sono pagati pochissimo, le famiglie affidatarie di bambini in attesa di adozione sfruttano i sussidi, del resto esigui. 

Dopo la chiusura delle miniere di carbone non c’è  possibilità di lavoro e le vecchie abitudini rurali sono in pericolo. La solidarietà fra poveri è una delle caratteristiche di una società montanara, snaturata dalla modernità, principalmente da droghe e corruzione. Una società che era abituata a condividere tutto, nella quale il vicino di casa era uno di famiglia, come Demon per i Peggot.   

La realtà delle piccole città adiacenti alle montagne porta i nuovi modi per essere liberi: la conoscenza dei propri diritti, la cultura, unica finestra sul mondo.

Fuggire e restare. Restare per cambiare.

La Kingsolver vive col marito e i figli nel sud degli Appalachi, in una fattoria.

 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Ivan Sergeevic Turgenev: “Fumo” (Casa Editrice Sonzogno, 1918, trad. G.Bisi), di Valeria Jacobacci

“C’era folla, il 4 agosto 1862, alle quattro, davanti alla famosa Conversationhaus di Baden Baden. Il tempo era magnifico, gli alberi verdi, le case bianche della città civettuola, le montagne che la circondano, tutto spirava aria di festa e fioriva ai raggi di uno splendido sole; tutto sorrideva, ed un riflesso di quel vago piacevole sorriso errava sui volti, vecchi e giovani, belli e brutti.”

Un’anima slava, quella di Grigorij Litvinov, si aggira nella cittadina termale di Baden Baden, assorta nella percezione di ogni sensazione, attenta a ogni sfumatura di colore che cala in prospettiva su abiti e acconciature, vincendo su ogni possibile imperfezione dello spirito o della materia. Una folla elegante passeggia in attesa del concerto. Ma l’incanto dura pochi istanti, l’immagine svapora, una nota falsa s’insinua nel mezzo della rappresentazione e non abbandona più la scena. Uno spirito critico, non più un’anima, muove il protagonista, da ora fino alla conclusione del romanzo. Che cosa tormenta questo raffinato, giovane gentiluomo? Una delusione. Forse la stessa del suo creatore, l’autore del libro, Ivan Sergeevic Turgenev ( 1818-1883). 

“Madame Bovary c’est moi”, dice Gustave Flaubert (1821-1880), suo contemporaneo. Che cosa ci sfugge di questo malessere che intorbida la società del tempo? O, invece, che cosa illumina il passato alla luce del presente o viceversa? Se Ivan Sergeevic “è” il suo personaggio, lo troviamo senz’altro immerso in una profonda malinconia, in un momento della sua vita in cui nessun successo letterario lo convince o soddisfa e un acre sentimento di sconfitta lo spinge nelle braccia di un personaggio intrinsecamente fragile, che gli procurerà il biasimo dei lettori, soprattutto in patria. Ma procediamo con ordine, come scrivono nel suo secolo.  L’edizione di “Fumo” qui presa in considerazione è quella di Sonzogno del 1918. Perché? 

Il libro che è in mio possesso, scovato per caso un pomeriggio uggioso, in uno scaffale della libreria (quando l’ultimo romanzo era stato letto, il cellulare era scarico e non potevo leggere su kindle) è appartenuto al mio zio materno, Luigi Medina. E’ segnato a penna il suo nome sul frontespizio della prima pagina, come si usava all’epoca, ed è annotata la data: “novembre – anno 2 dell’era fascista”. Le iniziali del nome appaiono con lettera minuscola:  “gino medina”, come “novembre”, al rigo di sotto. Deduco che siamo nel 1924 e che mio zio è un ginnasiale fra i quattordici e i quindici anni.  Non mi stupisce l’età precoce, anch’io leggevo i classici a quell’età, noto altre cose in questa pagina ingiallita dal tempo. Innanzitutto, il nome dell’autore, stampato come si pronuncia in italiano: “Turghenieff”, più rilevante è il nome proprio: una G. Una G. ? Il nome completo dell’autore è Ivan Sergeevic^ Turgenev. Non mi riesce di trovarne altri, da dove viene “G. Turghenieff”?  Il libro è evidentemente una ristampa dell’edizione Sonzogno del ’18, oppure la data indica semplicemente l’acquisto, la prima edizione italiana risale infatti al 1889, ed è per Treves, Milano. Nel testo di mio zio la casa editrice Sonzogno non pone data. Sul dorso, molto rovinato, si legge, in verticale, Linea CC, IL MONDO, Pampar. La traduzione è di G. Bisi. Dunque, un errore? La G. del traduttore è passata all’autore? Non è dato sapere. Intervengono però altre considerazioni. Il romanzo è stato composto a Baden Baden nel 1865, completato nel 1867, pubblicato a San Pietroburgo, solo in seguito tradotto in altre lingue. 

Quali erano nel 1924 i rapporti fra il regime fascista e la letteratura russa? Perché mio zio si firma con le iniziali minuscole? 

Quando quell’anno fu rimandato in Greco, quel ginnasiale lettore di romanzi vestiva alla marinara e con quell’abito di lana fu costretto a studiare in città per tutta l’estate, mentre la famiglia era a Castellammare per la villeggiatura. L’aura romantica restava in qualche modo  nell’aria, ancora vivi certi ideali risorgimentali, molta severità negli studi; dall’altra parte, un’avanzata dei modi della propaganda fascista. Quell’uso della minuscola si può spiegare come una ribellione futurista. E quella data? Anno 2 dell’era fascista… era così che scrivevano a scuola? Nonostante l’antibolscevismo della politica mussoliniana, tutta presa nel combattere il comunismo, nei primi decenni del ‘900 i rapporti fra la Russia e l’Italia  erano di collaborazione economica e diplomatica, nella speranza di un appoggio sovietico nell’occupazione dei Balcani. La letteratura russa, e quella straniera in genere, erano accettate, la censura nell’editoria era piuttosto blanda. Per vari motivi la restrizione arrivò più tardi, quando i romanzi russi, grazie anche alla loro traduzione in italiano dal francese, erano già stati diffusi con discreto successo. L’anima slava aveva avuto il tempo di essere conosciuta. Alcuni editori andavano controcorrente, nonostante il divieto per i giornali di pubblicare letteratura straniera in terza pagina. Ovviamente i motivi delle restrizioni avevano diverse motivazioni e andavano dai modelli dei personaggi femminili, contrari agli ideali fascisti, alle ideologie politiche di autori seguaci di Lenin o Trotsky, fino a ragioni di natura razziale con il diffondersi dell’antisemitismo.  Tuttavia, l’editore Polledro esaltava “Il genio russo” , la casa editrice Slavia valorizzava il testo di partenza contro il “principio di italianità”.  Proprio in virtù di questo principio infatti i nomi stranieri erano italianizzati o scritti come sono pronunciati, come appunto “Turghenieff” nel libro di mio zio. Resisteva, comunque, una certa considerazione, fino a quando la rivista “Il popolo di Roma” pubblicò un articolo titolato  “Che c’importa del genio slavo”? 

Torniamo così a Grigorij Litvinov, il protagonista di FUMO, e alla crisi sentimentale, psicologica e morale  che travolge il giovane uomo nell’inebriante aria primaverile della cittadina termale di Baden Baden, nella Foresta Nera, al confine fra la Germania e la vicinissima Francia, affollata soprattutto dall’alta società pietroburghese. La descrizione dei personaggi che popolano le scene del romanzo richiama i dipinti dei pittori impressionisti. Come in quei dipinti, la leggiadria e l’eleganza delle signore sono in perfetta armonia con la bellezza della stagione e del paesaggio; queste donne appaiono molto lontane da una perfezione di maniera, sembrano però fluide, in evanescente movimento di sentimenti destinati a svaporare.  Accanto alla purezza della forma si fa subito strada la presenza di elementi discordanti: “… le facce imbellettate ed incipriate delle mondane parigine  riuscivano a distruggere quest’impressione generale d’allegrezza… gli accenti striduli del loro gergo francese nulla avevano di comune col cinguettio degli uccelli.”   Questa descrizione ci riporta immediatamente al tema del disinganno, oltre che a una dichiarazione d’insofferenza verso i modi e le mode specificamente “occidentali”, in particolare verso l’ineludibile dipendenza dalla cultura francese.  Al di là di questa istintiva avversione per le apparenze, Grigorij cade nel più comune degli inganni che il potere femminile e le tentazioni del garbo e della bellezza possano riservare. Non resiste al fascino di una donna.

Accade  che in attesa della cugina Tatiana, che dovrebbe sposare, Grigorij incontra Irina Paulovna, sua fidanzata dieci anni prima.  Il fidanzamento era andato in fumo perché la fanciulla, alla vigilia delle nozze, gli aveva preferito un generale fornito di un ottimo patrimonio, in grado di riscattare la sua pur nobile famiglia dal dissesto finanziario e garantire a lei una vita piena di agi nel cuore della buona società. La scelta era avvenuta non senza lacrime e sofferenze anche da parte della ragazza, costretta a scegliere secondo “ragione” calpestando il “sentimento” (parafrasando Austen, che si muove in un ben diverso contesto sociale e ambientale). La fascinazione che travolge i due a Baden Baden è potente, in grado di trasformare le loro vite. Grigorij è pronto a cedere pur sentendosi estraneo a qualunque influenza romantica: “Byronismo, romanticismo del 1830!” esclama in una conversazione, mentre dichiara il suo scetticismo in ogni campo, e mentre osserva con disgusto la sala da gioco, i personaggi corrotti, vuoti e falsi che l’affollano. Il casinò era stato costruito a imitazione di Versailles, troppa ostentazione di lusso! Da autentico romantico e malgrado l’ironico distacco, Grigorij si abbandona a una storia d’amore “degna di Anna Karenina” come osserverà Piero Citati ai nostri giorni, quando lo spirito slavo, a fondo studiato da Ettore Lo Gatto, titolare fino al 1965 di letteratura russa all’Università di Roma, è stato finalmente rivalutato nella sua pienezza. Citati, sensibile alla lettura diretta dei testi molto di più che all’esegesi,  coglie il senso attualizzante dell’autore. 

Grigorij e Irina si amano di nascosto, all’insaputa del marito di lei, fin quando non progettano di fuggire insieme. Per andare dove? A Grigorij non importa, ma a Irina, sì! Sul binario del treno che dovrebbe portarli lontano, la donna è immobile, attonita e affranta, seduta sulla panchina desolata della stazione. A lui non resta che recuperare la cugina, sposarla e ricominciare la vita borghese nella “madre Russia”, momentaneamente abbandonata per un’indimenticabile stagione a Baden Baden. 

Questo finale non piacque a nessuno. Chissà, poteva forse piacere proprio a quell’ideale fascista che voleva la donna angelo del focolare domestico. L’impeto e la passione romantici avrebbero voluto un’eroina suicida e un amante disperato. Neanche l’ideale patriottico ottocentesco si salva in quest’opera che vede solo “Fumo” nelle prospettive umane. C’è chi vi ha visto perfino la satira di Herzen, l’intellettuale russo che si era opposto all’autoritarismo della Russia zarista ed era stato seguace di Bakunin.

Torno alla torrida estate del 1924, quando un ginnasiale leggeva “FUMO” fra una traduzione dal greco e una lista di verbi irregolari da mandare a memoria. Che idea si fece dell’amore? E della patria? Il fascismo accompagnò la sua giovinezza. Riuscì a influenzarlo? Per quanto ne so, fu capitano nella seconda guerra mondiale, tornò con una gamba invalida. La fidanzata non l’aveva aspettato, essendo molto bella, sposò durante la guerra un uomo ricco più anziano di lei di parecchi anni. Lui svolazzò da una relazione all’altra. Non si sposò. Forse perché pensava che il suo patrimonio, o meglio, i guadagni della professione di avvocato, non sarebbero stati sufficienti, non potevano bastare per mantenere quella posizione agiata che una moglie degna delle sue aspettative avrebbe meritato. 

Su Amazon sono in vendita libri usati. Fra questi ho visto anche un’antica edizione di “FUMO”. Costa sei euro!  Che vergogna! Chi può desiderare di venderla? Le anime non sono in vendita. Esistono edizioni nuove in ottimo stato, la vera letteratura non smette di essere pubblicata! Io pertanto vado a conservare il mio vecchio e buon esemplare!

p. s. Dovevo immaginarlo che G. era Giovanni! Ivan è Giovanni, ecco spiegata la G. davanti a Turghenieff. Eppure Ivan era tutt’altro che insolito! All’epoca in Italia il nome Ivan era di moda, il ragazzino, in villeggiatura a Castellammare, che piaceva moltissimo a mia madre, si chiamava Ivan. Mia madre aveva sette o otto anni, il nonno prendeva per l’estate una bella villa in collina, nel verde. Al mare si andava giù in carrozza (anche se le auto erano in uso) nel pomeriggio andavano a fare passeggiate nei boschi. Passarono alcuni anni, ogni estate erano lì. Una volta i ragazzi andarono giù su un calessino, un gruppetto di quattro o cinque, a una svolta il calesse sbandò e finirono gli uni sugli altri, Ivan ne approfittò e baciò mia madre. Primo bacio. Era l’ultima estate, l’anno dopo Ivan non venne e neanche i seguenti, forse veniva da una città del nord. Mio zio andò all’Università e mia madre incominciò il ginnasio.

 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Amin Maalouf: “Il periplo di Baldassarre” (La nave di Teseo, trad. Egi Volterrani), di Valeria Jacobacci

Libri ancora libri sempre libri. È per un libro che inizia la ricerca ossia Il periplo di Baldassarre.

Si tratta di un libro speciale, quello che contiene il “centesimo” nome. Il nome di chi? Di Dio. Da premettere che Baldassarre è un libraio, l’anno è il 1666, da molti a suo tempo indicato come l’anno della “bestia”, quello in cui dovrebbe verificarsi l’apocalisse e arrivare la fine del mondo. Sono molteplici le chiavi di lettura, tutto si riduce a un immenso libro, grande almeno quanto l’universo, tutto va letto e interpretato ma prima ancora scritto: se chi ha scritto per primo è dio stesso, bisogna dire che ha usato molti pseudonimi, almeno novantanove, mentre il centesimo ci sfugge, perciò “fuori l’autore!” Sarà  quell’inconoscibile nome a salvare l’umanità dall’anno della bestia! 

Questo è almeno quello che pensa Baldassarre allontanandosi dalla borgata di Gibelleto.    

Qui sono approdati i crociati genovesi della sua famiglia e qui hanno prosperato senza mai far ritorno a Genova, neanche quando è ormai l’impero ottomano a possedere terre e uomini, schiavi o liberi. Nessuno ama Genova quanto i genovesi d’oriente! Non è per far ritorno a Genova che inizia il viaggio e Baldassarre non viaggia da solo. Con lui partono due nipoti, figli di sua sorella, il suo segretario e una donna! Di lei si è innamorato quando aveva undici anni e si aggirava leggiadra nella bottega di suo padre, il barbiere. Non è destinata a Baldassarre ma a un bruto che l’abbandona dopo le nozze e le impedisce così di avere una famiglia e una vita.

Tuttavia la ragazza è sveglia e pur di non restare prigioniera  della famiglia del marito, che aspetta lo sposo fuggito chissà dove, decide di partire per la sua personale ricerca del coniuge, che sospetta, e spera, morto. Baldassarre non esita a portarsela con sé per deserti e per mari, incontro a mille avventure.

Viaggio anche metaforico alla ricerca di dio, della salvezza, dell’amore e della morte, o solo del destino che contiene tutto: un viaggio obbligato che tocca anche a chi non vuole partire. Ovvio che i due diventano amanti, ovvio che il marito non si trova.

Intanto il 1666 davvero sembra l’anno dell’anticristo, o dell’infedele, dipende dai punti di vista e dalle diverse fedi, che si somigliano tutte, nella paura dell’incognito, della catastrofe imminente.

Così le catastrofi non tardano a verificarsi. Molti incendi, a Istanbul come a Londra, dove nel panico della fuga tutti scappano da tutto e lottano ciecamente nelle mischie dove i nemici sono quelli diversi perché vestono panni diversi, parlano lingue diverse e pregano preghiere diverse.

Però parlano anche molte lingue, si aiutano, si blandiscono, si ricoprono di gentilezze e si avviluppano negli inganni.  Di fuga in fuga baldassarre perde il suo seguito, a ogni imbarco per una meta diversa, dietro il “centesimo nome”, scompaiono i nipoti, il segretario e la sua donna con in grembo suo figlio. Un marito, fantomatico e malfidato, assassino e furfante, è pur sempre un marito, una moglie gli appartiene, è la legge. Baldassarre non si oppone. Un capitano folle lo trascina per tutti i mari fino a Genova.

Ecco la terra dei padri, dove tutti lo riconoscono perché è un Embriaco, appartenente a una delle più importanti famiglie genovesi, partito qualche secolo prima alla conquista della Terra Santa. Di questa famiglia e del suo nome resta una torre, ed è quanto basta. Il genovese veste finalmente i panni giusti e parla la lingua giusta, che non ha mai abbandonato. Un ricco commerciante lo ospita, lo salva, gli offre in sposa la figlia tredicenne.

Tutto perfetto ma Baldassarre non crede di aver trovato quello che cercava, il libro contenente il “centesimo nome” è finalmente nelle sue mani, ma la donna che ama è rimasta prigioniera e con lei il suo stesso figlio, perciò riparte. Dove lo porteranno le tempeste e il capitano pazzo?

A Londra, è lì che deve andare.  In tempo per incontrare Bess, la locandiera (non quella di Goldoni) e per assistere da protagonista al grande incendio che distrugge la città con i suoi pub e i suoi teatri. Quanto è diversa questa locandiera dalla figlia del barbiere! Lei gli serve birra, lo abbraccia, gli parla e lo salva guidandolo verso il Tamigi da dove riprenderà il suo viaggio. Bess, libera, generosa e padrona di sé. L’onore prevale su tutto, sulle malattie, sulla paura stessa e anche sul “centesimo nome”.

Ogni volta che Baldassarre ( fortunosamente venuto in possesso del volume, che si trova nelle mani di persone che ne ignorano il contenuto e il valore) prova a leggerne le pagine per riferire il suo segreto, la cecità scende sui suoi occhi costringendolo a inventare ogni parola.

L’amore vince tutto, come si sa, l’unica cosa da fare è raggiungere e mettere finalmente in salvo la donna che ama e il bambino. Non è destino che il periplo finisca qui. La donna ritrovata in modo pericoloso e drammatico sceglie di restare con il marito e dichiara che non c’è mai stato un bambino: tutto inventato. Crederle? Pensare che menta per salvare il figlio in qualche modo in pericolo? Non è dato sapere.

Il periplo si chiude, Baldassarre torna a Genova da dove secoli prima la sua famiglia era partita, Gibelleto resterà, come Bess, uno splendido ricordo. Il Mediterraneo ha offerto le sue avventure, da est a ovest e da nord a sud. E viceversa. Come succede anche oggi, in mezzo alle guerre, alle politiche e alle religioni.  Il 1666, l’anno della bestia, è finito. La storia di Baldassarre è nei diari di bordo della sua vita. E la chiave? Per lui come per noi : il “centesimo nome”.

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.