“Il velo nero” di Giovanni Camerana, di Sonia Di Furia

La donna fatale e le altre immagini della donna in letteratura

Uno dei motivi più ricorrenti della letteratura romantica è quello dell’amore impossibile, che genera tormento e infelicità e non può che concludersi nella morte, di uno solo o di entrambi gli amanti. È un motivo che, nel rinnovato interesse per il Medio Evo che caratterizza questa età, sembra riprendere spunti dalla letteratura medievale, si ricordi il romanzo di Tristano e Isotta. La tematica compare nella “Nuova Eloisa” di Rousseau, che rimanda proprio a una vicenda d’amore impossibile e tragico, quello di Eloisa e Abelardo, poi nel Werther di Goethe, nell’episodio di Daura e Arindal dei poemi ossianici, nell’Eleonora Di Burger, nell’Ortis di Foscolo.

Parallelamente a questo tragico conflitto, la cultura romantica tende a proporre, in una vasta gamma di forme, un’immagine idealizzata e sublimata della donna e dell’amore, che in certi casi sembra riprodurre anch’essa aspetti della cultura cortese medievale. Esemplare è nel Werther la resistenza di Lotte alla passione che emerge prepotentemente in lei e che, sia pure con indicibile sofferenza e con infinite lacrime, viene soffocata in nome della castità coniugale. Altra figura angelica è quella di Teresa nell’Ortis, il cui nome è capace di elevare l’eroe ad altezze straordinarie “Dopo quel bacio io son fatto divino”. In questo passo è evidente una concezione sublime dell’amore. 

Contemporaneamente, però, nella letteratura della seconda metà dell’Ottocento si infittiscono le figure di donne fatali, perverse distruttrici di uomini, già comparse nella produzione della prima metà del secolo, e il fenomeno si accentuerà ancora a fine secolo, soprattutto entro l’opera dannunziana. Il dato rivela nell’immaginario collettivo, a cui attinge la letteratura, una forma di paura della donna, che determina la nascita di un fantasma ostile e minaccioso. L’esplodere di questo odio e di questa paura non può essere ritenuto casuale. Alle sue radici è facile scorgere un indebolimento dell’identità maschile, una crisi della nozione di uomo che si verifica in questo periodo e che è causata dal sommarsi di diversi fattori, tutti riconducibili alle radicali trasformazioni indotte dall’imporsi della modernità. 

Il motivo della donna fatale è trattato particolarmente dalla cultura scapigliata, vero crogiolo dei temi della nuova letteratura: e non a caso, perché gli scapigliati sono i primi a percepire, ancora ai loro albori, i processi in atto. Difatti, insieme alla donna fatale, compare anche, nelle loro pagine, la figura dell’uomo debole e perplesso, che ha perso la sua forza e la sua sicurezza e si sente intimamente lacerato. Testimonianza significativa è la donna cantata da Giovanni Camerana nella poesia “Il velo nero” tratta dalla raccolta poetica “Poesie”, che comprende opere edite e inedite dell’autore e offre il panorama più completo del poeta magistrato, procuratore generale di cassazione, proponendo un singolare ritratto di intellettuale moderno alle soglie della sensibilità novecentesca. L’edizione che si prende qui in considerazione è pubblicata dall’editore Giulio Einaudi, 1968, con introduzione a cura di Gilberto Finzi. Libro difficile da reperire ma, alla fine, non impossibile. 

La donna che indossa il velo nero è un idolo remoto e irraggiungibile, da cui emana una fascinazione tenebrosa e inquietante. L’insistenza sull’immagine delle “arcane tenebre” rivela come ella sia vista quale simbolo della morte, che esercita sull’uomo un’attrazione morbosa, fatta di paura e al tempo stesso di voluttà di autoannientamento. Non solo, ma i “capelli d’abisso” e di “fuligine” evocano l’idea dell’inferno, mentre gli occhi “vibranti faville” sono un attributo tipico delle creature demoniache: la donna appare dunque come incarnazione del demonio, destinata a provocare la dannazione dell’uomo e proprio per questo sentita come affascinante. Inoltre, è definita “tigre”, una metafora che è ricorrente nel designare la donna fatale, e “fatal” è appunto l’aggettivo che accompagna il sostantivo tigre nei versi di Camerana.

Si sa, inoltre, quanto gli scapigliati sentissero, come tutta la cultura romantica, il fascino della morte. Ma vi sono altri particolari significativi: “l’abisso” e  “la fuligine” evocano subito l’idea dell’inferno; gli occhi sfavillanti sono un attributo costante degli eroi demoniaci romantici, si ricordino lo “sguardo di fuoco” del Corsaro Byron, gli occhi “scintillanti” del Vecchio Marinaio di Coleridge. La donna quindi appare come creatura infernale, incarnazione del demonio, destinata alla dannazione dell’uomo.

“Il velo nero”, però, non è un semplice accumulo di clichés: rivela una costruzione sapiente, un uso non banale delle parole, delle immagini, del ritmo. Il suo interesse deriva soprattutto dal suo carattere di contemplazione di un oggetto di forte attrazione e d’orrore. A dare un senso di fissità ipnotica concorre in primo luogo la continua ripetizione di formule e versi interi, col ritmo lento e sinuoso che ne deriva. Siamo in un clima già diverso da quello di Praga e Boito, in atmosfere che risentono del Decadentismo. Negli anni Ottanta, la poesia è del 1884, erano ormai noti Verlaine e Mallarmé, D’Annunzio aveva fatto le prime, fortunate prove di poeta. La parola poetica di Camerana già si carica di valori allusivi, il ritmo assume una musicalità evocativa, le immagini sono dense di valore simbolico.

 Persino il “classico” Carducci si lascia contagiare da questo mito tipicamente tardo-romantico e decadente nella poesia “A proposito del processo Fadda” (Libro II- Giambi ed epodi), in cui si richiama la sadica ferocia con cui le antiche donne romane si precipitavano a rivolgere il pollice in giù durante gli spettacoli nel circo. Tali donne fatali assaporavano lo spettacolo di sangue e di morte, mostrando tutto il loro piacere nel veder soffrire, ferirsi e morire i gladiatori, in uno spettacolo unico che univa lusso, sangue e crudeltà. Il richiamo alla romanità del basso impero diviene il motivo per rivelare il disappunto di Carducci per la curiosa morbosità, spesso ipocrita, con cui la società romana sua contemporanea seguì il processo per l’omicidio del capitano Giovanni Fadda nel 1879. L’opera critica il voyeurismo della borghesia e la sua morbosità, contrapponendola ai valori civili e morali che Carducci intendeva promuovere attraverso la sua poesia. L’opera fu scritta nel 1879, in seguito al processo per l’uccisione del capitano, un eroe risorgimentale. La moglie di Fadda e il suo amante erano accusati del crimine. La poesia è un attacco alla superficialità e alla morbosità della società dell’epoca, che Carducci vedeva contrapposta ai suoi ideali di giustizia e rigore morale.

 Una componente tardo-romantica o decadente è riconoscibile persino nel modo in cui il principe dei romanzieri naturalisti, Zola, raffigura la donna corrotta e sul limite della follia nel romanzo “La Curée”. In Renée, la giovane matrigna incestuosa che seduce il figliastro nel sensuale proliferare della vegetazione di una serra, compaiono i tratti tipici della donna fatale: la pieghevolezza crudele del felino “simile a un grande gatto dagli occhi fosforescenti”, che la rende simile alla statua  della sfinge in marmo nero “il mostro dalla testa di donna”; il dominio totale esercitato sull’uomo, un essere debole, indifeso e quasi femmineo nella sua fragilità, visto come “una preda rovesciata sotto di lei”; la lussuria sfrenata e insaziabile, il gusto perverso dell’amore proibito; persino il vampirismo, che si concentra nel particolare della bocca avida, contemplata dal narratore con una sorta di fascinazione ipnotica “la sua bocca si apriva allora con il luccicore avido e sanguinante dell’ibisco della Cina”. 

Non meraviglia allora trovare la stessa figura mitica in Verga, anche se mascherata sotto le vesti della contadina siciliana. Nella “Lupa” compaiono parimenti una serie di tratti tipici della donna fatale, seppur filtrati attraverso l’immaginario e i modi espressivi del narratore popolare, che si colloca all’interno stesso del mondo contadino. Il primo è l’aspetto fisico: è alta, magra, bruna, pallida, con i grandi occhi “neri come il carbone” che spiccano sul pallore del viso; poi i rimandi alla belva feroce, divoratrice di uomini, il soprannome è, appunto, la lupa; le “labbra fresche fresche e rosse che vi mangiavano”; la notazione “ella si spolpava i loro figlioli”; il carattere demoniaco “quegli occhi da satanasso”, “è la tentazione dell’inferno”, “prima che il diavolo tornasse a tentarlo”; la lussuria insaziabile, che non si arresta dinanzi ad alcun divieto morale o interdetto sociale. E difatti quella voracità sessuale conduce veramente alla perdizione il giovane genero, spingendolo al gesto omicida al fine di liberarsi “dall’incantesimo”.

Il mito della donna fatale, frequentato dalla letteratura “alta”, dove assume risonanze profonde grazie ai legami dell’immaginario collettivo con i grandi conflitti reali, viene poi riproposto dalla letteratura “bassa”, d’appendice, d’intrattenimento. In Carolina Invernizio, il motivo è degradato a stereotipo, per il consumo immediato di un pubblico non raffinato.  Nel personaggio di Nara di “Il bacio di una morta”, oltre alle arti della maliarda seduttrice, che usa il suo fascino perverso per irretire l’uomo, sottometterlo al suo dominio e spingerlo al delitto, non possono mancare gli elementi più comuni del cliché: la capigliatura nera, il lampo sinistro degli occhi, la pelle di tigre su cui la donna si sdraia, la lussuria ardente in contrasto con l’amore timido, pudico della donna casta, che guarda caso porta il nome simbolico di Clara, allusivo alla luce, al bianco della purezza.

Si è accennato, inizialmente, al fenomeno dell’indebolimento dell’identità maschile, causato dal sommarsi di diversi fattori, riconducibili alle trasformazioni sociali indotte dalla modernità. In primo luogo, il progressivo formarsi di un’organizzazione capitalista avanzata, che esclude oramai sempre più l’individuo energico e creatore della prima fase concorrenziale del capitalismo e che tende ad essere sostituito da grandi apparati anonimi, impersonali; ad essi si affiancano poi apparati burocratici egualmente giganteschi e anonimi, dinanzi a cui il singolo si sente impotente e smarrito; a ciò si aggiunge ancora il fatto che il nuovo sistema economico in gestazione comincia a creare  una società massificata, ridotta a una pluralità appiattita, in cui l’individuo non conta più, ma appare solo come minima rotella insignificante nel meccanismo. La crisi della nozione tradizionale di uomo, quella di maschio forte, virile, sicuro, capace di costruirsi con le proprie energie il suo mondo e di dominarlo, si riflette in letteratura nel moltiplicarsi di personaggi deboli, insicuri, inetti a vivere, sconfitti, che vengono a popolare le pagine degli scrittori di questo periodo, a partire già dai protagonisti della letteratura scapigliata e dei primi romanzi di Verga, per arrivare a quelli del primo D’Annunzio, di Svevo, Fogazzaro, Pirandello, Tozzi. L’uomo in crisi d’identità avverte soprattutto nella donna il banco di prova di questa debolezza, di questa inadeguatezza alla realtà, e da qui nasce quel senso di paura che, nel gioco dell’immaginario letterario, dà vita a quelle figure femminili perverse, inquietanti e minacciose. Complementarmente, con lo sviluppo della modernità prende avvio il processo di emancipazione della donna, di affrancamento della sua secolare condizione di subalternità al maschio, attraverso la lotta per la conquista dei diritti civili e politici, del lavoro, dell’istruzione, più in generale della propria libertà. La donna quindi appare all’immaginario maschile nemica e pericolosa anche perché nella realtà effettiva, con la sua emancipazione, minaccia le basi tradizionali del potere e del privilegio maschile. Per questo viene sentita come un pericolo da una virilità già psicologicamente debole a causa dei processi sociali sopra menzionati.

Al di là delle proiezioni mitiche, quali la donna fatale e la donna sublimata, la letteratura del secondo Ottocento si impegna in un’indagine sulla condizione reale della donna. Un vero e proprio archetipo di questa indagine, da cui deriveranno più o meno direttamente molti altri personaggi romanzeschi, è Emma Bovary di Flaubert. L’eroina flaubertiana rappresenta la piccola borghese di provincia, dalla sensibilità romantica esasperata, acuita dai libri avidamente divorati sin dall’adolescenza, che non sopporta il grigiore della vita quotidiana, il marito mediocre, l’ambiente sociale ottuso e soffocante e cerca di evaderne con sogni di vita intensa, lussuosa, aristocratica, segnata da sublimi e romanzesche passioni. Il tentativo di trasferire i sogni nella realtà, attraverso le relazioni adulterine, porta l’eroina alla rovina e alla morte. È evidente che il personaggio femminile è usato da Flaubert come strumento di impietosa analisi critica di tutta una società. 

È da osservare che per tutte queste eroine, Fosca di Tarchetti, Renée di Zola, Isabella di Verga, Giacinta di Capuana, Emma di Giacosa, insofferenti delle convenzioni del mondo borghese in cui si trovano imprigionate, è inevitabile la sorte tragica, il suicidio o comunque la morte. Infatti, da un lato gli scrittori, attraverso di esse, conducono un’analisi critica acuta del mondo borghese, ma dall’altro, rivelando un’ottica prettamente maschile, non possono permettere che la donna infranga radicalmente, con la sua ribellione, le convenzioni date: per questo, su di lei, alla fine cala infallibilmente la sanzione della morte. Una conferma a questa legge viene ancora da “Anna Karenina” di Tolstoj: per l’eroina adultera non può esistere altro sbocco che il suicidio.

 Una soluzione radicalmente diversa è, invece,  quella coraggiosamente prospettata da Ibsen in “Casa di bambola”, in cui la protagonista, Nora,  prende coscienza del fatto che la vita familiare è una trappola soffocante, che mortifica la sua individualità e la costringe a una subalternità infantile nei confronti del marito-padre, ma la sorte che Ibsen le assegna non è la morte, abitualmente riservata in letteratura alle donne che rifiutano le norme, né la rassegnazione e l’integrazione, come nel caso dei “Tristi amori” di Giacosa. Nora sceglie invece di abbandonare marito e figli, per cercare di uscire dai limiti della propria condizione infantile; per maturare e assumere una dignità, una libertà pari all’uomo, attraverso un’esperienza della realtà fatta in modo autonomo. 

Sin qui si sono esaminati personaggi femminili presentati dal punto di vista maschile. Ma il processo di emancipazione porta sempre più le donne, nel secondo Ottocento, ad assumere in prima persona l’analisi della propria condizione attraverso la scrittura. Se in certi casi l’immagine della donna delineata dalle scrittrici resta subalterna all’ottica maschile, in altri casi offre veramente una prospettiva “altra”, che rovescia i termini della questione. È il caso di Sibilla Aleramo, che in “Una donna” rappresenta un’eroina capace di prendere coscienza della condizione di schiavitù, di deprivazione della dignità personale da lei subita nel matrimonio, e le fa intraprendere un percorso di progressiva emancipazione, attraverso l’attività intellettuale e politica. L’analisi condotta dalla Aleramo raggiunge livelli di notevole profondità, non solo sulla condizione femminile, ma anche su quella maschile; sulla sostanziale debolezza psicologica dell’uomo, che viene mascherata dall’imposizione del suo dominio. 

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Italo Calvino: “Il sentiero dei nidi di ragno”, di Sonia Di Furia

Non è questa la sede per delineare una storia del secondo dopoguerra (né lo spazio lo consentirebbe), mi limiterò pertanto a richiamare alcune linee essenziali del quadro politico, economico e sociale italiano, quelle che possono risultare indispensabili per comprendere i fenomeni culturali e letterari in cui si inserisce il libro preso in esame “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino e di cui si prende in considerazione l’edizione Mondadori.

Il referendum del 2 giugno 1946 proponeva ai cittadini italiani la scelta tra la monarchia e la repubblica: l’esito delle urne sancì per l’Italia, uscita da vent’anni di dittatura fascista e dall’esperienza traumatica della guerra, l’assetto repubblicano. La Costituzione, elaborata da un’assemblea costituente ed entrata in vigore nel 1948, delineava gli ordinamenti di una repubblica democratica di tipo parlamentare.  La legge elettorale con cui le camere erano elette era di tipo proporzionale, cioè ogni lista otteneva i seggi in proporzione ai voti ricevuti. La Costituzione nasceva dall’incontro delle forze politiche che avevano combattuto il fascismo durante la Resistenza e che avevano trovato espressione nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).

Il paese era uscito prostrato dalla guerra. I primi anni post bellici erano stati quindi segnati dal faticoso processo della ricostruzione: si trattava di ricostruire il tessuto urbano distrutto dai bombardamenti, ripristinare strade, ponti, ferrovie, riavviare la produzione industriale ed agricola, rimettere in piedi i servizi essenziali, l’amministrazione pubblica, gli ospedali, le scuole, il sistema finanziario e creditizio. Furono anni duri, di sacrifici e di miseria, soprattutto per i ceti più deboli, ma il paese, pur ferito profondamente dalla guerra, aveva ancora grandi risorse al suo interno, capacità di iniziativa e di lavoro. In quegli anni si verificò quindi un’accumulazione che fu la premessa di un vero e proprio decollo economico successivo.

In questo dopoguerra proseguono la loro attività le più importati case editrici nate fra le due guerre, alcune di grandi dimensioni e dall’organizzazione industriale, come Mondadori e Rizzoli, altre di dimensioni più artigianali, come Bompiani, Garzanti, Einaudi. Le case maggiori diventano dei veri e propri colossi dalla produzione estremamente differenziata, che va dalla narrativa italiana e straniera ai classici, alla saggistica, ai manuali, alla letteratura di massa, ai rotocalchi di informazione e popolari, ai quotidiani, ai fumetti. 

Il presentarsi di una serie di fattori, nel periodo che si sta esaminando, ha creato le premesse per un sensibile allargamento del pubblico rispetto al periodo fra le due guerre: la scolarizzazione di massa e l’alfabetizzazione quasi totale della popolazione; la maggiore disponibilità economica all’acquisto di libri da parte dei ceti medio-bassi, grazie al cresciuto tenore di vita; il maggior tempo libero, per la riduzione dell’orario di lavoro e la diffusone del fine settimana lungo; l’estendersi e la maggior penetrazione dei canali di promozione (basti pensare alla forza di persuasione della televisione).

Il clima dell’immediato dopoguerra, caratterizzato dall’entusiasmo per la riconquista delle libertà civili e della fiducia in un rinnovamento profondo del paese, si riflette sugli indirizzi letterari. Si diffonde un senso di insofferenza per la letteratura del ventennio precedente: gli aspetti che soprattutto vengono criticati e rifiutati sono la concezione elitaria e aristocratica della scrittura, il culto della pura forma, il soggettivismo e il lirismo evasivo, l’astrattezza metafisica, la chiusura del letterato nella torre d’avorio e la sua mancanza di contatto con la realtà sociale. Oggetto di tale critica sono essenzialmente il Decadentismo e l’Ermetismo. Ora invece si sente fortemente la responsabilità civile e sociale dell’intellettuale. Il compito che gli viene assegnato è proprio quello di prendere contatto con i problemi reali del paese (le devastazioni materiali e morali della guerra, la miseria, la durezza del lavoro, i conflitti di classe, le lotte operaie, gli scioperi, le occupazioni di terre da parte dei contadini), di raggiungere mediante il suo lavoro letterario una più precisa conoscenza di essi e di contribuire fattivamente alla loro soluzione. La letteratura da compiaciuta auto contemplazione, deve trasformarsi, secondo la nuova mentalità che diviene dominante, in uno strumento di lotta politica, in un mezzo per incidere direttamente sulla realtà per cambiarla. Ma, se si escludono alcune personalità maggiori come Vittorini, Pavese, Moravia, Calvino, Fenoglio, la letteratura neorealista, nonostante il fervore civile e le buone intenzioni che l’animavano, non ha lasciato risultati di grande valore. Oggi appaiono anzi evidenti i limiti che la inficiavano: la mitologia populista, cioè l’idealizzazione del popolo come forza sana e incontaminata. Come portatore di tutti i valori morali e sociali positivi; lo schematismo ideologico elementare, che tende a contrapporre rigidamente bene e male, buoni e cattivi, senza alcuna complessità problematica; la riproduzione mimetica della semplice superficie del reale, l’incapacità di penetrare a fondo nelle sue contraddizioni; il bozzettismo provinciale e dialettale; l’usare tecniche narrative antiquate (ad esempio il narratore eterodiegetico onnisciente, che guarda dall’alto la materia giudicandola e commentandola) non più adatte a rendere la percezione contemporanea del reale, ignorando così le più avanzate soluzioni novecentesche, ma anche la lezione stessa dei tanto ammirati americani come Hemingway, Faulkner, Dos Passos, che impiegavano spesso tecniche d’avanguardia.

Il romanzo d’esordio di Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno” si colloca nell’ambito del Neorealismo, anche se poi l’autore prosegue in tutt’altre direzioni. Affrontando l’argomento della lotta partigiana, sulla base di un’esperienza vissuta in prima persona, lo scrittore trasferisce sulla pagina il clima di fervore degli anni post bellici, il bisogno di dare voce ad una vicenda collettiva che viene sentita come decisiva e che alimenta speranze in un cambiamento profondo della vita nazionale e della costruzione di un’Italia più civile e più giusta. Tuttavia Calvino non vuole offrire un quadro celebrativo ed agiografico della Resistenza, come egli stesso precisa in un’illuminante prefazione aggiunta al libro nel 1964: la banda partigiana che egli rappresenta è costituita dagli scarti di tutte le altre formazioni, da una serie di emarginati, di balordi, di “pìcari”. Con questo però, in polemica con i detrattori della Resistenza, egli intende dimostrare che anche chi si era impegnato nella lotta senza chiare motivazioni ideali sentiva <<un’elementare spinta di riscatto umano>> e si trasformava così in forza storica attiva. Si manifesta in tal modo quell’indipendenza intellettuale che contraddistingue poi sempre la posizione di Calvino, il suo rifiuto di sottostare ad una direzione politica della cultura, di ridurre la letteratura a celebrazione, a propaganda o a pedagogia, secondo normative imposte dall’esterno. 

Ciò che allontana Calvino dagli standard neorealistici è ancora il fatto che, pur rappresentando figure e ambienti proletari e sottoproletari, il suo libro non rivela alcun intento documentario di tipo naturalistico. Anzi, la vicenda della lotta partigiana è trasferita in un clima fantastico, di fiaba. L’effetto è ottenuto presentando tutti gli eventi attraverso il punto di vista di un bambino. Il protagonista, Pin, è un ragazzino cresciuto nei vicoli della città vecchia di Sanremo, precocemente smaliziato, ma che conserva l’ingenuità e lo stupore tipici dell’infanzia: ai suoi occhi il mondo adulto, i rapporti umani, la politica, la guerra appaiono estranei, incomprensibili, assumendo una fisionomia incantata e magica, di favola. Lo scrittore, nella prefazione del 1964, ha modo di precisare che nell’estraneità dello sguardo del bambino si metaforizza il suo stesso rapporto con la guerra partigiana, l’inferiorità da lui sentita <<come borghese>> rispetto a quel mondo. Nel Sentiero appaiono così in germe le due direzioni che Calvino seguirà nel suo percorso letterario degli anni successivi: il realismo e la dimensione fantastica. Proprio nel clima realistico, ancora una volta, si inserisce il tema della lotta partigiana nei racconti di “Ultimo viene il corvo”, sia pur scritto in chiave fiabesca.  La guerra partigiana vi conserva un posto importante, tuttavia rispetto al Sentiero la fiducia nella storia appare incrinata e affiorano inquietudini nuove: progressivamente si fa strada il timore che il sacrificio della lotta sia stato inutile e la vittoria possa essere vanificata.

Fin dall’inizio del romanzo è riconoscibile una situazione tipica della fiaba, il bambino solo e smarrito nella notte, in un luogo deserto. Fiabesco è anche il motivo dei noccioli di ciliegia lasciati da Pin come traccia per l’amico Lupo Rosso (ricorda Pollicino). La pistola nascosta dovrebbe rappresentare il mondo degli adulti, la guerra, ma nell’ottica del bambino diviene nient’altro che un giocattolo, o meglio l’oggetto magico delle fiabe: maneggiandola, Pin si immerge in avventurose fantasie, in cui assume il senso di onnipotenza tipico dell’infanzia. Fiabesco è ancora l’incontro con lo sconosciuto, proprio nel momento di massimo sconforto: il partigiano è il gigante buono, che nella fiaba è la proiezione della figura paterna, protettiva e rassicurante (funzione che si compendia nel particolare della mano <<grandissima, calda e soffice>>, che <<sembra fatta di pane>>. Nella banda partigiana Pin, sia pure a fatica, troverà la solidarietà umana e il calore che possono salvarlo dalla durezza della storia. Questo clima favoloso è ottenuto dallo scrittore attraverso la focalizzazione interna a Pin, filtrando tutto il racconto attraverso il suo sguardo infantile. 

Proseguendo nella lettura, emerge come Calvino, nel raffigurare la lotta partigiana, voglia evitare la retorica celebrativa; c’è l’accozzaglia di emarginati e di sbandati, che non ha ben chiaro il motivo per cui combatte. Ma lo scrittore vuol dimostrare che ciò che non sminuisce il valore della loro lotta è che in essi c’è un’oscura, elementare esigenza di riscatto umano, che li trasforma in forze storiche positive. La Resistenza è poi ulteriormente straniata perché è vista attraverso una prospettiva del tutto estranea, dal basso, quella del bambino che vive come in un racconto avventuroso, a cui il mondo adulto appare lontano e incomprensibile.

Nel corso degli anni Cinquanta si manifestano già i segni dell’esaurimento del Neorealismo. All’inevitabile logoramento interno delle forme letterarie si aggiungono fattori esterni: la fine degli entusiasmi e delle speranze di rinnovamento civile propri dell’immediato dopoguerra, a causa della restaurazione conservatrice in atto; la crisi delle sinistre, determinata dalla destalinizzazione dell’Unione Sovietica e dell’invasione dell’Ungheria; il proporsi, con lo sviluppo industriale in Italia, di problemi che esigono nuovi strumenti conoscitivi ed espressivi. Appare nel 1959 <<Il Menabò>>, fondata a Torino da Elio Vittorini e lo stesso Calvino, alla cui base vi è l’intento di aprire gli orizzonti culturali, ma soprattutto di cercare gli strumenti per orientarsi nel <<labirinto>> della nuova realtà industriale avanzata, come precisa il fondamentale intervento di Calvino nel 1962 “La sfida del labirinto”.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Italo Calvino: “Il castello dei destini incrociati”, di Sonia Di Furia

In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti. Passai per un ponte levatoio sconnesso, smontai di sella in una corte buia, stallieri silenziosi presero in consegna il mio cavallo. Salii una scalinata; mi trovai in una sala alta e spaziosa: molte persone- certamente anch’essi ospiti di passaggio, che mi avevano preceduto per le vie della foresta- sedevano a cena attorno a un desco illuminato da candelieri”.

Inizia così il racconto di Calvino, edito da Mondadori nella collana Oscar, con la presentazione dell’autore stesso e la postfazione di Giorgio Manganelli.

Il volume è composto di due testi: Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati. Nel primo le figurine che accompagnano il racconto riproducono il mazzo di tarocchi miniati da Bonifacio Bembo per i duchi di Milano verso la metà del XV secolo, che ora si trovano parte all’Accademia Carrara di Bergamo, parte alla Morgan Library di New York. Alcune carte del mazzo Bembo sono andate perdute, tra cui due molto importanti: Il Diavolo e La Torre.

Il secondo testo è costruito con lo stesso metodo mediante il mazzo dei tarocchi oggi internazionalmente più diffuso: L’Ancien Tarot de Marseille della casa B. P. Grimaud, che riproduce un mazzo stampato nel 1761 dall’incisore Nicolas Conver, maître cartier a Marsiglia e che, sbiadito e alterato dal tempo, è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Il mazzo marsigliese non è molto diverso dai tarocchi ancora in uso in gran parte d’Italia come carte da gioco; ma mentre in ogni carta dei mazzi italiani la figura è tagliata per metà e si ripete capovolta, qui ogni figura conserva la sua compiutezza di quadretto insieme rozzo e misterioso che la rende particolarmente adatta all’operazione di raccontare attraverso figure variamente interpretabili.

L’idea di adoperare i tarocchi come una macchina narrativa combinatoria venne a Calvino da Paolo Fabbri che, in un seminario internazionale sulle strutture del racconto del luglio 1968 a Urbino, tenne una relazione su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi. Di quell’apporto metodologico di ricerca, l’autore ha inteso prendere l’idea per cui il significato di ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono; partendo da questa idea, si è mosso in maniera autonoma, secondo le esigenze interne del suo testo.

Il riferimento letterario naturale è l’Orlando furioso; anche se le miniature di Bonifacio Bembo precedevano di quasi un secolo il poema di Ludovico Ariosto, esse potevano ben rappresentare il mondo visuale nel quale la fantasia ariostesca s’era formata.

Ogni carta è uno stemma e di carta in carta i narratori confessano le loro vicende tra incaute avventure e frettolosi amori. A uno a uno i taciturni ospiti seduti al tavolo diventano i protagonisti dei racconti e il lettore ne scopre vite e drammi, gioie e angosce infinite, in un gioco narrativo che coinvolge e sconvolge. A un certo punto nelle intenzioni dell’autore questo volume avrebbe dovuto contenere non due ma tre testi. Calvino avrebbe dovuto cercare un terzo mazzo di tarocchi abbastanza diverso dagli altri due. Ma quale avrebbe potuto essere l’equivalente contemporaneo dei tarocchi come rappresentazione dell’inconscio collettivo? Pensò ai fumetti, non a quelli comici, ma a quelli drammatici, avventurosi, paurosi: gangsters, donne terrorizzate, astronavi, vamp, guerra aerea, scienziati pazzi. Pensò di affiancare al Castello e alla Taverna, Il motel dei destini incrociati. Non andò oltre la formulazione dell’idea. Il suo interesse teorico ed espressivo per quel tipo di esperimento si era esaurito. Era tempo di passare ad altro.

Nel raccontare le storie altrui, quella dell’alchimista, della sposa dannata, del ladro di sepolcri, dell’Orlando pazzo per amore di Angelica, di Astolfo che sale sulla luna per recuperare il senno dell’amico racchiuso in un’ampolla (insieme a lacrime e sospiri d’amore, ozio, tempo perso nel gioco, desideri irrealizzati, doni fatti con speranza di ricompensa, tranne la pazzia, quella sta tutta sulla Terra), Calvino racconta la sua storia e la sua personale concezione della vita. Dissemina di qua e di là pensieri, riflessioni, opinioni, come quando scrive che: “Due diverse vie s’aprono a chi ha ancora da trovare se stesso: la via della passioni, che è sempre una via di fatto, aggressiva, a tagli netti, e la via della sapienza, che richiede di pensarci su e imparare a poco a poco“; oppure: “Il buffone ogni volta che apre la bocca, tra uno sberleffo e un lezzo, semina sospetti, dicerie denigratorie, angosce, allarmi“; o ancora riflette sul tempo che passa: “Per sentieri d’inchiostro s’allontana al galoppo lo slancio guerriero della giovinezza, l’ansia esistenziale, l’energia dell’avventura spesi in una carneficina di cancellature e fogli appallottolati“. E forse tutti ci riconosciamo in questo teatro della vita a cui Calvino ha tentato di dare ordine.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Federico De Roberto: “I Viceré”, di Sonia Di Furia

Con l’unificazione, l’Italia divenne una monarchia costituzionale, regolata dallo Statuto albertino del 1848. Il nuovo Stato era rigidamente accentratore: nonostante la grande varietà di tradizioni, costumi, linguaggi, condizioni economiche e sociali delle numerose province e regioni italiane, le autonomie locali erano praticamente inesistenti. A tutta l’Italia venne estesa la legislazione sabauda, per quanto riguardava l’amministrazione, l’apparato fiscale, la scuola, l’esercito. Il Governo del paese era espressione di una ristrettissima minoranza: aveva il diritto di voto il 2% della popolazione, e si trattava in prevalenza di grandi proprietari terrieri. La gran maggioranza del popolo italiano restava esclusa dai diritti politici e non era in grado di incidere col voto nella vita politica della nazione. Al suffragio universale maschile si arriverà solo mezzo secolo dopo l’unificazione, nel 1913.

Le trasformazioni della base economica generarono naturalmente, seppur con lentezza, anche trasformazioni della struttura sociale italiana. Nonostante ciò, l’aristocrazia godeva ancora di grande peso e prestigio sociale, in quanto forniva  modelli di comportamento anche ai ceti altoborghesi che si andavano formando. Ne è uno specchio la letteratura, in cui i nobili appaiono largamente protagonisti di romanzi, novelle, drammi, grazie al fascino che i loro stili di vita esercitano sul pubblico e sugli stessi scrittori di origine borghese.

Federico De Roberto si inserisce nel quadro dell’Italia postunitaria e verista e pubblica, nel 1894, il suo capolavoro “I Viceré”, di cui si legge ed esamina il volume inserito nella collana “I grandi classici” Crescere edizioni del 2011. L’opera è un vasto quadro sociale incentrato sulla storia di un’antica famiglia nobile siciliana, di cui vengono analizzate con implacabile freddezza le tare ereditarie, l’avidità interessata e la sete di dominio. Postumo, nel 1929, uscì “L’imperio”, purtroppo rimasto incompiuto, che continua I Viceré, narrando la scalata al successo politico dell’ultimo rampollo della famiglia Uzeda, Consalvo. 

Il romanzo narra le vicende della nobile famiglia siciliana degli Uzeda, discendente da antichi viceré spagnoli dell’isola, intrecciandole con gli avvenimenti storici tra il ’50 e l’80. Odi, cupidigie, meschinità, rivalità si agitano tra i numerosi componenti della famiglia, che sono perpetuamente in conflitto tra loro e sono uniti solo dall’orgoglio di casta e dalla difesa dei loro privilegi e della loro superiorità sociale. Tuttavia la decadenza della razza si rivela in un germe di follia che si manifesta in ciascuno di essi: tutti sono segnati da fissazioni e stranezze. La sete ossessiva di dominio caratterizza anche l’ultimo discendente, Consalvo, protagonista della parte finale del romanzo, che, dopo un’adolescenza dissipata, affronta con ambizione smodata e totale cinismo la carriera politica, abbracciando con opportunismo, lui aristocratico e intimamente reazionario, idee di sinistra. Egli è infatti convinto che al di là di ogni rivolgimento storico nulla può veramente mutare e che i privilegiati devono sapersi adattare alle nuove situazioni pubbliche, come quella successiva all’unità, per mantenere intatto il loro potere. 

Emblematico il brano in cui l’attenzione è rivolta alla politica, all’interesse di casta e decadenza biologica della stirpe (parte I, cap. IX). In esso, il duca Oragua, zio degli Uzeda, proveniente da una famiglia aristocratica borbonica e reazionaria, ma divenuto liberale per calcolo e opportunismo, durante la spedizione garibaldina in Sicilia acquista una grande popolarità senza alcun merito, grazie ad alcuni gesti demagogici. Alle prime elezioni del nuovo Stato unitario si presenta candidato al Parlamento, in base al principio: “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri” che suona come cinica parodia della famosa frase di Massimo D’Azeglio (Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani). Contemporaneamente, dopo anni di attesa e di delusioni, la nipote Chiara sta per dare alla luce un figlio.

L’episodio si fonda sul montaggio in parallelo, condotto con notevole abilità, di due diverse sequenze narrative, il parto mostruoso e l’elezione del duca d’Oragua. Tale montaggio è evidentemente denso di significati che l’autore, in nome dell’impersonalità, si guarda bene dall’esplicitare, lasciando che le cose parlino da sé. Si può leggere innanzitutto in chiave naturalistica: da un lato la decadenza biologica dell’antica razza nobiliare, che ormai può solo dare origine a mostri; dall’altro, però, nonostante questo, l’inesausta sete di dominio e l’avidità interessata che inducono la nobiltà ad ogni sorta di trasformismo, senza alcuno scrupolo, pur di conservare il potere, anche ad accettare il nuovo Stato liberale e il principio delle elezioni dei rappresentanti del popolo. Ma il montaggio parallelo si può anche leggere in chiave simbolica: il mostro è l’equivalete oggettivo della mostruosità morale della famiglia Uzeda, che si manifesta sia nel cinismo dei suoi trasformismi politici sia nell’ottuso reazionarismo e nella chiusura ossessiva a difesa di interessi e privilegi. 

Pur attraverso l’impersonalità, traspare egualmente la dura condanna da parte dello scrittore. Ma De Roberto non prospetta alternative: la sua visione è fatalistica, come si può intuire dalla battuta del principe Uzeda: “Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!”.  I dominatori mantengono immutato il loro potere, nonostante ogni mutamento politico. Le trasformazioni storiche sono solo fenomeni di superficie, ma nel profondo nulla può cambiare veramente. Il suo è un pessimismo affine a quello di Verga. 

Le tecniche con cui De Roberto costruisce la narrazione impersonale sono però diverse da quelle del Verga “rusticano”. Non vi è la “regressione” della voce narrante entro la realtà rappresentata. La narrazione si fonda sul dialogo, su didascalie descrittive e informative perfettamente neutre, e su discorsi indiretti liberi dei personaggi, più vicini al Gesualdo.  La narrazione tende ad avvicinarsi alla forma teatrale. De Roberto ne è perfettamente consapevole: nella Prefazione ai processi verbali (1890) afferma infatti: “L’impersonalità assoluta non può che conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive pel teatro”. Solo raramente riaffiora dall’oggettività della narrazione una mossa sarcastica, che tradisce l’atteggiamento del narratore: “il prodotto più fresco della razza dei Viceré”; “egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco”.

Nel quadro evolutivo dell’Italia unificata, teatro e palcoscenico de I Viceré, le sue strutture economiche erano ancora fortemente arretrate rispetto agli altri paesi europei come Inghilterra, Francia e Germania. La classe politica al potere nel primo quindicennio unitario, la Destra storica, erede del liberalismo cavouriano, era ostile a uno sviluppo industriale, poiché da un lato riteneva che l’Italia, essendo povera di materie prime, non avesse i requisiti adatti, e dall’altro temeva che il sorgere dell’industria, creando un proletariato di fabbrica, potesse generare enormi problemi sociali e innescare pericolose tensioni eversive, come accaduto in altre nazioni europee. Preferì quindi assegnare all’Italia la funzione meno avanzata di paese agricolo-commerciale, ritenendola più consona alle sue risorse naturali e alle sue tradizioni culturali. Convinta assertrice del libero scambio, applicò a tutto il territorio nazionale le tenui tariffe doganali del Regno di Sardegna, per favorire l’esportazione dei prodotti agricoli (vino, olio, agrumi) e l’importazione dai Paesi stranieri di prodotti industriali di cui vi era necessità, in una specie di divisione del lavoro internazionale. Una politica di industrializzazione avrebbe invece avuto bisogno di tariffe doganali molto alte, per proteggere i prodotti industriali interni dalla concorrenza di quelli esteri, più a buon mercato, per i minori costi derivanti da un’organizzazione più avanzata della produzione.

La scelta liberoscambista ebbe effetti disastrosi sulle industrie del Mezzogiorno, che sotto i Borboni erano state fortemente protette dai dazi, e che furono rapidamente spazzate via dalla concorrenza internazionale nei primi anni dell’Unità.

Il quadro comincia a cambiare con la svolta segnata dall’avvento della sinistra al potere (1876), che coagula gli interessi di gruppi sociali diversi. Tra questi gruppi cominciano ad avere peso anche gli imprenditori industriali. Le politiche della Sinistra subiscono il fascino del modello prussiano (non si dimentichi che l’Italia, rovesciando le tradizionali alleanze risorgimentali, nel 1882 si era unita con Prussia e Austria nella Triplice Alleanza) e inaugurano una politica di potenza, che spinge necessariamente alla corsa agli armamenti. Si potenziò l’industria siderurgica e in questo settore l’intervento dello Stato fu massiccio: esemplare il caso delle grandi acciaierie di Terni, fondate nel 1884, le quali avevano soprattutto il compito di fornire corazze e proiettili alla marina militare. 

Accanto a questi impulsi all’industrializzazione patrocinati dallo Stato, un altro fattore si aggiunse a partire dal 1880: la crisi agraria, in conseguenza dell’arrivo nei mercati europei di enormi quantità di grano americano a buon mercato, che fa crollare i prezzi. L’effetto di tutto ciò fu un ulteriore impoverimento del Mezzogiorno che, già privato delle primitive industrie dalla politica liberoscambista, si vede ora danneggiato dal protezionismo nell’esportazione di prodotti pregiati (vino, olio, agrumi) ed è costretto a comprare prodotti industriali a prezzo maggiore dal Nord, che nel frattempo si è andato industrializzando: il rapporto tra il Sud e il Nord si precisa sempre più come un rapporto di tipo coloniale, fondato sullo scambio ineguale “prodotti agricoli contro prodotti industriali”. Si profila quindi nettamente, sin dai primi decenni dell’Unità, la “questione meridionale”, quel divario nello sviluppo dell’economia e della società civile tra il Nord e il Sud della penisola.

Nonostante ritardi e limiti, l’Italia degli anni Settanta e Ottanta vedeva comunque gli inizi di uno sviluppo capitalistico moderno, che tendeva, come al suo sbocco inevitabile, all’industrializzazione. Se ai nostri occhi, col senno di poi, quei primi fenomeni della modernizzazione appaiono molto timidi e arretrati, con ben altra forza dirompente dovevano presentarsi agli occhi di chi viveva immerso fra essi e vi assisteva per la prima volta. Per questo le idee correnti fra scrittori e uomini di cultura di quegli anni avevano come termine di riferimento, esplicito o implicito, la nuova realtà economica e sociale che si andava affermando. Ancora, però, le masse rurali, al Nord come al Sud, rimanevano totalmente estranee al nuovo Stato unitario, ne ignoravano i principi ispiratori, non sapevano neppure chi fosse il re o contro chi si combattevano le guerre in cui erano chiamati a morire. Significativo è l’episodio dei Malavoglia in cui, nel piccolo villaggio di pescatori siciliani, giunge l’eco della battaglia di Lissa (1866, scontro navale sul mar Adriatico, nell’ambito della terza guerra di indipendenza tra la marina imperiale austriaca e quella italiana) durante la quale muore Luca, come un fatto favoloso, avvenuto non si sa bene dove e perché.

 I ceti popolari continuano a vivere in un’altra dimensione, estranea a quella della società civile, relegati in un orizzonte linguistico puramente dialettale e in una cultura tradizionale, folklorica, magica e primitiva. Queste condizioni erano più gravi al Sud, data la situazione di maggiore arretratezza di quelle regioni, ma il quadro non è tanto differente anche al Nord. Nonostante l’unificazione politica vi erano insomma due Italie, non solo in senso geografico, ma anche in senso sociale: una frattura netta, una vera barriera separava i ceti superiori dotati di istruzione, di un reddito e di condizioni di vita civili, e le masse popolari. In quel momento mette radici quel fenomeno doloroso e di grandiose proporzioni, che fu l’emigrazione all’estero in cerca di lavoro; fenomeno che interessò non solo il Sud, ma le masse proletarie di tutta la penisola.

De Roberto, con I Viceré, fornisce un affresco dai toni forti e disillusi dell’Italia pre e post unità, da cui emerge il fallimento degli ideali risorgimentali e la descrizione impietosa e ironica del popolo italiano. Quando venne pubblicato il romanzo, c’era stato da poco lo scandalo della Banca Romana e la fondazione della Banca d’Italia; erano scoppiate le manifestazioni dei Fasci Siciliani dei lavoratori; Giolitti si era dimesso e Francesco Crispi era salito al potere. Quella dello scrittore appare come una vera e propria denuncia al tradimento degli ideali risorgimentali in una Italia abitata da loschi arrivisti, nobili opportunisti, determinati a non perdere ricchezze e prestigio sociale, politica clientelare. Un libro che sradica la visione romantica e idilliaca dell’Italia unita e riporta alla luce un processo lungo e complesso, non privo di corruzione, lotte di potere, lacerazioni e spregiudicato trasformismo. Un romanzo sempre attuale che può contribuire a comprendere meglio l’Italia di oggi.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Giambattista Vico: “La Scienza Nuova”, di Sonia Di Furia

Con il Settecento giunge a piena risoluzione la catena di conflitti apertisi nel Seicento, con la crisi sia del sistema e del modello conoscitivo tradizionale, sia delle certezze che a quello erano collegate. Secolo di profonda e generale trasformazione, il Settecento si apre sulla scena politica con il dominio incontrastato del massimo sovrano assoluto, Luigi XIV di Francia, il re Sole, e si chiude sulle prime vittorie italiane del generale Napoleone Bonaparte, destinato a divenire il primo imperatore dei Francesi e a diffondere in tutta Europa i principi della rivoluzione francese ( Liberté, égalité, fraternité), sui quali si fondano oggi direttamente o indirettamente le Costituzioni di tutti gli Stati del mondo. Egemonia francese che, però, cede ben presto il passo al prevalere di quella potenza marinara, l’Inghilterra, che darà il via al processo di trasformazione globale e radicale dell’organizzazione economica e sociale che va sotto il nome di “Rivoluzione industriale” e segna in modo determinante il percorso successivo dell’evoluzione dell’umanità, condizionandone nel bene e nel male ogni forma di organizzazione civile e di esperienza di vita.

Per analizzare e comprendere questi processi, il metodo d’indagine scientifico-matematico, empirico e razionale, derivato dalle scienze naturali, è dal Settecento applicato a tutto lo scibile. Nessun settore dell’esperienza umana è escluso dalla verifica e dal vaglio critico operato dalla ragione che, in questo senso, si sostituisce, come criterio superiore di verifica di ogni affermazione e come principio di ogni azione, alla fede, alla Rivelazione cristiana e alla sua tradizionale interpretazione dogmatica. Nessuna autorità tradizionale, nessun modello istituzionale passa indenne attraverso l’esame cui l’uomo del Settecento sottopone i più minuti aspetti della realtà naturale e umana, ogni settore della conoscenza e della cultura.

In questo sistema di analisi si inserisce il capolavoro di Giambattista VicoPrincìpi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, per i quali si ritrovano altri princìpi del diritto naturale delle genti”, come recita il titolo della prima edizione del 1725. Si prende qui in considerazione l’edizione “I classici Bur” della Biblioteca Universale Rizzoli, con introduzione e note di Paolo Rossi, quinta edizione del 1994.

Sintesi coraggiosamente innovativa del lavoro erudito dei decenni precedenti, l’opera propone un’interpretazione generale della storia delle attività umane, dei principi fondatori della società e della sua evoluzione dalle origini (desunte dall’autore nel mito e nella realtà delle lingue e delle letterature arcaiche) fino agli esiti moderni.  La ricostruzione del passato comporta delle costanti del divenire storico, analizzato in tutte le sue espressioni culturali di fondo (religiose, politiche, giuridiche e istituzionali, linguistiche, filosofiche e letterarie) e spiegato come l’alternarsi progressivo di fasi successive di civiltà umana ( l’<<età degli dei>>, <<degli eroi>> e <<degli uomini>>), alle quali l’autore fa corrispondere una concezione del mondo, una sensibilità attraverso la quale si esprime il grado di sviluppo raggiunto dall’umanità e che informa nel profondo le modalità dell’esperienza e dell’organizzazione sociale. 

Poiché la ricerca di Vico si spinge fino alle origini prime dell’umanità, ben oltre il punto in cui l’uomo produsse i primi documenti scritti, buona parte della ricostruzione dei caratteri originari dell’umanità e dell’età primitiva, a cui l’autore dedica la massima attenzione, si fonda sulle tracce non intenzionali trasmesse da quell’età ai tempi successivi. Molto frequente è il ricorso alle spiegazioni etimologiche; indispensabile riferimento e oggetto di studio diviene il patrimonio mitologico e leggendario, i rituali e il folklore, dai quali l’autore ricava i dati utili alla ricostruzione, il più possibile fedele all’originale, della mentalità e delle funzioni interiori dell’uomo primitivo. Da queste infatti Vico fa dipendere lo sviluppo successivo della storia del genere umano. 

Un mondo sterminato di <<detriti>> storici, giudicati fino a quel momento inaffidabili dalla tradizione colta, vengono per la prima volta riportati alla luce e interpretati come documenti della massima importanza per risalire alla definizione della psiche umana, colta nella sua fase primitiva, allo stato originale. Vico supera così definitivamente il confine tra la “civiltà” europea moderna e le altre forme dell’organizzazione umana che l’uomo europeo, al primo contatto con le popolazioni indigene del Nuovo Mondo, aveva provveduto a collocare su un piano inferiore o addirittura subumano: si pensi ai dubbi sorti a proposito della loro appartenenza al genere umano, alle discussioni nate tra i teologi per stabilire se quelle popolazioni fossero o no dotate di anima. Nessuna fase dello sviluppo dell’umanità è di per sé, superiore, in senso assoluto, alla precedente; ciascuna è indispensabile allo sviluppo della vicenda umana. 

Vico ammette la forza della provvidenza divina nella trasformazione storica, ma le considerazioni relative all’azione creativa dell’uomo suggeriscono implicitamente la visione di un mondo il cui sviluppo è largamente affidato alla sua iniziativa, spinto alla trasformazione dal bisogno di soddisfare il proprio desiderio di conoscenza e di azione. In ogni caso Vico non presenta, nella sua ricostruzione del passato, interventi diretti di Dio nella determinazione del corso della storia umana, poiché il progresso, quale è concepito nella Scienza nuova, non è orientato verso alcuna meta e non esclude la possibilità di un regresso, l’instaurarsi di un processo regressivo (corsi e ricorsi). Inseriti nell’insieme ordinato e oggettivo del corso della storia, anche i regressi storici rispondono comunque a una logica che permette in buona misura di prevedere i risultati dell’azione umana.

La progressione delle linee teoriche generali dell’opera, portarono l’autore a due successive riedizioni (1730; 1744, postuma, con il titolo di “Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni”). In esse, il testo dal 1725 veniva progressivamente ampliato e organizzato, inserendo i risultati di nuove osservazioni e dimostrazioni, accumulatesi via via in gran numero, in un processo continuo di revisione e di crescita.

Il lavoro secolare di indagini dedicate dalla critica alle opere precedenti la “Scienza nuova”, per lo più inedite, ha fatto emergere i motivi che orientano la ricerca di Vico e trovano la loro sintesi nel capolavoro. In questo senso il “De antiquissima italorum sapientia” (L’antichissima sapienza degli italici), del 1710, per alcuni attardato e inadeguato, testimonia nello studioso un’esigenza largamente diffusa nella cultura italiana del tempo, che respinse in buona misura la proposta cartesiana a causa della sua astrattezza intellettualistica.

Rifiutando Cartesio, Vico rifiuta di accettare il predominio incontrastato del metodo matematico e del modello conoscitivo proposto dalle scienze naturali e rivendica la piena dignità, anzi la centralità, delle discipline umanistiche, che avevano perduto negli ultimi decenni il predominio di cui avevano goduto nell’età classica e rinascimentale.  Particolarmente significativa è, in questo senso, l’orazione “De nostri temporis studiorum ratione” (Il metodo degli studi del nostro tempo, del 1709). In essa Vico dimostra un’approfondita conoscenza del metodo fisico-matematico usato dai cartesiani, e considerato il metodo universale perfetto di indagine della realtà, ma esprime la preoccupazione che la nuova scienza confidi eccessivamente nell’assolutezza e nell’universalità di applicazione dei propri strumenti conoscitivi e finisca per sottostimare i limiti della ragione umana. Lo studio della scienza finirebbe per distogliere l’attenzione della classe colta dallo studio di tutta una serie di funzioni psichiche non operanti secondo principi matematici, come la fantasia, e di tutta una serie di attività culturali esprimentisi secondo modi di tipo non-logico, l’arte, l’eloquenza, non penetrabili attraverso lo strumento matematico, ma fondamentali nell’orientare il comportamento dell’uomo. 

Ma una volta stabilito, con Cartesio, che l’unica conoscenza sicura, <<certa>>, è quella esatta, offerta dall’applicazione del metodo matematico alla realtà fisica, e constatato che non si possono spiegare matematicamente i comportamenti umani, si deve da questi due fatti dedurre che non si può dare conoscenza sistematica e obiettiva di queste sfere dell’esperienza, poiché non possono essere imposte in termini matematici.  Vico ha il merito di aver superato questa difficoltà metodologica, che blocca di fatto ogni razionalismo di tipo matematico, recuperando all’osservazione e all’interpretazione coerente e rigorosa dell’intellettuale, il “filosofo”, tutto il vasto terreno dell’incerto, in cui l’uomo da millenni, con soluzioni continuamente nuove, opera la maggior parte delle sue scelte di vita, applica la sua intelligenza ed esercita continuamente la sua creatività.

La soluzione che permette a Vico di superare il dilemma, se sia possibile spiegare razionalmente l’irrazionale, emerge nel famoso principio del <<Verum ipsum factum>> (è accertabile solo ciò che è stato fatto): se a Dio soltanto pertiene, in quanto creatore, la conoscenza piena della natura, all’uomo compete la conoscenza delle proprie creazioni concrete, delle proprie realizzazioni. Compito della filosofia è, allora, mettere a punto strumenti concettuali, altrettanto rigorosamente razionali, quanto quelli messi a punto nel campo fisico-matematico dalla scuola cartesiana, ma specificamente adattati all’oggetto di studio. 

Nella ricerca di un collegamento strettissimo tra la formulazione di un’ipotesi teorica che spieghi il meccanismo che guida l’evoluzione della “cultura” umana, nella vita del singolo e della comunità, e i fenomeni particolari in cui la legge dello sviluppo storico si realizza concretamente, Vico si dimostra erede del metodo scientifico inaugurato in Italia da Galilei. Egli lo estende, di fatto, al mondo dell’uomo, di cui come abbiamo detto rivendica il primato.  La nova definizione vichiana dell’esperienza umana presenta non poche analogie, per originalità, ampiezza della portata e risultati raggiunti, con la rivoluzione copernicana del secolo precedente. Non a caso, tra gli autori a cui Vico si collega idealmente, egli indica l’inglese Francis Bacon, filosofo empirista, eminente uomo politico e strenuo assertore della rivoluzione scientifica del Seicento. 

Non è un caso, inoltre, che Vico approdi alla sua geniale ridefinizione dei meccanismi generali, individuali e sociali, del divenire della società umana, attraverso lo studio del diritto, tanto strettamente collegato alla dimensione politica e di conseguenza alla definizione dei bisogni essenziali dell’uomo. La lezione del giusnaturalismo, della teoria del diritto naturale formulata nei decenni precedenti dall’olandese riformato Huig de Groot e dal tedesco Samuel von Pufendorf, che giungono all’identificazione di principi giuridici comuni a tutta l’umanità, perché basati sulle esigenze e tendenze comuni a tutti gli uomini, offre a Vico il primo esempio di una sintesi teorica generale fondata in concreto sullo studio delle forme che l’umanità ha saputo dare nel tempo alle norme che regolano la convivenza civile. 

 Il procedimento dei giusnaturalisti viene applicato da Vico a tutte le manifestazioni della socialità dell’uomo, e non solo a quelle formali e coscienti quali il diritto, aprendo così la via alla costruzione delle moderne scienze sociali e dell’antropologia in particolare. La connessione instaurata tra speculazione filosofica ed esperienza storica concreta, il carattere di utilità pratica che Vico attribuisce alla propria indagine e le modalità stesse di questa, collegano lo studioso alle correnti più autorevoli del pensiero italiano ed europeo che tra Sei e Settecento si oppongono ai vincoli tradizionali della cultura espressa dalla Controriforma e ne determinano la crisi irreversibile.

Stabilito che il <<mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini>>, la vicenda storica che Vico porta alla luce è la storia dell’evoluzione della mentalità umana, delle caratteristiche psichiche profonde che caratterizzano la percezione del mondo e danno forma, creandola, ad ogni aspetto dell’organizzazione sociale e dell’attività umana. 

Sostanzialmente ignorata dai contemporanei, che per lo più la rifiutarono per la sua <<oscurità>>, La Scienza nuova circolò ampiamente negli ambienti illuministi napoletani e, conosciuta per il tramite degli esuli napoletani della Repubblica Partenopea (1799), ispirò l’azione della maggior parte degli intellettuali impegnati nel Risorgimento. 

I Romantici europei, poi, trovarono in Vico l’anticipazione della loro visione della storia, come progresso civile delle nazioni e della rivalutazione della grandezza umana e civile espressa dalla grande poesia del passato (da Omero a Dante in particolare). Esaltata da Benedetto Croce come fondamento dell’indirizzo storicistico che caratterizzerebbe il pensiero italiano moderno, La Scienza nuova oggi è considerata anche fuori dall’Italia come una tappa fondamentale nella costruzione della moderna concezione dell’uomo e della storia, nonché l’opera con cui ha origine lo studio scientifico della mitologia e, più in generale, della vastissima materia afferente alle scienze umane. 

Per chi ne avesse desiderio, oltre che occasione, si suggerisce di andare a visitare la casa natale di Vico, con la sottostante piccola bottega del padre libraio (libreria non più esistente), in cui visse fino all’età di diciassette anni, come precisa la lapide sulla facciata. Si trova in via San Biagio dei Librai a Napoli. Il testo della lapide fu dettato da Benedetto Croce (colui che aveva scritto e pubblicato su Il Mondo, quotidiano politico, il primo maggio 1925 “L’antimanifesto” in risposta al “Manifesto degli intellettuali fascisti” di Giovanni Gentile). Nella domanda presentata al Municipio di Napoli, su suggerimento di Mario Forges Davanzati, per evitare che la domanda stessa venisse respinta dalle autorità fasciste, Fausto Nicolini si dichiarò autore del testo. La domanda fu accolta e lo scoprimento della lapide avvenne il 23 giugno 1941, alla presenza delle autorità e dell’autore fittizio.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.