Elisa Chimenti: un punto di coesione fra l’Europa e il Mediterraneo, di Cristiana Buccarelli

 C’è una scrittrice e poetessa ormai quasi dimenticata che è stata una figura molto interessante e cosmopolita, di cui si è molto occupata di recente Camilla Maria Cederna, professoressa all’Università di Lille. Si tratta di Elisa Chimenti, la quale può collocarsi nell’orizzonte delle autrici della letteratura femminile dell’esilio, come le stesse scrittrici Agotha Kristov e Fausta Cialente, come la filosofa Maria Zambrano e molte altre.

Elisa Chimenti, poetessa, scrittrice e antropologa nasce a Napoli da genitori italiani nel 1883 e muore a Tangeri nel 1969 e può ritenersi una figura straordinaria, che ha messo in discussione qualsiasi forma di confine identitario. Da piccolissima si è trasferita con la famiglia da Napoli in Tunisia per dieci anni e poi a Tangeri in Marocco dove è cresciuta ed ha studiato una ventina di lingue, insieme ai testi di tutte le religioni monoteiste. È stata una donna di grande cultura, e queste sue ampie conoscenze sono presenti nella sua opera letteraria, infatti si tratta di una scrittrice ibrida, molteplice, con un pluringuismo che rappresenta bene il Mediterraneo. 

È stato un suo merito quello di aver riscritto e fatto conoscere le narrazioni di una tradizione orale di donne e di aver rappresentato questo patrimonio culturale femminile, attraverso i racconti di una raccolta che rappresenta un miscuglio di prosa e poesia: I canti delle donne arabe, pubblicata integralmente in Marocco nel 2009. Ciò avviene perché la Chimenti, giovanissima, segue il padre, il quale è andato via dall’Italia per questioni politiche, e che a Tangeri è diventato non solo medico del Sultano, ma anche medico del popolo e delle donne che va a curare nelle zone rurali. In questi luoghi lo segue la giovane Elisa come traduttrice e mediatrice tra medico e pazienti, così essa scopre un universo di storie presenti nella tradizione orale femminile berbera e raccoglie i racconti di queste donne nella raccolta sopra citata.

Elisa Chimenti in quegli anni si immerge totalmente nella cultura marocchina ed ebraica, a Tangeri frequenta una scuola ebraica e inizia a scrivere degli altri interessanti racconti tra cui Les Sortilège, tutti ambientati in Marocco.

A Tangeri tra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del nuovo secolo ci sono, per diversi motivi, molti immigrati ed esiliati europei, sono soprattutto spagnoli, tedeschi, francesi e italiani; questo è il contesto multiculturale in cui si forma l’autrice e ciò si riflette nella sua scrittura, infatti i suoi testi pubblicati in Francia e in Marocco sono espressione di una apertura linguistica e culturale. 

Sono stati ritrovati anche dei suoi testi inediti di poesia, pubblicati di recente per la rivista Atlante dell’Università di Lille; nella raccolta, intitolata Marra, lei si riferisce a un uomo amato e a una situazione sentimentale difficile che ha vissuto con un diplomatico e traduttore algerino, dopo essersi allontanata dal marito polacco, Dombrowskj, che aveva conosciuto durante un periodo di studio in Europa: quest’ultimo aveva gravi problemi psichici e aveva tentato di ucciderla subito dopo il matrimonio.

Tuttavia la Chimenti è una donna che non si fa fermare da nulla e che non demorde mai. Nel 1914 fonda a Tangeri con la madre una scuola italiana e interculturale molto apprezzata, quando poi il regime fascista italiano si infiltrerà anche a Tangeri, creando varie istituzioni tra cui un’altra scuola italiana, che ovviamente non è quella della Chimenti, lei e la madre riusciranno a trasferire la loro scuola in un palazzo del Sultano, ma saranno osteggiate dal regime e nel 28’ saranno costrette a chiudere la scuola che avevano fondato, trovandosi in una situazione economica difficile.

Eppure Elisa Chimenti continuerà a lavorare come scrittrice e anche come giornalista.

Al cuore dell’Harem (Edizioni E/O 2001) è l’unico romanzo della Chimenti pubblicato in italiano, a cura di Emanuela Benini. 

Il romanzo ruota attorno alla vita delle donne con le relazioni complicate che esse intrecciano, La protagonista, Lallà Sakina, attraversa una fase dolorosa della sua vita: suo marito, Si Bu Gemà, lavora presso la Legazione francese e intende prendere una seconda moglie. Sakina si ribella a questa decisione, anche se non direttamente, di fatto cerca di opporvisi in tutti i modi possibili. L’universo femminile che si raccoglie intorno a Sakina è costituito da donne musulmane, ebree, cristiane. I dialoghi sono molto importanti nel romanzo, essi affrontano temi vari: il velo, la poligamia, oggetto, peraltro, di riprovazione morale da parte dell’universo femminile raffigurato dall’autrice, il concubinaggio, la prostituzione. La lingua è un francese ibrido, meticciato; si tratta infatti di un francese ricco di termini arabi, berberi, ebraici e darija (cioè unione di diversi dialetti marocchini) e di una sintassi a sua volta frutto della confluenza delle varie lingue, ben salde nel bagaglio culturale della Chimenti. In pratica si è in presenza di una nuova lingua viva, espressiva, che molto deve all’influenza delle poesie e dei racconti della tradizione orale di cui si accennava prima. L’atteggiamento dell’autrice verso i suoi personaggi rivela una sensibilità particolare, una conoscenza approfondita della società a cui appartengono. Su questo mondo lei non si permette alcun commento personale, lascia, infatti, parlare le varie figure femminili ed ha uno sguardo leggermente ironico. Si sofferma sui destini di mogli, prostitute, bambini, ma anche degli animali e della natura, dei monti, delle piante, dei fiumi e del mare. Ci sono anche riferimenti al momento storico, alla presenza francese in Marocco, alle ribellioni in alcune zone del paese. Si delinea una Tangeri agli albori del protettorato, una città internazionale, cosmopolita, ma anche scossa dai segni di una crisi sociale di cui risente la vita dei suoi personaggi.

Elisa Chimenti è stata in vita molto poco conosciuta e in seguito del tutto ignorata; questo può spiegarsi con il fatto che non ha avuto un’unica identità culturale: nel suo caso lo sradicamento è avvenuto dall’infanzia e la sua opera può ritenersi parte di una letteratura femminile dell’esilio. Cioè la Chimenti può collocarsi tra quelle autrici che tra l’800’ e il 900’ hanno vissuto l’esilio per motivi familiari o politici e che hanno dovuto ricostruire la loro identità letteraria e linguistica altrove. 

Cristiana Buccarelli  

Cristiana Buccarelli è dottore di ricerca in Storia del diritto romano. Ha vinto nel 2012 la XXXVIII edizione del Premio internazionale di Poesia e letteratura ‘Nuove lettere’ presso l’Istituto italiano di cultura di Napoli. Ha pubblicato la raccolta di racconti Gli spazi invisibili (La Quercia editore) nel 2015, il romanzo Il punto Zenit (La Quercia editore) nel 2017 ed Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) nel 2019. Con Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) ha vinto per la narrativa la V edizione del Premio Melissa Cultura 2020 e la IV edizione Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura 2020. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo storico I falò nel bosco (IOD Edizioni) con cui ha vinto per la narrativa la XVI edizione del Premio Nazionale e Internazionale Club della poesia 2024 della città di Cosenza. Nel 2023 ha pubblicato il romanzo Un tempo di mezzo secolo (IOD Edizioni) con il quale è stata finalista per la narrativa all’XI edizione del Premio L’IGUANA- Anna Maria Ortese 2024. Conduce da svariati anni laboratori e stage di scrittura narrativa. 

“Ricette Letterarie”: il Cous cous da “Partire” di Tahar Ben Jelloun, di Anne Baker (video)

🍽 📚 Le Ricette Letterarie di Anne Baker  🍽 📚

La rubrica de Il Randagio che unisce cucina e letteratura

Il Randagio vi consente di gustare i grandi capolavori della letteratura! 

La pasticciera randagia Anne Baker da Arnhem in Olanda vi svelerà come realizzare piatti ispirati a storie indimenticabili. Scopriremo come il cibo e la letteratura possano fondersi per offrirci nuove emozioni.

🍲 Pronti a mettervi ai fornelli? Ogni piatto racconterà una storia e, perché no, vi inviterà a (ri)leggere le pagine di qualche capolavoro.

Questa settimana, la nostra Anne trae ispirazione da “Partire” – un romanzo del marocchino Tahar Ben Jelloun, che col consueto lirismo parla di immigrazione – e ci propone la ricetta del Cous cous alle verdure.

IL COUS COUS

👉 Guarda il video… in cucina! A seguire gli ingredienti e il procedimento.

✨ Ricette Letterarie: il Cous cous di Tahar Ben Jelloun ✨

Vuoi provare a farlo in casa? Eccovi la preparazione.

COUS COUS MAROCCHINO

Dosi per 4 persone

Tempo di esecuzione: 2 ore

INGREDIENTI

  • 200g di cous cous
  • 250g di acqua
  • 1 peperone rosso
  • 1 peperone giallo
  • 1 peperone verde
  • 1 melanzana
  • 1 zucchina
  • 1 cipolla dorata
  • 2 spicchi di aglio
  • 100g di uvetta e albicocche disidratate
  • 10 g mix di spezie marocchine a base di origano e cumino
  • Qualche fogliolina di menta
  • Olio extravergine di oliva
  • Sale e pepe

Opzionale

Se si vuole aggiungere una proteina al piatto:

200g di ceci ammollati il giorno prima poi cotti e saltati in padella con aglio e timo

PREPARAZIONE

Arrostire i peperoni sulla fiamma, poi chiuderli in un sacchetto di carta. Quando si sono sufficientemente raffreddati aprirli per rimuovere i semi e la pelle. Eventualmente sciacquarli per togliere ogni residuo bruciato, poi dividerli in falde e tagliarli a listarelle. Mettere da parte.

Arrostire la melanzana sulla fiamma poi chiuderla nella carta stagnola. Quando sarà fredda rimuovere la pelle e i semi e estrarre la polpa e mettere da parte.

Nota: se non si dispone della fiamma arrostire i peperoni irrorati con un filo di olio extravergine di oliva e la melanzana chiusa nella stagnola in forno caldo a 200°C.

Pelare la cipolla e affettarla sottile, poi stufarla in una casseruola con olio extravergine di oliva (e un poco di burro se piace) fin quando diviene fondente. Salare e pepare a metà cottura e girare spesso con un cucchiaio di legno per evitare che la preparazione imbrunisca o bruci.

Lavare, mondare e tagliare a metà la zucchina. Dividere ciascuna parte per il verso della lunghezza e rimuovere i semi. Girare le quattro calotte di zucchina così ottenute e tagliarle in bastoncini piuttosto spessi. Saltare in padella le zucchine con uno spicchio di aglio, salare e pepare dopo la prima girata. Attenzione a non cuocerle troppo dovrebbero rimanere consistenti e poi mettere da parte.

Ammollare l’uvetta e le albicocche disidratate in acqua tiepida. Se le albicocche sono intere tagliarle in dimensioni simili a quelle dell’uvetta.

Versare il cous cous in una ampia ciotola di ceramica dotata di coperchio (o mettere il rotolo della pellicola trasparente a portata di mano) e portare a bollore i 250g di acqua in una casseruola. Quando l’acqua bolle versarla sul cous cous, aggiungere un filo di olio extravergine di oliva, mescolare velocemente e subito chiudere con il coperchio (o pellicola). Lasciare rinvenire il cous cous per 10 minuti senza mai aprire la ciotola.

Nel frattempo saltare i peperoni in padella con un poco di olio e uno spicchio di aglio. Salare e pepare.

Passati i 10 minuti il cous cous dovrebbe essere pronto. Sgranare quindi i chicchi con una forchetta e procedere all’assemblaggio del piatto: per prime mescolare le cipolle, poi la polpa di melanzana e infine i peperoni, poi fare un buco al centro e mettervi le zucchine. Distribuire tutt’attorno l’uvetta ormai rinvenuta e strizzata bene dall’acqua e finire il piatto con la polvere di spezie e le foglioline di menta. Servire  eventualmente con i ceci a parte.

Elias Canetti: Le voci di Marrakech (Adelphi – trad. Bruno Nacci), di Gigi Agnano

Ritenuta per molto tempo un’opera marginale, Le Voci di Marrakech (Die Stimmen von Marrakesch, pubblicato nel 1967) è invece senz’ombra di dubbio uno dei libri più belli e affascinanti di Elias Canetti. Ed essendo anche il più accessibile, può sicuramente considerarsi come il miglior viatico per affrontare l’universo complesso del pensiero del Premio Nobel bulgaro, naturalizzato inglese, di lingua tedesca.  

Nato come resoconto di un viaggio del 1954 al seguito di una produzione cinematografica, queste note, meglio dire queste impressioni e riflessioni offrono, in quattordici racconti senza alcuna trama, un sorprendente ritratto della città marocchina e dei suoi abitanti, con straordinarie descrizioni di piazza Djema El Fna, del suk, della Mellah (il quartiere ebraico) e dei loro frequentatori, mendicanti ciechi, bambini, poeti di strada, asini picchiati brutalmente e cammelli portati al macello, tutti, uomini e bestie, accomunati da una drammatica lotta per la sopravvivenza. 

Ma non si pensi di poter ridurre il libro di Canetti ad una guida turistica per quanto splendida, in quanto la descrizione della città è personale e disorganica e trascura luoghi d’interesse che il turista potrebbe ritenere imperdibili. Inoltre, le osservazioni della città sono spesso solo lo spunto per digressioni di carattere filosofico universale.

Quegli scorci, quelle piazze e quelle strade, quei vicoli dove perdersi è la normalità, quelle terrazze dei caffè, quei cortili che offrono rifugio dal caos e dai rumori, stimolano non solo l’esplorazione dei luoghi, ma soprattutto invitano ad intraprendere un percorso a ritroso in cui lo straniero viaggia verso se stesso: 

“Davvero in quel momento mi sembrò di essere altrove, di aver raggiunto la meta del mio viaggio. Da lì non volevo più andarmene, ci ero già stato centinaia di anni prima, ma lo avevo dimenticato, ed ecco che ora tutto ritornava in me. Trovavo nella piazza l’ostentazione della densità, del calore della vita che sento in me stesso. Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza. Credo di essere sempre quella piazza.”

In questo labirinto di strade e di mercati, di posti incantevoli e desolati, Canetti – un po’ flaneur alla Benjamin, un po’ Orwell che nel ‘39 aveva scritto di un suo viaggio in Marocco – tesse una ragnatela di storie vivaci, compone una sinfonia con le voci e i bisbigli, i mormorii e le urla di dolore e di gioia di una vasta gamma di personaggi; inquadra peraltro con le sue acute sequenze anche la pena degli animali, all’ultimo gradino nella scala degli sfruttati e dei derelitti.

Le prime pagine del libro immergono il lettore tra la folla di Djemaa el Fna, la piazza centrale di Marrakech, un microcosmo della città stessa con una sua particolare vitalità. Qui i cantastorie ipnotizzano e catturano il pubblico col racconto di antiche epopee, mentre acrobati, incantatori di serpenti, musicisti e artisti offrono il proprio talento a locali e turisti. 

Dalla piazza il narratore si sposta verso il suk, il labirinto di stradine dove riecheggiano le grida melodiche dei venditori d’acqua o i ritmi ipnotici di musica Gnawa che si fondono coi suoni anche religiosi della città, la chiamata alla preghiera dai minareti o i canti mistici sufi. 

Una moltitudine di voci ma anche una mescolanza di lingue incomprensibili di mercanti e artigiani e musicisti rivenienti da diversi contesti etnici, comunità culturali distinte che lavorano, vendono, contrattano, suonano gli uni accanto agli altri.

Ci sono uomini che cantano il nome di Allah; o un mendicante cieco, un marabù che si infila in bocca e mastica la moneta ricevuta in elemosina per identificarne il valore ma anche per dare la sua benedizione al donatore:

“Il vecchio aveva finito di masticare e sputò fuori la moneta. Si girò verso di me e il suo volto era raggiante. Recitò per me un versetto di benedizione che ripetè sei volte. La gentilezza e il calore da cui mi sentii pervaso mentre lui parlava, non li ho mai ricevuti da nessun altro essere umano.”

L’atmosfera è decisamente diversa nella Mellah, il quartiere ebraico che peraltro oggi è scomparso. Essendo Canetti sefardita di origine spagnola, la visita alla comunità giudaica di origine iberica dà al suo viaggio il sapore di un ritorno a casa, alle origini. In tal senso Marrakech non è un qualsiasi posto esotico, ma un luogo legato profondamente alla sua storia personale. 

Qui lo sguardo dell’autore avverte l’urgenza di penetrare spazi privati, di andare nelle case e nei cortili, catturando momenti reconditi di vita familiare, di solidarietà tra vicini, di relazioni interpersonali. Se nella descrizione della varia umanità osservata negli spazi aperti Canetti ci costringe a confrontarci con i nostri pregiudizi, ad abbracciare la diversità, ad imparare la lezione di convivenza di Marrakech; dall’altra parte, nel mostrarci lo svolgersi nella Mellah della vita a porte chiuse, ci invita ad apprezzarne il senso della comunità, ad essere genuinamente empatici, a predisporci positivamente all’ascolto dei meno fortunati. Scrive: “La mancanza di tempo è mancanza di empatia per il mondo.”

Occupandosi di una città ancora all’ombra del protettorato francese, Il libro suscita e ha suscitato giocoforza dibattiti sulla difficile questione dei rapporti tra Oriente e Occidente, tra islam, ebraismo e cristianesimo, tra colonialisti e colonizzati, sfruttatori e sfruttati. L’autore è stato da più parti accusato, forse a ragione, di un approccio “orientalista”, secondo la definizione di Edward Said, per aver adottato un certo numero di stereotipi e di cliché: l’Oriente misterioso del genere Mille e una notte, il potere erotico delle donne orientali, la pigrizia degli arabi, i cammelli, i bazar, la violenza sugli animali, ecc… Un’altra accusa mossa all’autore è di scarso interesse per i problemi sociali, politici ed economici, non avendo tenuto conto delle forti tensioni tra popolazione locale e colonizzatori (il viaggio è del ’54 e l’indipendenza del Marocco verrà conseguita nel ’56). C’è stato anche chi ha tacciato Canetti di razzismo e di misoginia, laddove invece ci sembra che abbia proposto, come già detto, una visione sensibile ed empatica, mai giudicante, sottolineando gli aspetti di pluralità etnica, culturale e religiosa. Potremmo senz’altro sbagliare, ma non crediamo infatti che Le voci di Marrakech abbiano una finalità “ideologica”, o che l’intenzione di Canetti, fatta salva la dimensione etnologica e antropologica, fosse quella di produrre un lavoro di saggistica erudita, bensì un’opera decisamente letteraria, poetica e narrativa, che celebra la gioia per tutto ciò che è umano.

“Quando si viaggia si prende tutto come viene, lo sdegno rimane a casa. Si osserva, si ascolta, ci si entusiasma per le cose più atroci solo perché sono nuove. I buoni viaggiatori sono gente senza cuore.”

Le voci di Marrakech, infatti, sono prima di tutto un’esperienza mistica e sensoriale, che immerge i lettori nelle immagini, nei suoni e negli aromi di spezie e d’incenso. Un mondo in cui lingue, tradizioni, storie e religioni si fondono armoniosamente, creando un patchwork di vita ricco e complesso. Dalle vivaci piazze ai vicoli stretti e ai mercati, la capitale culturale del Marocco del ’54 emerge come una città che esalta le differenze e abbraccia la moltitudine. Un felice esempio di convivenza che vedrà un punto di rottura proprio nel ’67, l’anno di pubblicazione del libro che coincide con la guerra dei sei giorni; e che risulta di grande attualità ed interesse oggi se si considera col senno di poi il manifestarsi di integralismi e fanatismi nell’ultima parte del Novecento e in questo primo scorcio di millennio.

Voci, citazioni acustiche, suoni che sopravvivono a tutti gli altri suoni: ogni pagina del romanzo è come la traccia di una playlist o l’episodio di un podcast, ogni racconto mette il lettore all’ascolto. E a me che non amo particolarmente gli audiolibri è capitato tra l’altro di avvicinarmi a Le voci di Marrakech nella versione recitata a Radio 3 (“ad alta voce”) da Toni Servillo, che è un’esperienza facile da recuperare e che, in questo caso specifico, mi sento di consigliare. Segnalo infine che su YouTube è possibile reperire stralci di una lettura del 1985 dello stesso autore, vecchio, provato, ansimante, che risulta commuovente anche per chi non mastica alcuna parola di tedesco.

Gigi Agnano