Ivan Sergeevic Turgenev: “Fumo” (Casa Editrice Sonzogno, 1918, trad. G.Bisi), di Valeria Jacobacci

“C’era folla, il 4 agosto 1862, alle quattro, davanti alla famosa Conversationhaus di Baden Baden. Il tempo era magnifico, gli alberi verdi, le case bianche della città civettuola, le montagne che la circondano, tutto spirava aria di festa e fioriva ai raggi di uno splendido sole; tutto sorrideva, ed un riflesso di quel vago piacevole sorriso errava sui volti, vecchi e giovani, belli e brutti.”

Un’anima slava, quella di Grigorij Litvinov, si aggira nella cittadina termale di Baden Baden, assorta nella percezione di ogni sensazione, attenta a ogni sfumatura di colore che cala in prospettiva su abiti e acconciature, vincendo su ogni possibile imperfezione dello spirito o della materia. Una folla elegante passeggia in attesa del concerto. Ma l’incanto dura pochi istanti, l’immagine svapora, una nota falsa s’insinua nel mezzo della rappresentazione e non abbandona più la scena. Uno spirito critico, non più un’anima, muove il protagonista, da ora fino alla conclusione del romanzo. Che cosa tormenta questo raffinato, giovane gentiluomo? Una delusione. Forse la stessa del suo creatore, l’autore del libro, Ivan Sergeevic Turgenev ( 1818-1883). 

“Madame Bovary c’est moi”, dice Gustave Flaubert (1821-1880), suo contemporaneo. Che cosa ci sfugge di questo malessere che intorbida la società del tempo? O, invece, che cosa illumina il passato alla luce del presente o viceversa? Se Ivan Sergeevic “è” il suo personaggio, lo troviamo senz’altro immerso in una profonda malinconia, in un momento della sua vita in cui nessun successo letterario lo convince o soddisfa e un acre sentimento di sconfitta lo spinge nelle braccia di un personaggio intrinsecamente fragile, che gli procurerà il biasimo dei lettori, soprattutto in patria. Ma procediamo con ordine, come scrivono nel suo secolo.  L’edizione di “Fumo” qui presa in considerazione è quella di Sonzogno del 1918. Perché? 

Il libro che è in mio possesso, scovato per caso un pomeriggio uggioso, in uno scaffale della libreria (quando l’ultimo romanzo era stato letto, il cellulare era scarico e non potevo leggere su kindle) è appartenuto al mio zio materno, Luigi Medina. E’ segnato a penna il suo nome sul frontespizio della prima pagina, come si usava all’epoca, ed è annotata la data: “novembre – anno 2 dell’era fascista”. Le iniziali del nome appaiono con lettera minuscola:  “gino medina”, come “novembre”, al rigo di sotto. Deduco che siamo nel 1924 e che mio zio è un ginnasiale fra i quattordici e i quindici anni.  Non mi stupisce l’età precoce, anch’io leggevo i classici a quell’età, noto altre cose in questa pagina ingiallita dal tempo. Innanzitutto, il nome dell’autore, stampato come si pronuncia in italiano: “Turghenieff”, più rilevante è il nome proprio: una G. Una G. ? Il nome completo dell’autore è Ivan Sergeevic^ Turgenev. Non mi riesce di trovarne altri, da dove viene “G. Turghenieff”?  Il libro è evidentemente una ristampa dell’edizione Sonzogno del ’18, oppure la data indica semplicemente l’acquisto, la prima edizione italiana risale infatti al 1889, ed è per Treves, Milano. Nel testo di mio zio la casa editrice Sonzogno non pone data. Sul dorso, molto rovinato, si legge, in verticale, Linea CC, IL MONDO, Pampar. La traduzione è di G. Bisi. Dunque, un errore? La G. del traduttore è passata all’autore? Non è dato sapere. Intervengono però altre considerazioni. Il romanzo è stato composto a Baden Baden nel 1865, completato nel 1867, pubblicato a San Pietroburgo, solo in seguito tradotto in altre lingue. 

Quali erano nel 1924 i rapporti fra il regime fascista e la letteratura russa? Perché mio zio si firma con le iniziali minuscole? 

Quando quell’anno fu rimandato in Greco, quel ginnasiale lettore di romanzi vestiva alla marinara e con quell’abito di lana fu costretto a studiare in città per tutta l’estate, mentre la famiglia era a Castellammare per la villeggiatura. L’aura romantica restava in qualche modo  nell’aria, ancora vivi certi ideali risorgimentali, molta severità negli studi; dall’altra parte, un’avanzata dei modi della propaganda fascista. Quell’uso della minuscola si può spiegare come una ribellione futurista. E quella data? Anno 2 dell’era fascista… era così che scrivevano a scuola? Nonostante l’antibolscevismo della politica mussoliniana, tutta presa nel combattere il comunismo, nei primi decenni del ‘900 i rapporti fra la Russia e l’Italia  erano di collaborazione economica e diplomatica, nella speranza di un appoggio sovietico nell’occupazione dei Balcani. La letteratura russa, e quella straniera in genere, erano accettate, la censura nell’editoria era piuttosto blanda. Per vari motivi la restrizione arrivò più tardi, quando i romanzi russi, grazie anche alla loro traduzione in italiano dal francese, erano già stati diffusi con discreto successo. L’anima slava aveva avuto il tempo di essere conosciuta. Alcuni editori andavano controcorrente, nonostante il divieto per i giornali di pubblicare letteratura straniera in terza pagina. Ovviamente i motivi delle restrizioni avevano diverse motivazioni e andavano dai modelli dei personaggi femminili, contrari agli ideali fascisti, alle ideologie politiche di autori seguaci di Lenin o Trotsky, fino a ragioni di natura razziale con il diffondersi dell’antisemitismo.  Tuttavia, l’editore Polledro esaltava “Il genio russo” , la casa editrice Slavia valorizzava il testo di partenza contro il “principio di italianità”.  Proprio in virtù di questo principio infatti i nomi stranieri erano italianizzati o scritti come sono pronunciati, come appunto “Turghenieff” nel libro di mio zio. Resisteva, comunque, una certa considerazione, fino a quando la rivista “Il popolo di Roma” pubblicò un articolo titolato  “Che c’importa del genio slavo”? 

Torniamo così a Grigorij Litvinov, il protagonista di FUMO, e alla crisi sentimentale, psicologica e morale  che travolge il giovane uomo nell’inebriante aria primaverile della cittadina termale di Baden Baden, nella Foresta Nera, al confine fra la Germania e la vicinissima Francia, affollata soprattutto dall’alta società pietroburghese. La descrizione dei personaggi che popolano le scene del romanzo richiama i dipinti dei pittori impressionisti. Come in quei dipinti, la leggiadria e l’eleganza delle signore sono in perfetta armonia con la bellezza della stagione e del paesaggio; queste donne appaiono molto lontane da una perfezione di maniera, sembrano però fluide, in evanescente movimento di sentimenti destinati a svaporare.  Accanto alla purezza della forma si fa subito strada la presenza di elementi discordanti: “… le facce imbellettate ed incipriate delle mondane parigine  riuscivano a distruggere quest’impressione generale d’allegrezza… gli accenti striduli del loro gergo francese nulla avevano di comune col cinguettio degli uccelli.”   Questa descrizione ci riporta immediatamente al tema del disinganno, oltre che a una dichiarazione d’insofferenza verso i modi e le mode specificamente “occidentali”, in particolare verso l’ineludibile dipendenza dalla cultura francese.  Al di là di questa istintiva avversione per le apparenze, Grigorij cade nel più comune degli inganni che il potere femminile e le tentazioni del garbo e della bellezza possano riservare. Non resiste al fascino di una donna.

Accade  che in attesa della cugina Tatiana, che dovrebbe sposare, Grigorij incontra Irina Paulovna, sua fidanzata dieci anni prima.  Il fidanzamento era andato in fumo perché la fanciulla, alla vigilia delle nozze, gli aveva preferito un generale fornito di un ottimo patrimonio, in grado di riscattare la sua pur nobile famiglia dal dissesto finanziario e garantire a lei una vita piena di agi nel cuore della buona società. La scelta era avvenuta non senza lacrime e sofferenze anche da parte della ragazza, costretta a scegliere secondo “ragione” calpestando il “sentimento” (parafrasando Austen, che si muove in un ben diverso contesto sociale e ambientale). La fascinazione che travolge i due a Baden Baden è potente, in grado di trasformare le loro vite. Grigorij è pronto a cedere pur sentendosi estraneo a qualunque influenza romantica: “Byronismo, romanticismo del 1830!” esclama in una conversazione, mentre dichiara il suo scetticismo in ogni campo, e mentre osserva con disgusto la sala da gioco, i personaggi corrotti, vuoti e falsi che l’affollano. Il casinò era stato costruito a imitazione di Versailles, troppa ostentazione di lusso! Da autentico romantico e malgrado l’ironico distacco, Grigorij si abbandona a una storia d’amore “degna di Anna Karenina” come osserverà Piero Citati ai nostri giorni, quando lo spirito slavo, a fondo studiato da Ettore Lo Gatto, titolare fino al 1965 di letteratura russa all’Università di Roma, è stato finalmente rivalutato nella sua pienezza. Citati, sensibile alla lettura diretta dei testi molto di più che all’esegesi,  coglie il senso attualizzante dell’autore. 

Grigorij e Irina si amano di nascosto, all’insaputa del marito di lei, fin quando non progettano di fuggire insieme. Per andare dove? A Grigorij non importa, ma a Irina, sì! Sul binario del treno che dovrebbe portarli lontano, la donna è immobile, attonita e affranta, seduta sulla panchina desolata della stazione. A lui non resta che recuperare la cugina, sposarla e ricominciare la vita borghese nella “madre Russia”, momentaneamente abbandonata per un’indimenticabile stagione a Baden Baden. 

Questo finale non piacque a nessuno. Chissà, poteva forse piacere proprio a quell’ideale fascista che voleva la donna angelo del focolare domestico. L’impeto e la passione romantici avrebbero voluto un’eroina suicida e un amante disperato. Neanche l’ideale patriottico ottocentesco si salva in quest’opera che vede solo “Fumo” nelle prospettive umane. C’è chi vi ha visto perfino la satira di Herzen, l’intellettuale russo che si era opposto all’autoritarismo della Russia zarista ed era stato seguace di Bakunin.

Torno alla torrida estate del 1924, quando un ginnasiale leggeva “FUMO” fra una traduzione dal greco e una lista di verbi irregolari da mandare a memoria. Che idea si fece dell’amore? E della patria? Il fascismo accompagnò la sua giovinezza. Riuscì a influenzarlo? Per quanto ne so, fu capitano nella seconda guerra mondiale, tornò con una gamba invalida. La fidanzata non l’aveva aspettato, essendo molto bella, sposò durante la guerra un uomo ricco più anziano di lei di parecchi anni. Lui svolazzò da una relazione all’altra. Non si sposò. Forse perché pensava che il suo patrimonio, o meglio, i guadagni della professione di avvocato, non sarebbero stati sufficienti, non potevano bastare per mantenere quella posizione agiata che una moglie degna delle sue aspettative avrebbe meritato. 

Su Amazon sono in vendita libri usati. Fra questi ho visto anche un’antica edizione di “FUMO”. Costa sei euro!  Che vergogna! Chi può desiderare di venderla? Le anime non sono in vendita. Esistono edizioni nuove in ottimo stato, la vera letteratura non smette di essere pubblicata! Io pertanto vado a conservare il mio vecchio e buon esemplare!

p. s. Dovevo immaginarlo che G. era Giovanni! Ivan è Giovanni, ecco spiegata la G. davanti a Turghenieff. Eppure Ivan era tutt’altro che insolito! All’epoca in Italia il nome Ivan era di moda, il ragazzino, in villeggiatura a Castellammare, che piaceva moltissimo a mia madre, si chiamava Ivan. Mia madre aveva sette o otto anni, il nonno prendeva per l’estate una bella villa in collina, nel verde. Al mare si andava giù in carrozza (anche se le auto erano in uso) nel pomeriggio andavano a fare passeggiate nei boschi. Passarono alcuni anni, ogni estate erano lì. Una volta i ragazzi andarono giù su un calessino, un gruppetto di quattro o cinque, a una svolta il calesse sbandò e finirono gli uni sugli altri, Ivan ne approfittò e baciò mia madre. Primo bacio. Era l’ultima estate, l’anno dopo Ivan non venne e neanche i seguenti, forse veniva da una città del nord. Mio zio andò all’Università e mia madre incominciò il ginnasio.

 

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Amin Maalouf: “Il periplo di Baldassarre” (La nave di Teseo, trad. Egi Volterrani), di Valeria Jacobacci

Libri ancora libri sempre libri. È per un libro che inizia la ricerca ossia Il periplo di Baldassarre.

Si tratta di un libro speciale, quello che contiene il “centesimo” nome. Il nome di chi? Di Dio. Da premettere che Baldassarre è un libraio, l’anno è il 1666, da molti a suo tempo indicato come l’anno della “bestia”, quello in cui dovrebbe verificarsi l’apocalisse e arrivare la fine del mondo. Sono molteplici le chiavi di lettura, tutto si riduce a un immenso libro, grande almeno quanto l’universo, tutto va letto e interpretato ma prima ancora scritto: se chi ha scritto per primo è dio stesso, bisogna dire che ha usato molti pseudonimi, almeno novantanove, mentre il centesimo ci sfugge, perciò “fuori l’autore!” Sarà  quell’inconoscibile nome a salvare l’umanità dall’anno della bestia! 

Questo è almeno quello che pensa Baldassarre allontanandosi dalla borgata di Gibelleto.    

Qui sono approdati i crociati genovesi della sua famiglia e qui hanno prosperato senza mai far ritorno a Genova, neanche quando è ormai l’impero ottomano a possedere terre e uomini, schiavi o liberi. Nessuno ama Genova quanto i genovesi d’oriente! Non è per far ritorno a Genova che inizia il viaggio e Baldassarre non viaggia da solo. Con lui partono due nipoti, figli di sua sorella, il suo segretario e una donna! Di lei si è innamorato quando aveva undici anni e si aggirava leggiadra nella bottega di suo padre, il barbiere. Non è destinata a Baldassarre ma a un bruto che l’abbandona dopo le nozze e le impedisce così di avere una famiglia e una vita.

Tuttavia la ragazza è sveglia e pur di non restare prigioniera  della famiglia del marito, che aspetta lo sposo fuggito chissà dove, decide di partire per la sua personale ricerca del coniuge, che sospetta, e spera, morto. Baldassarre non esita a portarsela con sé per deserti e per mari, incontro a mille avventure.

Viaggio anche metaforico alla ricerca di dio, della salvezza, dell’amore e della morte, o solo del destino che contiene tutto: un viaggio obbligato che tocca anche a chi non vuole partire. Ovvio che i due diventano amanti, ovvio che il marito non si trova.

Intanto il 1666 davvero sembra l’anno dell’anticristo, o dell’infedele, dipende dai punti di vista e dalle diverse fedi, che si somigliano tutte, nella paura dell’incognito, della catastrofe imminente.

Così le catastrofi non tardano a verificarsi. Molti incendi, a Istanbul come a Londra, dove nel panico della fuga tutti scappano da tutto e lottano ciecamente nelle mischie dove i nemici sono quelli diversi perché vestono panni diversi, parlano lingue diverse e pregano preghiere diverse.

Però parlano anche molte lingue, si aiutano, si blandiscono, si ricoprono di gentilezze e si avviluppano negli inganni.  Di fuga in fuga baldassarre perde il suo seguito, a ogni imbarco per una meta diversa, dietro il “centesimo nome”, scompaiono i nipoti, il segretario e la sua donna con in grembo suo figlio. Un marito, fantomatico e malfidato, assassino e furfante, è pur sempre un marito, una moglie gli appartiene, è la legge. Baldassarre non si oppone. Un capitano folle lo trascina per tutti i mari fino a Genova.

Ecco la terra dei padri, dove tutti lo riconoscono perché è un Embriaco, appartenente a una delle più importanti famiglie genovesi, partito qualche secolo prima alla conquista della Terra Santa. Di questa famiglia e del suo nome resta una torre, ed è quanto basta. Il genovese veste finalmente i panni giusti e parla la lingua giusta, che non ha mai abbandonato. Un ricco commerciante lo ospita, lo salva, gli offre in sposa la figlia tredicenne.

Tutto perfetto ma Baldassarre non crede di aver trovato quello che cercava, il libro contenente il “centesimo nome” è finalmente nelle sue mani, ma la donna che ama è rimasta prigioniera e con lei il suo stesso figlio, perciò riparte. Dove lo porteranno le tempeste e il capitano pazzo?

A Londra, è lì che deve andare.  In tempo per incontrare Bess, la locandiera (non quella di Goldoni) e per assistere da protagonista al grande incendio che distrugge la città con i suoi pub e i suoi teatri. Quanto è diversa questa locandiera dalla figlia del barbiere! Lei gli serve birra, lo abbraccia, gli parla e lo salva guidandolo verso il Tamigi da dove riprenderà il suo viaggio. Bess, libera, generosa e padrona di sé. L’onore prevale su tutto, sulle malattie, sulla paura stessa e anche sul “centesimo nome”.

Ogni volta che Baldassarre ( fortunosamente venuto in possesso del volume, che si trova nelle mani di persone che ne ignorano il contenuto e il valore) prova a leggerne le pagine per riferire il suo segreto, la cecità scende sui suoi occhi costringendolo a inventare ogni parola.

L’amore vince tutto, come si sa, l’unica cosa da fare è raggiungere e mettere finalmente in salvo la donna che ama e il bambino. Non è destino che il periplo finisca qui. La donna ritrovata in modo pericoloso e drammatico sceglie di restare con il marito e dichiara che non c’è mai stato un bambino: tutto inventato. Crederle? Pensare che menta per salvare il figlio in qualche modo in pericolo? Non è dato sapere.

Il periplo si chiude, Baldassarre torna a Genova da dove secoli prima la sua famiglia era partita, Gibelleto resterà, come Bess, uno splendido ricordo. Il Mediterraneo ha offerto le sue avventure, da est a ovest e da nord a sud. E viceversa. Come succede anche oggi, in mezzo alle guerre, alle politiche e alle religioni.  Il 1666, l’anno della bestia, è finito. La storia di Baldassarre è nei diari di bordo della sua vita. E la chiave? Per lui come per noi : il “centesimo nome”.

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Intervista a Elena Kostioukovitch di Gigi Agnano

Elena Kostioukovitch, nata a Kiev quando l’Ucraina faceva ancora parte dell’Unione Sovietica, si è laureata a Mosca e vive a Milano da trentaquattro anni (dal 1996 è naturalizzata italiana). Ha pubblicato o curato più di trenta libri, molti dei quali in Russia. In particolare, ha tradotto dall’italiano in russo sette romanzi di Umberto Eco, saggi dedicati alla storia della cultura europea, antologie di autori italiani, monografie sulla storia dell’arte, e raccolte di poesie. Ha scelto di scrivere direttamente in italiano il romanzo Sette notti, uscito nel 2015 per i tipi di Bompiani.
Nel 2000 ha fondato un’agenzia letteraria, Elkost Intl., che ha fatto conoscere al pubblico occidentale autori russi come Ludmila UlitskayaGuzel YachinaBoris AkuninYurij Lotman. In polemica prima col regime sovietico, poi con quello di Putin – da cui si è apertamente dissociata – ha promosso iniziative che ne smentissero la propaganda. Docente universitaria, ha vinto il premio Grinzane Cavour per la traduzione 2003 e il premio nazionale per la traduzione 2007 del Ministero dei Beni Culturali italiano.

A suo parere si poteva prevedere che Putin avrebbe invaso l’Ucraina? Perché molti commentatori – nonostante i precedenti, mi riferisco in particolare alla Cecenia – pensavano si trattasse solo di una minaccia che difficilmente sarebbe diventata realtà?

Che Putin avrebbe invaso l’Ucraina era noto a Biden, che a sua volta lo sapeva dalle principali agenzie di intelligence del mondo.

Vorrei sottolineare questa situazione paradossale: la guerra in fieri era effettivamente nota al cento per cento, ma anche a noi, esperti intenti a seguire le notizie e interpretare i dettagli; naturalmente a Zelensky; era cento per cento sicuro, e nello stesso tempo era assolutamente impossibile crederci.

Da noi, in Europa, le persone normali erano profondamente convinte che fosse impossibile lanciare aerei sulle grandi città europee, lanciare carri armati sui villaggi, lanciare paracadutisti sui tetti degli aeroporti. È quello che fa Osama bin Laden, abbiamo pensato. Gli Stati non lo fanno. Sembrava ancor più impossibile visto che Putin non aveva alcun motivo valido per farlo.

Tutti nel mondo glielo chiedevano: cosa vuoi? Che ti manca? Macron e Scholz e i rappresentanti delle principali organizzazioni internazionali venivano a Mosca come si va dal dentista. Doloroso ma necessario. Li faceva accomodare a una tavola bianca lunga nove metri e teneva le lezioni insopportabilmente lunghe e noiose sulla storia fantasmagorica del mondo. Non ha dato nessuna risposta sul perché stesse radunando le truppe al confine. Ha scritto un folle messaggio alla NATO, chiedendole di “smammare” dai luoghi in cui la NATO era di stanza ormai da trent’anni.

Nessuno poteva credere che sulla base di tutte quelle sciocchezze potesse nascere un vero e proprio scontro di eserciti. Un genocidio, distruzione delle città. Non nei film, non in un gioco per computer, ma nella realtà.

Che cosa significa l’Ucraina per Putin? Una zona cuscinetto per proteggersi dall’Occidente? Una provincia necessaria per rafforzare il sistema economico russo? Un modo per “proteggere la popolazione di lingua russa”? O c’è qualcosa di più profondo, di “filosofico”, psicologico e spirituale nell’ideologia putiniana?

In primo luogo, la Russia non ha bisogno di difendersi dall’Occidente, il quale non attacca la Russia; al contrario, l’Occidente ha sempre aiutato la Russia a svilupparsi e a progredire. La “grande cultura russa”, acriticamente adorata qui in Italia sotto l’insopportabile nome di “anima russa”, è la cultura dell’Europa, reinterpretata e trasformata dal materiale russo.

In secondo luogo, la Russia non ha bisogno di espandere il proprio territorio. È un paese di oltre diciassette milioni di chilometri quadri, due volte più grande della Cina e cinquantasei volte più grande dell’Italia.

«Protezione della popolazione di lingua russa» – Non capisco perché dovremmo ripetere la formula di Hitler (“protezione della popolazione di lingua tedesca in Polonia”).

Persino i putiniani più accaniti non lo ripetono più.

Putin sta sviluppando un’ideologia espansionistica basata sull’idea della superiorità dello “spirito russo” (ecco perché è odioso parlare di “anima” di qualsiasi sorta…), che afferma la superiorità di un fantomatico “gene russo speciale”, creando una fusion confusa, illogica e liquida che ormai porta il nome del “mondo russo” o “universo russo” (“Russkij Mir”).

La sua propaganda sta aizzando il popolo russo alla guerra totale contro l’Occidente, contro la civiltà europea, che, lui insinua, stia “andando nel verso sbagliato”. L’ideologia di Putin abbina il suo complesso messianico con il sogno di una militarizzazione della società russa a 360 gradi, dal primo giorno di vita del cittadino fino alla sua morte. Facile immaginare le possibili conseguenze se non lo fermiamo, noi inteso il mondo libero, oggi moralmente capeggiato dall’Ucraina, che si offre eroicamente sull’altare della libertà.

Dugin e Fomenko sono nomi poco noti in Occidente ma popolari in Russia. Personalmente avevo sentito parlare di Dugin e del suo partito nazional-bolscevico solo in Limonov di Carrère, ma me l’ero immaginato come un gruppetto di eccentrici. Nel libro lei spiega benissimo chi siano questi personaggi. Ci può dire quanto davvero influenzino Putin?

Dugin e Fomenko, così come altri teorici della cospirazione ed esoteristi – Nosovsky, oggi vivente, Ilyin, che è un filosofo di cent’anni fa, e il relativamente recente Shchedrovitsky – sono le fonti delle citazioni che i “consiglieri” e gli speechwriters dei discorsi di Putin mescolano, su richiesta del loro capo, per creare l’eclettica teoria del “mondo russo” che è al centro della loro inarrestabile aggressione.

Perché una propaganda così primitiva ha preso il sopravvento?

Perché si possono conquistare milioni di persone solo con l’uso della propaganda più primitiva. Lo dimostrano il fascismo, il nazismo e il “socialismo reale” di Brezhnev. L’ultimo ha conquistato un Paese di 250 milioni di popolazione semplificando le idee di Karl Marx, che in realtà ha scritto opere complicate e piene di senso. Infatti, il vero Marx non poteva essere letto in URSS. Non era disponibile nelle biblioteche. Venivano distribuite solo edizioni semplificate, evirate dalla censura.

Ci spiega il significato della Z simbolo delle truppe d’invasione?

Alla richiesta urgente di un simbolo, è stato incaricato di farlo qualcuno. Questo qualcuno era un idiota. Non ci pensò a lungo e propose una mezza svastica. Si trattava di nuovo di una primitizzazione, alla Putin, di qualcosa che esisteva prima di lui. Si vede che pure la svastica per loro era troppo raffinata. Una svastica dimezzata all’’orda di Putin calza perfettamente.

Putin ha minacciato l’uso di testate nucleari. Pensa che la guerra contro l’Occidente possa sul serio avere un esito così terrificante? Qual è la sua opinione? 

Non l’userà, e propongo di avere un po’ meno paura di questo Putin. Non avrà il tempo di inviare missili, gli impianti di lancio sono sorvegliati dalle intelligence occidentali. Saranno annientati non appena si appresteranno a fare danni reali al globo terrestre. Dobbiamo avere più fiducia in noi, nelle forze del progresso e della tecnologia, nella capacità dell’Occidente di resistere al male primitivo.

Chi può fermare Putin e non c’è il rischio che il dopo-Putin sia addirittura peggiore?

Putin può essere fermato da un suo cameriere se gli infila una forchetta nell’occhio. Dopo Putin arriveranno coloro che sono ancora peggio di lui, ma poiché saranno peggiori, più primitivi e più stupidi, falliranno molto più rapidamente di lui. E finalmente ci libereremo da quell’incubo.