Thomas Bernhard : “Correzione” (Adelphi, trad. Giovanna Agabio) – Maurizia Maiano

A volte mi passa per la mente di non svelare la storia della mia vita

Thomas Bernhard

L’Impero Austro-ungarico era stato simbolo dell’unità nella molteplicità e dal suo esempio sarebbero dovuti nascere gli “Stati Uniti d’Europa” come era nel sogno di Rodolfo d’Asburgo-Lorena, unico figlio di Franz Joseph e Sissi,  finito tragicamente a Mayerling con la sua amante Maria Vetsera. Dopo la prima guerra mondiale invece si passa dall’ Oesterreich, Regno d’Oriente, all’Austria piccola nazione. Una tra le tante e, rispetto alle altre, destinata a “soccombere”, per usare un termine caro a Bernhard, ovvero a negarsi nella “Grande Germania” e ritrovarsi invasa ed occupata prima dai tedeschi e poi dagli Alleati fino al 1955.

Spesso i destini personali si intrecciano stranamente con quelli più grandi della Storia e sono la cronaca annunciata di un tragico epilogo. Lo spazio dell’Arte diventa vetrina del malessere. In “Correzione”, un romanzo del 1975 dello scrittore austriaco Thomas Bernhard, l’autore utilizza in maniera ricorrente una formula – “così Roithamer” – per sottolineare il carattere tormentato del suo protagonista, ossessionato dalla volontà di correggere il mondo esterno e se stesso, fino al suicidio come correzione estrema. 

Thomas Bernhard nasce nel 1931 in Olanda. La madre, abbandonata dall’uomo che l’ha messa incinta – Thomas non conoscerà mai il padre -, lascia l’Austria per andare da un’amica in Olanda che, non volendola tenere in casa in quello stato, l’accompagna in un convento per ragazze traviate a Herleen. Dopo la nascita, madre e neonato vengono allontanati dal convento e andranno a Rotterdam. Qui il piccolo Thomas sarà lasciato in custodia ad una donna che vive in una barca fino al compimento del primo anno di età, quando madre e figlio torneranno in Austria. Saranno i nonni a prendersi cura di lui e loro le persone che amerà di più. Questi episodi segneranno la vita dello scrittore che sarà in ogni sua fase travagliata e sofferta. Lo accompagnerà il sentirsi non adeguato, mai all’altezza, come colui che è capitato al mondo per caso e la cui vita non è stata desiderata. E la ricerca ossessiva della perfezione sarà il tema più rilevante di “Correzione”, uno dei suoi più importanti romanzi.

Tre sono i personaggi che si muovono nel racconto: Roithamer, figura ispirata al filosofo Ludwig Wittgenstein, Höller l’imbalsamatore e l’anonimo Narratore.

Il romanzo inizia quando ormai tutto si è concluso. E’ una storia che si sviluppa in un presente che è già passato. Roithamer, il protagonista, si è suicidato ed il Narratore viene invitato da Höller per riordinare le opere postume che il comune amico, con disposizione testamentaria, gli ha destinato. Nella soffitta della casa di Höller, che si trova nella valle del fiume Aurach, il Narratore troverà migliaia di fogli sparsi scritti da Roithamer, ma anche il voluminoso manoscritto, ossessivamente corretto, intitolato A proposito di Altensam – la cittadina nell’Alta Austria della famiglia Roithamer – dove si narra tra l’altro della costruzione di una casa a forma di cono. Sarà a forma di cono – simbolo di perfezione, completezza e totalità – la casa ideale che Roithamer vuole costruire per Margaret, la sorella, l’unica che egli amasse nella famiglia. Questa però muore dopo aver visto il cono e Roithamer, schiacciato dalle sue ossessioni, si suicida.

Molte sono le metafore e le simbologie. La soffitta di Höller, curiosa l’assonanza con il corrispettivo tedesco per inferno, diventa  la rappresentazione visuale della mente del Narratore, negli scaffali libri e pagine strappate affisse alle pareti: Novalis, Wittgenstein, Schopenauer, Hegel, Montaigne, Pascal. Spartiti musicali sparsi qua e là.  Si noti la strana coincidenza con la soffitta di Harry Haller ne Il lupo della steppa (1927). Altensam è l’assenza di pensiero, il simbolo di tutto ciò che è gretto nella cultura austriaca, le regole ormai superate, ma ancora da rispettare, i pregiudizi di convenzioni sociali che Freud e, prima di lui Arthur Schnitzler, autore de La signorina Else (1924) e Doppio Sogno (1925) per citare i più famosi, con ironia avevano  iniziato a scoperchiare. La casa a forma di cono è il pensiero martellante di Roithamer, a cui lavorerà  per tutta la vita. Sarà costruita nel Kobernaußerwald e Kobern è una caverna, quindi una casa in un bosco che è una caverna così come la casa di Hoeller, l’Inferno, è stata costruita sull’Aurach. Una soffitta, una similitudine che riproduce la tensione in cui visse Roithamer.  Una casa costruita sulla roccia e tra le cui fenditure, in un punto perfettamente centrale scroscia l’acqua dell’Aurach. E’ come ascoltare voci che vengono dal profondo e che di notte diventano più nitide e più chiare e non ci parlano più in modo sommesso e indistinto. Nell’oscurità del Kobernaußerwald e tra lo scrosciare dell’Aurach incomincia il racconto asfissiante, ripetitivo, martellante della voce del Narratore, dell’amico di Roithamer, così Roithamer.

L’Austria di “Correzione”, l’Austria degli anni ’70 e’80, è un’Austria non ancora cambiata e in cui tutto all’esterno continua a mantenere l’ordine di sempre, che sia imbiancato di neve o che splenda il sole, con i gerani sui balconi o le “Dachslavinen”, lastre di ghiaccio sui tetti e pronte a precipitare  sui marciapiedi, rigorosamente recintatiappena il Föhn, vento caldo proveniente dall’Est, fa alzare la temperatura. L’Austria, la cittadina di Altensam sono questo: “ordine sotto forma di disordine” e lui, Roithamer, l’aveva capito da subito che ad Altensam non ci poteva vivere. Perché il padre lascia la proprietà proprio a lui che odiava? Una risposta c’è! In un’altra sua opera il narratore dirà che “l’eredità è un modo per imbavagliare i propri figli”, che è l’impossibilità ad essere se stessi. I fratelli vivono ad Altensam e sperperano un sacco di quattrini riempiendo il guardaroba di vestiti mentre Roithamer, immerso nel suo studio in un paese straniero, non ha neanche il tempo di comprarsi un paio di pantaloni nuovi. La sua felicità era quella di poter realizzare con i milioni che gli aveva lasciato suo padre, e dopo aver liquidato i fratelli, il suo progetto, la costruzione di un cono, di una casa a forma di cono per rendere felice la sorella. Ma quando il cono, la casa sarà pronta, la casa perfetta sarà pronta, Margaret morirà. Il cono stesso, l’emblema per eccellenza della ricerca di perfezione nell’ordine, è destinato a dissolversi nella natura dopo la morte della sorella. Semplice, panta rei, tutto scorre, ogni cosa raggiunge il suo apice e poi ridiscende, si infrange e poi ricomincia, è nella natura delle cose, tutto è provvisorio, la vita è provvisoria. La felicità non esiste avremmo detto, siamo felici per un po’ di tempo e poi tutto finisce, ogni cosa non dura in eterno e bisogna essere pronti per ricominciare. Qui tutto si ferma, nelle pagine di Bernhard che racconta di Roithamer c’è solo un continuo volteggiare dei pensieri su se stessi, una eterna ghirlanda brillante che si avvolge su se stessa, pensieri che ritornano, vanno e vengono e da cui non si esce mai. Dostoevskiano mondo del sottosuolo. Non viviamo forse così?

Concludiamo con questa citazione che restituisce al romanzo una bellezza ed una leggerezza semplice, unica, strana, antica e sempre nuova nella forma e nel contenuto, dopo aver teso l’orecchio per cogliere un senso difficile da distinguere nel rimbombare martellante, ripetitivo  ed ossessivo di parole sempre uguali e quasi senza senso che ci giungono attraverso lo scrosciare dell’acqua tra le rocce. La rosa di carta gialla mi appare un delicato simbolo per l’artificiosità dell’Arte che pur ci sostiene accarezzandoci nelle incombenze della vita quando non riusciamo a trovare una soluzione e ancor di più un senso.

Rothaimer vinse al tiro a segno 24 rose di carta gialla e le regalò tutte meno una ad una ragazza sconosciuta che nel passargli accanto gli aveva ricordato sua sorella. La rosa custodita è l’emblema della possibile felicità, di una chance che, sebbene rifiutata era a portata di mano. Una rosa che racchiude l’enigma di una vita nel gesto di un ventitreenne che dona tutti i suoi anni ad una sconosciuta in una serata di felicità. La vita trascorre tra due poli di esperienza. Il primo coincide con la gioventù e la scoperta del mondo: è la realtà che si apre in tutte le sue forme. Poi si diventa adulti “rinunciando a noi stessi a poco a poco, siamo rimasti uguali, siamo diventati diversi”. Il secondo polo ha a che fare con il graduale addio alle cose e alle persone, gravato dalla consapevolezza che niente di ciò che potremo sperimentare e conoscere avrà lo stesso impatto, la vivida pienezza delle prime ruvide scoperte. E che dire del grumo di nostalgia per le vite non vissute? Quelle che abbiamo costeggiato per un po’ prima di dare le spalle a un futuro che all’istante si impolvera: “in contemplazione della rosa di carta gialla, nient’altro”..

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Joseph Roth: “Ebrei erranti” (Adelphi, trad. Flaminia Bussotti) – Maurizia Maiano

Uno sguardo al passato per leggere il presente!
Joseph Roth nasce a Brody in Ucraina il 2 settembre 1894 nell’oblast’ di Leopoli, “enclave” mitteleuropea dell’impero austro – ungarico. E’ lui il grande cantore della “Finis Austriae”, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico che aveva riunito popoli di origini disparate con lingue, religioni e tradizioni diverse. Un “piccolo mondo in fieri” della nostra contemporaneità. Leopoli vive acute tensioni e non solo tra le varie nazionalità. All’università c’erano scontri tra studenti polacchi e ruteni e all’interno del mondo ebraico, a cui Roth apparteneva, fra chassidismo, movimento di rinnovamento spirituale attraverso l’esperienza mistica, l’haskalah o illuminismo ebraico, che promuoveva l’integrazione nella società secolare e l’uso della ragione nella interpretazione della Torah, e il movimento sionista che stava diventando sempre più forte. A Leopoli la lingua ufficiale era il tedesco, ma dal 1871 il polacco divenne lingua d’insegnamento nelle scuole e nelle università.


Questa può essere la ragione per cui Roth, che vedeva la sua patria letteraria nella letteratura
tedesca, decise di lasciare Leopoli e di iscriversi per il semestre estivo del 1914 all’Università di
Vienna. Conosce la realtà viennese proprio allo scoppio della guerra, l’anno dell’assasinio di
Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia. L’Austria-Ungheria, questo inusuale Vielvoelkerstaat, Stato multinazionale, nell’epoca in cui si affermano i nazionalismi, è l’impero in cui il suo imperatore, Franz Joseph, si rivolge ai suoi sudditi dicendo: “Meinen Voelkern”, “ai miei popoli”, riconoscendo con questa espressione l’identità nazionale di ogni popolo del suo impero. E Roth, da buon figlio di quell’Austria-Ungheria, si interrogava sul sionismo divampante tra gli ebrei.

Nel 1927, nel saggio “Ebrei erranti”, Roth si chiedeva perché anche gli ebrei volessero essere una nazione, loro che lo erano già stati tanti secoli addietro e più degli altri sapevano quanto sangue costasse una nazione, quanto pericolo si nascondesse verso questo pur umano desiderio che significa identità. Perché ritornare in una terra che per loro era ormai diventata estranea?

Gli ebrei erano vissuti in occidente e non solo; c’era l’ebreo spagnolo, francese, tedesco, polacco, i sefarditi, che avevano assimilato la cultura dell’europeo occidentale, e gli askenaziti, ortodossi e vissuti nell’Europa orientale, materialisti e concreti i primi ed ascetici e fortemente legati alla tradizione i secondi, tanto che un askenazita, come scrive Canetti nella “Lingua Salvata”, non avrebbe mai potuto sposare una “todesca”. Vecchi vizi che si ritrovano ovunque, in ogni gruppo sociale, in ogni etnia, categorie che sembrano andare al di là del tempo e dello spazio eppure in essi ben radicati. Differenze e gruppi che ritroviamo oggi ancora presenti ed anche più numerosi nelle loro sfumature identitarie nell’attuale Israele. Il problema era che ogni nazione austriaca si appellava alla terra che le apparteneva, solo gli ebrei non si potevano appellare ad un proprio suolo, zolla, come si diceva, e l’antisemitismo era vivo nei polacchi, nei ruteni, cechi, magiari, rumeni. Per questo, scrive Roth, si sono fatti coraggio e si sono riconosciuti in una sola nazionalità che era quella ebraica e, non possedendo una zolla in Europa, compensarono questo desiderio con un anelito verso una patria palestinese e diventarono una nazione in esilio.

Joseph Roth e Stephan Zweig

La terra ritrovata non ha eliminato o anche solo attenuato le differenze, ancora oggi la società di Israele è molto divisa al suo interno: ebrei laici, religiosi, haredim cioè gli ultraortodossi, e gli ebrei arabi. Viene meno l’immagine mitica dell’”ebreo errante”, dell’ebreo della storiella ebraica di Saint-Exupéry: “Vai dunque laggiù? – Come sarai lontano! – Lontano da dove?” L’ebreo diventa il simbolo della condizione esistenziale dell’uomo di ogni tempo, il transfert attraverso cui avviene la consustanziazione o la transustanziazione, per dirla in termini luterani e cattolici. Accadde così che un pensiero che non riesce ad astrarre da una contingenza si lascia trasportare dalle mode del momento. Scrive ancora Joseph Roth: “Erano stati sempre uomini in esilio. Ora diventarono una nazione in esilio. Inviarono rappresentanti ebreo-nazionali nel parlamento austriaco e incominciarono a lottare per i diritti e le libertà nazionali prima ancora di aver ottenuto il più elementare riconoscimento dei diritti umani “Indipendenza nazionale” fu il grido di battaglia europeo intorno al quale si raccolsero. Il trattato di pace di Versailles e la Società delle Nazioni si impegnarono a riconoscere anche agli Ebrei il diritto a una propria “nazionalità”. Oggi, in molti stati, gli ebrei sono una “minoranza nazionale” e sono ancora ben lontani dall’avere ciò che vogliono, ma molte cose le hanno già: scuole proprie, il diritto a esprimersi nella propria lingua e, inoltre, alcuni di quei diritti con i quali si è convinti di far felice l’Europa. Ma anche se gli ebrei in Polonia, in Cecoslovacchia, in Romania, nell’Austria tedesca riuscissero ad ottenere tutti i diritti che sono di una “minoranza nazionale” sorgerebbe pur sempre l’interrogativo che gli ebrei non siano molto di più di una minoranza nazionale di tipo europeo; che non siano qualcosa di più di una Nazione di come la si intende in Europa; se, rivendicando i diritti nazionali, non rinuncino a una pretesa assai di più importante”. Questo l’insegnamento che ci viene da Roth: non è sui diritti della Nazione che dobbiamo lavorare ma sui diritti della persona e dei gruppi sociali minoritari all’interno di essa per favorirne la convivenza. Questo lo Stato-Nazione che si prospetta per tutti. Nazioni multiculturali, multilinguistiche, multireligiose e mutietniche. Roth morirà solo qualche mese prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, nel maggio del 1939. Aveva visto, il 30 gennaio 1933, Hitler divenire cancelliere del Reich. Roth lasciò la Germania. In una lettera a Stefan Zweig mostrò una sorprendente chiarezza di vedute ed un assoluto rifiuto del nazismo: “Intanto le sarà chiaro che ci avviciniamo a grandi catastrofi. A parte quelle private – la nostra esistenza letteraria e materiale è annientata – tutto porta a una nuova guerra. Io non dò più un soldo per la nostra vita. Si è riusciti a far governare la barbarie. Non si illuda. L’Inferno comanda”. Sempre nel 1933, scrisse ancora a Stefan Zweig: “La Germania è morta. È stata solo un sogno, apra gli occhi, la prego!” Il suo impegno contro l’ideologia nazionalista si spiega con il suo utopistico progetto che mirava al ritorno degli Asburgo a Vienna insieme alla critica al sionismo. Dopo un articolo apparso il 6 luglio del 1934 dal titolo “Das Dritte Reich, die Filiale der Hölle auf Erde”- Il terzo Reich la filiale dell’inferno sulla terra – i suoi libri furono dati alle fiamme e Roth ritorno’ a Parigi.

Il 24 febbraio 1938, pochi giorni prima dell’Anschluss, andò a Vienna con lo scopo di persuadere il cancelliere austriaco Kurt Schuschnigg a dimettersi in favore di Otto d’Asburgo. Il progetto forse non era così illusorio come appare a posteriori; in ogni caso Roth non ebbe successo: non riuscì a parlare con Schuschnigg e il ministro di Polizia di Vienna gli consigliò di tornare subito a Parigi.
Scriverà così: “ Una crudele volontà della storia ha frantumato la mia vecchia patria, la monarchia austro-ungarica. Io l’ho amata, questa patria, che mi ha permesso di essere contemporaneamente un patriota e un cittadino del mondo, un austriaco e un tedesco fra tutti i popoli austriaci. Ho amato le virtù e i pregi di questa patria, e amo oggi, che è morta e perduta, anche i suoi errori e le sue debolezze. Ne aveva molti. Li ha espiati con la sua morte. È passata quasi immediatamente da una rappresentazione da operetta all’orrendo teatro della guerra mondiale” In una lettera scritta a Stefan Zweig il 6 aprile 1933 dall’Hotel Foyot a Parigi, una delle sue residenze abituali, scrive: […] “Io sono un anziano ufficiale austriaco. Amo l’Austria. Ritengo vile non dire oggi che è venuto il tempo di provare nostalgia per gli Asburgo. Voglio riavere la monarchia, e voglio dirlo.”

    Maurizia Maiano*

    *Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.