Intervista a Nadia Terranova per “Quello che so di te” (Guanda, 2025) – Capitolo Zero: Ep.7 del videopodcast a cura di Loredana Cefalo

Ep.7 Nadia Terranova, “Quello che so di te” (Guanda, 2025).

 Quello che so di te, di Nadia Terranova, edito da Guanda, è uno dei più bei libri che ho letto nel 2025. Ho avuto l’immenso piacere di conoscere la scrittrice, già pluripremiata con diversi riconoscimenti per i suoi lavori e di ritrovarla come docente per un corso di scrittura. Questo rapporto sottile, creatosi sulla base delle parole, ci ha portate qui, a questa chiacchierata, ultima intervista di Capitolo Zero de Il Randagio Rivista Letteraria, per quest’anno che si chiude.

Finalista allo Strega, il libro affronta la tematica femminile da tanti punti di vista: storico, fattuale, critico.
È il racconto della donna imperfetta, stanca, avvinta da una società che non le dà spazio per esprimere quello che vuole e circondata da una realtà che a volte le è da sostegno e talaltre la giudica e cerca di nascondere le sue imperfezioni e debolezze, in virtù della salvaguardia di un’idea di donna resiliente ad ogni evento, che non ha la facoltà di arrendersi, una super-donna che non si lamenta mai, capace di resistere a qualunque cosa la investa durante un’intera esistenza.

È l’emblema dei ciò che il patriarcato ha reso le donne, ieri e oggi.

Il romanzo, autobiografico e di ricostruzione storica della vita e in particolare della “pazzia” della bisnonna dell’autrice, nasce con un’esigenza ben precisa: la necessità per chi diventa madre di comprendere quel nuovo stato di cose, inaspettato, caotico, dolorante, terrorizzante e dolcemente avvolgente. 
Uno stato di cose che porta il peso enorme della responsabilità personale, del non potersi ammalare, del non poter impazzire per il bene dei figli, e il peso sociale delle continue etichette affibbiate alle madri, alle donne, che fanno loro da recinto, un recinto a volte talmente tanto alto da chiuderle in uno spazio soffocante. 

Finiamo schiacciate da domande create apposta per paralizzarci, vicoli ciechi che ci portano dritte al collasso performativo. Lasciateci libere di non farcela, né come madri né come artiste. Lasciateci sperimentare il fallimento, lasciate che ci concentriamo sull’unica cosa che importa: non cadere, o cadere senza uccidere chi amiamo. Lasciateci ovunque fallire in pace.”

La trama si divide e si intreccia in due filoni distinti e complementari: la narratrice, appena divenuta madre, conoscendo per sentito dire la storia  della sua bisnonna, internata per un periodo in manicomio all’inizio del novecento, avverte da un lato il timore di trasmettere geneticamente la follia a sua figlia e dall’altro la paura di impazzire, venendo meno alla sua presenza e al suo ruolo genitoriale.  Spinta da un ricordo, un sogno ricorrente che le fa da propulsore, decide di approfondire quella pazzia e si addentra in un complicato lavoro di ricerca fra registri, documenti, voci che confermano, sconfessano, raccontano e nascondono.

Le caratteristiche dello stile della Terranova si ripetono amabilmente: la magia, i sogni premonitori, il dialogo aperto con l’aldilà, sono un filo conduttore del romanzo, poiché fondanti di un rapporto con la vita passata che si propaga inesorabile nell’esistenza attuale dell’autrice. Come pure lo sfondo siciliano, il racconto delle tipicità delle persone che nascono, crescono e vivono nella terra d’origine della Terranova: “I siciliani non litigano, si offendono”. Non litigano per mantenere il silenzio intorno a ciò che accade. Un silenzio che copre tutto un mondo, come una nube grigia. Un silenzio che si ritrova anche nel personaggio della Mitologia Familiare: un personaggio corale fatto di voci che dicono senza dire, parlano senza parlare, di eventi celati, rimescolati, rivisitati e corretti per proteggere, per riattaccare ancora una volta le etichette sulla realtà delle donne. Una realtà che non lascia spazio alla libertà totale, considerata da sempre, nel femminile, un segno evidente di stranezza, di eccesso, di follia.

Quello che so di te è uno di quei romanzi da tenere nel cassetto e ogni tanto rileggere con cura, con una prospettiva nuova, cogliendo i suoi dettagli e le sue straordinarie finezze, con attenzione, come fosse un manuale per non impazzire.

Loredana Cefalo*

* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Adoro le colline, il profumo della pioggia, l’odore di castagne e camino, che mi porto dentro come parte del mio DNA.

Ho una grande curiosità per la tecnologia, infatti da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato.

Paolo Nori, Nadia Terranova, Andrea Bajani e Fabio Canino allo Strega Tour con Loredana Cefalo e il Randagio (video)


E la guerra? È sparita, proprio come il povero bruco (Quartu, 18 giugno 2025)

Una piccola cosa, stasera, ha attratto la mia attenzione, fortemente.
Fra le scarpe delle tante persone, i tacchi delle signore, quelle eleganti da uomo e le sneakers dei ragazzi presenti alla tappa isolana del Premio Strega Tour, si aggirava timidamente un bruco.
Un bruco marroncino, un po’ brutto, in verità, che c’entrava poco col clima di festa e l’aria di bellezza intellettuale che si respirava fra le sedie, bagnate dalla pioggia torrenziale, che ha preceduto la kermesse presentata da Fabio Canino, volto noto ed irriverente della TV e della radio italiane. 

Mentre il piccolo insetto si faceva spazio fra sedie e piedi, sono saliti sul palco i giovani, di un noto liceo cagliaritano a leggere le loro riflessioni sui cinque libri candidati al prestigioso premio. 

E sempre mentre l’esserino strisciante si aggirava intorno al palco, sulle quattro sedie messe una accanto all’altra, tre dei cinque finalisti hanno preso posto per parlare dei loro bellissimi libri. 

Una serata coi fiocchi, con la giusta dose di pacatezza e puntualità che solo i sardi sanno avere, nonostante due dei nostri supereroi (li chiamo così perché il tour è una bella prova di resistenza per chiunque) non siano riusciti a presenziare in questa unica tappa in Sardegna di Quartu Sant’Elena. 

Ed ecco arrivare le parole che si intrecciano nell’aria che, dopo la pioggia, è diventata fresca.
Si parla di memoria, del potere del ricordo, si ascoltano i video messaggi dei due assenti e si fa qualche battuta. 

Dov’è finito il bruco? 

Eccolo lì, proprio accanto alla mia scarpa, in una posizione defilata, stavolta, rispetto al palco. Sembra cercare finalmente riparo, lontano da piedi indiscreti. 

Mentre riposiziono l’attenzione sul gruppo di scrittori in gara, noto che il fil rouge dei  libri presentati è un grande super potere: quello delle donne. Me ne compiaccio, ma tengo sempre un occhio vigile al bruco e al suo percorrere lento e mi metto in asascolto.

Ascolto la potenza del racconto della protagonista del libro di Elisabetta Rasy, “Perduto è questo mare” che durante varie fasi della vita, sperimenta la ferita per la perdita, dolore che si placherà solo attraverso la memoria letteraria. 

Sempre di memoria e dolore si parla nella famiglia di Madre e Padre, in “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” di Michele Ruol e anche lì, il ruolo femminile gioca una chiave fondamentale per il recupero dei 99 ricordi. 

Andrea Bajani, vincitore già dello Strega Giovani, nel suo romanzo “L’anniversario” compie un piccolo miracolo: fa restituire il ricordo di una madre a suo figlio, una donna che nonostante fosse resa invisibile da un uomo tiranno, riesce anche ad essere felice ed è proprio attraverso la memoria di quella felicità che suo figlio la sente presente nel ricordo e la trova “scalpellando” fra gli scritti.


Ed ecco che arriva il superpotere della bisnonna di Nadia Terranova, nel suo romanzo autobiografico “Quello che so di te”: un emblema delle donne rese isteriche perché anticonvenzionali, marchiate per sempre come pazze, solo perché fuori dagli schemi. Con tenerezza la scrittrice ci ricorda che, sebbene tanti passi si siano fatti nell’emancipazione femminile, siamo ancora molto indietro nella parità di genere. E ci presenta un’immagine fortissima, accomunando le sedie di design delle nostre case a quelle dei manicomi di inizio Novecento, a causa del peso dei legacci e fibbie che il ruolo femminile nella società ancora impone. 


E sul finire del suo discorso sulla realtà attuale, mentre ero distratta dalla scia del mio piccolo amico strisciante, ecco che sento volare nell’aria una parola che sembra uno squarcio.
“Guerra”.
È piccola, bruttina anzichenò rispetto a questa magica serata. Non c’entra nulla, proprio come il mio amico. Ed esattamente come lui, dopo aver generato un silenzio glaciale, nonostante l’afa serale, si attorciglia intorno alla sua autrice, fa un giro timido fra le prime file e sembra dissolversi. 

Paolo Nori, con la simpatia parmense che lo contraddistingue, cita un verso del poeta Raffaello Baldini, “In due” dedicato alla morte di sua moglie. Nel suo libro “Chiudo la porta e urlo” è evidente come la perdita della donna segna per il Baldini un profondo mutamento. Il finale della serata, dunque, ritorna sul potere femminile.

E la guerra? 
È sparita, proprio come il povero bruco. 

Loredana Cefalo*

* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Adoro le colline, il profumo della pioggia, l’odore di castagne e camino, che mi porto dentro come parte del mio DNA.

Ho una grande curiosità per la tecnologia, infatti da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato.

Peter Handke: “La notte della Morava” (Guanda, trad.Claudio Groff) – Maurizia Maiano

Scavare in un libro come in un graffito…
E’ una bellissima storia d’amore ed anche tanto di più. E’ una storia tra due senza nome e c’è un battello sulla Morava che scorre in una terra, la Serbia, che apparteneva all’Austria-Ungheria, una terra che non conosceva l’odio tra gli stati, dove i confini, bandiere ed inni non erano necessari perché avere confini, bandiera e inni sarebbe stato legittimare e perpetrare l’odio. E Samarkanda e Numanzia, due simboli per abbracciare tutta l’Europa, vivevano la prima come grandezza e gloria, come presagio repentino, come presagio duraturo, come altro presente; la seconda, Numanzia, stava lì per ricordare che bisognava resistere e opporsi ad ogni costo alla distruzione di quel mondo.

Lui, notoriamente un misogino, si ritrova accanto una donna, una donna che aveva odiato, eppure già si fa cenno ad una strana sintonia tra i due. Perché nonostante i suoi fallimenti continuava a credere all’amore tra uomo e donna, certo credeva di più all’esaltazione reciproca che all’amore, o quanto meno evitava la parola. E intanto si sentiva in conflitto con sé e dall’altro il suo stato era paragonabile a quello di una malattia che da tempo non si presentava, bastava che a qualcuno tornasse in mente anche solo come nome ed era segno sicuro che la malattia stava per incombere e con essa un periodo infausto.

Ma che storia era stata con questa donna. Procrastinata a sufficienza! E fu lei a cominciare con la storia di loro due, poi riprese lui il filo del racconto e lei continuò a togliergli la parola di bocca, non tanto per correggerlo quanto per avere parte in ciò che era avvenuto per ripeterlo e recuperarlo per se stessa. Non ne venne fuori un dialogo, non si parlò mai di un io e di un tu, si trattò di un lui e di un lei, eccezionalmente un sì impersonale e sovrapersonale.

Gli ospiti sul battello si chiedevano cosa fosse accaduto, ma i due non fecero allusioni di nessun genere. L’unica cosa che rivelarono è che nella notte erano caduti a terra insieme, per stanchezza per sfinimento. Ma qualcosa era accaduto tra loro nel bosco di eucalipti . Là iniziò un’altra misura del tempo e l’altra misura del tempo iniziò quando ebbero l’uno occhi per l’altra contemporaneamente.

Tutto viene raccontato e il tempo del raccontare diventa un enigma fecondo. E’ uno smarrirsi ed un ritrovarsi, è un sentirsi vicini ad un agire. Quella notte sulla Morava si sentiva catturato, si trattava davvero di salvezza? Dalla sconosciuta emanava qualcosa di sofferente, di terribilmente rinunciatario ed ancora uno spavento dolce, trafiggente ossa e midollo.

Ma i due erano davvero una coppia? Durante il loro stare insieme erano successe cose straordinarie, caddero gocce di pioggia su di loro e solo sul loro tavolo. L’impazienza prima del loro incontro fruttò pazienza come non mai… nel loro primo tempo in cui avvenne anche il congedo, però senza che la misura di tempo cessasse di essere in vigore il congedo ne faceva parte. Separarsi per un periodo intermedio, in direzioni opposte, era una cosa ovvia. Nel frattempo nessuno dei due avrebbe dato notizia di sé. E una mattina fu chiaro che quello doveva essere il giorno della separazione provvisoria.

Perdersi di vista, non sapere niente l’uno dell’altro faceva parte delle regole del gioco. Non ci saremmo mai sognati allora… eppure tra i due sarebbe scoppiata una vera e propria guerra di coppia. Lei si era guardata con gli occhi intorno cercando di guardarlo e lui pensò che una purezza così lui non la meritava. E poi succedeva che quanto lui percepiva si trasformasse in un silenzioso monologo, era qualcosa che si rivolgeva alla lontana persona di riferimento, alla sconosciuta, lui le riferiva da lontano e mandava notizia di sé.

Era solo fantasia del narratore? E’ accaduto davvero, così lui informò il nostro interrogatore. Fantasia? E anche se fosse. E perché solo? Se si era trattato di un sogno la sensazione che l’aveva pervaso era però così forte e persistente come nello stato di veglia accade molto di rado. Ormai provava soltanto in sogno la gioia grande e duratura, la riconoscenza, l’affetto la voglia di vivere. Aveva l’impressione di non essere stato visto da nessuna creatura vivente per tantissimo tempo. Non c’erano più ricordi di uno sguardo umano che gli avrebbe solo lanciato anche solo una fuggevole occhiata e cominciava a sentire la mancanza di questo accorgersi di lui. Nel suo viaggio circolare anche questo suo desiderio alla fine si realizzò.

Dammi un volto umano, e la mia anima sarà risanata. Si aprì un varco fino alla coda del lunghissimo treno da dove si era incamminato nell’esigenza di un volto. In fondo al treno la ragazza, seduta per terra, leggeva con la schiena appoggiata al vetro. Quello che la differenziava era come stava seduta e come leggeva. Viveva sensibilmente insieme al libro, ne ripeteva le parole compitando, lo interrogava e si interrogava e con esso era una cosa sola. La giovane si dimostrava distaccata dall’ambiente intorno a lei… un diverso elemento? No, un elemento conforme a lei, unicamente a lei e nel quale soltanto diventava se stessa. E nel contempo non era per così dire assorta, distacco non significava per forza pensosità o isolamento.

Intanto nel corridoio e fuori coglieva ciò che valeva la pena di cogliere… E lui non finiva di saziarsi nel vedere come la ragazza, ancora quasi una bambina?, no, non più una bambina, leggeva e leggeva e leggeva. Serietà concentrata sfavillava dalla fronte… Come, una serietà che sfavillava? … e più si immergeva in quella lettrice più gli sembrava che si librasse sopra il pavimento, senza peso, e lui con lei. Sorrideva spesso potremmo dire sotto i baffi, oppure, dopo ogni capoverso scuoteva la testa: cosa che rivelava il suo stupore, un essere stata colta di sorpresa…

Un lettore così, una lettrice così lui se l’era immaginato da tempo immemorabile anche per i suoi libri. Materna appariva quella lettrice, che pure era ancora una mezza bambina, e lo sarebbe rimasta per tutta la vita. Poi lei alzò gli occhi dal libro e invece di guardare sopra la spalla guardò lui… Si mise in disparte per non farsi vedere, al tempo stesso col cuore che gli batteva, come qualcuno colto in fallo? Sì, lei lo aveva riconosciuto. E quanto avvenne lo riferì in quella notte sulla Morava, non lui ma la sconosciuta che raccontò: la ragazza non solo aveva riconosciuto l’uomo. Lei era una sua lettrice. Lei lo osservava stupita. Lo tirò per il cappotto e lo trascinò con sé verso la porta di fondo. Lei non sapeva niente di lui , niente di personale, e neppure voleva sapere da dove venisse né dove fosse diretto. Doveva sempre farle domande perché lei continuasse a parlare e lui percepiva il suo desiderio che lui, lui, gliele rivolgesse.

Il chiedere e al tempo stesso l’evitare di chiedere gli veniva in aiuto nel porre delle domande, cosa che da sempre e, sostanzialmente, gli ripugnava. Così, tra i due davanti alla porta a vetri nacque un gioco animato e visto da fuori sembrava che tutti coloro che fiancheggiavano i binari fossero i loro spettatori. Il fatto che una creatura così si confidasse proprio con lui. Che regalo. Lo meritava? ma l’essere oggetto di un regalo così immeritato divenne per lui un peso eccessivo… e così, in una parte in cui il treno veniva sganciato verso la Stiria, si congedò dalla giovane lettrice, dalla dolcissima tra mille, così gli appariva e scese. Essere solo… con l’immagine postuma della creatura.

La notte era finita. L’autore aprì gli occhi. Giorno fatto. Sole del mattino. Strinse a sé la donna sconosciuta, ma lì non c’era nessuno. Eppure erano abbracciati come una coppia non si era mai abbracciata. Amore? La donna gli aveva fatto sentire che era per lui. Cosa c’era di così strano in questo? Per lui era il miracolo. E adesso di mattina cercò di acchiapparla, era avido del suo corpo, nel vuoto. Insomma, la donna non esisteva? Certo, esisteva, fuori dal sogno, ma non gli apparteneva. Ah, il dolore per la sua assenza. Lui era definitivamente diviso…e non continuo a raccontare quello che è scritto dopo perché è troppo triste.

Ho dovuto scavare e guardare a fondo nelle pagine di questo romanzo come un pittore lavora su una tavolozza di graffito: graffiare sul fondo scuro per recuperare immagini nascoste, ne ho recuperata solo una, ma se ne possono recuperare tante altre.

Maurizia Maiano*

Peter Handke nasce a Griffen nella Carinzia, la regione più meridionale dell’Austria, nel 1942 da padre austriaco e da madre facente parte della minoranza slovena della regione. La madre morirà suicida nel 1971, evento che segnerà profondamente il giovane Handke. Il titolo della sua opera “Wunschloses Unglück, “Infelicità senza desideri”, scritta sull’onda del dolore per il gesto estremo della madre, sembra creare una congiunzione simbolico-semantica tra un destino individuale e quello storico di un paese la cui fine era segnata dall’emergere e dall’ affermarsi dei nazionalismi. La mancanza di desiderio è causa dell’insoddisfazione profonda, espressione di una malinconia dalla quale non si riesce ad uscire, perché deriva da regole interiorizzate che inibiscono il desiderio. Un nuovo mondo, in cui si è incapaci di vivere, quello che si prospetta alla madre di Handke e all’Austria-Ungheria, in cui non ci si riconosce più e in cui è troppo tardi per farne parte e cambiare. La prosa di Handke trova qui il via alla sua grande capacità di interiorizzazione e di analisi profonda del sé. Segna l’inizio di quel romanzo circolare che evoca anche nello spazio letterario quella ciclicità del tempo, della vita e della storia umana riempiendola di flashback e ripetizioni. La letteratura, lo scrivere diventano la sua grande passione. Abbandona gli studi di Giurisprudenza a Graz. Si cimenterà con la scrittura di pezzi teatrali, poi con racconti, romanzi, saggi, poesie e diari ai quali si può aggiungere anche qualche esperienza di sceneggiatore per il cinema.
La letteratura è per lui solo romantica. È polemico nei confronti della generazione di scrittori come Alfred Andersch, Heinrich Böll, Ilse Aichinger e Ingeborg Bachmann che facevano parte del “Gruppo 47” e volevano una letteratura impegnata e realistica. La sua è letteratura votata all’introspezione con una scrittura densa e minimale, altamente descrittiva e ricca di visioni quasi cinematografiche. Collabora con Wim Wenders e, dal suo romanzo “Prima del calcio di rigore”, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter del 1970, sarà tratto l’omonimo film e poi lavorerà ancora con Wenders per il più famoso “Il cielo sopra Berlino”. Dall’amore per l’allora Slovenia yugoslava, radicato nel “ventre materno”, nasce l’interesse per la regione balcanica. Handke è un figlio di quell’Austria- Ungheria del “Nachsommer”. L’immagine di quel mondo del passato e l’ideale di una convivenza multietnica e multireligiosa avrà il suo ruolo importante nella sua difesa di Milosevic e della Yugoslavia. “Un viaggio d’inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina ovvero Giustizia per la Serbia” sono, forse chissà, l’antefatto a “La notte della Morava”?

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Intervista a Nadia Terranova per “Quello che so di te” (Guanda, 2025), di Gabriele Torchetti

Nadia Terranova, messinese, è una delle voci più interessanti della narrativa italiana contemporanea. Già finalista del Premio Strega nel 2019 con “Addio fantasmi”, il suo ultimo romanzo “Quello che so di te”, edito da Guanda, in libreria dallo scorso gennaio, sta ricevendo ampi consensi di pubblico e di critica e ha già iniziato, proposto da Salvatore Silvano Nigro, il lungo percorso che speriamo lo porti alla serata finale del nostro più prestigioso premio letterario. Nadia Terranova, che ringraziamo per la disponibilità, è stata intervistata per gli amici del Randagio dal nostro Gabriele Torchetti.

Ciao Nadia e benvenuta a Il Randagio, “Quello che so di te” sviluppa tra i tanti temi il concetto bellissimo di mitologia familiare che ci riconduce a quasi cent’anni fa, quando una donna minuta e silenziosa varca la soglia di un manicomio, “un luogo di cui avrebbe parlato con un distacco sempre più irreale fino a non nominarlo più, come accade ai ricordi che abbiamo sciupato”. Scrivi che la chiami Venera, con l’accento sulla prima sillaba e che la incontri spesso in sogno, puoi dirci qualcosa in più su questa donna? 

Tutto quello che sapevo di Venera l’ho scritto. È difficile per me dire qualcosa di più. Posso dire però qualcosa di meno. Posso dire che quando ho cominciato a scrivere di lei, quindi nelle prime pagine del libro, lei era davvero soltanto una donna scontornata, ma la cui presenza era molto forte nella mia vita, molto insistente, quasi infestante. Non capivo perché. Poi ho capito alla fine che voleva soltanto essere raccontata.

Abbiamo una passione in comune, quella per i tarocchi, presenti anche in Trema la notte. L’archetipo della luna è probabilmente uno dei più difficili da interpretare, perché nei suoi simbolismi racchiude una molteplicità di chiavi di lettura che ho incontrato nel tuo romanzo. Leggendo il tuo libro ho pensato al principio creativo femminile: la maternità, all’emotività nelle sue molteplici sfumature. La luna però rappresenta anche l’inconscio, la notte (dunque quello che non si vede a occhio nudo) con i suoi segreti. Tua figlia si chiama Luna ed è molto presente tra le pagine di questo romanzo, così come sono presenti tutti i richiami dell’archetipo, anche quelli più nebulosi nella storia di Venera (tra l’altro nata sotto il segno del Cancro), di tua madre e di tutti i personaggi. E’ stata una mia sensazione o in qualche modo ti ha ispirato?

La luna per me è proprio il simbolo dell’energia femminile che sta per uscire, quindi è anche una gestazione continua. C’è del tormento, no? C’è anche un po’ di fatica nell’attesa che questa creatura esca dalle acque, che varchi la soglia del patriarcato rappresentato da questi cani che ululano, dalle torri. Però poi è l’attimo prima dell’esplosione dell’energia femminile. E quindi sì, è proprio la luna la Carta di tutto il libro. Per me è complicata perché il cancro è un segno complicato e però è stato molto interessante per me indagarlo.

Una mitologia familiare che racchiude una parola chiave, la memoria. C’è una memoria storica contenuta negli atti scritti e una memoria emotiva composta da ricordi, frammenti, sentimenti. Scrivi quello che sai di lei attraverso le poche notizie pervenute e dove non arrivi con le carte, con i documenti, intervieni con la tua scrittura. Hai avuto qualche difficoltà nel riempire i vuoti di questa storia?

Sai, le difficoltà ci sono quando stai facendo una ricostruzione storica. Ma se scrivi un romanzo, quella che è difficoltà è possibilità, perché ti apre un vuoto, una lacuna. Dove c’è una lacuna entri con l’invenzione, senza invenzione non c’è romanzo.

“Il verde degli alberi incombe dalla finestra, mia figlia mi guarda ma non mi vede. In quel momento, dentro quel preciso nulla, nell’isolamento dell’ospedale in cui ho appena partorito, capisco che non potrò mai più permettermi di fare. Impazzire.” Mi ha molto colpito questo incipit, la paura di un’ereditarietà oscura. Nel romanzo sviluppi lo stigma della follia. La scrittura ha plasmato in qualche modo i tuoi timori?

La scrittura ha dato una forma e quindi ciò che prima era una paura indefinita è diventata una paura scritta e come tutte le volte in cui si dà il nome a qualcosa, poi ho avuto meno paura.

La maternità scivola nella narrazione attraverso tantissime declinazioni, tu sei madre di Luna, la tragedia di Venera ha a che fare con una mancata maternità, ci sei tu figlia nel rapporto con tua madre. La cura e l’abbraccio riservato a Venera è commovente. Ti sei sentita un po’ sua madre in queste pagine?

È bello quello che dici. Sì, sono stata un po’ la madre di Venera, la madre della mia bisnonna. Che meraviglia!

I padri sono quasi totalmente estranei nei dibattiti, ma anche nella scrittura, che ruolo hanno gli uomini nella tua mitologia familiare?

In realtà, in questo libro c’è spazio per i padri; c’è stato spazio per me per capirli per raccontarli. Senza la differenza anche dei ruoli non ci sarebbero state le storie delle donne quindi, ecco, io ho abbracciato anche loro. 

Tra un capitolo e un altro, durante la lettura ho ascoltato “Terra ca nun senti” l’ultimo disco live di Carmen Consoli. Canzoni che raccontano la Sicilia, con note, profumi, paesaggi, memorie. Una terra meravigliosa ma nello stesso abbandonata e abbruttita dall’incuria politica e sociale. La Sicilia è sempre presente nelle tue narrazioni, che ruolo ha nella tua scrittura? E più in generale nella tua vita?

Amo Carmen Consoli, amo la musica siciliana, amo “Terra ca nun senti”. Sono stata a sentirla, tra l’altro, dal vivo a Pompei, pensa, all’anfiteatro. E in quella sera, eccezionalmente, c’erano due ospiti speciali: il fratello di Peppino Impastato e Donatella Finocchiaro che leggeva proprio testi di Rosa Balistreri. E’ stato splendido! Sì, la Sicilia è parte del mio immaginario e quindi della mia scrittura.

Ultima domanda, di consueto chiediamo un consiglio di lettura. Questa volta voglio farti una domanda un po’ più mirata, hai scritto le prefazioni delle ripubblicazioni dei libri di Alba de Céspedes (per Cliquot), perché dovremmo leggere i suoi libri e da quale ci consiglieresti d’iniziare?

Per quello che riguarda Alba de Céspedes, sì, ho scritto appunto non soltanto le prefazioni di Cliquot, ma anche quella per Mondadori di “Quaderno proibito”. Consiglio di cominciare da “Quaderno Proibito” e poi andare in tutte le direzioni. Secondo me Alba De Céspedes è la scrittrice del ‘900 più contemporanea che abbiamo. La più mimetica, che più è riuscita a riprodurre, a restituirci la voce delle donne, delle casalinghe, delle impiegate, delle intellettuali. È stata straordinaria nell’indossare le voci delle altre. Ecco perché leggerla

Gabriele Torchetti

Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

Diego e Margherita intervistano il Bracco Baldo, di Cinzia Milite

Ciao bambini e bambine!

Ci chiamiamo Diego e Margherita e siamo dei super amanti degli animali. Un pomeriggio, mentre curiosavamo tra gli scaffali della biblioteca in cerca di libri sulla fauna terrestre è successa una cosa pazzesca: un tipo piuttosto bizzarro sentendoci esprimere il desiderio di fare quattro chiacchiere con gli animali, si è presentato dicendo:

“Sono il professor Cosmo Mundis e posso aiutarvi: di recente ho inventato il “Versoconver”. Si tratta di un computer in grado di convertire i versi degli animali in parole comprensibili dagli umani. Basta scegliere con quale animale parlare cliccando nel database. Al cospetto dell’animale scelto occorre accendere il microfono ed è fatta: i versi di qualunque animale non saranno più un mistero!“

Ci ha spiegato poi, che gli animali comprendono le parole degli umani da sempre. Il professor Mundis ci sembrava un tipo con qualche rotella fuori posto, ma alla fine abbiamo voluto sperimentare quell’incredibile invenzione e…non ci crederete: funziona!

Vi raccontiamo l’intervista al Bracco Baldo!

Margherita:  Diego, oggi devo fare un favore a mia zia. Starà fuori tutto il giorno e mi ha chiesto di andare a casa sua per dare da mangiare al suo cane, un Bracco di nome Baldo. Vuoi accompagnarmi?

Diego:  Certo, con piacere! Magari posso usare il versoconver per fargli qualche domanda: ci sono cose che non capisco bene nel comportamento dei cani.

Margherita: Perfetto! Ecco, siamo arrivati. Entriamo dal cancello del giardino. Mia zia dice che Baldo adora stare all’aria aperta e la sua cuccia è fuori. Oh, guarda! Sta arrivando verso di noi, scodinzolando!

Diego: Che cane amichevole! Accendo subito il versoconver.

Baldo: Ciao Margherita, benvenuta! Mi hai portato la pappa? Sono un po’ affamato. E lui chi è? Un tuo amico?

Margherita: Ciao Baldo, sì, ti ho portato la pappa e anche un biscottino. Lui è Diego, un mio amico. Di solito, quando siamo insieme, ci piace intervistare gli animali con il versoconver del dottor Mundis.

Baldo: Oh, lo so già! Me l’ha detto la tua gatta, Milù, quando sono passato da casa tua con la zia. Mi chiedevo quando sareste venuti a trovarmi! Cominciavo a pensare che non vi interessasse parlare con un cane.

Margherita: Ma no, Baldo! Anzi, Diego ha già una domanda per te.

Diego:  Proprio così! Finalmente abbiamo il tempo per farla, Baldo. La mia prima domanda riguarda il rapporto tra cani e gatti. Ho sentito che Milù ti ha parlato di noi… quindi andate d’accordo? Non è vero allora il detto “sono come cane e gatto” per indicare inimicizia?

Baldo:  Eh, è un luogo comune. La gente pensa che cani e gatti non possano andare d’accordo, ma non è sempre così. Molti cani e gatti vivono insieme senza problemi e tutto dipende dall’indole, dalla razza, dalle abitudini e da come gli umani li educano. Spesso, se cane e gatto crescono insieme fin da piccoli, imparano a capirsi e convivono serenamente. Anche io e Milù ci conosciamo da quando eravamo cuccioli e andiamo d’accordo!

Diego:  Grazie Baldo, ora ho capito meglio.

Margherita:  Anch’io ho una domanda: perché si dice che il cane è il migliore amico dell’uomo?

Baldo: Beh, la spiegazione più semplice è che, se gli dai cibo e una casa, il cane ti è grato e fedele. Vivendo da secoli accanto agli umani, i cani hanno imparato a capire come si sentono e a stargli vicini nei momenti difficili. Anche in silenzio, sappiamo dare conforto. 

Margherita: Grazie delle spiegazioni, Baldo! Ora ti meriti proprio un biscotto!

Baldo: Gnam! Grazie! Ma… mi consigliate anche qualche bel libro?

Diego:  Certo! Ti consigliamo “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà” di Luis Sepúlveda. È un libro emozionante, scritto dall’autore per i suoi nipoti. Racconta la storia di un pastore tedesco che si chiama Fedele e che, da cucciolo, viveva libero tra i Mapuche, una popolazione che lo considerava parte della loro comunità e gli insegnava a rispettare la natura. Fedele era cresciuto con Aukamañ, il suo “fratello umano,” e con lui esplorava il mondo in armonia con la terra.

Poi, però, la vita di Fedele cambia: viene catturato dagli uomini bianchi, separato dal suo fratello umano e addestrato a cacciare. Anche se la sua vita diventa più dura, lui continua a dimostrare lealtà verso i suoi nuovi padroni. Ma un giorno, durante una caccia, Fedele sente un odore familiare che risveglia in lui i ricordi della sua prima vita con i Mapuche e lo riporta ai giorni di libertà e amicizia.

È un libro per bambini dagli 8 anni in su, che insegna l’importanza del rispetto verso tutti gli esseri viventi e ci ricorda come i cani, nonostante tutto, restino fedeli agli umani. Sepúlveda, attraverso questa storia, parla anche del legame tra uomo e natura e dei danni che a volte infliggiamo al nostro pianeta.

Baldo:  Sembra un libro davvero interessante! Grazie! Gnam gnam e grazie anche per il biscottino e la pappa, bambini! Sapete, non tutti i giorni si riceve una visita così interessante. Vi aspetto presto per altre chiacchierate… magari con un menù degustazione di biscotti diversi, eh?

Margherita:  Ahah, vedremo cosa possiamo fare, Baldo! 

Baldo: Perfetto, allora! Tenete a mente: qui c’è un Bracco affamato di storie e biscottini, pronto a scodinzolare alla prossima visita!

Cinzia Milite