Intervista a Grazia Procino, di Lavinia Capogna

Grazia Procino, poetessa, la limpida voce della Magna Grecia

Grazia Procino è una delle più brave poetesse del nostro tempo. La sua limpida voce ci giunge da quelle terre dove il mare è intensamente blu, il sole accecante, le vallate hanno ulivi centenari e le notti sono dolci: il nostro sud che tanto ha affascinato nel tempo Goethe, il poeta Von Platen e altri viaggiatori, antropologi alla ricerca di antiche e misteriose magie, come Ernesto De Martino, e dove anche Ulisse si era smarrito essendogli ostile il dio Poseidone. I Greci la chiamarono “Magna Grecia” (Grande Grecia) e il legame con quel mondo arcaico, la Grecia, non si è mai spezzato nei cuori più sensibili. Grazia Procino, pugliese, di Gioia del Colle, docente di Lettere al Liceo Classico, autrice di ben sei raccolte poetiche, di cui l’ultima “Esercizi quotidiani di compassione” è stata pubblicata a fine giugno di quest’anno da Puntoacapo Editrice, pluripremiata, a cui hanno dedicato articoli anche quotidiani nazionali (che generalmente parlano assai poco di poesia), è una voce prestigiosa della poesia contemporanea che riprende sovente nella sua poetica quell’eco millenario ma non solo. 

I suoi componimenti poetici hanno uno squisito equilibrio tra forma e significato, non sono mai artefatti o banali, ma sono di una raffinata schiettezza, segno di una ricerca costante.

Grazia, puoi raccontarci come e quando è nata in te l’ispirazione alla poesia?

Non c’è stato un momento preciso e definito; ho sempre amato leggere anche la poesia, avevo scritto qualche poesiola alle scuole medie ma non avevo più proseguito. Dopo anni di letture appassionate e continue ho avvertito il bisogno di esprimermi attraverso la scrittura, componendo haiku, racconti e poesie. Questa esigenza è coincisa con una particolare fase della mia vita professionale: ero molto delusa e ho trovato nello scrivere un’energia che non avrei mai immaginato. Da allora, da circa dieci anni, non ho più smesso di scrivere poesia, senza un’imposizione precisa ma quando l’estro me lo detta. Non ho regole, non m’impongo orari; ci sono mesi in cui non scrivo neppure un verso, altri in cui sgorga un mare un parole.

Quali temi del mondo classico ti affascinano e quali dei suoi valori resistono in una società dominata dalle tecnologie e con guerre feroci in corso? La poesia può essere un conforto nel terzo millennio? 

La mia devozione per l’umanità ha trovato nel mondo classico le sue radici, il senso profondo del mio stare al mondo. La persistenza dell’antico nell’attualità si concretizza in ciò che avviene, la guerra e l’impegno per la pace, la ricerca del bello in ogni sua forma e manifestazione, la tensione al bene comune; in tutte queste dimensioni vi è l’antico, ma anche nella pretesa superiorità della civiltà greca rispetto ai popoli non parlanti il greco, i barbari. È bene ravvisare nell’antica Grecia anche dei disvalori, per individuare anche gli aspetti negativi di una civiltà che ha fondato la visione occidentale. La società contemporanea, così permeata dal narcisismo e dalla disumanizzazione, manca del caposaldo della cultura greca: la misura, il mètron. Gli antichi Greci erano convinti che l’armonia derivi dalla moderazione, né troppo, né troppo poco; la potenza smisurata è nociva, come evidenziano i miti in cui il superamento dei confini della natura umana si converte nella tracotanza, la yubris, e la conseguente punizione divina. La loro saggezza ci insegna ancora che porsi e vivere entro certi limiti consente all’uomo di godere con intelligenza dei beni offerti dalla natura. Il valore della misura è da porsi come criterio per tutte le cose, anche nel rapporto con la tecnologia e l’intelligenza artificiale, da cui, per esempio, è possibile farsi aiutare per rendere meno pesante e fastidiosa la vita quotidiana.

La poesia oggi più che mai è preziosa perché ci offre prospettive inusuali e particolari che ci consentono visioni plurime, in grado di approfondire problematiche della realtà anche interiore. La poesia non consola o salva tutti, non è il rimedio dei malesseri ineriori, ma cambia coloro che si predispongono alla metabolè, al mutamento. Come sostiene il poeta Giancarlo Pontiggia, la poesia salva chi vuole essere salvato, chi avverte dentro sé la volontà del cambiamento. E questo è già tanto, in un mondo inaridito e incattivito.

Tu hai composto anche numerosi Haiku, cosa ti conquista di questa forma poetica di origine giapponese ? 

Scoprii gli haiku e i tanka grazie al mio professore di greco al liceo. Devo a lui alcune illuminazioni che sono rimaste nel tempo: l’amore per la letteratura greca, in special modo per la lirica e il teatro. Sono stata conquistata dagli haiku tanto da voler approfondire questa espressione così tipica del mondo giapponese, in cui l’amore per la natura, la ciclicità delle stagioni aprono mondi straordinari di visioni poetiche. Ammiro, inoltre, in queste forme la sintesi e il fren dell’arte, come Dante definì, il significante.

Quale spazio occupa l’amore nella tua poetica? 

Enorme. Non solo e tanto l’amore sentimentale quanto l’amore per l’individuo, per la mia terra, per la vita, per me stessa. L’amore è il motore che mette in circolo le energie vitali e propositive, la creatività. 

Quali sono i poeti che rileggi più volentieri? 

Sicuramente, i lirici greci, i poeti greci più recenti come Kavafis, Ritsos, Seféris, i poeti italiani Leopardi, Montale, Ungaretti, Penna, Rosselli, Anedda per citare i più frequentati.

Lavinia Capogna*

Due poesie di Grazia Procino:

Minimo dettaglio

Ti tengo stretto

nel luogo protetto

della mia anima.

Lì nessuno incede;

l’abisso avanza

lascia bave di buio.

Lì mi siedo 

come lumaca schiumo.

Mi faccio piacere

questo mondo scandito

da giorni slanciati

verso utopie incantate.

Eppure io so che

tutto è provvisorio

tutto si rompe

all’incrinarsi del vetro.

Quello che resta

Mi chiedete, quello che resta.

Davvero, non lo so.

Forse la tana dei vermi 

nel terreno grasso e umido.

Le vite dei santi e le stanze dei detenuti.

I giorni mai uguali l’uno all’altro

i minuti di sofferenza sempre uguali.

Le contusioni violacee, e il tempo

dopo le bufere. Tu che mi chiami

e mi dici:

<<Come stai?>>

Le voci querule di chi simula

stati di malessere. Il dolore

di ognuno infisso nelle pupille.

Tu che ammetti di stare sbagliando

a indovinare la vita

Grazia Procino, nata a Gioia del Colle, laureata in Lettere Classiche con 110 e lode e una tesi in Letteratura latina con il professor Paolo Fedeli; è docente presso il Liceo Classico di Gioia del Colle. Scrive per il settimanale “La voce del paese” e ha collaborato con il blog letterario collettivo “Diario di pensieri persi”. Dal 2017 ad oggi ha pubblicato haiku, cinque sillogi poetiche che hanno riportato diversi premi e una raccolta di racconti.

*Lavinia Capogna è una scrittrice, poeta e regista. È figlia del regista Sergio Capogna. Ha pubblicato finora sette libri: “Un navigante senza bussola e senza stelle” (poesie); “Pensieri cristallini” (poesie); “La nostalgia delle 6 del mattino” (poesie); “In questi giorni UFO volano sul New Jersey” (poesie), “Storie fatte di niente”, (racconti), che è stato tradotto e pubblicato anche in Francia con il titolo “Histoires pour rien” ; il romanzo “Il giovane senza nome” e il saggio “Pagine sparse – Studi letterari”.

Ha scritto circa 150 articoli su temi letterari e cinematografici e fatto traduzioni dal francese, inglese e tedesco. Ha studiato sceneggiatura con Ugo Pirro e scritto tre sceneggiature cinematografiche e realizzato come regista il film “La lampada di Wood” che ha partecipato al premio David di Donatello, il mediometraggio “Ciao, Francesca” e alcuni documentari. 

Collabora con le riviste letterarie online Insula Europea, Stultifera Navis e altri website. 

Da circa vent’anni ha una malattia che le ha procurato invalidità.

Sergio Daniele Donati: ‘’Amén’’ (Il Leggio, 2024), di Grazia Frisina

Silenzio e ascolto: osmosi quasi sincopata nel sangue, è la fusione che presiede a tutta la silloge poetica di Amén.

Ascolto e silenzio: tessitura di linfe generatrici di una scrittura poetica coraggiosa e insieme ariosa. Coraggiosa perché scaturita da una lotta interiore, dalla cognizione, tutt’altro che scontata, di una personale incompiutezza esistenziale, di un camminamento segnato da inciampi e cadute, da attoniti farfugliamenti e balbettii, da interrogativi insoluti che azzarderebbero una manifestazione, se non sapessero che la risposta è nel ginocchio che cede, nel tendine / che si lacera e impone a occhi bambini /di toccare la terra e tornare tra i muschi. Coraggiosa e, nel contempo, ariosa perché, pur restando in bilico fra desiderio e fragilità, nella sospensione di una labile attesa, dalla frammentata quotidiana realtà sa compiere imponderabili slanci, sublimando la lacerata esistenza a vette di universale bellezza.

Il firmamento/dentro di me, /la Legge sopra/- e attorno – di me

Un silenzio che nella silloge si presenta, con immagini e limpide metafore, sfaccettato a seconda di particolari situazioni e stati d’animo; talvolta è sete o soffio tenace; talaltra è delicato bisogno: un silenzio /che copra di neve /il mio cuore, oppure è consolazione / silenzio di velo che (ne) accarezza lo strazio, o persino l’ignominiosamente efferato silenzio nazista.

Per non parlare di un altro significativo, supremo silenzio che Donati definisce, con perfetta assolutezza, spaventevole: qualcosa di totalmente vertiginoso e ignoto, simile allo “tzimtzum”, Dove sta Colui / che non si nomina, soglia impenetrabile del vuoto, eppure luogo sacro della gestazione, da cui la divina contrazione trabocca nella Luce della cosmica creazione.

Un silenzio, palpitante e fecondo, che egli canta nei suoi versi perché è così che si forgia /la promessa. La promessa del ricordo, la promessa del suo destino di ebreo e di poeta, giacché inizia dal magma la ricostruzione.

Sembra udire le parole di Rilke, nei suoi Sonetti a Orfeo: “E tutto tacque. Eppure in quel tacere/s’avanzò nuovo inizio”.

Silenzio che, s’è detto, si coniuga con l’ascolto. Esemplare la definizione che egli ne dà: 

Ascoltare … è tornare nel palmo delle proprie mani, / percorrerne con lentezza di lumaca ogni solco e dirsi uomo/ capace di non porre domande a un cielo pudico/ che tace.

Un tacere e un chiudere gli occhi, il suo, per ascoltare suoni e rumori del presente e la fragile apparenza del mondo: la notte// il canto lieve di un addio. // il passo del timido // la parola del deserto.

A occhi chiusi, soprattutto per affondare lo sguardo nel precipizio di sé stessi, in quel baratro echeggiante un tragico passato – tra antenne d’insetti, e maceri di fogliame ho raccolto/ ossa di avi, – un passato che è incessante rimembranza, dolorosa e sempre aperta ferita.

Di sé, con sincero pudore, parla l’uomo poeta: la mia terra è il deserto… Vengo da una crepa / di una storia antica; storia che purtroppo oggi corre il pericolo della dimenticanza. Ne scaturisce dunque la necessità sì di un silenzio riflessivo, ma anche l’urgenza di una poesia, come doverosa memoria, che consacri quei milioni di Nomi.

L’opera è suddivisa in tre parti, Eppure…, Essenze e Balbuzie: in quest’ultima si compiono gli attraversamenti poetici immaginari, ovvero un inopinato dialogo che l’autore intesse con grandi e nobili Maestri (Celan, Pessoa, Cohen, Borges, Ungaretti, Quasimodo…), un originale intreccio di echi, sensazioni e confidenze personali e sottili consonanze affettive. (Mi sono però chiesta perché su 22 nomi un solo attraversamento poetico avviene nella “dimora” di una Musa Maestra, Patrizia Valduga, quando varie sono le luminose voci di donne che nella vita e nella poesia hanno profuso, senza risparmio, sangue e passione; giusto per citarne alcune: Marina Cvetaeva, Nelly Sachs, Rose Ausländer, Antonia Pozzi, Margherita Guidacci…)

Insomma un personale e mirabile omaggio a poeti e cantori, ai quali Donati, sicuramente, deve il suo percorso di uomo e di letterato.  

Da una poesia all’altra, da una strofa all’altra, si delinea via via, quindi, la sommessa postura di un’anima, qual è quella di Sergio. Quel tragitto da lui compiuto in Amen, che non è un conclusivo “Così sia” ma “in verità” una peregrinazione meditata e inesausta tra discese e salite, tra guadi e soste. Una sostanziale modalità espletata mediante un’assurda – ma mai sterile – ricerca sia ontologica che spirituale, che porta i segni di una lotta sanguinante e necessaria, che si fa tutt’una con l’essenza della parola poetica. Una distillazione lirica che, nel velare e nello svelare, sul filo della pietà, la sofferenza e il solitario travaglio, è in grado tuttavia di dare nutrimento all’anima.

Benché egli umilmente si definisca amanuense, / forse solo artigiano, le sue poesie sono contraddistinte da un armonico e pausato incedere e indugiare, senza cascami vischiosi, da richiami dotati di una sapiente presenza evocativa – si pensi ai rimandi letterari, di cui sopra, e ai numerosi riferimenti biblici (1° libro dei Re, Esodo, Salmi…) – e da versi limati con sottigliezza linguistica nella cura selettiva dei termini e delle traslazioni verbali. Emerge così un’opera di nuda eleganza e di trasparente intensità, che certamente richiederebbe non una semplice analisi come quella da me finora appena tratteggiata in questa breve nota. 

Ciò che resta da fare, a questo punto, è inoltrarci un po’ di più nella dimensione umana e poetica che Sergio ci apre, lasciandoci condurre dal fluire sussurrato delle sue liriche. 

SORGE SUL PALMO
In attraversamento poetico con
Guido Guinizzelli (Bologna, 1230 – Monselice, 1276)

Sorge sul palmo della mano ogni lode,
quando s’apre il pugno
e s’arrende al bello,
come petalo a brina.
Sorge sul palmo della mano ogni passo
e ricordo e melanconia;
svapora verso il cielo
ogni canto del Sublime.
Resta, sul palmo della mano,
un amore senza nome,
una casa senza porta
ed entrano spifferi di resa
lenta, e attenta

FECONDA
Tengo per me solo
– non detta e feconda –
una benedizione alla vita

CANTO LA NENIA
Canto la nenia,
che più consola,
il passo lento
su quel crinale.
E non ha nome,
né più misura,
la mia sete
di silenzio. Blu

Grazia Frisina*

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Sergio Daniele Donati, nato a Milano nel 1966, ove ancora risiede. Ha pubblicato per Il Leggio editore la raccolta poetica Amén (2024); per Divergenze edizioni il romanzo «Tutto tranne l’amore» (2023); per Ensemble edizioni la silloge «Il canto della Moabita» (2021); per Mimesis edizioni (Collana dei Taccuini del Silenzio) il saggio «E mi coprii i volti al soffio del Silenzio» (2018). Sue poesie sono apparse nelle antologie «Pasti caldi giù all’ospizio» (Transeuropa edizioni, 2023 — a cura di Francesco Addeo) e «Riflessi. Rassegna critica alla poesia contemporanea» (Edizioni progetto cultura, 2023 — a cura di Patrizia Baglione) e «Ogni sguardo su Milano» (Chiare voci ed., 2024). Sue poesie edite e inedite e note critiche alla sua opera sono state ospitate da numerose pagine letterarie e quotidiani (Morel – voci dall’isolaSalerno news 24, Emme24.it, Poetarum Silva, LucaniaArt Magazine, Pelagos Letteratura, Bibliovorax, JoiMag e altre). È stato intervistato da Luisa Cozzi nella puntata del 7.12.2023 di Poetando e delle sue poesie si parla tra l’altro su Poètica. Alcuni Poeti Viventi. È autore di numerose pre e postfazioni a raccolte di poesia contemporanea e collabora con numerose riviste letterarie. Fondatore caporedattore e curatore della pagina Le parole di Fedro, ivi propone alcuni dei suoi percorsi nel linguaggio poetico e narrativo, con particolare accento su un approccio, anche laboratoriale, al dialogo poetico. Avvocato milanese si occupa di diritto commerciale e di tutela dei minori. Studioso di meditazione ebraica ed estremo orientale, insegna cultura e meditazione ebraica in associazioni e scuole di formazione e tiene seminari sul valore simbolico dell’alfabeto ebraico.

*Grazia Frisina: Già docente di Lettere nelle scuole superiori. Le sue pubblicazioni: il romanzo A passi incerti (2009); il dramma poetico sulla Shoah Cenere e cielo (2015, messo in scena presso il museo della Deportazione di Prato), e Madri (2018), prefazione di Marinella Perroni, (tre pièces su alcune figure femminili del mondo biblico, dalla pièce Stabat Mater è stato realizzato un corto, girato nel carcere di Pistoia); le raccolte poetiche: Foglie per maestrale (2009), Questa mia bellezza senza legge (2012), Innesti (2016), Pietra su Pietra (2021), Avrei voluto scarnire il vento (2022), Storie senza approdo (2025), con illustrazioni dell’artista Edoardo Salvi. Il testo inedito Fiaba detta o fiaba scritta, a chi va storta a chi va dritta (2023) è stato messo in scena con la regia di Piera Rossi. Presso la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha curato La gioia diventa un dipinto, incontro sulla poesia di Emily Dickinson, tra arte e musica (2014), e il dialogo poetico: Ricordi come raccoglievamo i narcisi, sulla storia d’amore fra Sylvia Plath e Ted Hughes (2015). Presso la casa-museo Guidi di Firenze ha ideato e curato il dialogo poetico Il mare nel vento – Unavoce dentro l’altra, sull’amore fra Elizabeth Barrett e Robert Browning (2017). Ha partecipato al festival di poesia Notturni di versi di Portogruaro (2016 e 2021). È presente, con alcuni suoi componimenti, in varie riviste letterarie nazionali e internazionali.

Beppe Fenoglio: ‘’La sposa bambina’’ da “Tutti i racconti” (Einaudi), di Grazia Frisina

Mezza zingara è Catinina, sempre a giocare in strada con i maschi. 

Rapisce Fenoglio, narratore di brevi racconti, qui distante dal mondo della guerra partigiana, ma sempre dentro alla sua terra, le Langhe di bricchi e boschi, di pedaggere, aie e vendemmie.

Da un lato c’è lei, l’innocenza di una bambina con le sue biglie colorate per giocare a tocco e spanna o da tenere tintinnanti in tasca come bottino prezioso, dall’altro, a fare da contraltare, c’è il mondo contadino, paesano, arcaico, di dura esistenza, pesante di retaggi patriarcali, in cui i bambini, i figli, non hanno posto perché nascono già destinati a essere braccia da lavoro nei campi o a saldare prestiti insolvibili in combinati matrimoni. È quanto accade a Catinina, che, per un debito del padre, si ritrova – oggetto d’indennizzo – ad essere maritata a soli tredici anni senza neppure averne coscienza.

Sua madre si piegò e disse a Catinina: – Neh che sei contenta di sposare il nipote di questo signore?

Catinina scrollò le spalle e torse la testa. Sua madre la rimise in posizione: – Neh che sei contenta, Catinina? Ti faremo una bella veste nuova, se lo sposi.

Un racconto toccante, di struggente e sotterranea bellezza dello scrittore albese, inserito nella raccolta Racconti del parentado e del paese: una storia che oscilla in brevi sequenze, fra la cruda realtà fatta di grettezze, soprusi e imposizioni e l’imprevedibile affiorare di attimi di inibita delicatezza e poesia, appena appena percettibili.

Ecco, quindi Catinina, la protagonista, sposa bambina, che deve unirsi a un giovane, rozzo e brufoloso, ma già sistemato col suo commercio di stracci, che le si rivolge dandole del voi. Ma cos’è quel voi che lui pretende pure da lei stessa? Se non forse l’esito dell’aver respirato e assimilato, fin dalla nascita, l’aria greve di un ambiente in cui dagli uomini si esige fermezza autorità rispetto e severità? 

Perché così ha da essere, da secoli.

Occorre conformarsi, giacché la vita è solo sudore e lavoro: non c’è spazio né tempo per gli intenerimenti e le smancerie, né per carezze o gesti d’intima affettuosità. E lo sposo si adegua, senza consapevolezza; vi si adegua nel rapporto con la sua piccola donna, usandole anche violenza di cui, con un inedito impulso, presto si pente, sfiorandole i lividi lasciati sulla guancia dalle sue botte e piangendo. 

Quando si ritirarono per la notte in una stanza trovata dal parente, allora la riempì di schiaffi la faccia a Catinina. E nient’altro, tanto Catinina non era ancora sviluppata.

Al mattino Catinina aveva per tutto il viso macchie gialle con un’ombra di nero, lo sposo venne a sfiorargliele con le dita e poi scoppiò a piangere. Proprio niente disse o fece Catinina per sollevarlo, gli disse solo che voleva tornare a Murazzano. 

Una debolezza meschina e scandalosa negli occhi di un uomo, per quella cultura dove le lacrime sono una cascaggine, un fatto di femmine.

Eppure Catinina mostra capricciosamente moti di ribellione contro la durezza di quella realtà cui deve infine sottostare perché è la legge, la legge del matrimonio. Una durezza che tuttavia non scalfisce né impoverisce la sua infanzia.

In un’ingenuità tutta bambina, lei, dentro un bozzolo suo proprio, sottilissimo primitivo e irragionevole, sembra custodire un segreto che è quasi un talismano di salvezza, un magico antidoto alle brutture, alla disillusione: la vita è possibile se uno conserva in sé la levità del gioco, se dalle cose semplici e quotidiane si attingono allegrezza, gusto e colore, mentre tutto intorno è un immobile arrancare tra nebbia temperie sfinimento e povertà. È possibile, insomma, un distacco, una salvazione, magari desiderando un vestito rosso, colore assurdo per una cerimonia nuziale, o facendo una scorpacciata di mentini lungo il viaggio di nozze, fatto in concomitanza del commercio dello sposo verso Savona, o anche a snodarsi e a rider di gola insieme ad altri. O avere un poggiolo e un lume a petrolio in una casa che n’è priva. 

Oppure d’un tratto restare incantati, naso all’insù, per una luna fluttuante in cielo, ma così tanto vicina che pare li segua col suo faccione da mostro. E poi… poi quella prima volta del mare, al termine del viaggio nuziale sullo scomodo carretto a traino di una mula. Inattesa rivelazione: finalmente il mare! approdo epifanico. 

Un mare che lei ha sempre cercato di catturare dalle pupille di chi l’ha visto e vissuto. 

E noi adesso la osserviamo là, come se fosse sulla riva di un felice spaesamento, davanti a tutta quell’incredibile quantità d’acqua, nella sua esilità di bimba con gli occhi annegati nell’azzurro, fulminata dalla vastità, quasi spaventata, che dalla sua immaginifica testolina non sa altro che esclamare, come una tiritera, Che bestione! Che bestione!  Una liberazione!

Ora se lo stava godendo da due passi il mare, ma lo sposo le calò una mano sulla spalla e si fece accompagnare a stallare la bestia. Ma poi le fece vedere un po’ di porto e poi prendere un caffellatte con le paste di meliga. Dopodiché andarono a trovare un parente di lui.

Questo parente stava dalla parte di Savona verso il monte e a Catinina rincresceva il sangue del cuore distanziarsi dal mare fino a non avercene nemmeno più una goccia sotto gli occhi.

Fremito d’inosservata vita, creatura pura semplice autentica spontanea – che un po’ mi ricorda l’Eugenia di Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese – è Catinina, che dà anima alle cose più grandi di lei, che nel fondo di sé, inconsciamente, trattiene la meraviglia, una leggerezza infantile che non cessa di fermentare nel sangue, anche quando, divenuta giovanissima madre, dimentica di cunare il suo piccolo, presa com’è dalla foga contenta del gioco a tocco e spanna con i maschi, in strada.

Non cela la sua piemontesità, Fenoglio, trascinandoci in questa succinta storia, con uno stile singolarissimo, già incontrato nei suoi romanzi più noti, con un linguaggio di naturalezza, creativo e gergale insieme, così aderente alla realtà e al parlato. Mediante una lineare e intensa fabula, è abile nel rendere vive, concrete le scene che via via narra, senza mai indulgere al giudizio o al pietismo, ma tacitamente capace di avvicinare il cuore del lettore alla sostanza di una umanità che fatica e mostra un volto di pietra, sotto il quale si può intuire talora un soffocato fiorire di sensibilità, un cedere a una grazia imponderabile.

Un periodare essenziale, una scrittura diretta, senza fronzoli, abbarbicata al suolo – un po’ com’è la gente delle sue amate Langhe. 

Mentre si legge non ci si accorge come tutto fluisca, in una scabra musicalità, perfetto e immediato, che perfino nel non detto, nelle ellissi è percepibile tutta una galassia di significati di valori, vicende e conflittualità tanto da non avvedersi che anche tu sei entrato là dentro, in quella storia, che stai dietro ai passi di quei personaggi, ne senti le anime sofferte, le voci di rabbia e maledizione, il brusio di pena o di gioie passeggere, guardi il mondo coi loro occhi. 

Qui è manifesta la sua statura come autore anche di racconti.

E affascina Fenoglio con quei finali di una semplicità che coglie sempre alla sprovvista – dentro cui pare spesso palpitare un destino d’attesa tragedia – quasiché dispiace aver concluso la lettura. 

Inutile chiedersi che ne sarà di quella bambina e di quel pustoloso ragazzo, facile invece indovinare quale futuro li attenda, un futuro che non sarà altro che il perpetrare il passato di miseria e di fatica. 

A me non interessa sapere; non voglio vedere Catinina sottomessa e rassegnata nel suo domani di donna sfatta dalle tante gravidanze e dal lavoro; in una scena precisa, in un frammento di vita, lo scrittore l’ha fermata, là voglio continuare a immaginarla, affrancata da ogni legame, in quell’istante di culmine di spensierato gioco, felice all’aria aperta, con le sue biglie di vetro colorato: un fermo immagine, mezza zingara, in una infinita libertà.

Per sempre bambina!

Grazia Frisina

Grazia Frisina: Già docente di Lettere nelle scuole superiori. Le sue pubblicazioni: il romanzo A passi incerti (2009); il dramma poetico sulla Shoah Cenere e cielo (2015, messo in scena presso il museo della Deportazione di Prato), e Madri (2018), prefazione di Marinella Perroni, (tre pièces su alcune figure femminili del mondo biblico, dalla pièce Stabat Mater è stato realizzato un corto, girato nel carcere di Pistoia); le raccolte poetiche: Foglie per maestrale (2009), Questa mia bellezza senza legge (2012), Innesti (2016), Pietra su Pietra (2021), Avrei voluto scarnire il vento (2022), Storie senza approdo (2025), con illustrazioni dell’artista Edoardo Salvi. Il testo inedito Fiaba detta o fiaba scritta, a chi va storta a chi va dritta (2023) è stato messo in scena con la regia di Piera Rossi. Presso la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha curato La gioia diventa un dipinto, incontro sulla poesia di Emily Dickinson, tra arte e musica (2014), e il dialogo poetico: Ricordi come raccoglievamo i narcisi, sulla storia d’amore fra Sylvia Plath e Ted Hughes (2015). Presso la casa-museo Guidi di Firenze ha ideato e curato il dialogo poetico Il mare nel vento – Unavoce dentro l’altra, sull’amore fra Elizabeth Barrett e Robert Browning (2017). Ha partecipato al festival di poesia Notturni di versi di Portogruaro (2016 e 2021). È presente, con alcuni suoi componimenti, in varie riviste letterarie nazionali e internazionali.