Didier Eribon: “Ritorno a Reims” (Bompiani, trad. Annalisa Romani), di Gigi Agnano

Nei romanzi di Édouard Louis, di cui il Randagio si è occupato recentemente (leggi l’articolo), viene più volte citato come mentore e fonte d’ispirazione il sociologo Didier Eribon, in particolare per la sua opera più famosa che è “Ritorno a Reims”, uscita in Francia nel 2009 e pubblicata in Italia da Bompiani con la traduzione di Annalisa Romani. 

In un lavoro che è per metà autobiografia e per metà saggio sociologico, Eribon racconta il ritorno nella città natale a seguito della morte del padre. È l’occasione per rituffarsi con la memoria nell’ambiente d’origine da cui si era separato trent’anni prima. Sfogliando con la madre l’album fotografico, ricorda l’infanzia e l’adolescenza nel quartiere operaio della cittadina di provincia, i litigi incessanti in famiglia, l’odio per il padre, gli insulti e la vergogna per la propria omosessualità e il distacco definitivo dai parenti, da Reims e dalla sua classe sociale.

Per affermare una nuova identità, Eribon si trasferisce a Parigi, dove conosce Bourdieu e Foucault, intervista Claude Lévi-Strauss, scrive articoli per riviste e giornali, saggi tra cui “Riflessioni sulla questione gay”, intraprende la carriera accademica e comincia a godere di una discreta notorietà. Sono gli anni in cui prevale una forma di vergogna per l’umiltà delle sue origini, come fosse qualcosa da nascondere nel nuovo contesto intellettuale e borghese nel quale è ormai introdotto. Vergogna mista ad un’istintiva volontà di separarsi del tutto da un ambiente omofobo, limitato e violento e di esistere in un altro mondo, diverso da quello cui il destino sociale l’avrebbe condannato. Un mondo in cui è possibile far emergere la propria soggettività gay e affermare il gusto per l’arte e la letteratura. 

E’ un ritorno dell’autore a se stesso, una riflessione per definirsi, per ripercorrere le traiettorie e le contraddizioni del proprio percorso, le scelte spesso dolorose, gli sforzi per inventare e ricreare un sé nuovo e migliore. Siamo lontani da qualsiasi autocelebrazione o compiacimento, non c’è alcuna esibizione narcisistica – come accade in tanta autofiction così in voga negli ultimi anni con risultati spesso discutibili -, ma piuttosto la realizzazione di un’opera stimolante, fortemente “rivolta agli altri”, nata dall’esigenza impellente di mostrare che altre vite sono realizzabili e che ci possono essere prospettive alternative a quelle che una società opprimente tende ad importi (“la terribile ingiustizia di una distribuzione ineguale di opportunità e di possibilità”). 

E il ritorno alle origini, allo stesso tempo, poiché il processo di emancipazione aveva comportato un taglio netto col passato (“per inventarmi mi occorreva, prima di tutto, dissociarmi”), cicatrizza le ferite e produce una ricomposizione, una sintesi e ha un effetto terapeutico. La vergogna può trasformarsi in orgoglio:

“… questo viaggio, o piuttosto questo processo di ritorno, mi ha permesso di ritrovare questa “regione di me stesso”, come avrebbe detto Genet, da cui avevo così tanto cercato di evadere. Uno spazio sociale che avevo allontanato e uno spazio mentale in opposizione al quale mi ero ricostruito, ma che continuava ugualmente a costituire una parte essenziale di me. Così sono andato a trovare mia madre ed è stato l’inizio di una riconciliazione con lei. O, più esattamente, di una riconciliazione con me stesso, con tutta una parte di me che avevo rifiutato, respinto, rinnegato.”

Ma “Ritorno a Reims” non è solo un lavoro di autoanalisi, la testimonianza di un figlio di operai in un determinato contesto sociale e culturale. L’esperienza personale è il pretesto per proporre un’analisi più ampia sull’evoluzione della società e della politica francesi. 

Uno dei pregi del libro sta proprio in quest’intrecciarsi di storie intime e commoventi con stimolanti analisi teoriche. Uno degli obiettivi di Eribon, infatti, è quello di riportare alla ribalta una riflessione sulla classe operaia, di cui più nulla si dice nel discorso pubblico e politico, vittima di molteplici forme di violenza, tradita dal Partito Comunista e sempre più attratta dall’estrema destra. 

Egli stesso si rende conto, nel dialogo con la madre, di questa disattenzione anche nel proprio lavoro, di aver scritto molto fino a quel momento delle questioni relative all’omosessualità (del “verdetto sessuale”) e per niente dei rapporti di classe (della “vergogna sociale”); di aver cancellato ogni riferimento alle classi popolari, agli stili di vita e di pensiero della classe operaia.

E in quegli anni, i genitori, da comunisti convinti sono diventati elettori del Fronte Nazionale; i fratelli, che non hanno conosciuto alcun successo, lo sono sempre stati dal raggiungimento della maggiore età. Quella che un tempo era un’affiliazione “naturale” delle classi popolari al Partito Comunista si è tramutata negli anni ’80 in un progressivo spostamento verso l’estrema destra, a partire, sostiene Eribon, dalle elezioni del 1981 che vedono l’affermazione dei Socialisti e la partecipazione al governo del PCF. A suo parere, l’abbandono delle politiche di classe da parte dei partiti di sinistra a favore di politiche neoliberali e la disattenzione per le questioni economiche e sociali che colpiscono i lavoratori (disoccupazione, bassi salari, condizioni di lavoro precarie, minori tutele, disuguaglianze crescenti) ne hanno determinato la progressiva disaffezione. L’abbandono delle classi popolari da parte della sinistra ha avuto l’effetto di lasciare uno spazio vacante che il Fronte Nazionale è riuscito ad occupare con un inganno, ovvero valorizzando il francese (contro lo straniero) piuttosto che l’operaio (contro la classe dominante capitalista). 

L’intreccio di introspezione autobiografica e di critica sociale, di personale e di politico, non può non rimandare ad un’altra voce fondamentale della letteratura contemporanea francese, sia per tratti biografici, che per tematiche e stile, ovvero ad Annie Ernaux, con la quale Eribon condivide in primo luogo le origini operaie. Entrambi hanno scritto ampiamente della loro formazione, degli sforzi per migliorare la propria condizione sociale e, nel contempo, dello spaesamento e dei sensi di colpa per il tradimento delle proprie radici. Sia Eribon che Ernaux (in particolare ne “La vergogna”, “Il posto”, “Gli anni”) hanno analizzato il contesto storico e sociale a partire dalla propria esperienza; ambedue affrontano riflessioni teoriche e sociologiche con uno stile sobrio, essenziale, rigoroso, rendendo in tal modo i propri ragionamenti alla portata di ogni tipo di lettore.

Didier Eribon, Annie Ernaux e Édouard Louis

Un altro scrittore cui Eribon dichiara in “Ritorno a Reims” di far riferimento è James Baldwin (1924-1987), che, da nero e omosessuale, ha raccontato il razzismo e l’omofobia della società americana. Uno dei numerosi punti in comune è l’odio nei confronti del padre, incarnazione di un mondo da cui entrambi hanno preso le distanze, spiegato non tanto dal punto di vista psicologico, bensì storico e sociale. Eribon cita Baldwin più volte per rappresentare la similitudine delle loro esperienze, in questo caso a proposito della reazione al lutto:

Avevo detto a mia madre che non lo volevo vedere perché lo odiavo. Ma questo non era vero. Era solo che lo avevo odiato. Non volevo vederlo come un relitto: non era un relitto quello che avevo odiato.”

O ancora:

Credo che una delle ragioni per cui le persone rimangono aggrappate così tenacemente ai loro odi sia perché intuiscono che, una volta sparito l’odio, saranno costrette ad affrontare il dolore.

Ma “Ritorno a Reims” è un’opera estremamente ricca e complessa, che riprende – rinnovandole e attualizzandole – molte tematiche della letteratura del secolo scorso (l’identità sessuale, le dinamiche sociali, la memoria, la critica alle classi dominanti) e che ha significativi legami con la tradizione naturalista e realista dell’Ottocento (la povertà, l’ingiustizia sociale). D’altro lato, essendo anche un saggio sociologico e politico, il libro dialoga col pensiero critico in particolare di Sartre e Bourdieu.

E il lettore non potrà non rallegrarsi del valore complessivo di un libro toccante nei suoi capitoli più “intimi” e letterari alternati a riflessioni politiche e sociologiche stimolanti e profonde.

Di Didier Eribon L’Orma Editore ha recentemente pubblicato “Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo” con la traduzione sempre di Annalisa Romani.

Gigi Agnano

Un assaggio di “Mamma” di Valeria Parrella, racconto tratto da “Piccoli miracoli e altri tradimenti” (Feltrinelli)

Lo scandalo e lo sconcerto sui Social, si sa, durano un attimo come la bua dei bambini, anche quando le notizie meriterebbero un attimo di riflessione in più.

Alle Olimpiadi di Parigi martedì la squadra femminile italiana di spada vince l’oro. Repubblica nella versione online titola: “Italia oro nella spada a squadre. Francesi battute in casa. Le 4 regine: l’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la mamma“.

Poco dopo, avendo probabilmente ricevuto qualche lamentela, per togliersi dall’imbarazzo, Repubblica cambia il titolo. Le 4 regine diventano: “la musicista, la francese, la psicologa e la veterana“.

Una gentile signora commenta: “Ora mi aspetto di leggere: francesi battuti dall’amico di Fazio, il tedesco, il commercialista e il papà”. Loredana Lipperini, la meravigliosa voce in pensione di Radio 3, pensa “a cosa avrebbe detto Michela“, riferendosi ovviamente alla Murgia.

Noi del Randagio, che non pensavamo di dover parlare di Olimpiadi, ci siamo ricordati di un racconto a nostro parere prezioso e per certi versi premonitore di Valeria Parrella, che si intitola “Mamma“, tratto dal suo ultimo libro “Piccoli miracoli e altri tradimenti” (Feltrinelli). E abbiamo pensato di darvene un assaggio, consigliandovi di leggere il racconto ed il libro nella loro interezza.

p.s. Le “4 regine” si chiamano: Rossella Fiamingo, Alberta Santuccio, Giulia Rizzi e Mara Navarria.

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“Era successo tutto nello stesso giorno, il giorno in cui mio marito, l’artista, aveva preparato dei segnaposti per il pranzo su cui aveva scritto il nome di tutti, tranne il mio.

O meglio: il mio segnaposto c’era, ma lui ci aveva scritto “Mamma”. Ora, si capisce che se lo scrive un figlio, d’accordo, ma se lo scrive un marito. Con l’orlo svolazzante della emme. Con una foglia d’agave che la contornava, acquerellata.

Al suo solito posto, a capotavola, c’era scritto “Raffaello”.

“Ci vuoi fare pure un ex libris?”

“Perché non ti piace?”

“Perché non c’è il mio nome.”

“Ma amore.”

“Ma no.”

“È un pranzo per nostro figlio, tu sei la mamma.”

Questo era, ma in fondo cos’altro aspettarsi? Se solo avessi mai avuto la certezza che andava con altre donne, se fosse stato evidente, voglio dire, io forse il cavalletto con tutte le tempere sul cranio glielo avrei spaccato, ma ’sta cosa non era mai stata appurata. Perché io non guardo il cellulare, non apro mail, forse non me ne importa davvero se va con altre. Capivo che andava con altre perché cambiava il suo modo di fare sesso. Cambiava posizione, tecnica, mugolio, la manata sul culo, cambiava qualcosa. “Mh,” pensavo io, “’sta roba gliel’ha spiegata qualcuno.” “Mh,” pensavo io, “’sta posizione viene da un altro letto” e così via per mesi e anni.

Che poi quelli passano senza che tu stia lì a contarli, e il cineforum al martedì con le amiche, e lui a esporre mostre nelle chiese – era un artista che esponeva sempre nelle chiese, aveva una gallerista che gli faceva da agente ma alla fine i suoi dipinti stavano sempre nelle chiese –, a stare via per tre settimane, e io sempre il cineforum al martedì con le amiche, e niente: aveva scritto mamma.”

Valeria Parrella: “Mamma”, tratto da “Piccoli miracoli e altri tradimenti” (Feltrinelli)

La Commedia umana di Édouard Louis in cinque romanzi autobiografici, di Gigi Agnano

In un’estate torrida, tra le classifiche del New York Times e gli scrittori griffati dello Strega, tra le lamentazioni di Mari e le riflessioni incontrovertibili di La Porta, i premi Bancarella e le bancarelle della miriade di festival letterari, del giallo, noir, ecc… vanto di ogni pro loco italica, io ho scelto di trascorrere il mese di luglio con Édouard Louis. E penso di aver fatto bene perché è giovane, è talentuoso e sfoggia belle t-shirt; poi è meno antipatico di Houellebecq, meno narcisista di Carrère, più sorridente della Ernaux e meno logorroico di Karl Ove Knausgaard.

Édouard Louis – Eddy Bellegueule è il suo nome di battesimo – ha oggi poco più di trent’anni ed è già al suo quinto libro autobiografico. Dieci anni fa la sua notorietà esplode in Francia – e a livello internazionale – con la pubblicazione del primo romanzo basato sulla sua vita che s’intitola “Farla finita con Eddy Bellegueule”, un successo da centinaia di migliaia di copie vendute, una trentina di traduzioni, adattamenti teatrali e l’individuazione da parte della critica di un nuovo grande talento sulla scena letteraria mondiale.

Nato nel ‘92 in un minuscolo villaggio nel Nord della Francia da una famiglia poverissima – padre operaio spesso disoccupato infine invalido e madre costretta a lavori saltuari -, Édouard Louis scrive fondamentalmente sempre la stessa storia: la sua. L’ambizione dell’autore è di descrivere la società che lo circonda, in una specie di balzachiana Commedia umana che prende avvio dal proprio corpo, dalla propria omosessualità, dal corpo delle persone che gli sono vicine. 

“L’autobiografia ti confronta con il reale, molto più della finzione, quello che succede è vero, presente, devi fare qualcosa. Impedisce di distogliere lo sguardo, ti impedisce di fuggire, ti chiede: cosa fai per rendere questo mondo meno brutto e meno ingiusto?”

I suoi romanzi sono come gli elementi di una pala d’altare, dove ogni tavola raffigura una fase della sua vita. Libro dopo libro torna più volte sugli stessi avvenimenti, riformula, modifica, corregge, approfondisce, infine dipinge. C’è sempre un corpo offeso -“l’insulto” lo chiama lui – e il tentativo di capire un mondo a volte incomprensibile attraverso le proprie sofferenze e quelle dei suoi cari. 

 Nel romanzo d’esordio Louis racconta le sue esperienze di bambino sensibile e di adolescente effemminato, esplorando le dinamiche familiari e sociali che determinano emarginazione e violenza, bullismo e omofobia in una comunità rurale e operaia povera, profondamente intollerante e maschilista. Il linguaggio è crudo, chiaro, diretto. Eddy affronta e uccide metaforicamente i genitori e anagraficamente se stesso cambiando nome. Ha fretta di cambiare anche tutto il resto, il viso, i denti, il modo di muoversi e la postura, di reinventare il modo di parlare e la cadenza, di far sparire tutto quanto possa ricordare la sua infanzia.

“Se durante le conversazioni con gli altri perdevo la concentrazione e nelle mie parole s’insinuava una sonorità tipica del Nord, mi disprezzavo, m’insultavo da solo, in silenzio. Mi davo del contadino, del campagnolo, m’insultavo come avevo fatto da bambino quando qualcuno mi diceva frocio e dopo mi ripetevo l’ingiuria per ore, come se l’altro fosse riuscito a inocularmi l’insulto, come se chi insulta avesse non solo il potere di insultare ma anche quello di obbligare chi è insultato a ripetersi l’offesa, in eterno, come se la violenza dell’insulto risiedesse in una complicità forzata; mi odiavo ma non mollavo mai, continuavo a esercitarmi, tutti i giorni, in tutte le occasioni, nella doccia, nei mezzi pubblici, devo far sparire l’accento, devo far sparire l’accento”

Nel secondo lavoro, “Storia della violenza” del 2016, narra, alternando prima e terza persona, un episodio realmente accadutogli a Parigi, dove l’incontro con un uomo di origini algerine si trasforma in un’aggressione e in uno stupro. È l’occasione per riflettere sui traumi della violenza, ma anche per parlare più in generale di argomenti come l’emigrazione, il razzismo e la miseria che sono l’humus in cui la società coltiva la violenza stessa.

Del 2018  è “Chi ha ucciso mio padre”, dove Louis torna sulla figura paterna, vittima di un grave incidente sul lavoro che gli ha spezzato la schiena, per evidenziare con una prosa incisiva e provocatoria l’ingiustizia delle politiche economiche e sociali operate dai vari governi Chirac, Sarkozy e Hollande, insensibili alle sofferenze della classe operaia. In particolare, alcune riforme hanno avuto una conseguenza diretta sulla vita del padre, costretto al ritorno al lavoro come spazzino nonostante l’ invalidità. Il testo, che ha la forma di una lettera, è anche un tentativo di riconciliazione dopo le tante incomprensioni di un dialogo difficile genitore-figlio.

Nel lavoro successivo del 2021 dal titolo “Lotte e metamorfosi di una donna” è centrale la figura della madre, ovvero il percorso di una vittima della violenza di classe e patriarcale dalla povertà e dall’esclusione sociale fino alla liberazione e all’ emancipazione; un archetipo per raccontare il ruolo delle donne e degli uomini nelle comunità più bisognose. Se il precedente “Chi ha ucciso mio padre” ha in molte parti la forma del saggio, della riflessione sociologica (Louis è un ammiratore di Pierre Bourdieu e deve moltissimo a Didier Eribon), nel racconto della madre la scrittura torna ad essere, come nei primi due lavori,  poetica e decisamente più letteraria.

In un’intervista dice: “affilo ogni mia frase come si affila la lama di un coltello”. C’è l’urgenza politica di dare un taglio all’ingiustizia sociale, alle disuguaglianze, alla violenza e ad un’identità maschile che ancora oggi si costruisce attraverso l’avversione al femminile e l’odio per gli omosessuali. La letteratura è l’arma di cui dispone per resistere, per ribellarsi, come direbbe la Ernaux, “per vendicare la sua gente”.

Infine, “Metodo per diventare un altro”, quinto ed ultimo romanzo autobiografico, il più personale e forse il più lucido, che si apre con:

“… forse chiunque direbbe che ho una vita davanti, che niente è cominciato ancora, eppure vivo già da tanto tempo con l’impressione d’aver vissuto troppo: immagino sia per questo che il bisogno di scrivere è così profondo, come un modo per fissare il passato nella scrittura e così, suppongo, per disfarmene; oppure può darsi che il passato sia talmente radicato in me adesso da imporsi nel discorso, in ogni momento, in ogni occasione, ha vinto lui e pensando di disfarmene non faccio che rafforzare la sua esistenza e il suo dominio nella mia vita, forse sono in trappola – non lo so.”

Il testo racconta ancora una volta la sua vita nella massima estensione, dall’infanzia miserabile al grande successo editoriale, dalla Piccardia agli appartamenti lussuosi di Parigi, dagli anni della sua prima fuga ad Amiens per frequentare per primo in famiglia il liceo agli incontri determinanti per l’esito salvifico del suo percorso.

Ancora una volta per svariate pagine si rivolge direttamente al padre, dimostrando di possedere una straordinaria capacità di raccontare la stessa storia – quella della sua vita – da una serie infinita di nuove angolazioni; segue una parte destinata a Elena, l’amica dell’alta borghesia a cui Édouard deve tutto, dall’imparare a stare a tavola alle prime letture e alla rivelazione della cultura. Elena è quella che gli fa scoprire che c’è un mondo in cui si cena ascoltando Mozart o Brahms – e non davanti alla TV -, un mondo che va ai cinema d’essai e alle mostre d’arte, dove si vive circondati da libri e quadri e dove i genitori discutono con i figli di progetti e problemi. Con Elena si stabilisce un rapporto con tutti i connotati (escluso il sesso) della bella storia d’amore, ma questo non impedisce che Édouard la metta da parte per la sua ambizione. Elena è la persona che più di tutte fa soffrire e tradisce via via che si realizza la sua ascesa sociale. Lo scrittore si difende e si giustifica, ma i suoi sensi di colpa si risolvono in un inciso tra parentesi: “[Non giudicarmi]”.

Perché Édouard Louis è concentrato solo su di sé, si intervista allo specchio, è monomaniacale ed è ossessionato dal cambiamento: reinventarsi, cambiare se stesso, migliorarsi, sul modello di amici, mentori e amanti che lo aiutano a forgiare una nuova identità. Quindi salvarsi e vendicarsi. 

“non volevo più solo somigliare agli altri, ma volevo andare più lontano di loro. Volevo fargli vedere che potevo fare ciò che nessuno di loro avrebbe saputo fare, portare a termine imprese e riuscire in tutto quello che loro non avrebbero mai creduto possibile. Ne parlavo con Elena e lei mi incoraggiava: Dimostragli che sei migliore di loro.

Ecco cos’è accaduto: il desiderio di vendicarmi dell’infanzia, lo stesso che mi aveva portato ad Amiens, era mutato in desiderio di rivalsa – non più solo contro l’infanzia ma contro il mondo intero.”

Come nel suo primo romanzo, torna sul cambio del nome, dell’aspetto, dell’ambiente e, in definitiva, della classe.  Poco importa se questa ascesa verso ideali borghesi comporti qualche tradimento e che si lasci qualche amico lungo il percorso. Potrebbe risultare irritante – e lo è  – ma Louis può essere anche toccante quando constata con amarezza: “La storia della mia vita è una successione di amicizie spezzate”.

Odissea e Metamorfosi, Commedia Umana e My Fair Lady, nella parte conclusiva del suo ultimo libro – bellissima, poetica dopo tanta ferocia -, raggiunge un livello di tragica lucidità che gli consente di comprendere – finalmente – in una nota rassegnata che tutte quelle tappe per “diventare qualcuno”, quelle mutazioni per eludere la sua origine proletaria, quei tradimenti, quella fame di successo, quella combattività nel volersi conformare a un mondo non suo, non sono altro che il segno di uno sradicamento doloroso e di un’eterna inquietudine che nascondono l’impossibilità stessa di essere felici.

Un finale tenero, lirico, emozionante ed immensamente malinconico: dopo tanto fuggire, in queste pagine Louis confessa il desiderio di tornare indietro per ritrovare casa, per rivivere in maniera accettabile quello che in passato non era vivibile. Qui Édouard, che in altre parti era stato un po’ ingenuo e ripetitivo, è insuperabile, dal punto di vista letterario e umano.

Per completezza aggiungo che in libreria potete trovare un libretto di meno di cento pagine che s’intitola “Dialogo sull’arte e sulla politica”, dove lo scrittore trentenne francese incontra l’ottantenne regista britannico Ken Loach, fonte d’ispirazione per i personaggi dei suoi romanzi. 

I libri di Édouard Louis in Italia sono pubblicati da Bompiani (Farla finita con Eddy Bellegueule, Storia della violenza, Chi ha ucciso mio padre) e da La nave di Teseo (Lotte e metamorfosi di una donna, Metodo per diventare un altro e Dialogo sull’arte e sulla politica).

Gigi Agnano

Lisetta Carmi: la fotografa che sentiva l’essenza del mondo, di Gigi Agnano

Il 13 luglio è stata inaugurata a Cisternino la mostra permanente dedicata a Lisetta Carmi, che nella piccola comunità della Valle d’Itria in provincia di Brindisi ha vissuto per 43 dei 98 anni della sua lunga e intensa vita.

Genovese, ebrea in fuga dall’Italia a seguito della promulgazione delle leggi razziali fasciste, Lisetta Carmi era destinata ad una carriera di pianista e solo nel 1960, abbandonata l’attività concertistica, cominciò a dedicarsi alla fotografia.

I suoi reportage di forte impegno sociale, dedicati, tra gli altri, ai camalli del porto di Genova, ai travestiti dei carruggi, ai profughi palestinesi, ai poveri e ai paria indiani, ai bambini afghani, alla guerra civile irlandese ebbero negli anni Sessanta e Settanta grande risonanza e la portarono alla ribalta internazionale.

Nel ’79 la Carmi arriva a Cisternino e vi resterà fino al giorno della sua morte avvenuta il 5 luglio del 2022. E proprio al Comune del piccolo centro agricolo e turistico del brindisino Lisetta ha voluto lasciare le 31 opere che compongono la mostra ideata da NÙEVÙ Studio e allestita al Palazzo Lagravinese.

Hilary Tiscione: Setole (Polidoro), di Gigi Agnano

In una meravigliosa villa nelle Isole Hawaii di proprietà di un batterista di fama internazionale, in un agosto “ustionato” dove ogni giorno è  un capitolo come nel diario di un’adolescente, si svolge “Setole”, il secondo romanzo di Hilary Tiscione, edito da Polidoro nella collana Interzona diretta da Orazio Labbate.

Un romanzo duro, claustrofobico, doloroso, con una forza sconvolgente fin dalle prime pagine; un libro che parla del vuoto, dell’assenza e dell’attesa. Che esplora le vite di personaggi afflitti e disastrati che si muovono tutti – a parte che in un paio di sporadiche e più o meno brevi feste in spiaggia – tra le stanze, la piscina, il giardino, il bar, il viale e la dependance della lussuosa casa in collina da cui si vede in lontananza l’Oceano. 

Potrebbe essere un luogo incantevole, foriero di serenità e rilassatezza, un presagio di bella vita, ma tutt’intorno alla villa anche la natura è sofferente – in questo l’autrice è quasi ossessivamente “leopardiana” -, come a rispecchiare il disagio esistenziale dei suoi abitanti: si sentono gli animali “litigare”, i gatti azzuffarsi, i cani “hanno pochi denti e disfano il cibo premendo la lingua contro il palato”, gli insetti e le rane vanno a morire in piscina, i pipistrelli in cerca del buio sono “come schizzati mossi da qualche rabbia”, le falene “volteggiano cadendo sull’erba come foglie sconvolte in fin di vita”.

Protagonista e voce narrante per gran parte del romanzo è la diciassettenne Lena alle prese con le tortuosità dell’adolescenza, una via di mezzo tra Lolita e la Liv Tyler di “Io ballo da sola”. Dice:

“Sento nello stomaco una specie di ventosa che crea una depressione sotto l’esofago, ho fame, ma non c’è nulla che mangerei. Penso di tirarmi su dal letto e resto ferma come un avanzo di torta indurito. L’aria calda mi prende la fronte come avessi l’influenza.  Mi ficca nella mente una sensazione di minaccia.”

Mira, la madre di Lena, ex modella quarantacinquenne, sta generalmente nella sua stanza. Dorme o si crogiola nella sua depressione, nella “galleria del dispiacere”. Di tanto in tanto si affaccia alla finestra “regalando miseria all’aria” e, nelle rare volte in cui compare, crea imbarazzo alla ragazza, fino a determinare l’episodio centrale della trama che preferiamo sia il lettore a scoprire. Basti dire che alla voglia di vita e al desiderio di “normalità” dell’adolescente fa da contraltare il disordine morale della madre che come un dispenser naturale di disagio farà irruzione nella storia e nella vita della figlia con la sua melodrammatica inquietudine.

Va detto che entrambe le donne stanno vivendo con sofferenza, rimorsi e sensi di colpa l’abbandono, più precisamente la scomparsa di Al, padre e marito, una presenza invisibile che tutti aspettano consapevoli dell’inutilità dell’attesa.

È una crisi di gelosia di Mira contro l’invisibile marito che dà il titolo al libro ed è lo snodo delle vicende più drammatiche del racconto: le setole dello spazzolino di Al  le generano una tale rabbia mista a disgusto da farle scagliare il contenitore d’argento contro lo specchio del bagno che va in frantumi ferendola.

Un altro personaggio chiave del romanzo è Cino dallo “sguardo velato”, il factotum della villa, di una saggezza che viene dal suo vissuto tanto misterioso quanto doloroso. Tutti lo trattano con deferenza perché è il solo “in famiglia” ad avere un comportamento comprensivo e affettuoso, l’unico che tenta di favorire un contesto amorevole. L’unico forse ad avere una qualche autorevolezza.

“Da quando lo conosco porta il pizzo, anni fa era corvino, adesso è rigato da una specie di madreperla che gli calza con euforia quella sua faccia scaltra. I capelli che si dividono nel centro gli fanno due onde sommesse ai lati delle tempie. Seguono l’arco cedevole del volto che guarda distante in luoghi appartati. Ha le labbra sedute in un’espressione che ha dimestichezza con la vita. Sembrano beffarsi di noi tutti con perenne educazione.”

Infine, come in ogni villa lussuosa un po’ fabbrica di San Pietro, c’è un cantiere e degli operai. E tra gli operai c’è il giovane ed avvenente Rocco, che presto diventerà il fidanzato di Lena, quello col quale consumerà la sua prima volta nel ventre cavo di un grande albero.

La Tiscione fa indiscutibilmente un ottimo lavoro stilistico nell’enfatizzare la sofferenza personale dei protagonisti, nel mettere su carta le loro vite interiori, le fragilità e le solitudini, anche se si tratta, d’altronde come succede nella realtà, di rebus irrisolvibili; nel disegnare le atmosfere di tensione e di attesa di una sciagura imminente, di  una “calamità alle porte”; nel descrivere, grazie a una lingua e a un ritmo molto interessanti, rumori e odori, restituendo al lettore un’esperienza sensoriale a volte anche disturbante, in un romanzo cui è difficile non attribuire, anche per la qualità dei dialoghi, una grande forza cinematografica. Nella quarta di copertina si parla correttamente de “Il giardino delle vergini suicide” di Sofia Coppola (tratto dal romanzo di Jeffrey Eugenides), ma a me ha fatto anche pensare – quasi fosse una naturale conseguenza della lettura – alla famosa scena finale di Zabriskie Point in cui Daria immagina che la villa esploda a ralenti con tutte le sue suppellettili nella luce del tramonto.

Gigi Agnano