Gianni Rodari: un manuale per inventare favole per genitori e nonni di scarsa fantasia, di Gigi Agnano

Oggi, 23 ottobre, Gianni Rodari avrebbe compiuto 104 anni. Quel giorno non c’ero. A dire il vero, non c’era neanche mio padre, che sarebbe nato quasi tre anni dopo e che mi avrebbe suggerito di leggerlo. Però ho l’età per ricordarmi di quando Rodari è morto, nella primavera del 1980, e del titolo del Paese Sera: “Abbiamo perso l’amico poeta”. L’articolo era firmato da Mario Lodi, che con Rodari si scambiava infiniti attestati di stima. Anche Lodi era maestro elementare e scrittore. In quella commemorazione, scriveva: “Penso soprattutto ai bambini di scuola che perdono un poeta e uno scrittore che li aveva capiti nel profondo, perché aveva conservato intatta, in un mondo che queste cose distrugge, la fantasia propria dei bambini.

Sempre su Paese Sera, per il quale Rodari scrisse dal ’58 al ’68, nel 1962 uscì in due puntate il “Manuale per inventare favole”, indirizzato a nonni e genitori “di scarsa fantasia”.

Il primo dei metodi suggeriti era quello del “duello di parole”, che sarebbe poi diventato il celebre “binomio fantastico”: “si gettino due parole l’una contro l’altra e si osservino le varie combinazioni”.

Il secondo metodo era quello del “sasso nello stagno”, che consiste nel lanciare una parola e osservare le reazioni, come un sasso che crea cerchi nell’immobilità solo apparente della fantasia.

Il terzo metodo era l’“insalata di favole”, che “consiste nel combinare i personaggi di favole diverse per crearne di nuove, dove l’intreccio nasce dallo scontro delle caratteristiche dei vari personaggi”.

Infine, c’era il metodo del “cosa succederebbe se…”, una tecnica che apre la strada all’immaginazione e alla narrazione creativa.

Ad esempio, Rodari scriveva:

Che cosa succederebbe se la Sicilia cominciasse a navigare? Una mattina, gli abitanti di Messina, al risveglio, si accorgono che Reggio Calabria, dall’altra parte dello Stretto, si è allontanata di parecchie miglia. La Sicilia ha salpato le ancore, ha spiegato le vele al vento e naviga in direzione di Gibilterra. Allarme geografico-internazionale! Episodio marginale di un ‘ferry boat’ che insegue la Sicilia attraverso il Mediterraneo. Passerà da Gibilterra? Non passerà? E così via.

E ancora:

“Che cosa succederebbe se la Sicilia volasse? O se perdesse tutti i bottoni?” Questo ultimo spunto nasce dall’accostamento casuale tra il soggetto e una domanda presa da un libro. Apparentemente incoerente, ma una facile riduzione al concreto permette di raccontare la storia del giorno in cui, per un magico segnale, tutti i bottoni di tutti i vestiti in Sicilia abbandonarono il loro posto di lavoro. Altri esempi? Che cosa succederebbe se un coccodrillo bussasse alla vostra porta chiedendovi un po’ di rosmarino? O se il vostro ascensore precipitasse al centro della Terra o schizzasse fin sulla Luna? E così via.”

In quei due articoli del ’62 ci sono molti temi poi sviluppati nella Grammatica della fantasia, pubblicata nel ’73 da Einaudi, l’unico saggio di Rodari tra le sue molte opere narrative. In questo saggio, lo scrittore esplora i meccanismi che determinano i processi creativi. A me piace ricordare in particolare il brano sull’errore creativo, quell’errore che genera originalità e diventa un’opportunità d’innovazione.

Rodari scrive:

Da un lapsus può nascere una storia, non è una novità. Se, battendo a macchina un articolo, scrivo ‘Lamponia’ invece di ‘Lapponia’, ecco scoperto un nuovo paese profumato e boschereccio: sarebbe un peccato espellerlo dalle mappe del possibile con una gomma; meglio esplorarlo, da turisti della fantasia. Se un bambino scrive nel suo quaderno ‘l’ago di Garda’, ho la scelta tra correggere l’errore con un segnaccio rosso o blu, o seguire l’ardito suggerimento e scrivere la storia e la geografia di questo ‘ago’ importantissimo, segnato anche nella carta d’Italia. La Luna si specchierà sulla punta o nella cruna? Si pungerà il naso?…”

L’errore creativo ci invita ad accogliere con curiosità l’incertezza e l’imprevisto. Ci ricorda che l’imperfezione, in molti casi, non solo nell’arte, può rappresentare una via verso la scoperta e il cambiamento. Rodari conclude dicendo che, se un tempo reggeva il proverbio “sbagliando s’impara”, oggi bisognerebbe dire “sbagliando s’inventa”. E noi Randagi gli siamo grati anche per questo. 

Gigi Agnano

Kazimierz Sakowicz: “Diario di Ponary” (a cura di Gigliola Bettelle – Mimesis), di Gigi Agnano

In “Anime baltiche“, Jan Brokken ricorda le vicende che portarono al ritiro dei sovietici da Vilnius il 22 giugno 1941 e l’entrata dei nazisti in città tre giorni dopo. Con l’arrivo dei tedeschi, la già precaria situazione per gli ebrei – circa centomila in quella che veniva chiamata “la Gerusalemme del nord” – si trasformò in una tragedia definitiva.

Il “Diario di Ponary“, scritto da Kazimierz Sakowicz dall’estate del 1941 al novembre del ’43, è una testimonianza diretta unica sugli orrori perpetrati dai nazisti nella foresta di Ponary, circa dieci chilometri a sud di Vilnius. In quel luogo, si stima siano state uccise circa 60.000 persone, principalmente ebrei lituani, ma anche polacchi e prigionieri sovietici.

Le vittime venivano portate a Ponary (Paneriai in lituano), allineate e fucilate ai bordi di grandi fossati che i sovietici avevano scavato per lo stoccaggio del carburante prima dell’arrivo dei tedeschi. I corpi cadevano nella fossa e se qualcuno mostrava segni di vita, veniva finito con un altro colpo.

Kazimierz Sakowicz, giornalista polacco, si ritrovò ad assistere a queste esecuzioni dalla soffitta di casa sua, una villetta tra i boschi affacciata proprio sul luogo dei massacri. Decise di assumersi il rischio e la responsabilità di documentare quotidianamente ciò che vedeva, scrivendo su foglietti che nascondeva in bottiglie di limonata, sigillate e sotterrate, forse con la speranza che qualcuno le avrebbe trovate dopo la guerra.

L’assemblaggio di questi appunti ci consegna un resoconto agghiacciante. Le SS, assistite da collaborazionisti lituani, spesso ubriachi, sparavano a uomini, donne, anziani e bambini, generalmente nudi, dopo averli brutalizzati. I più piccoli venivano uccisi con il calcio del fucile tra le grida disperate delle madri, mentre per gli adulti c’era installato un trampolino per colpirli mentre rimbalzavano. Chi tentava la fuga era oggetto di una caccia dagli esiti scontati e finiva ucciso nei campi circostanti. A fine giornata, l’ultimo gruppo di ebrei, prima di essere fucilato, ricopriva di sabbia i cadaveri accatastati. La puzza era insopportabile, enormi nuvole di mosche infestavano i corpi e iniziò a circolare la voce che l’acqua nelle case fosse contaminata dal sangue dei morti. Si sviluppò un commercio vivace degli abiti delle vittime, lasciati ai collaborazionisti lituani per essere rivenduti alla popolazione locale, laddove i tedeschi, naturalmente, trattenevano il denaro e i beni più preziosi. Ma se “per i tedeschi, 300 ebrei rappresentavano 300 nemici dell’umanità; per i lituani, invece, erano 300 paia di scarpe e pantaloni“.

Le annotazioni di Sakowicz, per quanto dettagliate e precise, sono scarne e prive di qualsiasi coinvolgimento emotivo. È proprio questa freddezza, quasi burocratica, che amplifica l’orrore e la potenza del suo racconto. Un esempio emblematico di questo distacco è il seguente brano:

11 agosto 1941

L’automobile targata NV-370 portava due divertite “signore” (dames) in compagnia di un certo “gentiluomo”: facevano una gita di un giorno per vedere le esecuzioni. Dopo le esecuzioni erano di ritorno; non ho visto tristezza sui loro visi.”

Sakowicz fu ucciso in circostanze poco chiare il 5 luglio 1944 mentre andava in bicicletta da Vilnius a Ponary. L’ultimo documento ritrovato risale al novembre del 1943, ma probabilmente continuò a prendere appunti fino alla fine.

Himmler, nell’ottobre 1943, disse ai suoi ufficiali: “Questa è una pagina gloriosa della nostra storia, ma non sarà mai scritta.” Nel tentativo di cancellare ogni traccia, nell’aprile 1944 inviò a Ponary un Sonderkommando composto da detenuti ebrei per riesumare i cadaveri e bruciarli. Tuttavia, grazie alle cronache di Sakowicz e al lavoro di due sopravvissuti – Rachel Margolis e Yitzhak Arad, che introducono il libro – oggi abbiamo una testimonianza unica che documenta nei minimi dettagli le atrocità della macchina della morte nazista.

Il “Diario di Ponary” è uno dei resoconti più terrificanti dello sterminio degli ebrei che io abbia mai letto. Non solo ci costringe a confrontarci con i massacri del passato, ma ci offre anche una lezione fondamentale e attuale sui pericoli dei “nuovi” fascismi. Ancora oggi, in Lituania, gruppi neonazisti operano apertamente, organizzano marce in onore dei collaboratori dell’Olocausto, innalzano bandiere con la svastica e striscioni che incitano alla russofobia e all’antisemitismo, gridando “la Lituania ai lituani”. Il tutto nell’inquietante indifferenza dell’Unione Europea, di cui la Lituania fa parte dal 2004. 

Gigi Agnano

Jan Brokken: “Anime baltiche” (Iperborea), di Gigi Agnano

Può Napoli, la mia città, venire in mente leggendo un libro di viaggio che porta nel cuore delle repubbliche baltiche, scritto per di più da un olandese? In apparenza, la risposta sembrerebbe ovvia: no. Tra Napoli e Tallinn ci sono quasi tremila chilometri di distanza non solo geografica, ma anche storica, culturale, artistica e paesaggistica. Le differenze climatiche, nei colori, nella luce e nel carattere delle persone sono evidenti. Eppure, mentre Jan Brokken racconta le vicende travagliate di queste terre a lungo oppresse, eppure mai domate, mi ritrovo a pensare a Napoli. Quando descrive le dominazioni straniere, la capacità di adattamento delle popolazioni, l’immenso patrimonio culturale e la resistenza all’assimilazione attraverso la musica, la pittura, la letteratura e il canto, sarà bizzarro, ma un pensiero per la mia città emerge inevitabilmente.

Superando il primo accenno di campanilismo, aggiungo un secondo parallelismo un po’ meno azzardato: ogni volta che sento parlare delle repubbliche baltiche, percepite spesso come luoghi oscuri e poco affascinanti, mi viene in mente un altro libro. Non ambientato in quelle terre, ma che evoca storie simili: “Prigioniera di Hitler e Stalin” di Margarete Buber Neumann. In questo memoir, l’autrice racconta la propria esperienza nei gulag sovietici e nei lager nazisti, testimoniando in prima persona le atrocità del totalitarismo. Allo stesso modo, Brokken, attraverso biografie, testimonianze e aneddoti, penetra nella Storia del Novecento e segue il destino tragico di intere comunità baltiche schiacciate tra due regimi autoritari. Gli eventi chiave sono comuni: il patto Ribbentrop-Molotov, l’occupazione russa, l’invasione tedesca, l’Olocausto e la “liberazione” sovietica. Per la Buber Neumann, come per i Paesi baltici, si tratta di sofferenze analoghe, con gli stessi carnefici che, di volta in volta, si avvicendano nell’esercizio delle loro pratiche criminali.

Le “anime” di Brokken sono prima di tutto quelle di grandi personalità nate in questa regione e accomunate dal bisogno di fuggire all’estero per esprimere la loro arte: lo scrittore Romain Gary, il pittore Mark Rothko, l’architetto Michail Osipovič Ėjzenštejn (padre del regista Sergej), la filosofa Hannah Arendt, lo scultore Jacques Lipchitz, il musicista Arvo Pärt, il violinista Gidon Kremer. Ma il viaggio di Brokken ci porta anche a conoscere persone “comuni”, le cui vicende straordinarie sono spesso sconosciute. Come quella di Loreta Asanaviciute, schiacciata da un carro armato russo nel 1991, poco prima della riconquista dell’indipendenza, o quella dei Roze, titolari di una delle più antiche librerie di Riga; o quella dei von Wrangel, ultimi discendenti di una nobiltà baltica decaduta, cui peraltro era appartenuta anche Alexandra von Wolff- Stomersee, moglie di Tomasi di Lampedusa e prima psicanalista donna in Italia.

Sono storie di vite spezzate, di persecuzioni razziali, censure e deportazioni, fughe e chilometri percorsi a piedi, crudeltà e suicidi (Rothko e Gary). Tuttavia, Brokken non si limita a narrare tragedie: c’è spazio anche per la tenerezza e la solidarietà, l’arte e la resistenza culturale.

Con oltre trent’anni di carriera letteraria, Jan Brokken ha scritto di Africa, Caraibi, Russia, Cina e altri posti lontani, ma “Anime Baltiche” (Iperborea, trad. Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo), potrebbe essere il suo lavoro più riuscito. Oscillando tra storia e cultura, intrecciando vicissitudini personali e grandi eventi, l’autore illumina le ombre del passato con estrema sensibilità. Dipinge ritratti malinconici ma vitali di un popolo che ha lottato per preservare la propria indipendenza e identità culturale, intrisa di influenze tedesche, russe, scandinave, polacche ed ebraiche.

Le pagine di questo libro ci accompagnano in un viaggio immersivo ed emozionante attraverso la Lituania, la Lettonia e l’Estonia; ci portano attraverso i vicoli del quartiere ebraico di Vilnius, “la Gerusalemme della Lituania”, passeggiano con noi nella stradine medievali di Tallin o nel cuore di Riga col suo ricco patrimonio architettonico in stile Art Nouveau.

Il lettore si affida a Brokken come a una guida sapiente e affidabile, capace di passare attraverso la complessa storia di un’Europa dimenticata, mai davvero integrata nella memoria del nostro continente, per condurci fino al cuore dell’esistenza umana. Perché, per dirla con l’autore: “Viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è la via più breve per arrivare a se stessi.

Gigi Agnano

Musica Randagia: la playlist di settembre 2024

Dal Baltico alla Guinea, dalla Svizzera al Madagascar, dal Mali alla Giamaica, da New York al Libano, questi sono i giri musicali del Randagio per la quarta playlist di Musica Randagia.

La playlist di musica randagia

I musicisti:

Titi Robin, chitarrista e compositore gitano francese;

Nahawa Doumbia, cantante di musica Wassoulou, una regione del sud del Mali, al confine con la Guinea e la Costa d’Avorio;

Hyperculte, duo ginevrino;

Kassa Overall, cantante, batterista e produttore originario di Seattle, da anni sulla scena hip hop newyorkese;

OKI, giapponese dell’Okkaido, la sua musica è un mix di musica tradizionale Ainu e reggae e due;

Cleo Sol, londinese di origini serbo-spagnole;

Charif Megarbane, musicista e compositore libanese;

Rajery, malgascio, virtuoso della valiha, un’arpa tubolare tipica del Madagascar;

Thru Collected, collettivo di artisti visuali e produttori musicali attivo sul territorio napoletano dal 2020;

Toots & the Maytals, ska e reggae dalla Giamaica;

Vieux Farka Touré, maliano, è uno dei figli del leggendario chitarrista Ali Farka Touré;

Gidon Kremer, lettone, è considerato uno dei più grandi violinisti al mondo;

Orchestre della Paillote, gruppo guineano;

Ballaké Sissoko, maliano, maestro di kora;

Chilly Gonzales, pianista canadese residente a Parigi;

Arvo Pärt, compositore estone.

Per ascoltare la playlist randagia di luglio, clicca sulla foto:

James Baldwin: “La stanza di Giovanni” (Fandango, trad. Alessandro Clericuzio), di Gigi Agnano

I cento anni dalla nascita sono l’occasione per ricordare con un tocco di emozione quanto di bello e di interessante ci abbia lasciato James “Jimmy” Baldwin, lo scrittore, saggista e drammaturgo di Harlem, attivista per i diritti degli afroamericani e degli omosessuali, vissuto per diversi anni in Europa e morto in Francia, a Saint Paul de Vence nel 1987. New York in questi giorni – era nato il 2 agosto – lo sta celebrando con mostre e spettacoli e proiezioni di film e tour sulle sue orme, con partenza da Harlem fino alla sua ultima residenza americana nell’Upper West Side. La New York Public Library espone per la prima volta una serie di appunti e di documenti privati e i manoscritti di tutta la sua produzione letteraria. In Italia Fandango ne sta ripubblicando l’intera opera.

Personalmente, in un percorso estivo iniziato con Édouard Louis e Didier Eribon, “indirizzato” proprio dai due autori francesi, sono approdato con un ritardo imbarazzante a quello che è probabilmente il più famoso romanzo di Baldwin:  “La stanza di Giovanni”. Un romanzo che a metà degli anni Cinquanta nessuno voleva pubblicare, benché Baldwin fosse già uno scrittore apprezzato dalla critica e piuttosto noto per il precedente  “Go tell it to the mountain” del ‘53 (“Gridalo forte”), un lavoro teatrale e una raccolta di saggi “Notes of a native son” (“Mio padre doveva essere bellissimo”), oltre ad articoli per giornali e riviste prestigiose.

Il motivo del rifiuto è quanto mai ovvio se si considera il bigottismo della società americana degli anni Cinquanta: “La stanza di Giovanni” parla in maniera esplicita, molto prima dei movimenti di liberazione, di un amore gay e bisessuale. È in estrema sintesi la storia, per quei tempi inaccettabile, di David fidanzato con Hella, ma irrimediabilmente attratto da Giovanni. Non è più Jimmy il nero che scrive (Baldwin si era fino a quel momento occupato quasi esclusivamente di problemi razziali), ma James l’omosessuale, esiliatosi a Parigi per l’atmosfera insopportabile che si respirava nel suo Paese per le persone gay.

Il romanzo infatti, scritto nel pieno della guerra fredda e della presidenza Eisenhower, viene pubblicato nel ‘56 quando in molti Stati americani l’omosessualità è ancora illegale e l’America puritana celebra se stessa attraverso un modello di uomo forte, bianco e rigorosamente etero.

Gli esiti del racconto sono dichiarati già nelle prime pagine: David, il narratore, si trova in una casa del sud della Francia. È solo perché Hella, con la quale avrebbe dovuto sposarsi, l’ha lasciato per tornarsene in America dopo essere venuta a conoscenza della relazione dell’uomo con Giovanni, un barista italiano. Sappiamo anche fin da subito che Giovanni, abbandonato da David, ha commesso un omicidio, è stato condannato a morte e il giorno dopo verrà giustiziato.

Fin dall’inizio Baldwin si riserva la possibilità di muoversi liberamente tra presente, futuro prossimo e passato. Questi salti temporali hanno un effetto malinconico e commovente e riescono ad esprimere con più forza i rimpianti e i sensi di colpa che restano al narratore. Ecco per esempio come comincia il romanzo:

“Sono in piedi davanti alla finestra di questa grande casa nel sud della Francia mentre cala la notte, la notte che mi porterà al mattino più tremendo della mia vita. Ho un bicchiere già pieno e una bottiglia a portata di mano. Mi guardo riflesso nella luminosità che va oscurandosi sui vetri. Mi vedo alto, longilineo, dritto come una freccia, il biondo dei miei capelli si illumina. Il mio è uno di quei volti visti mille volte. I miei antenati conquistarono un continente facendosi strada attraverso pianure cariche di morti, finché non raggiunsero un oceano che si lasciava alle spalle l’Europa e guardava a un passato più oscuro.”

David lascia andare i pensieri e si proietta nel futuro immaginando il mesto ritorno in treno a Parigi; quindi si abbandona al racconto del primo incontro con Hella, per sprofondare in un ricordo remoto dell’adolescenza, quando ha il primo rapporto omosessuale con un compagno di scuola. I due passano la notte insieme e al risveglio:

Il corpo di Joey era scuro, sudato, la cosa più bella che avessi visto fino ad allora. Avrei voluto toccarlo per svegliarlo ma qualcosa me lo impedì. All’improvviso ebbi paura. Forse fu perché aveva un aspetto così innocente, sdraiato lì, così perfettamente fiducioso; forse fu perché era più piccolo di me, il mio corpo mi sembrò all’improvviso grossolano e pesante e il desiderio che mi montava dentro sembrava mostruoso. Ma, soprattutto, ebbi improvvisamente paura. Mi dissi: “Ma Joey è un ragazzo”.”

David, spaventato da quel desiderio che considera anomalo, eviterà di incontrare ancora Joey e non lo rivedrá mai più. Qualche tempo dopo, invece di andare al college, fugge dal padre e da Brooklyn e si trasferisce a Parigi “per ritrovare se stesso”. Qui, come già accennato, si fidanza con Hella, ma, mentre lei è in viaggio in Spagna, il giovane conosce Giovanni, il barman italiano:

Se ne stava, insolente, scuro e leonino, con il gomito appoggiato alla cassa, le dita che giocherellavano col mento, a guardare la mischia.”

È folgorato dalla sua bellezza e tra i due uomini inizia una relazione appassionata e intensa il cui palcoscenico è appunto la piccola, disordinata e sporca stanza di Giovanni. 

Ricordo che la vita, in quella stanza, sembrava svolgersi al di sotto della superficie del mare. Il tempo scorreva indifferente sopra di noi, le ore e i giorni non avevano significato. All’inizio la vita insieme racchiudeva una gioia e uno stupore che erano nuovi ogni giorno. Al di sotto della gioia, naturalmente, c’era angoscia, e sotto lo stupore, paura; ma non si fecero strada in noi finché l’iniziale euforia non divenne come aloe sulla lingua.”

Progressivamente la storia d’amore si riempie di ambiguità. David, che immaginava per sé una vita convenzionale con Hella,  vorrebbe reprimere i propri impulsi, ma, fin quando la donna non è a Parigi, non ci riesce. Vive una doppia vita, felice dentro la stanza, tormentata e dolorosa fuori:

Sapevo di non poter fare niente di niente per fermare la feroce eccitazione che era esplosa in me come una tempesta. Potevo solo bere, nella vaga speranza che così la tempesta passasse, senza fare ulteriori danni alla mia vita. Ma ero felice.”

Ma col ritorno di Hella tutto sembra tornare in ordine, ogni conflitto pare appianarsi: il desiderio di “normalità” e di adeguarsi alle convenzioni sociali s’impone sui sentimenti e sul desiderio. Prevale la cultura maschilista di cui il giovane americano è intriso, per cui l’omosessualità è riprovevole e disgustosa. C’è un passaggio in cui David osserva un capannello di uomini con atteggiamenti effeminati e li descrive con una serie di metafore animali, prima come pappagalli, poi come pavoni, infine come scimmie. Ma David disprezza anche e soprattutto se stesso, ciò che il corpo gli fa provare per quello dell’italiano.  È a disagio, ha paura, gli gira lo stomaco. Baldwin illumina perfettamente questo confine tra il desiderio e la repulsione, tra il piacere e la nausea. David lascia Parigi con Hella e abbandona Giovanni al suo destino catastrofico.

Con una scrittura lirica e impeccabile, una prosa chiara e incisiva, Baldwin esamina la relazione convulsa tra due uomini in cerca della felicità e la catastrofe che entrambi dovranno affrontare. Esplora con sensibilità la complessità psicologica di David, scavando e portando alla luce le sfumature del suo conflitto interiore, il desiderio, la paura, la vergogna e i sensi di colpa. Sa essere descrittivo e analitico, commovente e riflessivo come i grandi scrittori della tradizione americana che gli vengono generalmente accostati, su tutti Henry James e Ernest Hemingway.

Un’ultima annotazione: La stanza di Giovanni è il solo romanzo di Baldwin in cui tutti i personaggi sono bianchi. È l’unica volta in cui l’autore sembra disinteressarsi ai temi razziali, anche se sia Joey il ragazzino che Giovanni il barman vengono descritti come “scuri” (attenzione perché in quegli anni gli italiani venivano considerati in America, al pari degli altri europei meridionali, come “non bianchi”). Qui lo scopo preciso è di discutere finalmente di una sessualità che nessun altro autore fino a quel momento aveva affrontato nella propria narrativa. Pare ci dica che non ci sia bisogno di essere “negro” perché la società ti discrimini; in definitiva basta essere omosessuale. 

Gigi Agnano