Tra lo specchio e il fango – qualche domanda a un appassionato traduttore di Stendhal: Daniele Petruccioli, di Edoardo Pisani

In questi giorni è uscita una nuova versione di Il rosso e il nero di Stendhal. La firma Daniele Petruccioli e la pubblica Rizzoli. Da stendhaliano appassionato, ne ho approfittato per rileggere il romanzo e ne sono rimasto entusiasta. Ho pensato di porre a Petruccioli qualche domanda riguardo alla sua esperienza di lettore e traduttore di Stendhal. 

EP: Direi di cominciare dalla tua doppia introduzione. Firmi due saggi, uno breve e uno più articolato. Il primo è un omaggio al quattordicenne che sei stato e che ha amato Julien Sorel e lo definirei una prefazione “romantica” e persino dilettantesca al libro, mentre nel secondo ti addentri sia nella vita di Stendhal che nella peculiarità della sua letteratura e del suo stile e quindi dai qualche ragguaglio sul lavoro di traduzione. La cosa che ho più apprezzato della tua versione è che non tenti di abbellire i ritmi stendhaliani. Rispetti sia la velocità di Stendhal – che secondo me è uno dei segreti del suo stile – sia i suoi “lampi di genio”, come li definisci tu. È stato un lavoro difficile? È risaputo che Stendhal scrivesse molto in fretta: hai dovuto adeguarti ai suoi ritmi o hai potuto tradurre più lentamente? Quanto è durato tutto il lavoro?

DP: Cominciamo col dire che la doppia introduzione è dovuta al taglio della collana Bur Grandi Classici, che prevede quello che si chiama un “invito alla lettura” più informale, spesso firmato da una scrittrice o uno scrittore legati all’autore o a quel titolo in particolare, e una seconda di taglio più critico, se vogliamo, divisa di solito in due parti: una sullo scrittore in generale e una più specifica sul titolo in questione – a cui, da traduttore militante come mi piace definirmi, aggiungo sempre una terza parte più specificamente sul linguaggio dell’originale e su quello della traduzione.

Nel caso del Rosso, sia l’“invito” sia l’introduzione vera e propria sono mie, non per un delirio d’onnipotenza ma perché così ha deciso la direzione di collana – non so perché, ma posso ipotizzare che essendo io una figura un po’ ibrida, appunto, che pratica la scrittura in forme varie e diverse, mi avvicino forse in parte, si parva licet, alla tipologia così tipicamente e intimamente stendhaliana del “poligrafo”.

Per arrivare al nucleo della tua domanda, più che un lavoro difficile lo definirei – per me – impossibile. Ero convinto che questa traduzione avrebbe segnato la fine della mia carriera. A tutti gli amici e colleghi che ne erano a conoscenza e mi chiedevano come andava, dicevo che il Rosso mi stava seppellendo – e ci credevo. Sono ancora qui, quindi posso forse dire (ma non ci giurerei) che sono sopravvissuto, e tuttavia il tipo di difficoltà che uno scrittore come Stendhal pone, soprattutto a una tradizione letteraria come quella italiana, è veramente immane – come del resto è stata la stessa ricezione di Stendhal, assurto a classico solo decenni dopo la sua morte e sancita forse soltanto a Novecento inoltrato, con Alain e Auerbach.

Tradurre è un’attività delicata, non ha gli stessi tempi delle altre scritture. Comincia veloce, velocissima nel (mio) caso di Stendhal, ma poi si trattiene, si mette in discussione, si (auto)verifica e (sempre nel mio caso) si ferma. Soltanto dopo tutte queste false partenze, se si avverte di aver colto la lingua che la lente del tuo occhio d’interprete sente di dover volere, allora, e solo allora, vola. Con Stendhal è stato proprio così. Sapevo di dover rischiare quello che in molti avrebbero potuto chiamare sciatteria. Ma sapevo che solo attraverso il rifiuto dei canoni del “letterario” avrei potuto rendere giustizia a questo autore indomito, e fare qualcosa di nuovo. Il punto è che rischiavo due volte. La prima, tradendo come dicevo i canoni del “letterario” – tradimento che appartiene in modo profondo a Stendhal, che disprezzava la prosa altissima di Chateaubriand ma anche il ragionamento arguto, alla moda, ma da lui giudicato sotto sotto sofistico d’un Voltaire. Il secondo rischio, forse più importante, è che sapevo di tradire un’idea molto italiana di come un “classico” deve parlare. Avrei tradito cioè le aspettative di chi, riaprendo con sacro rispetto l’opera di quello che si sa che è un genio, si aspetta di trovare una lingua elevata, curata, rispettosa di un’idea alta di canone letterario – dimenticando che un genio è tale essenzialmente e innanzitutto proprio per la sua capacità di aver saputo scartare dalla norma. E però solo attraverso questi due rifiuti sentivo, come dicevo, che la mia nuova traduzione poteva avere un senso: di recupero da un lato (della scrittura stendhaliana per come è) e di modernità dall’altro (della “traduzione” nelle parole di oggi di quelli che erano i concetti profondi di allora – un solo esempio: quanto è trita oggi la parola “cuore”, che per un partigiano del Romanticismo era invece rivoluzionaria?, e quanto quel concetto può essere invece richiamato appieno oggi da parole come “emozione”, “sentimento”, “intimità”?). Ma chi mi garantiva che il risultato sarebbe derivato dal genio di Stendhal e non da un’incapacità soltanto mia? Non mi fidavo mica. Anzi, a essere sincero ero terrorizzato. Poi succede – come sempre quando scrivi, no? – che all’improvviso senti quella certa voce e sai che non è più la tua. E allora smetti di avere paura, perché tanto se hai sbagliato a scrivere – e questo, certo, succede quasi sempre – sai però anche che non hai sbagliato ad ascoltare.

Questa sicurezza nell’ascolto non viene, non può venire, almeno non a me, se non lentamente. Dopo essersi fermati. Dopo aver smesso, dopo averci rinunciato. Ma quando viene, lo dicevo prima, voli. Allora e solo allora, rileggendo le bozze davvero poco, pochissimo, prima di andare in stampa, alla velocità della luce vorrei dire, vedevo, sulle righe che mesi prima mi erano sembrate non male, vedevo, come fossero in rilievo, tutte le cose che avevo sbagliato e che dovevano assolutamente essere cambiate. Quell’angelo del caporedattore in Rizzoli Bur per fortuna mi conosce bene, mi tollera, e sa che le centinaia di modifiche (migliaia, nel caso di questo romanzo) che chiedo alla redazione d’inserire sei giorni prima che dobbiamo andare in stampa sono quelle che danno alle mie traduzioni la mia firma. E me le lascia fare – che Dio lo benedica.

EP: Rileggendo Il rosso e il nero a distanza di anni dall’ultima volta ho pensato che è un romanzo d’avventura camuffato da romanzo d’amore. Solo che per Julien Sorel l’amore è innanzitutto amor proprio, direi, ossia orgoglio, talora superbia. In fondo durante la giovinezza l’amore è spesso una recita con se stessi, e Stendhal lo sa. In molti passi Julien e Mathilde si stupiscono di “torturarsi d’amore” per l’essere amato. Per questa “pazza”, dice Julien a proposito di Mathilde (pg. 329). D’altronde, come nota Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso e come ricordi tu nell’introduzione, per Stendhal le donne erano la “sostanza” della vita, vale a dire il suo destino. Infatti l’esistenza di Julien Sorel è guidata da Madame de Rênal e da Mathilde de la Môle: sulla sua tomba potrebbero essere scritti solo questi due nomi. Ma secondo te cos’è l’amore per Sorel? Un destino? Ed è capace di provarlo veramente? Sorel ama? 

DP: Sì sì, per me non c’è dubbio che ami. Ma ama secondo piattaforme d’amore diverse, per così dire. Non dobbiamo dimenticare Dell’amore, uscito otto anni prima ma dove già si postulavano l’amore ambizioso (il primo di Julien per Mme de Rênal), quello di testa (tipico di Mathilde), quello narcisistico (il secondo amore di Julien per Mathilde, dopo averla posseduta) e quello che gli rinasce in carcere per la Rênal, quell’amore che de Beauvoir ha considerato la capacità più unica che rara di un uomo di sapersi mettere nei panni della donna e lasciarla vivere malgrado lui. Solo Stendhal – e il suo Julien di conseguenza, ma solo dopo che il mondo gli è stato ormai negato per sempre – ha saputo sciogliersi così nell’altra.

EP: Sorel è quasi l’anagramma di Re Sole, e Stendhal parlava italiano. Ci hai mai pensato? Ma è certamente un caso.  

DP: Non ci ho pensato ma non so se sia un caso. Sull’importanza degli pseudonimi di Stendhal, che sono una pletora, basta ricordare i saggi di Starobinski e Genette. E il foglio che Julien trova in chiesa prima di entrare in servizio dai Rênal parla dell’esecuzione di un certo Louis Jenrel, che è un altro anagramma di Julien Sorel. Quando c’è un nome sotto un altro, difficilmente credo al caso, nel caso (scusa il bisticcio) di Stendhal.

EP: Tornando alla lettura di Beauvoir – e alla mia stessa rilettura del libro – sottolineerei come nel Novecento Il rosso e il nero possa essere stato letto anche da un punto di vista ideologico, cioè come una prefigurazione di Marx. In prigione Julien Sorel osserva che i salotti parigini sono pieni di supposte “brave persone” come suo padre o di “carogne in gamba” come i galeotti che hanno diviso lo champagne con lui (pg. 437). La lotta di classe non è lontana. Come fu accolto Il rosso e il nero, dopo la disfatta di Napoleone e la Restaurazione? La politica è una pietra al collo della letteratura, dice Stendhal in uno dei suoi decisivi interventi nel romanzo (pg. 335). Ma Il rosso e il nero è anche un romanzo politico? 

DP: Il Rosso è un romanzo eminentemente politico, e Stendhal lo sapeva benissimo. Del resto il successo che ha avuto – molto più della Certosa, nonostante il peana di Balzac su questo secondo libro – è dovuto anche a questo, credo, e al fatto che molti critici contemporanei abbiano odiato Julien proprio perché non lo si può incasellare nel classico personaggio dell’“innamorato”. Lo è, ma è anche innamorato del successo (del successo, non della gloria – o meglio, della gloria contemporanea e non per i posteri). Sa di essere speciale e lo proclama. Si sente talmente in diritto di primeggiare che non ha scrupoli per arrivarci. Se non fosse un romanzo del primo terzo dell’Ottocento, non esisterei a parlare di antieroe. È questo che i critici suoi contemporanei gli rimproveravano. Ha troppi difetti per essere un eroe da romanzo. Infatti è un uomo. Il primo eroe realista – per dirla con Auerbach, che ha rimarcato come il Goriot di Balzac esca un anno dopo. Ma il Rosso è anche un romanzo eminentemente del personale. In questo senso, per me, è ancora più moderno di Marx, perché rifiuta l’idea della massa. Mi fa pensare di più al “vogliamo tutto” del 1968. Alla “fantasia al potere” di quella stagione lì.

EP: Mi viene in mente il celebre passo dello specchio e del fango, che riprende la citazione di Saint-Réal (pg 94, pg 320): “Lo specchio fa vedere il fango, e voi accusate lo specchio.” Ancora oggi si accusano spesso alcuni artisti di essere turpi e osceni o troppo violenti. Facendo le dovute proporzioni con Stendhal, ricordo che Berlusconi accusava Roberto Saviano di denigrare l’Italia all’estero attraverso i suoi racconti sulla Camorra. D’altro canto – sempre facendo le dovute proporzioni – anche Céline era accusato di essere troppo estremo. Per non parlare di Pasolini. Quindi cosa pensi dello specchio e del fango di Stendhal? Secondo te oggi è possibile usare il romanzo come “specchio” dei tempi di fango o di orrore che viviamo? O dobbiamo immaginarci altrove, cioè parlare per metafore distopiche, come Margaret Atwood in Il racconto dell’ancella? 

DP: Io non sono partigiano di una forma. Sono un traduttore, quindi sono per definizione polimorfo – se mi passi la battuta. Credo che la letteratura voglia sia l’autofiction, sia la distopia. Ma credo anche che il romanzo “realista” non morirà mai. Perché si parla sempre della realtà, anche quando si fa finta di no. Il punto è che un romanzo dev’essere bello. Se lo è, finirà per parlare a tutti e di tutto, perché una rappresentazione riuscita è sempre una rappresentazione del mondo. È certo che, contestualizzata, la metafora dello specchio serviva da disclaimer a un uomo che conosceva bene il suo tempo e sapeva che il suo personaggio stava rompendo ogni canone rispettato e conosciuto – proprio perché ne fondava uno nuovo. Ma se mi si permette di decontestualizzarla – anzi, di ricontestualizzarla, che in fondo è il motivo per cui rileggiamo un classico – per come la leggo io la metafora dello specchio è una dichiarazione di poetica, che dice che in arte l’etica è l’estetica, e che, a voler giudicare l’etica di un’opera d’arte scorporandola dalla sua estetica, resta solo la bruttura del mondo.

EP: A tuo avviso che genere di romanzo scriverebbe Stendhal oggi? E cosa penserebbe del cinema, lui che fa – penso in particolare alla Waterloo di La Certosa di Parma – una letteratura così “visuale”? 

DP: Stendhal voleva fare teatro – il cinema dei suoi tempi; o comunque, la forma letteraria più alla moda, almeno fino al primo quinto del XIX secolo – e ha finito per fondare il romanzo moderno. Non so quindi a quale arte esistente si dedicherebbe, ma so che finirebbe per mollarla e per crearne una completamente nuova.

EP: In La scomparsa di Majorana, portando a esempio proprio il tardivo esordio romanzesco di Stendhal, Sciascia scrive che esistono dei casi di “precocità ritardata al possibile”. Un altro grande traduttore, Angelo Morino, riprese l’espressione per Roberto Bolaño, anch’egli cultore di Stendhal. Secondo te l’aver procrastinato l’opera è stata una delle forze di Stendhal? A ventun anni scriveva, nel suo diario: “Ho troppo da scrivere, ecco perché non scrivo niente…” 

DP: Non direi che Stendhal abbia procrastinato. Ha scritto sempre, ininterrottamente. Tra diari, opere d’occasione, pamphlet, opere incompiute, abbozzi (alcuni da 900 pagine) di autobiografie, copioni stralciati, novelle, scritti di viaggio, articoli, è uno degli scrittori più prolifici degli ultimi 200 anni. Solo che poi a un certo punto qualcosa che non oso (ma che non so come altro) chiamare ispirazione divina lo ha folgorato nei due capolavori che tutti conosciamo e adoriamo. E sai, gli dèi ti toccano quando gli pare a loro: non lo decidi mica tu.

EP: Parliamo di discendenze letterarie. Il palazzo de La Mole di Il rosso e il nero mi è parso un antenato del salotto dei Guermantes, come Sorel è certamente un antesignano di Lucien De Rubempré. Michel Crouzet, uno dei maggiori biografi stendhaliani, diceva che in Stendhal Balzac ammirava il romanzo ma non ammetteva il romanziere. Qual è stata la felicità postuma di Stendhal? E quali sono secondo te le qualità che ce lo rendono ancora oggi così vicino? 

DP: Come accennavo prima, la fortuna di Stendhal è solamente postuma. Gli scrittori affermati del suo secolo, dai Goncourt a Flaubert passando innanzitutto per Zola, non lo consideravano dei loro. E avevano ragione. Stendhal non è un romanziere di professione. In questo Julien e Lucien sono diversi, secondo me. Il Lucien balzachiano è molto più dentro la sua epoca e il suo mondo di Julien, che ne è escluso forse soprattutto per volontà propria. Julien, come Stendhal, è uno snob. Non nel senso del sangue, ma nel senso dell’élite senza alcun dubbio. Stendhal non si è mai piegato a far parte di nessun “gruppo”, men che meno di quello che cercava di fondare il romanzo moderno. Lo ha fatto e basta, col Rosso, ma lo ha tradito quasi subito con la Certosa, che è molto più vicino (per riprendere il tuo excursus di prima) al fantastico di una Atwood (sebbene idilliaco e non distopico) che a qualsiasi romanzo di Zola. È per questo che Balzac non lo ammetteva come romanziere: non aveva un “progetto” e anche se lo avesse avuto non lo avrebbe perseguito fino in fondo. Stendhal voleva diventare famosissimo e soprattutto essere amato alla follia, ma non era disposto a sacrificare niente (soprattutto niente di sé) per averlo. Infatti, non lo ha avuto. Sappiamo che le prime grandi cifre di vendita le ha fatte negli anni Ottanta del XIX secolo, quindi decenni dopo la sua morte. E la grande fortuna, anche critica, per me arriva solo con il Novecento. È questo che amiamo in lui. La sua assoluta, indomita, singolarità. Di Stendhal, c’è solo Stendhal. Non lo metti vicino a nessun altro. Per ritrovare una personalità umana ed artistica altrettanto caparbiamente indipendente bisogna aspettare Proust. Ma perfino Proust il Goncourt ha voluto vincerlo e ha fatto di tutto perché accadesse. Stendhal si sarebbe stufato a metà strada.

EP: Una delle più belle frasi del romanzo la pensa Julien Sorel mentre sta per recarsi di nascosto da Mathilde: “Sarò un mostro, per la posterità.” Quali demoni guidano il nostro Julien? 

DP: Julien è un coacervo di contraddizioni. Si vorrebbe integerrimo ma sa di non potersi fare strada senza doppiezza. Vuol essere adorato dalle donne ma non si sente mai alla loro altezza. Ha un’altissima opinione di sé, ma sa di occupare un posto infimo. E non ha nessun sentimento giusto: odia suo padre, è ingrato verso chi lo favorisce, gli piace la solitudine in un mondo sociale, disprezza il denaro ma adora il lusso. È il primo personaggio che non ha un daimon a guidarlo, solo spiriti dispettosi. In questo è veramente un uomo del Novecento.

EP: Torniamo al tuo lavorio di traduzione. Ho trovato molto belli e acuti i tuoi appunti sullo stile di Stendhal. Peraltro Hemingway, notoriamente un grande stilista, ha detto più volte di essersi ispirato a La Certosa di Parma per Addio alle armi. Lo ricordo spesso a chi afferma – di solito per sentito dire, cioè per ignoranza – che Stendhal scriveva “male”. Ma qual è per te la magia stilistica di Stendhal? In cosa è un grande scrittore? 

DP: Tornerei alla metafora dello specchio. Stendhal usa mezzi che chi non capisce la sua magia, come dici giustamente tu, considererebbe di scarto – lo scolo fangoso nello stradone trafficato. Ma ha nella penna uno specchio magico, che prende quello scolo di fogna e lo trasforma senza che te ne accorgi nell’immagine di te che guardi te stesso mentre leggi di un altro. Non conosco nessun altro scrittore capace di una doppia metempsicosi come questa.

EP: Tradurresti anche La Certosa di Parma? 

DP: Lo sto già facendo. Esce l’anno prossimo sempre per i grandi classici Bur.

EP: Ti chiederei di più sui dettagli della traduzione, ma rimando il lettore alla bella introduzione del libro e dunque al libro stesso. Il prezzo dell’edizione è molto accessibile. Da ultimo quindi ti domando: cosa ti ha lasciato questa lunga e felice convivenza con Stendhal? 

DP: Una sfrenata gioia di vivere. Non ti so dire quanto io sia grato al mio lavoro, per avermi fatto questo regalo.

EP: Nell’introduzione scrivi: “Stendhal amava moltissimo la musica. Soprattutto l’opera italiana a lui contemporanea, da Cimarosa a Rossini. Sotto sotto, era a suo modo un grande musicista. Ci auguriamo di averlo saputo suonare come merita.” Credo che tu abbia saputo farlo. Grazie. 

DP: Grazie a te.

Edoardo Pisani*

*Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988. Ha pubblicato i romanzi E ogni anima su questa terra (Finalista premio Berto, finalista premio Flaiano under 35) e Al mondo prossimo venturo, entrambi con Castelvecchi. Sempre con Castelvecchi ha pubblicato un libro su Rimbaud, E libera sia la tua sventuraArthur Rimbaud! Nel 2026 Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.

Ian McEwan: “Quello che possiamo sapere” (Einaudi, 2025, trad. Susanna Basso), di Edoardo Pisani

McEwan nel tempo – su Quello che possiamo sapere 

Ian McEwan è uno dei pochi grandi scrittori contemporanei ancora capaci di annoiare con diletto. Il nostro è un tempo di scrittori-intrattenitori, perché il mercato editoriale si assuefà sempre più ai gusti di un pubblico ipnotizzato dalle serie televisive e dai ritmi roboanti dei social network. Chi stenta a farsi leggere, chi vende poco, sembra non esistere, e bene o male anche i grandi scrittori devono esistere per essere considerati tali. Se la noia – o per meglio dire un certo “essere fatti di niente” – era la componente di molti grandi romanzi novecenteschi, nel nostro secolo i libri più letti e forse anche più riusciti hanno invece delle trame incalzanti. McEwan, abile costruttore di strutture romanzesche, non sempre fa eccezione, e tuttavia nelle sue opere più mature è anche capace di rallentare i tempi narrativi, procrastinando le storie che racconta e portando così la “noia” a uno stremo stilistico che impone i propri ritmi anche all’affaticato lettore contemporaneo. Questo è uno dei suoi pregi che amo di più.

Un altro pregio di Ian McEwan è l’intelligenza. Leggendo Quello che possiamo sapere, il suo ultimo romanzo, tradotto da Susanna Basso per Einaudi, ho pensato più volte a una pagina del suo romanzo precedente, Lezioni (Einaudi, 2023, sempre con la traduzione di Susanna Basso), nella quale il protagonista dice cosa pensa degli scrittori degli anni Settanta, ossia la generazione anteriore a quella di McEwan, che avrebbe dovuto formarlo. 

McEwan scrive: “Nessuno, uomo o donna che fosse, si prendeva la briga nei suoi scritti, o così la pensava Roland allora, di farsi qualche domanda sul mistero dell’esistenza o sulla paura di quel che l’avrebbe seguito. Si tenevano occupati con la superficialità mondana, attraverso graffianti descrizioni del sistema di classe. Nei loro racconti di immane leggerezza, il massimo della tragedia era una storia d’amore burrascosa, o un divorzio. Pochissimi parevano anche solo minimamente interessati a temi come povertà, armi nucleari, l’Olocausto o il futuro del genere umano o perfino al progressivo ridursi della bellezza del paesaggio sotto l’assalto delle tecniche agricole moderne.” 

Le ultime opere di McEwan rispondono ai temi che più stanno a cuore al protagonista di Lezioni e – suppongo – allo stesso McEwan. Quello che possiamo sapere infatti può essere definito un romanzo “ambientalista”, oltre che distopico. È il 2119 e Thomas Metcalfe si mette alla ricerca di un leggendario poemetto del grande poeta Francis Blundy, Corona per Vivien. È un testo su cui hanno fantasticato in molti e che però è stato letto da pochi. È stato scritto nel 2014 per la moglie di Blundy, Vivien, e da allora se ne sono perse le tracce; ciononostante Thomas Metcalfe, il narratore della prima parte del romanzo, è deciso a ritrovarlo. Perciò il libro di McEwan, dopo alcuni capitoli iniziali piuttosto lenti ma anche affascinanti – per ciò che è successo al mondo e all’uomo dopo di noi, per ciò che sarà la specie umana nel e dopo il 2119 – diventa un’avvincente caccia al tesoro. Stevenson, citato più volte nel romanzo, non è lontano, come a dire che la grande letteratura avrà sempre il suo spazio nel cuore dell’uomo.

Il tesoro – il poemetto – sarà trovato? Il lettore otterrà ciò che tanto brama di avere? La seconda parte del romanzo è una sorpresa e si svolge ai tempi nostri. Non voglio rivelarla. Ma davvero McEwan affronta i grandi temi contemporanei: la crisi ambientale, le malattie neurologiche, la morte, la violenza, il rimorso, il femminismo, il sesso, l’intelligenza artificiale, la procreazione, non da ultimo il perire di un certo tipo di letteratura e di poesia. “Tra cinquecento anni potrebbe ancora esserci un dipartimento di Letteratura in qualche punto del pianeta” scrive Thomas Metcalfe, nel 2119. “E tra cinquemila? Tra cinque milioni?” Di sicuro è avvincente interrogarsi su cosa significherà fare o studiare letteratura fra un secolo o due, o anche prima. L’uomo scriverà ancora? E qualcuno leggerà ciò che forse scriveremo? Ci sarà posto per l’arte? E per i sentimenti? 

Dopo i primi racconti e romanzi il giovane Ian McEwan era stato definito – forse troppo sensazionalmente – “Ian McAbre”, per via delle sue narrazioni spesso macabre. A partire da Bambini nel tempo (Einaudi, 1988) si è però liberato di quel nomignolo limitativo, aprendosi a narrazioni più complesse e per l’appunto ai grandi temi che tanto gli stanno a cuore. McEwan si ripete di rado, nondimeno ogni sua opera non potrebbe essere scritta da altri che da lui, e Quello che possiamo sapere ce lo conferma. È uno scrittore unico e grande e anche per questo a ogni suo nuovo romanzo abbiamo l’impressione che ci ricordi non solo cosa significhi saper scrivere ma anche cosa significhi saper leggere. Oggi e nel futuro che ci fugge davanti, nel mondo prossimo venturo che ci attende e finché la parola e l’uomo significheranno qualcosa, è bene avere fede nella letteratura, nei libri che amiamo e che ci hanno reso – che ci renderanno – ciò che siamo o ciò che vogliamo ma che forse ancora non sappiamo essere. 

Edoardo Pisani*

*Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988. Ha pubblicato i romanzi E ogni anima su questa terra (Finalista premio Berto, finalista premio Flaiano under 35) e Al mondo prossimo venturo, entrambi con Castelvecchi. Sempre con Castelvecchi ha pubblicato un libro su Rimbaud, E libera sia la tua sventuraArthur Rimbaud! Nel 2026 Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.

Intervista a Sandra Petrignani per “Carissimo dottor Jung” (NeriPozza, 2025), di Edoardo Pisani

Sandra Petrignani fra le ombre di Jung

A ottobre Neri Pozza ha pubblicato l’ultimo romanzo di Sandra PetrignaniCarissimo dottor Jung, che ruota intorno alla figura del fondatore della psicologia analitica. Come accade spesso nelle opere di Petrignani, nel libro la realtà si mischia alla finzione formando una simbiosi narrativa particolarmente efficace. In Carissimo dottor Jung ci si raffronta anche al tempo perduto o – per dirlo con più leggerezza – al tempo che “passa”, cioè alla vecchiaia e alla morte, come scoprirà il lettore del romanzo. Ho pensato di porre a Sandra Petrignani qualche domanda. 

EP: Comincerei osservando la peculiarità della struttura del libro, con i capitoli della scrittrice Egle Corsani, che sta per l’appunto scrivendo un romanzo su Jung, alternati ai capitoli che narrano della visita di Christiana Morgan a Jung, che infatti è proprio Egle a scrivere. Nel corso degli anni, direi a partire da La scrittrice abita qui, uscito nel 2002 sempre per Neri Pozza, hai creato una nuova forma di narrazione biografica che è a un tempo romanzo e documento. Molti tuoi libri sono sia affabulazione narrativa che concreta ricerca dei fatti, cioè delle vite di cui ti occupi. È stato un processo studiato? Hai sempre saputo dove ti avrebbero portata le esistenze che affrontavi? Quanta intelligenza c’è nelle tue strutture narrative? Qual è invece la loro componente istintiva? 

SP: Comincio dalla fine. Direi che la componente istintiva è predominante. È l’istinto a dirmi: di Duras occorre che tu ne sappia di più, oppure: Jung può aiutarti parecchio in questo momento difficile della tua vita. Io seguo l’istinto non solo quando scrivo, ma anche nei rapporti con le persone, nelle scelte che mi trovo a fare… E poi naturalmente studio, approfondisco, osservo a lungo le immagini, le fotografie, i gesti dei personaggi di cui mi occupo, dentro i video se ce ne sono. Dicono moltissimo la voce, la gestualità, la forma delle mani, i tic, lo sguardo. Anche quando, da giornalista, intervistavo grandi protagonisti, li lasciavo parlare dentro il registratore e intanto osservavo con molta più attenzione il loro muoversi nello spazio, il modo in cui si rivolgevano a me.

EP: A un certo punto Egle osserva che alla sua amica, Lorenza, non interessa tanto la trama del libro che sta leggendo quanto la mano del grande scrittore che c’è dietro, cioè lo stile. Suppongo che sia così anche per te; non per niente uno dei tuoi autori prediletti è Thomas Bernhard, un grande stilista. D’altra parte in Carissimo dottor Jung sembri quasi riappacificarti con alcune tecniche dei romanzi più prettamente narrativi; penso in particolare ai dialoghi. Il tuo è anche un libro sulla vecchiaia e sulla perdita. La forma tradizionale del romanzo – dialoghi compresi – è necessaria per raccontare il morire del tempo intorno a noi? Mi interessa il tuo parere sia di scrittrice che di lettrice. 

SP: In realtà non ho simpatia per i dialoghi, né come scrittrice né come lettrice. Preferisco il discorso indiretto. Ma in questo mio Jung ho dovuto arrendermi a parti molto dialogate, perché volevo immaginare il modo di essere del grande analista svizzero nella vita quotidiana, nell’umiltà con cui intratteneva rapporti con i suoi cani, col giardiniere, con l’amica-badante Ruth, e perché dovevo farlo interloquire non solo con Christiana Morgan, venuta a Küsnacht dagli Usa proprio per dialogare di nuovo con lui dopo tanti anni, ma anche con pazienti e colleghi, donne soprattutto. Del resto la terapia analitica si basa sul dialogo, no?

EP: Infatti è forse il tuo romanzo con più dialoghi. A un certo punto Egle dice di essere stata a trovare Italo Calvino e Antonio Tabucchi nei loro appartamenti parigini. Sei davvero stata a trovarli? A proposito di Tabucchi – e tornando alla domanda che ti facevo prima – mi viene in mente un suo titolo postumo che è in realtà un verso di Carlos Drummond De Andrade: Di tutto resta un poco. Ti chiedo: cosa resta di tutto quanto, cioè delle vite che viviamo o che abbiamo vissuto? I capitoli finali del libro, mi sembra, rispondono in parte a questa domanda…

SP: Ho conosciuto Tabucchi quando per un periodo ha abitato a Roma. Provò anche a farmi pubblicare il mio primo romanzo, Navigazioni di Circe, da Adelphi, ma senza successo. A Parigi però non sono mai andata a trovarlo, anche se eravamo rimasti in contatto e ho sempre molto amato i suoi libri. Di Calvino ho visto ben tre case: quella di Roma per un’intervista e quelle di Parigi e di Roccamare dopo la sua morte, perché ero diventata amica della moglie Chichita. Avevano molto amato entrambi quell’intervista, fatta due mesi prima che morisse, e lei mi chiese di darle la registrazione. Così feci e mi prese in grande simpatia… Non so cosa pensassero Calvino e Tabucchi del “dopo”, io mi sono convinta, attraverso il buddismo, certi studi sulla reincarnazione, e con Jung, che non finisca tutto con la morte, ma che la vita sia un’esperienza fra un prima e un dopo di cui dovremmo approfittare al meglio per accorciare il ciclo delle rinascite.

EP: Restando in qualche modo nel tema delle rinascite, in Egle non è difficile individuare un tuo doppio romanzesco, come già nella Nina di Addio a Roma e nella Elettra di Autobiografia dei miei cani. Nel capitolo L’osservatore è l’osservato – titolo che proviene da una frase di Krishnamurti – scrivi: “Forse il romanzo su Jung è venuto a chiudere un cerchio nella sua vita. O magari ad aprirlo?” Credi che Carissimo dottor Jung sia la “biografia romanzesca” (ma la definizione è inesatta) in cui racconti più di te? Pensi davvero che possa chiudere un cerchio? O magari – come lascia intuire il saluto dell’uomo alla fine del romanzo – ne stai aprendo un altro? Il tuo Jung è un arrivederci o un addio? 

SP: Al momento non ho nessuna spinta interiore per mettermi a scrivere qualcos’altro. E io non so scrivere romanzi tanto per scrivere. È stato un’esperienza molto forte questo mio Jung effettivamente e del resto non ho niente di impubblicato, se non un mucchio di racconti, dentro i cassetti, su cui mettermi a lavorare. Ma i racconti sembra non li voglia leggere nessuno… Chissà poi perché…

EP: Io li leggerei volentieri. Ho amato molto i racconti di Poche storie (Theoria, 1993), che andrebbero ripubblicati, e prima o poi mi procurerò anche i racconti di Vecchi (Theoria, 1994; Baldini&Castoldi, 1999). Ma torniamo a Carissimo dottor Jung. Lo definirei un grande libro di sogni. Ti capita mai di sognare gli scrittori che hai conosciuto? E quelli che hai letto o di cui hai scritto? I morti ti dicono qualcosa, come in quella poesia di Wisława Szymborska, Intrighi con i morti? Le ombre ti spaventano?

SP: No, non mi spaventano per niente. Vivo fra molte ombre, del resto. Ma sogno poco, e ancor meno ricordo. Scrittori non mi pare di averne mai sognati. Comunque Szymborska è una poetessa del mio cuore…

EP: Nel libro Jung sostiene di avere le prove dell’esistenza di un aldilà. D’altronde molte tue opere parlano di fantasmi. Non penso soltanto alle biografie, ma anche, per esempio, a Care presenze, o persino a Catalogo dei giocattoli, come scrive Manganelli nella prefazione (“Scrivere un libro sui giocattoli. Non è un’idea brillante? Semplice? Inquietante? Ma è, forse, un’idea terribile. È come scrivere un libro sui fantasmi, sulle apparizioni…”). Per te leggere significa convivere con gli spettri? E scrivere? 

SP: In parte sì, è proprio così. Soprattutto scrivere. È portare a galla l’inconscio, che di fantasmi è fatto – prima di tutti quello dell’infanzia – e se ne intende. Leggere uno scrittore con cui sono in sintonia è conoscerlo profondamente. Se è morto, sì, un po’ è riportarlo in vita.

EP: Hai un rapporto molto particolare con la morte e con i morti. Ti capita mai di visitare i cimiteri? La possibile esistenza di un aldilà ti spaventa o ti rassicura? 

SP: I cimiteri non mi piacciono. I miei morti cerco di tenermeli vicini, “sentirli”. Mi spaventa il buio. La fine totale di tutto, che tutto ciò che si è faticosamente capito nella vita vada perduto. Mi sembra uno spreco insensato.

EP: Per allontanarci dal macabro direi di porti una domanda che è anche un divertente corto circuito fra realtà e finzione. A un certo punto del libro, nel capitolo La turbolenta corrente del tempo, Egle legge a Lorenza il romanzo Emma, di Jane Austen. Ora, nel 2012 hai tradotto proprio Emma, per Einaudi. Egle legge l’edizione Einaudi? Il tuo alter ego ha fra le mani la traduzione di Sandra Petrignani? O magari hai immaginato un mondo alternativo in cui Egle Corsani – e non Sandra Petrignani – ha tradotto Jane Austen. Ma cosa ti ha spinto a tradurre proprio Emma

SP: Emma è davvero il romanzo che amo di più di Austen. Per questo l’ho tradotto. Ma tradurre è un mestiere molto difficile, più di scrivere, perché devi scrivere assumendo un’altra identità! Per questo l’ho fatto raramente.

EP: Carl Jung è il primo uomo a cui dedichi un romanzo. È stata un’esperienza diversa rispetto ai libri su Marguerite Duras e su Natalia Ginzburg? In questi anni di scrittura ti sei sentita anche “attratta” da lui, come talora capita alla tua Egle? Jung era un tipo burbero, scrivi, però capace di infinita dolcezza. Era il tuo genere di uomo? 

SP: No, proprio no. Troppo Maschio Alfa, troppo consapevole. A me sono sempre piaciuti gli “incrinati” come diceva Grazia Deledda. Però, un momento, parlo di me giovane. Ora magari mi potrei innamorare di uno come lui che ha risposte per tutto, chissà… Non a caso ho scelto di raccontarlo da vecchio, nell’ultimo anno di vita, quando più che risposte, torna a farsi tante domande…

Io, scrivendo, amo spostarmi sempre. Ho scritto dei luoghi delle scrittrici e in tante si sono messe a farlo. Ho scritto di scrittrici famose… idem. Entrare in una psiche maschile è più difficile se sei una donna? Mah, devo dire che mi è piaciuto molto. Forse anche perché Jung era un uomo che capiva profondamente le donne, e le stimava, e le amava.

EP: Sebbene tu non sia un’autrice per così dire “politica”, si sente che hai scritto Carissimo dottor Jung in un tempo di guerre crudeli e insensate. Le guerre le fanno soprattutto gli uomini. Penso all’Ucraina, penso a Gaza… Il Jung bambino e il Jung anziano sono tormentati dalla stessa domanda: “Se Dio è buono, perché il male?” Lasciando da parte Dio, ti chiederei la stessa cosa, cara Sandra: perché esiste il male? L’uomo si salverà dalla sua stessa ferocia? 

SP: Non ne era sicuro nemmeno Jung, figurati io! Certo il periodo che stiamo attraversando sembra essere tornato a una barbarie che la tecnologia avanzata rende più devastante e forse più crudele. E non solo per le guerre che si sono scatenate fino a sfiorarci, ma anche per la psiche dei singoli che si scatena in comportamenti efferati. E spesso ancora più ignobili perché stupidi. C’è in giro una pericolosa incapacità di ragionare, di capire se stessi e l’altro da sé.

EP: Amo molto alcuni tuoi romanzi ormai fuori edizione. Penso in particolare a Come fratello e sorella, pubblicato da Baldini&Castoldi nel 1998, dove c’è una definizione del suicidio molto forte ma a mio parere decisiva: “Il suicidio, sosteneva lui, non è una richiesta di affetto, non è un gesto amichevole. È mandare a fare in culo tutti quanti, definitivamente, e tutti insieme.” Prima o poi il libro si ristamperà? Che rapporto hai con i tuoi libri più vecchi? Dopotutto hai pubblicato Navigazioni di Circe nel 1987, ben prima del Circe di Madeline Miller… 

SP: Non mi rileggo mai, se non per caso. Non sono molto attaccata a quel che ho scritto, anche se sono contenta di averlo fatto. Per cui non mi do per niente da fare perché i miei libri tornino in libreria. Non tormento gli agenti letterari, non ricatto gli editori. Se ci pensano loro, bene (e devo dire che qualche volta lo fanno), se no, pazienza. Vivo molto nel presente. E poi il mondo è pieno di libri fondamentali che la gente non ha ancora letto…

EP: Rileggendo le parole sul suicidio e gli elenchi di Come fratello e sorella mi è tornato in mente un brano molto bello di Carissimo dottor Jung, ossia quando Egle pensa che la vita è “un gioco di costruzioni che si sfalda”. L’affermazione potrebbe riguardare anche Catalogo dei giocattoli, in effetti, ma non solo. Una delle particolarità delle tue opere, credo, è di osservare con lucidità non tanto la morte quanto il morire del tempo. O meglio, il passare del tempo, come dice l’insegna del bar in cui si incontrano Egle e Lorenza alla fine del libro, raffrontando il tempo che “passa” al tempo “perduto” di Proust. In fin dei conti il tempo che passa o che muore è anche la storia di Addio a Roma, no? E torniamo al verso di Carlos Drummond De Andrade che ti ho citato in precedenza: Se di tutto resta un poco. Il tempo che passa ma che riaffiora nelle opere può essere – per il lettore, per lo scrittore – un tempo presente, vale a dire vivo? La letteratura e l’arte sono un ripiego dalla vita che fugge o anche una possibile àncora di salvezza? 

SP: Che belle cose mi dici e che belle domande. Ma io non ho una mente filosofica e quindi tutto quel che posso dire è molto personale. Per me scrivere (e leggere inevitabilmente) è stata un’àncora di salvezza fin da piccola. Credo che i veri artisti con la loro arte hanno cercato e cercano soprattutto di guarirsi, e di essere amati, anche, forse. Quanto all’immortalità dell’opera immagino che, in punto di morte, sia una ben magra consolazione….

EP: Un’ultima domanda. A un certo punto il tuo Jung dice a Christiana: “Il compito consiste nell’adempimento della propria vocazione e singolarità. È questo che dà un senso alla vita, ma è un compito che non esclude la possibilità della sconfitta.” Quali sentimenti e emozioni smuovono in te queste parole? Sandra Petrignani, a differenza di Christiana Morgan, sa accettare la “sconfitta”? 

SP: Ne ho dovute accettare parecchie sinceramente. E sono una che ama arrendersi, piuttosto che combattere con le unghie e coi denti. Quella frase di Jung, come altre, è un grande insegnamento. Conoscersi, cercare di essere all’altezza della propria vocazione (che può essere anche semplicemente quella di non averne nessuna) e accettare la possibile sconfitta senza tragedie e senza farlo pagare a chi abbiamo vicino. Io mi aiuto anche un po’ con qualche farmaco, quando serve. Che male c’è?

EP: Grazie. 

Edoardo Pisani*

*Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988. Ha pubblicato i romanzi E ogni anima su questa terra (Finalista premio Berto, finalista premio Flaiano under 35) e Al mondo prossimo venturo, entrambi con Castelvecchi. Sempre con Castelvecchi ha pubblicato un libro su Rimbaud, E libera sia la tua sventuraArthur Rimbaud! Nel 2026 Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.

Davide Morganti: “Non è qui” (Editoriale Scientifica, 2025), di Edoardo Pisani

E un bambino li condurrà – su Non è qui, di Davide Morganti 

Hans Christian Andersen insegna che è sempre un bambino a gridare che il re è nudo. Analogamente, forse soltanto un bambino può credere davvero nelle meraviglie e nei miracoli che la religione e gli scritti sacri promettono essere autentici. Infatti, nonostante molte tiritere teologiche, di rado gli adulti si abbandonano alla fede con la disarmata ingenuità che essa richiede. L’adulto è scettico dinanzi all’impossibile, il bambino no. Così in Non è qui – pubblicato questo mese da Editoriale Scientifica – Davide Morganti si approccia ai temi di Dio e della Resurrezione con uno sguardo infantile, il proprio, rimembrando le sue perplessità al riguardo ma anche i suoi incanti per qualcosa che può anche essere possibile e dunque vero. 

Non è qui è un memoir sulla fede che si legge come un romanzo o forse, meglio, è una lunga divagazione intorno ai temi di Dio e della memoria che si svolge però in forma prettamente narrativa. Il titolo proviene dal Vangelo di Luca: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato.” O dal Vangelo di Matteo, citato nell’epigrafe: “Ma l’angelo disse alle donne: ‘Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove è deposto.’” Dunque il titolo si riferisce al cadavere di Cristo, che il bambino protagonista, Davide, animato da un “desiderio crudele di Dio”, sa essere veramente risuscitato e quindi altrove, non nella tomba in cui gli adulti lo cercano, loro che stentano a credere nell’impossibile. Ma quindi la morte cos’è? E la vita? Dove finirà ognuno di noi dopo la morte? “Dove ci metteremo tutti?” si chiede il bambino. “Saremo come meduse nel mare?” E ancora: cos’è l’aldilà? È forse una “discarica celeste”? 

Davide Morganti è un irregolare delle lettere italiane. In un suo libro precedente, l’ultimo volume del mastodontico Atlante della fine del mondo (Marotta&Cafiero, 2022), faceva scrivere a Emanuela Cocco – ma era probabilmente lui stesso a scrivere – che “Morganti si faceva volere bene ma era anche un presuntuoso […], la buona volontà non gli è mai mancata ma quel carattere difficile gli ha bruciato mille occasioni e la sua scrittura ne risente di questo fallimento”, come a dire che nei suoi libri c’è sempre qualcosa che si ribella non tanto allo scrivere quanto al saper scrivere, ossia che cerca non l’esattezza dello stile bensì la velocità dell’istinto che si fa parola e quindi narrazione, racconto.

Così negli anni Morganti si è andato forgiando uno stile a tratti anche orale che risente di un Céline forse mal digerito ma che raggiunge pure notevoli momenti di pathos e di esaltazione. Ha saputo giocare con la forma del romanzo, come in Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato (Wojtek, 2019), che potrebbe essere definito l’impossibile romanzo di un critico impazzito, o nel già citato Atlante della fine del mondo, che visita ogni Paese al mondo in compagnia dell’impacciato picaro moderno Casimiro Boboski, oppure in un romanzo che ha non poche cose in comune con Non è qui e che fu molto amato da un giovanissimo Roberto Saviano, il quale scrisse che aveva “il sapore di un classico”, cioè Moremò (Avagliano, 2006), un libro colorito e spericolato in cui il protagonista è a sua volta preda di ossessioni religiose, come il Davide di Non è qui

Non è qui è un romanzo che vive di alti e bassi, come sempre nella scrittura di Morganti. Ci si diverte spesso, talora ci si commuove, a tratti si imparano cose nuove. La lettura offre sempre un punto di vista inedito e originale sulla fede e di conseguenza su Dio, su cos’è Dio per noi mortali, per noi che siamo ossessionati dalla morte e che non possiamo credere che essa riguardi anche Dio, o Cristo, o persino noi stessi, noi che dunque abbiamo inventato i miracoli dell’aldilà e della vita eterna per nascondere la certezza paradossale di dover abitare il mondo anche da morti. Però i bambini lo sanno. E lo scrittore, se è tale, sa di dover tornare bambino per raccontarlo, per raffrontarsi a se stesso e a Dio, specchio dell’impossibile, un impossibile che soltanto un bambino, il bambino che è stato Davide Morganti e che anche noi siamo stati, può rendere credibile e infine reale.   

Di conseguenza il ricordo (parola che contiene la sillaba cor ed è quindi un ritorno alle intermittenze del cuore) diventa non soltanto racconto ma anche memoria e a tratti autobiografia, ed è qui che abbiamo le pagine più felici del libro, quando Morganti scrive, per esempio, di Ciro il Pellicano, fortissimo a pallone ma destinato a morire di overdose, o di altri suoi amici mai dimenticati, o della morte di mastro-don Gesualdo nel romanzo di Verga, o della signora Anna, una barbona miope con gli occhiali doppi attaccati con lo scotch, “sempre con molte buste della spesa rigonfie non so di cosa, la bocca incavata per i pochi denti rimasti, si diceva fosse stata una prostituta durante la guerra e che andasse in giro con i marinai americani, a me pareva strano immaginarla visto come era brutta, vecchia, malandata, di lei ricordo la puzza e la buona educazione, parlava a bassa voce, mia mamma per lei aveva piatto, bicchiere e posate a parte, le dava da mangiare e anche da dormire certe volte, la notte io sentivo la sua puzza ma nessuno di noi si lamentava, era normale fare queste cose, la signora Anna era come se non ti guardasse mai e parlava un italiano dolce, la voce affabile, ogni tanto spiccava qualche parola inglese, che mia mamma…” 

Il periodo della signora Anna va avanti per una pagina intera ed è esemplificativo di ciò che Morganti ha fatto con il proprio stile e con la lingua, spalancando ogni proposizione alla successiva, come in una matrioska russa, evitando però strutture composite o arzigogolate e rifacendosi all’oralità piuttosto che alla complessità. I grandi novecentisti ci insegnano che uno stile proprio si paga caro, che può essere a un tempo un limite e una forza, e così è per Davide Morganti, il quale in Non è qui affabula come solo un bambino sa fare, precipitandosi lungo le frasi con passione e meraviglia, nell’indomabilità stilistica e emozionale del ricordo, che da sempre – in letteratura e nella vita – ci insegna che siamo anche ciò che siamo stati: il bambino che ci osserva, il bambino che ci guida. 

“E un bambino li condurrà” dice il profeta Isaia, nella Bibbia ebraica. In questi tempi neri forse dovremmo davvero ritornare alle nostre infanzie e ai testi sacri, alla meraviglia di poter immaginare Dio. 

Edoardo Pisani*

*Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988. Ha pubblicato i romanzi E ogni anima su questa terra (Finalista premio Berto, finalista premio Flaiano under 35) e Al mondo prossimo venturo, entrambi con Castelvecchi. Sempre con Castelvecchi ha pubblicato un libro su Rimbaud, E libera sia la tua sventuraArthur Rimbaud! Nel 2026 Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.

Marguerite Duras: “Scrivere, una ragione di vita” (NN editore, trad. Chiara Manfrinato), di Edoardo Pisani

Lacrime di Marguerite Duras – su Scrivere 

L’atto di scrivere comprende pure la sua negazione, cioè l’atto di non poter o non saper più scrivere, perché anche non scrivere è un atto, benché mancato. L’atto di non scrivere ci riconduce quindi alla scrittura stessa, sia pure nel silenzio. Scrivere significa tentare di sapere cosa scriveremmo se scrivessimo, dice Marguerite Duras. 

È seduta su una poltroncina, davanti a un pianoforte e accanto a un termosifone. Indossa una gonna a scacchi grigia e un maglione blu scuro, e ha un cerchietto nero che le incornicia i lisci capelli grigio cenere. L’obiettivo della telecamera è fisso su di lei. 

Marguerite Duras ci parla con una voce leggermente arrochita dall’alcol, scandendo lentamente ogni parola. Il suo tono è malinconico. Stanco. Ma Duras è una donna piena di dignità e saggezza, e ha molto da raccontare. 

Nel 1993 uscirono due documentari-interviste di Benoît Jacquot su di lei, Êcrire La Mort du jeune aviateur anglais, entrambi rintracciabili su YouTube. Quello stesso anno le due interviste confluirono in un libriccino edito da Gallimard, Êcrire, che Laurent Adler, la sua maggiore biografa francese, ha definito il suo testamento letterario e umano. Oltre trent’anni dopo la prima edizione italiana del testo (Feltrinelli, 1994), l’editore Enne Enne lo ripropone in nuova traduzione, a firma di Chiara Manfrinato. 

Scrivere è un libro che mancava da tempo nelle nostre librerie e che ancora ci illumina e ci commuove. Contiene cinque testi brevi, fra i quali le due interviste-monologo tratte dai documentari di Benoît Jacquot, adeguatamente riviste per la pubblicazione. Marguerite Duras fa i conti con se stessa e con la propria opera, sapendo che non le resta molto da vivere. Parla – scrive – della scrittura, del silenzio, dei suoi libri, della morte, di politica, di amore, di alcol, di Roma (un’intera sezione del libro si svolge a Roma), di pittura e di purezza. Lo stile è quello che la accompagna ormai da diversi anni, con delle frasi brevi e coincise, dalla sintassi semplice, con qualche iterazione che dà più forza al suo periodare. È una sequenza di paragrafi o frasi separati da uno o più righi bianchi che può essere letta anche come una partitura. A momenti sembra che Duras procacci una forma inedita non di scrittura ma di espressione, una nuova forma espressiva che comprenda pure gli spazi bianchi, le pause, i lunghi silenzi fra un brano e l’altro – e i suoi silenzi dicono sempre qualcosa. 

A Duras restano tre anni di vita. Tuttavia il suo sguardo verso la morte è lucido, non spaventato, come quello degli stoici greci. A un certo punto osserva l’agonia di una mosca che è sul punto di morire, forse ricordando un racconto di Katherine Mansfield (La mosca, appunto). Scrive: “La morte di una mosca è la morte. È la morte in cammino verso una certa fine del mondo, che estende il campo dell’ultimo sonno. Vediamo morire un cane, vediamo morire un cavallo, e diciamo qualcosa, per esempio: povera bestia… ma se muore una mosca, non diciamo niente, non lo documentiamo.”

Come “la morte di una mosca è la morte”, il silenzio di uno scrittore è il silenzio, verrebbe da dire leggendo Duras, perché l’atto di scrivere contiene anche il suo contrario, cioè l’atto di tacere e di contemplare la possibilità di scrivere. “Uno scrittore è un essere bizzarro” chiosa infatti Duras. “È una contraddizione  e anche un’assurdità. Scrivere è anche non parlare. È tacere. È urlare senza fare rumore.” Scrivere è dunque una parola ossimorica che unisce i due atti, il parlare e il tacere. Marguerite Duras lo sa e ce lo dice. Ha scritto per tutta la vita, come le consigliava di fare Raymond Queneau (“Non faccia altro, scriva”), e lo rivendica. Scrivere è stato il suo destino. 

Poi c’è la morte, alla quale pure la scrittura – come il silenzio – deve raffrontarsi. C’è la morte di sé e c’è la morte degli altri, dove gli altri possono essere le persone che abbiamo più a cuore ma anche degli sconosciuti. Parlando della morte in guerra di un giovane aviatore inglese, per esempio, Marguerite Duras ricorda la morte del fratello nella Guerra del Pacifico, e a lui finisce per rivolgersi, al fratello, perché scrivere è anche un impossibile dialogo con i nostri morti, con i morti che abbiamo amato e amiamo ancora, e perché “la morte di chiunque è la morte intera”, come la morte di una mosca o di un soldato o – da ultimo – di noi stessi. La prossima morte di Marguerite Duras, scrittrice e essere umano. 

“C’è l’amore di mio fratello e c’era il nostro amore” continua Duras, con i suoi mormorii strascicati, “quello tra me e lui, un amore fortissimo, nascosto, colpevole, un amore senza fine. Incantevole, perfino dopo la tua morte. Il giovane inglese morto era chiunque ma era anche soltanto lui. Era chiunque ed era lui. Ma non si piange per chiunque.” 

La scrittrice quindi si raffronta con l’impossibilità di scrivere – e ne scrive – e ricorda la propria esistenza, la solitudine, gli amori, i morti propri e altrui, perfino la politica, immaginando una lista con tutti gli uomini e tutte le donne che hanno trascorso le loro esistenze in una fabbrica della Renault ormai sul punto di chiudere, una lista esaustiva, dice Duras, priva di commenti, che raggiungerebbe il numero di abitanti di una grande capitale: un “muro di proletari”, perfetto e significativo. 

Marguerite Duras era stata iscritta al Partito Comunista Francese e non se ne era mai pentita, sebbene fosse stata espulsa quale dissidente nel 1950. Al riguardo scrive, nella prima parte del libro: “Siamo malati di speranza, noi sessantottini, della speranza che riponiamo nel ruolo del proletariato. Quanto a noi, nessuna legge, niente, nessuno e niente ci guarirà da quella speranza. Vorrei perfino riscrivermi al Partito Comunista. Ma al tempo stesso so che non dovrei.” E ancora: “Non dobbiamo sottometterci a ordini, orari, capi, armi, multe, insulti, sbirri, capi e ancora capi. Né alle chiocce che covano i fascismi di domani.” 

Una scrittrice e un’intellettuale come Marguerite Duras oggi ci manca molto, ma per fortuna possiamo ritrovarla nei suoi libri. Nel suo stile a un tempo semplice e elaborato, che in Scrivere si muove fra lunghi silenzi e assiomi fulminanti. O nel suo sguardo fisso nell’obiettivo, mentre parla piano, seria, di morte e di scrittura e quindi di tutto ciò che conta, facendo del silenzio intorno a lei – intorno a noi – un tutt’uno con la sua voce. “Un libro aperto è anche la notte” mormora. E poi, dopo un rigo bianco: “Non so perché, ma le parole che ho appena detto mi fanno piangere.” In questi tempi di chiasso sfrenato e guerre insensate la voce e l’esempio di Marguerite Duras – le sue lacrime, il suo silenzio – ci fanno credere che per l’essere umano non tutto è ancora perduto. 

Edoardo Pisani*

*Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988. Ha pubblicato i romanzi E ogni anima su questa terra (Finalista premio Berto, finalista premio Flaiano under 35) e Al mondo prossimo venturo, entrambi con Castelvecchi. Sempre con Castelvecchi ha pubblicato un libro su Rimbaud, E libera sia la tua sventuraArthur Rimbaud! Nel 2026 Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.