“L’educazione sentimentale?” di Antonio Corvino

Si impara a scuola esplorando la grande letteratura, aggirandosi tra la sublime poesia, vivisezionando le passioni di eroi ed eroine, inseguendo i destini di uomini e donne nei tempi della storia e lasciando sedimentare nella propria  coscienza i drammi individuali e collettivi e le lotte tremende di uomini e donne, popoli e individui per abbattere ambiguità ed ipocrisie, fedi ed eresie, violenze ed avidità che tutto hanno avvolto e fatto precipitare verso destini di morte, di rabbia, odio e tuttavia suscitando al contempo un’irrefrenabile voglia di riscatto, evocando la forza del pentimento e del perdono, rivelando i faticosi percorsi di espiazione e rinascita ed alimentando la cultura dell’amore, della pietà, della compassione per liberare tutta intera  l’umanità dall’abbrutimento della violenza.

Prendete l’Orlando Furioso: lasciate andare la fantasia oltre i grovigli della realtà che vi irretisce e provate ad aggirarvi non visti tra i castelli cristiani ed i palazzi saraceni; osservatene la vita, lo sferragliare delle armature, le rudi discussioni e le piacevoli conversazioni, fatevi ammaliare dall’impeto dei sentimenti e seguite, senza farvene travolgere, le guerre ed i duelli che da ogni parte irrompono; e quindi, appena vi passerà accanto, saltate, come un reincarnato Bastiano Baldassarre Bucci, in groppa all’ippogrifo per andare con Astolfo a cercare il cervello smarrito di Orlando divenuto furioso per l’amore non corrisposto della diafana Angelica innamorata del mite Medoro che salverà da morte sicura e condurrà con sé in oriente incoronandolo re del suo bel regno mentre Orlando peregrina, dimentico del suo valore e del suo onore, seminando distruzione, lutti e dolori intorno a lui. 

Astolfo vi chiederà di aguzzare la vista in tanta ardua ricerca e finalmente tra le valli ed i crateri lunari troverete il cervello di Orlando e con esso tornerete solleciti sulla terra a restituire saggezza all’eroe cristiano che a Roncisvalle  assurgerà alla grandezza di eroe immortale.

“Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto/ che furo al tempo che passaro i Mori / d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto, /seguendo l’ire e i giovenil furori / D’Agramante lor re che si diè vanto / di vendicar la morte di Troiano / sopra re Carlo imperatore romano.

Dirò d’Orlando in un medesimo tratto / cosa non detta in prosa mai né in rima / che per amor venne in furore e matto / d’uom che sì saggio era stimato prima … “

E magari fermatevi, di ritorno, sotto le mura di Gerusalemme … È notte, due cavalieri si affrontano in un duello furibondo. Uno è saraceno e l’altro cristiano. Una nera figura, sconosciuta, si contrappone alla bianca armatura. Cade infine la nera armatura. Il bianco cavaliere vuol conoscere il nome del valoroso guerriero. Il fiato gli muore in gola a quel nome che ella pronuncia morendo… Clorinda. Tancredi vuol morire pur’egli e crolla accanto alla donna da sempre amata oltre la fede e la maledetta guerra che cinge le mura di Gerusalemme.

È nel groviglio delle passioni e dei sentimenti declinati e dipanati da scrittori e poeti in ogni epoca che si nasconde la chiave per mettere ordine nella vita di tutti i giorni di ragazzi e ragazze alle prese con una realtà sempre più difficile da decifrare perché quei ragazzi e ragazze sono privi delle necessarie chiavi per entrarci, camminarci, districarcisi senza farsi male, senza fare male.

Inserire l’insegnamento di una materia specifica che spieghi cosa è, come funziona la sessualità e con quali arcani meccanismi questa interseca pulsioni, passioni e sentimenti magari imbrigliata entro assurdi paletti perbenisti e conformisti?

È la dichiarazione di un fallimento conclamato di una società che ha rinunciato alla cultura e che ha derubricato la scuola e l’università a inutile superfetazione istituzionale la cui gestione va relegata nella sfera manageriale per contenerne i costi e sfornare quel minimo di competenze buone per massimizzare i ricavi delle aziende che penseranno a tutto il resto, che poi, quel resto, attiene sempre alla minimizzazione dei costi ed alla massimizzazione degli utili.

In un contesto degradato in cui si mette in discussione il sapere, si marginalizza lo studio della storia e della filosofia e si derubrica come non necessaria la geografia fisica, umana, mentre si accentua tutto ciò che risponde al computo dei costi e dei benefici e si ignora il faticoso incedere degli individui e dell’umanità, l’inserimento curricolare di una materia che illustri e spieghi sesso e sentimenti è il rimedio necessario immaginato da una società incapace di attivare percorsi esperenziali e di conoscenza che necessariamente devono intersecarsi.

Essa, per la verità può addirittura apparire  indispensabile, magari liberata da inutili e pericolosi orpelli,  laddove non solo i ragazzi ma anche gli adulti non hanno più contezza del valore della parola perché ignorano la bellezza della lingua, da essi stessi massacrata e disseccata da una confortevole  pratica scolastica che ha eliminato ogni sforzo ed ogni esercizio teso ad arricchire il vocabolario e ad allenare la capacità di scandagliare con le parole i propri sentimenti e dare ordine alle proprie idee. 

L’intrattenimento becero ha fatto il resto mentre i nuovi strumenti digitali han finito per assolvere ad una funzione sostitutiva della lingua, dell’eloquio, del confronto. Simboli e faccette, immagini e avatar han sostituito le parole e addirittura quel minimo di ragionamento necessario a mettere in fila qualche frase e costruire un periodo atto ad esprimere un pensiero. Ovvio che in situazioni di stress, allorché  si evidenzia l’incapacità di capire, descrivere, raccontare, semplicemente esprimere una qualsiasi reazione, prevale l’istinto della violenza che poi è la legge della giungla in cui si afferma la prepotenza del più forte in quel momento. 

Insomma siamo al punto in cui è diventato più facile scagliare una pietra, usare un coltello, premere un grilletto, in una parola sopraffare colei che per un rifiuto, è diventata nemica da abbattere, uccidere. 

D’altronde è quel che succede ovunque nel mondo a livello collettivo. 

Il dialogo ed il confronto sono stati ovunque sostituiti dalle armi e dalle guerre. 

Morte e sopraffazione sono i binari che guidano i conflitti tra le nazioni. 

Morte e sopraffazione rappresentano anche le leggi che regolano i conflitti tra i ragazzi, ormai anch’essi, come quelle, privi della capacità di discutere ed accettare il punto di vista degli altri.

In un contesto del genere, insegnare il funzionamento del sesso e le regole dei sentimenti a scuola è come mettere una toppa su un vestito pieno di buchi il cui tessuto è talmente consunto e sfibrato che ad ogni passaggio di ago si rovina ulteriormente.

Essa non serve che a mettere in pace l’anima e la coscienza di quanti, governanti e potenti, da quarant’anni a questa parte non han fatto altro che picconare la cultura, scardinare la lingua, impoverire il linguaggio, disseccare il lessico e atrofizzare ogni capacità di scavo, comprensione e descrizione dei propri sentimenti e degli altrui al pari di quelli collettivi. Di quanti anche, genitori, intellettuali, classi dirigenti, istituzioni, han lasciato che tutto questo avvenisse senza colpo ferire, subendo e ritirandosi magari in uno splendido isolamento o peggio nella difesa del proprio cinico edonismo. Con la conseguenza che adesso si cerca la scorciatoia che ahimè non porterà al traguardo di formare nuove generazioni alla responsabilità fatta di capacità di comprendere, parlare, confrontarsi che certo potrà beneficiare di una maggiore e più sistematica conoscenza del sesso e dei sentimenti ma non potrà fare a meno di una lingua, un linguaggio, un lessico, una sintassi ed una grammatica tutta roba che si apprende giorno dopo giorno, anno dopo anno, sin dall’asilo e fino all’università e per sempre anche dopo l’università, praticando la cultura, imparando a scavare nella storia e nella geografia, nella letteratura, nelle scienze e nelle matematiche, arricchendo il proprio eloquio e la propria capacità di analisi e sintesi ed abituando la propria coscienza al dubbio ed al confronto, alla scoperta, al bello ed al fantastico, al razionale ed al pragmatico. 

Tornando a studiare, a leggere, ad allenare la mente e sviluppare  le proprie capacità di comprensione, confrontandosi e mettendo ordine alle proprie idee e facendo valere i propri punti di vista con le parole scritte e dette non con la violenza.

Si tratta di prendere atto che il vestito di questa società  è logoro e ormai non  rattoppabile e che pertanto va cambiato cercando nuovi tessuti e nuovi sarti che sappiano imbastire, mettere in prova, dare la giusta forma. Vale per i ragazzi, vale per gli adulti, vale per i popoli e le nazioni. L’alternativa in caso contrario è la guerra e la distruzione dell’umanità a livello globale e la violenza gratuita a livello individuale con il destino dei più deboli, ragazze e donne in questo caso, irrimediabilmente segnato.

Ad Assoro un paesino sui monti Erei nel cuore continentale della Sicilia, quella un tempo abitata dai Sicani, vi è una lunghissima scalinata che cuce la parte bassa e la parte alta del paese. Ci arrivai con un gruppo di camminatori siciliani percorrendo il Cammino di San Giacomo.

 Ci eravamo arrivati attraverso il vecchio tratturo che seguiva il tracciato della prima ferrovia a scartamento ridotto che ad inizio novecento provò a dare sollievo a quella gente che scendeva dal monte alla valle a scavare zolfo nei pozzi delle miniere. Su quella scalinata le ragazze ed  i ragazzi di Assoro vi avevano scritto i nomi delle donne vittime di violenza femminicida nella speranza che finisse una volta per tutte quell’elenco. Fu facile per noi notare che quella scalinata pietosa conteneva, ahimè, molti spazi ancora vuoti ed anche noi ci augurammo, salendo uno ad uno quei gradini, che essi potessero rimanere per sempre vuoti e magari abitati  da  poesie. Speranza che quotidianamente viene strozzata. 

E pure è quella la strada. 

“Chiare, fresche et dolci acque, / ove le belle membra / pose colei che sola a me par donna” scriveva Petrarca e Dante  aggiungeva “tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia, quand’ella altrui saluta / ch’ogni lingua devèn tremando muta / e li occhi non l’ardiscon di guardare”…

Di contro Anna Karenina travolta dall’ipocrisia di una società  maschilista in sfacelo poneva fine ai suoi giorni immolandosi in sacrificio magari nella speranza che la sua morte si tramutasse in seme fecondo per un’umanità nuova e capace di innocenza. 

Maria d’Avalos la mattina del 17 ottobre 1590 venne, dal canto suo,  trafitta dalla lama di colui che si proclamava suo sposo mentre con le forze residue difendeva il suo diritto all’amore senza infingimenti ed ipocrisie anche in questo caso subendo la violenza della morte quale prezzo della ribellione al prevaricante dominio di una società sacrilega quanto bigotta. 

Allora è tempo che non si aggiungano altri nomi alle scalinate che contengono gli interminabili elenchi dei femminicidi. 

È tempo che la società ritrovi l’innocenza ed è tempo che finalmente la cultura torni a vestire le coscienze dei ragazzi nella speranza che gli adulti la smettano di cercare inutili toppe e finalmente intraprendano la strada maestra restituendo senso e ruolo alla cultura magari provando a riscoprirla essi pure per esempio lasciando che scuola e università tornino a segnare in autonomia i propri percorsi, liberandole delle assurde ipoteche aziendaliste imposte da un potere economico deviato e lasciando che nuove generazioni crescano e informino di sé la società prossima ventura al riparo da ogni deriva di impoverimento linguistico e culturale. Perché,  parafrasando Orwell, se togliete ad un ragazzo la padronanza della lingua e della cultura che la esprime, gli avrete tolto ogni libertà, prima tra tutte quella di capirsi e di capire e conseguentemente comportarsi nel rispetto di sé e degli altri… Sarebbe un bel passo avanti per cambiare anche il destino della comunità in cui ragazzi e ragazze vivono e della società che la esprime e la contiene. E, perché no, dell’umanità tutta intera.

Antonio Corvino

Antonio Corvino, Antonio Corvino, di origini pugliesi, napoletano di formazione è uno scrittore, poeta, saggista ed economista di cultura classica.
Ha alle spalle una ricca produzione saggistica. Da ultimo nel dicembre 2019 ha curato per Rubbettino, insieme a Francesco Saverio Coppola, “Mezzogiorno in progress“ un volume Summa sulle questioni aperte del Sud.
Appassionato delle antiche vie nelle “terre di mezzo” ha percorso, tra il 2019 ed il 2024,  numerosi cammini nel cuore del Mezzogiorno continentale italiano coprendo oltre 1500 chilometri e traendone una serie di appunti di viaggio che han dato vita a diversi volumi  e romanzi.
 Nel settembre 2023 è uscito per Giannini Editore il suo primo romanzo di viaggio: “Cammini a Sud. Sentieri, tratturi, storie, leggende, genti e popoli del Mezzogiorno
 Nel novembre 2024 è uscito per Rubbettino Editore il suo secondo romanzo di viaggio: “L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni


Per l’Università Partenope, il CEHAM di Valenzano-Bari  e l’Ordine nazionale dei biologi, ha realizzato un corso monografico in  video sul Mediterraneo della durata di 15 ore destinato ad un master post laurea. 
Sulla rivista Bio’s, Organo dell’Ordine nazionale dei Biologi, ha pubblicato tre saggi sulle prospettive del Mediterraneo indicando un nuovo paradigma policentrico dello sviluppo e proponendo la suggestione del Mediterraneo come Continente.
Sulla rivista Politica Meridionalista ha pubblicato e continua a pubblicare numerosi saggi sul Mezzogiorno.
Collabora con la rivista letteraria Il Randagio.
Collabora con quotidiani cartacei ed on line. 

Referendum: salvare il dissenso dall’estinzione, di Antonio Corvino

 Andare a votare per ridare dignità  al  lavoro ed agli immigrati oltre che all’Italia intera?

Certo. Ma c’è un altro motivo addirittura più pregnante: restituire diritto di cittadinanza al confronto e salvare dall’estinzione il dissenso.

Allora il referendum dell’8/9 giugno 2025 è quel che ci vuole per rimettere in piedi un’Italia rovesciata, se mai i suoi cittadini usciranno dal letargo e ignoreranno gli inviti del governo, della maggioranza che lo sostiene e del Presidente del Senato, a  disertare le urne sventando e magari coprendo di ridicolo il tentativo di svuotare la dialettica democratica cancellando il dissenso, disinformando e limitando le possibilità oltre che la volontà  ad esprimerlo addirittura inibendo gli spazi in cui esso si può e si deve esprimere.

È la risposta necessaria per fermare il declino della nostra democrazia, incamminata a diventare  democratura.

Non è questione da poco. C’è un momento nella vita degli uomini e dei popoli in cui si impone il dovere morale, prima che civile, di negare e contraddire la volontà del potere pena il manifestarsi di una nemesi che potrebbe schiacciarli e condannarli alla assuefazione ad una vita da sudditi.

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Racconta Sofocle che Antigone diede sepoltura al fratello Polinice violando la legge di Creonte. La punizione fu tremenda e le conseguenze deflagranti. 

Antigone venne condannata a morte e murata viva in una tomba.

Il vecchio Tiresia mise però in guardia Creonte contro tanta violenza. 

Antigone aveva obbedito ad una legge morale che andava oltre la legge degli uomini e lo stesso decreto del re, avvertì. 

Lo stesso popolo tebano manifestò pietà e a gran voce chiese clemenza per l’infelice creatura. 

Creonte turbato tornò al fine sui suoi passi ordinando la liberazione di Antigone. 

Troppo tardi. 

La fanciulla si era tolta la vita, impiccandosi.  

Emone figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone non resse al dolore e  pose fine anch’egli ai suoi giorni suicidandosi a sua volta. 

Al re di Tebe non restò che maledirsi per la durezza del suo cuore e la sordità della sua mente che avrebbe attirato su di lui e sulla città la nemesi divina.

I greci escogitarono così l’ostracismo per preservare gli equilibri della Polis ponendola al riparo dalle possibili conseguenze dell’azione degli oppositori.

La tirannide, forma di governo monocratica che non ammetteva dissenso e rendeva il popolo schiavo, secondo la definizione di Erodoto, era sempre in agguato, anche se era al popolo che il tiranno faceva riferimento per avallare o consolidare il proprio potere.

Le polis si trovarono così ad affrontare la questione del cambiamento e  dell’impatto del dissenso rispetto all’azione del governo. 

La democrazia greca doveva fare i conti con un’oligarchia di origine aristocratica spesso rissosa che deteneva ricchezze e potere e decideva le sorti stesse della città ma anche con il popolo che talora si produceva in clamorose sommosse soprattutto quando l’eccessiva concentrazione delle ricchezze negli oligarchi lo estrometteva dalla loro distribuzione, per esempio nel caso di guerre vittoriose allorquando esso rivendicava per sé un’equa ripartizione del bottino. 

Gli imperatori romani risolsero la faccenda elargendo panem et circenses.

Platone nella Repubblica e Aristotele nella Politica intanto avevano definito i confini ed i caratteri del potere democratico e di quello monocratico. In essi la partecipazione dei cittadini rappresentava il discrimine.

Governo e dissenso si ponevano dunque come i poli della vita della polis.

Il potere monocratico prevalse anche a Roma allorquando la Repubblica venne sopraffatta dall’Impero. 

Bisognerà attendere il rinascimento perché  le antiche polis riemergessero nei liberi comuni che tuttavia evolsero anch’essi rapidamente in Signorie quando non confluirono nei recinti di re ed imperatori. 

E bisognerà attendere l’illuminismo, la rivoluzione francese e la guerra civile nordamericana per la definitiva consacrazione del potere del popolo che peraltro dovette sempre fare i conti con le derive monocratiche che intanto nei tempi moderni avrebbero assunto la forma conclamata delle dittature che si appellavano al popolo, salvo privare quest’ultimo di ogni diritto, compreso quello di dissentire. 

La Democrazia, quella nata dall’illuminismo, era l’unica ad aver assunto il dissenso come dato fisiologico del proprio essere,  affermarsi e progredire. 

Emblematica in questo senso l’affermazione della biografa di Voltaire ( Evelyn Beatrice Hall “Gli amici di Voltaire”) tesa a sintetizzare il suo pensiero “disapprovo quel che dite ma difenderò sino alla morte il vostro diritto di dirlo” … ma Voltaire aveva fiducia nella luce della ragione.

Ed arriviamo alla contemporaneità. Alle aberrazioni delle dittature e dei regimi totalitari che negarono il dissenso con ogni forma di violenza sino a quelle più estreme che, come per Antigone, contraddicevano anche la legge morale. 

Servirono guerre estreme anch’esse per venir fuori dalle dittature.

E  servirono sofferenze altrettanto inaudite e lunghe per la consunzione dei regimi totalitari, primo fra tutti quello sovietico che infine implose su sé stesso. 

Le democrazie si diedero delle costituzioni che le avrebbero dovute difendere da ogni recrudescenza violenta. 

Al centro di esse la volontà popolare che, sulla scorta del pensiero degli illuministi e dopo gli olocausti nazifascisti, si pensava fosse ormai per sempre vaccinata contro quelle derive. 

Vi erano parlamenti e governi, istituzioni e magistrature atte a definire e garantire i percorsi dei popoli. E leggi furono varate per regolarne il funzionamento. Tra queste anche le leggi sui referendum che stabilivano la diretta chiamata alle urne del popolo tutto intero e dei singoli cittadini per dirimere dilemmi ed affermare principi fondamentali per essi.

I  mutamenti delle competenze e attribuzioni del governo venivano sottoposti a procedure severe che contemplavano il pronunciamento popolare. I mutamenti epocali del sentire sociale, laico e religioso, vennero sanciti dai referendum e con essi l’allargamento degli spazi di civiltà e di liberazione del popolo.

L’espressione del voto era sale e lievito della democrazia. 

In Italia le percentuali del voto sono state storicamente tra le più alte in Occidente. 

Lo spavento del fascismo aveva fatto scuola.

Anche i referendum avevano un’aura di sacralità che si traduceva in una mobilitazione della gente e dei movimenti e partiti politici che su di essa basavano la propria legittimazione.

Poi il tempo e le incrostazioni della rappresentanza  popolare  cominciarono ad affievolire l’entusiasmo e a ridurre la partecipazione.

I miracoli economici e democratici rivelarono delle lacune da cui presero l’abbrivio derive niente affatto rassicuranti. 

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L’economia prese il sopravvento sulla politica.

Le devianze iper capitalistiche imposero i loro interessi che tracimarono ovunque travolgendo le stesse istituzioni che per sé teorizzarono, al pari delle aziende multinazionali, efficienza di costi ed efficacia di risultati contro ogni idea, ritenuta inutilmente ed assurdamente utopistica, di benessere, felicità e partecipazione collettiva. 

Le privatizzazioni fecero il resto.  Ed anche le istanze democratiche subirono un deciso declino.    

E seguì anche la mutazione genetica dei lavoratori, divenuti “forza lavoro”, “merce” da offrire su un mercato sempre più inflazionato che la pagava sempre meno avendone negato ogni valore umano, culturale ed ogni contenuto di libertà. 

Così la società cominciò ad imbarbarirsi, a negare la cultura ed a deridere ogni espressione di crescita civile, sociale, individuale e collettiva. 

L’imperativo per il potere era perpetuarsi contro ogni dissenso esattamente come era stato sancito da Creonte. 

Per la gente, disillusa, prevalse la necessità di sopravvivere. 

La competizione non lasciava spazi al pensiero, alla solidarietà, alla stessa vita partecipata. 

Il lavoro finì di essere un percorso di affermazione individuale e di liberazione sociale  per assurgere al ruolo di rimedio necessario quanto estemporaneo per tirare avanti alla meno peggio e magari da barattare con qualche bonus.

Niente tutele, niente certezze, niente sicurezze. 

La mancanza di esse faceva il paio con la trasformazione stessa del lavoro in “prestazione d’opera” da offrire in mille modi e tutti precari, inclusa l’iscrizione al registro delle imprese o ad una agenzia di lavoro interinale,  in ossequio all’efficienza delle grandi e meno grandi imprese ed alla loro religione del contenimento dei costi, a prescindere da tutto, sicurezza inclusa.

Piuttosto che ripristinare il primato del lavoro la nuova italica repubblica, sempre più  irretita dai lacci della visione aziendalista e manageriale iniettata dal Club Bilderbeg, fece proprie le derive iper capitaliste. 

Gli ospedali divennero aziende. Anche le scuole divennero aziende e pure le università si adattarono a mettere in cima ai loro obiettivi la competizione che intanto veicolava nei gangli del potere, dal governo al parlamento, alle istituzioni, la cooptazione contrabbandata per meritocrazia, rinunciando al sapere ed alle competenze oltre che alla giustizia sociale e alla crescita civile. 

Le fabbriche erano ridotte a delle isole destinate a sopravvivere nelle attività residuali votate a distruggere l’ambiente circostante e la salute di chi vi abitava in attesa della definitiva consunzione. 

La ricchezza si concentrava senza rimedio, capitalizzando, con  l’innovazione tecnologica, anche le rendite liberate dall’impoverimento del lavoro.

La redistribuzione di essa veniva negata dai nuovi signori e padroni mentre la politica costruiva, in luogo dello Stato Sociale, lo Stato assistenziale che assegnava bonus in cambio di consenso. E mentre ragazzi e ragazze partivano a milioni dall’Italia e soprattutto dal Mezzogiorno con destinazione paesi europei e non, il potere di casa, divenuto schizofrenico, ignorava il fenomeno dello spopolamento e chiudeva verso i migranti che intanto percorrevano deserti e mari in cerca, a casa nostra,  di pace e di quel minimo per sopravvivere. 

La democrazia autoritaria avanzava verso la democratura coltivando il desiderio di trasformarsi, più in là, in dittatura conclamata, magari avallata da periodici successi elettorali costruiti su parole d’ordine e slogan vuoti quanto consunti e irrispettosi  per i propri stessi connazionali nel frattempo espatriati all’estero in massa. 

La difesa dei confini della “patria” contro  “invasori” inermi e disarmati oltre che stanchi ed affamati venne affermata addirittura in termini epici come se dal mare arrivasse un’armata pronta ad oscurare il sole e ad annientare la sopravvivenza stessa della nazione.

Quanti erano, finalmente, entrati furono posti in quarantena decennale per ottenere la residenza per sé ed i propri figli, nel luogo dove vivevano e lavoravano, essendo nel frattempo divenuti parte integrante, e benemerita, insufficiente ahimè, della società italiana in caduta libera quanto a crescita demografica e addirittura quanto a lavoratori, tutti in fuga, quelli italiani, verso l’estero, visto che qui i salari e stipendi crollavano senza posa.

Nel frattempo le elezioni non erano più così importanti. 

La gente prese a non recarsi più alle urne per eleggere rappresentanti che avevano sempre più le stigmate dei predestinati e cooptati. 

La coscienza civile e culturale, dapprima ignorata e poi distorta con somministrazioni di dosi massicce di vuoto edonismo e ignoranza gratuita, era stata ridotta anch’essa ad una dimensione di intorpidimento.

I referendum previsti dalla costituzione, al pari del lavoro, furono svuotati del loro senso e ridotti a superfetazioni istituzionali inutili e fastidiose. 

Di pari passo il dissenso era stato derubricato a rumore di fondo da cancellare per non disturbare i manovratori alla guida del paese. Non era più un diritto sacrosanto ma addirittura un reato dissentire, protestare. Leggi in tal senso venivano varate ed immaginate a spron battuto. 

Tornava di prepotenza  l’era di Antigone. Ancora una volta.

Ecco perché andare a votare assume oggi un valore etico e morale che riempie di contenuto esistenziale l’obiettivo referendario di ripristinare i diritti del lavoro cancellati e di riconoscere quelli ancora negati a quanti, immigrati e figli di immigrati, vivono e lavorano in questo paese.

Esprimersi sui cinque quesiti referendari del 8/9 giugno significa quindi riaffermare il valore costituzionale del lavoro contro la mercificazione di esso e affermare il primato dell’integrazione dei migranti che risponde allo stesso interesse nazionale in un paese in evidente declino demografico ed in affanno addirittura rispetto alle necessità dell’apparato economico-produttivo e alle esigenze del più ampio sistema sociale.

È tempo, dunque, di ribadire nelle urne il valore del lavoro per come esso è declinato dalla Costituzione e di esprimere la volontà inclusiva della nazione per quanti sono arrivati e si sono integrati in essa, secondo lo spirito della  stessa costituzione. 

Ed è anche tempo di fermare il disimpegno prodromo dell’indifferenza che spinge la democrazia verso la democratura che, ahimè, fa rima con dittatura.

Si tratta di  fermare, finché siamo in tempo, ancora una volta, la nemesi della storia… o quella divina se più vi piace.

Antonio Corvino

Antonio Corvino, Antonio Corvino, di origini pugliesi, napoletano di formazione è uno scrittore, poeta, saggista ed economista di cultura classica.
Ha alle spalle una ricca produzione saggistica. Da ultimo nel dicembre 2019 ha curato per Rubbettino, insieme a Francesco Saverio Coppola, “Mezzogiorno in progress“ un volume Summa sulle questioni aperte del Sud.
Appassionato delle antiche vie nelle “terre di mezzo” ha percorso, tra il 2019 ed il 2024,  numerosi cammini nel cuore del Mezzogiorno continentale italiano coprendo oltre 1500 chilometri e traendone una serie di appunti di viaggio che han dato vita a diversi volumi  e romanzi.
 Nel settembre 2023 è uscito per Giannini Editore il suo primo romanzo di viaggio: “Cammini a Sud. Sentieri, tratturi, storie, leggende, genti e popoli del Mezzogiorno
 Nel novembre 2024 è uscito per Rubbettino Editore il suo secondo romanzo di viaggio: “L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni


Per l’Università Partenope, il CEHAM di Valenzano-Bari  e l’Ordine nazionale dei biologi, ha realizzato un corso monografico in  video sul Mediterraneo della durata di 15 ore destinato ad un master post laurea. 
Sulla rivista Bio’s, Organo dell’Ordine nazionale dei Biologi, ha pubblicato tre saggi sulle prospettive del Mediterraneo indicando un nuovo paradigma policentrico dello sviluppo e proponendo la suggestione del Mediterraneo come Continente.
Sulla rivista Politica Meridionalista ha pubblicato e continua a pubblicare numerosi saggi sul Mezzogiorno.
Collabora con la rivista letteraria Il Randagio.
Collabora con quotidiani cartacei ed on line. 

La lezione di Pepe Mujica arriva dalla fine del mondo o quasi. Come a Macondo, di Antonio Corvino

A Macondo il tempo scorreva immobile al pari delle acque del fiume che placido si accucciava tra gli alberi appena più in là. 

Il colonnello Buendia guardava il cielo dalla veranda pensando al tempo della sua rivoluzione e annusava l’aria impregnata di sapori che si spandevano tutto intorno.

I peperoncini erano talmente corrugati che se avessero disteso le infinite grinze sarebbero diventati degli enormi palloni tanto da potersene volare. 

Erano di tutti i colori. 

Rossi, gialli, color terra bagnata, verdi. 

Spuntavano da ogni crepa, da ogni fessura della terra arsa o sanguigna a seconda che tirasse il vento furioso o scrosciasse incontenibile la pioggia. E gli mettevano allegria. Gli piaceva addentarne qualcuno ogni tanto.  

Solo i vecchi come lui potevano addomesticare quei peperoncini sensuali come la vita e piccanti come la solitudine.

Quando pioveva, dio ce ne scansi, pensavano terrorizzati  i pochi superstiti. Ma non lui. Con  la pioggia la terra si impregnava di quei sapori tanto da sentirteli nel naso, nella gola e persino negli occhi che lacrimavano per tutti gli amori perduti e le rivoluzioni non fatte . Quella terra era intrisa di sensualità come nessun’altra. Ci facevi l’amore stando fermo sotto la veranda e se ti veniva l’idea di andare in giro a sguazzare nel fango ed a rischiare di essere travolto dalle acque furenti del grande fiume, non ti salvavi più. Morivi di beatitudine, come tra le braccia di una donna  maestosa attesa tutta la vita.

Il colonnello Buendia lo sapeva bene. 

E aspettava che il cielo diventasse nero, i tuoni ed i lampi spaventassero case, gente ed animali, la pioggia scrosciante trasformasse allegramente le strade in un pantano e ingoiasse felicemente la terra con tutti i fottuti soldati che la occupavano. Lui se ne sarebbe andato a zonzo  a sfidare l’universo come aveva fatto con quel  dannato esercito che lo aveva portato davanti al plotone di esecuzione infinite volte, uscendone sempre indenne però perché egli conosceva il segreto della vita. 

Anzi solo allora con la furia scatenata degli elementi si sentiva vivo e poteva respirare la sua solitudine e farla durare cent’anni a beneficio di figli e nipoti. Solo allora gli si parava davanti, momento dopo momento, tutta intera la sua vita e lui la contemplava incurante delle urla di quanti lo invocavano…

“Colonnello Buendia mettiti al riparo… un giorno o l’altro il fiume ti porterà via sino all’Oceano e nessuno ti ritroverà più”.

Gli urlavano per pietà e compassione ma sapevano che quelle urla se le portava via il vento e la pioggia e ammesso che una lontana eco forse arrivava alle sue orecchie, lui se ne sarebbe altamente fregato. Perché ritrovare il tempo della sua solitudine tra le acque gonfie del fiume e nell’Oceano turbolento ingoiando i sapori ed i profumi della terra che gli penetravano in corpo tanto da farlo diventare lui stesso terra e fango, acqua e cielo come quei peperoncini che correvano sulle onde limacciose, era proprio quello che voleva. Quello che cercava. Perché lì erano concentrati i cent’anni della sua solitudine piena di vita. Ed i successivi e tutti gli altri a venire.

Era convinto che il mondo a volersi salvare non aveva altra scelta. Doveva tuffarsi nella natura, amarla e farsene travolgere se necessario. Tutte le rivoluzioni a cui aveva partecipato tendevano a questo. Ripristinare il flusso primordiale tra gli uomini e l’anima dell’Universo. Le violenze, le dittature, le sopraffazioni erano scaturite di là, dal potere e dalla smania di ricchezza che generavano violenza. Ma appena tu fossi stato in grado di assecondare la natura ti accorgevi che tutto tornava a posto. Non solo. 

Comunque essa si sarebbe incaricata di rimettere a posto le cose. 

Dove non fosse riuscita la cocciutaggine di Buendia o di Mujica, le loro infinite, reiterate rivoluzioni, vi avrebbe pensato l’Universo a rimettere le cose a posto. Come il vento furioso che alla fine avrebbe sradicato tutto intero Macondo sollevandolo in volo fino a farlo scomparire in cielo.  

Ecco era questo il  destino del mondo, pensava Pepe Mujica, mentre nella sua fattoria coltivava quanto gli serviva non per sopravvivere ma per vivere. Egli non cercava la povertà ma il benessere prodromo della felicità…

Aveva fatto il guerrigliero, era stato il terribile tupamaro da tutti i nemici temuto e cercato. Amato solo dai Campesinos. 

Era finito in prigione, torturato per lunghi anni,  ma la sua coerenza non era mai venuta meno. Proprio come il colonnello Buendia e lui aspettava, perché  lo sapeva, che un giorno o l’altro il vento terribile, come un giudice impietoso, se li  sarebbe portati via tutti quei  soldati e i dittatori che li comandavano. 

E arrivò quel giorno. 

E Pepe fu liberato… lo vollero Presidente quanti avevano atteso con lui il ritorno della libertà fresca e grondante come una pioggia purificatrice…

E salì le scale del Palazzo di Montevideo. Ma poi se ne tornò nella sua masseria dove serviva poco per vivere, e dove c’era tutto per essere felici. 

Esattamente come succedeva ai campesinos. 

E l’Uruguay tornò a respirare. 

E Pepe se ne tornò a vivere senza rabbia e rancore ma solo con la coerenza che lo aveva abitato da sempre come un grande fiume, il  fiume della vita.

Solo dalla fine del mondo, dai luoghi del colonnello Buendia e del comandante Mujica, campesino, guerrigliero, Presidente,  poteva arrivare quell’insegnamento. 

Vivere in armonia con la natura e in simbiosi con  la comunità che ti ha generato cercando la libertà come l’aria da respirare e la compassione come la via della salvezza.

E allora ti rendi conto che non serve accumulare ricchezza sino ad impoverire i tuoi simili e distruggere il pianeta.

Non si tratta di essere “pauperisti” diceva Pepe, ma di avere il senso della misura e del limite, nella vita, nei rapporti con gli altri, nella produzione e nei consumi. 

Allorché i nuovi potenti avranno raccattato tutto l’oro del mondo, cosa se ne faranno se non ci sarà più nessuno intorno a loro? 

Come Creso arriveranno alla disperazione e moriranno di fame o se ne partiranno per Marte. Ma quella partenza sarà  la loro più grande sconfitta ed allora un vento furioso si solleverà come a Macondo. Ma sarà  un vento senza poesia e senza compassione … e non sarà la terra a volarsene sino a sparire ma l’umanità intera, distrutta dall’ingordigia di pochi.

C’è un fantasma che si aggira tra gli uomini contemporanei, ne era convinto Pepe come ne  era convinto Buendia… é la violenza figlia dell’ingordigia e schiava del potere che tutto può  distruggere. 

E contrapposto ad esso, come un potente antidoto l’insegnamento della coerenza di Pepe e della determinazione di Buendia. 

La coerenza non solo davanti alla prigione ed alle torture ma anche davanti alla  vittoria ed al potere, e la determinazione anche davanti alle sconfitte.

Non si tratta di sposare le teorie pauperiste. Non si tratta di rifiutare la modernità. 

Non si tratta di spingere verso una inutile palingenesi fuori dal tempo.

Si tratta di ripristinare il senso del limite e della misura nelle azioni degli uomini, delle nazioni e di orientare la produzione della ricchezza in un orizzonte che comprenda l’Umanità perché l’Umanità intera possa beneficiarne.

É una lezione impossibile da mandare a memoria? 

É una lezione necessaria, piuttosto.

L’alternativa sarà un vento di tempesta saturo di polveri irrespirabili se non di scorie nucleari e di particelle radioattive che seccherà la terra e che spazzerà via la comunità umana proprio come Macondo. Ma senza poesia questa volta, e senza compassione.

Antonio Corvino

Antonio Corvino, di origini pugliesi, napoletano di formazione è un saggista ed economista di lungo corso, di cultura classica, specializzato in scenari macro economici ed economia dei territori. 

Direttore generale dell’Osservatorio di Economia e Finanza, specializzato nell’analisi dell’economia del mezzogiorno e del Mediterraneo oltre che nella costruzione degli scenari macroeconomici in cui Mezzogiorno e Mediterraneo sono inseriti.

In tale veste ha organizzato dal 2011 al 2015 il “Sorrento Meeting” che ha affrontato, grazie al concorso di intellettuali, studiosi, rappresentanti economici e politici, controcorrente, dell’intero Mediterraneo e di altri Paesi asiatici ed americani, con largo anticipo e visioni non scontate, le questioni esplose in maniera virulenta, negli anni più recenti: dai nodi gordiani del sottosviluppo alle migrazioni, dai giovani nuovi argonauti in cerca del futuro da qualche parte, all’effetto macigno dell’Euro sull’economia  Mediterranea ed al negativo condizionamento del paradigma  nord-atlantico  su di essa,  dall’energia alla logistica, al destino del Mediterraneo che ahimè appare sempre più  compromesso.

Già Direttore nel Sistema Confindustria ha ricoperto diversi incarichi a livello nazionale, regionale e, da ultimo, anche a livello territoriale.

Appassionato delle antiche vie nelle “terre di mezzo” ha percorso numerosi  cammini nel cuore del Mezzogiorno continentale coprendo oltre 1500 chilometri e traendone una serie di appunti di viaggio che han dato vita a diversi volumi  e romanzi di cui “Cammini a Sud”  è il primo ad essere stato pubblicato.

Nel 2024 a dicembre esce il suo secondo romanzo di viaggio questa volta dedicato a Partenope. “L’altra faccia di Partenope” edito da Rubbettino racconta il viaggio pieno di peregrinazioni reali e immaginifiche dell’autore-narratore tra i misteri ed i miracoli che avvolgono i luoghi e la dimensione della napoletanità che, dal canto suo, riflette la nostalgia e rivela il bisogno del ritorno ai valori primordiali dell’esistenza.

Cultore di arte ha frequentato molti artisti, talora legandosi di profonda amicizia con essi. E’ il caso di Pino Settanni, scomparso nel 2010, artista e fotografo di straordinaria sensibilità e levatura, presente nei musei internazionali, il cui archivio è stato acquisito dall’Istituto Luce-Cinecittà.

Dedito da sempre alla scrittura, questa è divenuta da ultimo la sua principale occupazione, spaziando dal romanzo di introspezione intima e personale sino all’ osservazione lucida quanto preoccupata delle derive antropologiche destinate a scivolare verso una visione distopica che solo nella memoria può trovare l’antidoto.

Nel dicembre 2019 ha curato per Rubbettino il volume “Mezzogiorno in Progress”. Un volume-summa sulla questione del Sud cui hanno collaborato trenta tra studiosi economisti ed intellettuali e trenta imprenditori fuori dagli schemi.

Sin dalla più giovane età ha collaborato con riviste di economia, tra cui “Nord e Sud” che annoverava, essendo egli un giovane apprendista, le migliori menti del Mezzogiorno. Ha collaborato, in qualità di esperto opinionista, con diversi quotidiani meridionali.  Tuttora scrive su riviste specializzate in scenari economici e problematiche dello sviluppo. 

Da ultimo, per l’Università Partenope, il CEHAM, e l’Ordine dei biologi, ha realizzato un corso monografico video sul Mediterraneo della durata di 15 ore destinato ad un master.

Sulla rivista Bio’s, Organo dell’Ordine nazionale dei Biologi, ha pubblicato tre saggi sulle prospettive del Mediterraneo alla luce dell’implosione della globalizzazione, indicando un nuovo paradigma policentrico dello sviluppo e proponendo la suggestione del Mediterraneo come Continente; nell’ultimo saggio si è soffermato sul ruolo del Mediterraneo nella crisi alimentare ipotizzando il ritorno della agricoltura familiare e del recupero della biodiversità quali strade maestre per una nuova visione di sviluppo legata alla valorizzazione dei territori e della agricoltura meridionale. 

Sulla rivista Politica Meridionalista ha pubblicato e continua a pubblicare numerosi saggi sul Mezzogiorno indicando i Cammini e le Terre di Mezzo quali orizzonti per combattere lo spopolamento e l’abbandono dei territori interni. 

Antonio Corvino: “L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni” (Rubbettino), di Salvatore Sacco

Già solo il titolo di questo volume attira inevitabilmente l’interesse del lettore: infatti non c’è città al pari di Napoli che accentri attenzione da parte di chi, italiano o straniero, ha avuto in qualche modo occasione di visitarla o di avere a che fare con i suoi abitanti:  come in un nucleo magnetico con opposti poli-  negativo e positivo- si generano sensazioni, pareri, giudizi, contrastanti spesso anche in modo radicale.

Il testo intriga già dal suo titolo che fa riferimento alla  figura mitologica di Partenope, sirena, vergine, incantatrice, suicida, dalle cui polveri sarebbe sorta la città originaria su cui si insediò  la Neapolis (la città nuova) così chiamata dai greci e tramandata alla geografia nazionale.

L’autore parte dunque dalla enigmaticità delle origini per fare immergere il lettore nelle enigmaticità attuali che Napoli ripropone costantemente e che, in un turbinio di colori, suoni, odori, sensazioni ne rendono sempre misteriosa ed affabulante la percezione soggettiva.

Quale strumento migliore per sprofondarsi nella complessità assoluta di questa città e della sua gente, della testimonianza diretta – quasi una cronaca- di un cammino, o meglio di una peregrinazione riportata da un autore eclettico (scrittore, giornalista , economista): una registrazione impulsiva, diretta, collegata con le sensazioni e con le impressioni più immediate  e spontanee, spesso non inficiate dalle fantasime del “politicamente corretto”. 

L’immersione avviene di colpo, senza preparativi che in effetti stonerebbero con il fascino conturbante ma, per molti versi, anche  asfissiante della città e del suo hinterland. Inizia così un tour vorticoso: da  San  Giovanni a Teduccio a  Pietrarsa, alla reggia di Portici, Ercolano, Oplontis, Afragola, le splendide ville  patrizie; ancora il colle dei Camaldoli, il lago di Averno, l’antro della Sibilla, per poi rituffarsi nel cuore di Napoli, il Vomero, S.Maria La Nova e S.Anna dei Lombardi,  San Lorenzo e il magma primordiale; finalmente il rione Sanità, la certosa San Martino, poi Mergellina e Piedigrotta, Posillipo. Ed infine l’omaggio al gigante semibuono e semidormiente: il Vesuvio ed i fiabeschi Cognoli, con l’irrinunciabile atterraggio sul cratere fatato.

La narrazione procede incalzante tra racconti, descrizioni, scoperte stranianti e coinvolgenti, talvolta al limite del sogno. E’ un incedere che appassiona anche perché le descrizioni e le relative connotazioni sono  dirette, talvolta anche folgoranti; non è un caso che sono formulate da chi ha un vissuto idoneo per catturare le matrici più iconiche della realtà che osserva,  nonostante l’estrema complessità delle stesse: l’autore è, infatti, un meridionale doc proveniente da un’altra capitale “intricata” del nostro Sud – la Bari della Puglia sedicente avanguardia del Mezzogiorno-  ma buon conoscitore di Napoli, dove si è recato in gioventù per completare gli studi specialistici, in quella città che in quei tempi  (l’ Università di Portici, i grandi Manlio Rossi Doria, Augusto Graziani etc.) rappresentava la fata morgana del rilancio di queste disgraziate regioni. E’ un dettaglio non irrilevante che, appropriatamente, l’autore riporta con sintetici cenni nel testo .

E le note del cronista di oggi rappresentano una felice fusione fra la visione entusiastica e quasi ingenua del giovane che giunge a Partenope col treno e viene affascinato dalla irripetibile originalità (nel bene e nel male) di questo grumo di civiltà, con la matura consapevolezza scaturente da un percorso professionale che dell’ analisi critica fa il suo nucleo centrale. Non solo, ma, proprio questa saggezza porta l’autore a farsi supportare da sostegni esterni importantissimi, dal grande geografo umanista all’ acuto socio economista, ma con l’orecchio sempre teso al contributo che può dare alla sua ansia di comprensione anche il tassista o la guida locale improvvisata. Il tutto non trascurando mai di innescare gli opportuni  circuiti di interattività con il tessuto più interessante del contesto locale ed in particolare coi giovani.

Ma si badi bene: l’intensità del testo non si esaurisce solo nella già di per sé  coinvolgente descrizione dei luoghi e delle storie, sempre vivida ed arricchita dagli essenziali ed arguti approfondimenti storico-culturali, ma si completa con alcune osservazioni, mai giudizi, sulle più rilevanti dinamiche sociali – e , quindi, sulle loro proiezioni qualitative e temporali – della città. 

Ad esempio  (come rimarcato nella interessante postfazione al testo)  l’autore sembra assecondare l’idea  che  Napoli, pur con tutti i suoi limiti, possa ancora rappresentare in qualche modo una guida verso un futuro urbano socialmente inclusivo ed emancipante, sfidando i rischi insiti nell’uniformazione imposta dalla globalizzazione, superando i limiti delle vetuste tradizioni para-rurali che comportano forme di vessazione  e solitudine, spesso camuffate sotto il sipario di una esuberante estroversione.  

Tracce di questa vocazione -e delle sottostanti eclatanti contradizioni- possono essere individuate, ad esempio, nell’evidenza posta dall’autore sulla “perfetta simbiosi che tiene insieme Napoli, al riparo da ogni remora o cruccio”, il tutto proiettando al lettore le immagini delle  “verandine e dei balconcini realizzati estroflettendo lo spazio casalingo dei bassi lungo i vicoli o, ancora, le nicchie ed i tempietti votivi che, sugli angoli delle vie o sulle facciate dei palazzi, fanno bella mostra di sé “in omaggio a Dio, alla Madonna ed ai santi; al proposito,  acutamente si fa osservare come a Napoli i santi siano chiamati per nome e siano trattati come gente di famiglia.  Ma forse non si tratta solo di un vezzo popolare, laddove si consideri che i napoletani vivono alle falde del Vesuvio, una presenza  in qualche modo trascendente che veglia su di loro: ebbene tanto l’uno (il Vesuvio) che  gli altri  (i napoletani abituati a camminare sui Campi Flegrei) finiscono col porsi in una situazione di relativa superiorità, o solo disinteresse,  rispetto alle bagattelle ed alle quisquilie quotidiane. 

Si tratta di semplice “filosofia del tirare a campare” o di  una maschera da indossare per essere protagonisti sul palcoscenico della vita? Questi ed altri interrogativi superficiali o profondi, ma sempre interessantissimi, vengono gettati lì, fra le tante frizzanti descrizioni dei panorami o dei monumenti, per una eventuale riflessione del lettore. E’ forse questo intreccio di semplicità e complessità che, assieme agli scorci paesaggistici irripetibili, ha affascinato e continua ad affascinare dal semplice visitatore ai grandi frequentatori della città, primo fra tutti il grandissimo poeta Giacomo Leopardi.

Così come leggeri, ma intriganti appaiono i fugaci ma lungimiranti confronti con altre realtà cittadine di cui l’autore ha approfondita conoscenza, non solo altre città meridionali quali Bari o Palermo, ma anche Roma e Milano a livello nazionale ed, a livello internazionale Bruxelles, Londra, Lodz, Philadelphia. 

Una lettura piacevole per l’aspetto descrittivo e narrativo scintillante e brioso, ma al tempo stesso per le profonde riflessioni che propone sempre in modo pacato e rilassato .

La sensazione, dopo la lettura, è di aver acquisito un importante frammento di conoscenza che riguarda una delle città più iconografica del nostro Paese, una città come Napoli, su cui probabilmente tutti noi abbiamo, forse anche solo  inconsciamente, prefigurato qualche  giudizio positivo o negativo e comunque , troppo spesso condizionato da preconcetti , forse, mai adeguatamente vagliati!

Salvatore Sacco 

Già Direttore della Fondazione Curella di Palermo e docente presso la Facoltà di Economia dell’Università di Palermo

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Venerdì 31 gennaio alle 18, il Randagio incontra Antonio Corvino e il suo “L’altra faccia di Partenope” alla libreria Raffaello di Napoli. Dialogano con l’autore Valeria Iacobacci e Francesco Saverio Coppola.

Antonio Corvino: “L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni” (Rubbettino), di Gigi Agnano

Antonio Corvino, per me, prima ancora che un professore, un economista, un saggista, un meridionalista, un romanziere e un poeta, è uno splendido compagno di viaggio. Abbiamo attraversato insieme a piedi molti luoghi degli Appennini, tra Campania, Basilicata e Puglia. Quelli che per lui erano poco più che passeggiate, per me erano cammini faticosi, che mi lasciavano vesciche enormi e dolorose sui piedi. In questi percorsi abbiamo condiviso esperienze indimenticabili, tra i panorami mozzafiato e le difficoltà del Cammino degli Anarchici, dei Briganti, o della lunga Benevento-Matera. Mentre io arrancavo con la vista annebbiata dalla fatica, pensando al letto e alla cena — alla pasta e fagioli e all’aglianico — lui, con la sua insaziabile curiosità, si addentrava in ogni chiesa o cappella che incontravamo lungo il sentiero. Non si limitava a un’occhiata veloce: si fermava estasiato davanti a ogni pala d’altare, a ogni statua, come se osservasse un capolavoro unico e irripetibile.

Durante queste camminate, Antonio mi indicava quelli che per me erano genericamente “alberi” o “piante,” chiamandoli con la competenza di un botanico o, più semplicemente, di chi torna sempre, dopo tanto girovagare, alla sua campagna in Salento. Questo suo modo di immergersi nel viaggio “con l’insaziabile avidità dello spirito che lo spingeva a conoscere, scoprire, sperimentare” – dice quando parla di Ulisse -, di cogliere la bellezza di ogni pietra, di ogni filo d’erba e di ogni opera, umana o del Padreterno, è lo stesso che emerge nelle pagine del suo ultimo libro.

In “L’altra faccia di Partenope”, Antonio Corvino offre al lettore un’acuta e affascinante  indagine su Napoli, tracciando un percorso sociologico e culturale che si evolve pagina dopo pagina in un’esperienza dello spirito. Con un’attenzione meticolosa ai dettagli, l’autore scava sotto la superficie della città per rivelare un mondo nascosto, fatto di storia, mito e cultura popolare. Corvino non si accontenta di raccontare una Napoli patinata, da cartolina, ma, lontano dagli stereotipi, si addentra tra i suoi strati più segreti e intimi, portando alla luce una bellezza ombrosa che ama nascondersi. “È da quando ero studente che mi appassiona l’altra faccia di Partenope,” spiega, “quella nascosta sotto gli intonaci scrostati, i cornicioni e i marmi incastonati qua e là nei basamenti di palazzi… quella velata di devozione nelle edicole votive dei vicoli.”

Questa citazione rivela subito la cifra narrativa del suo lavoro. Napoli è vista come un’entità che ha nella stratificazione e nella verticalità uno dei suoi misteri, “una città che ama nascondersi dietro a più di uno strato di veli. “Napoli è velata come nel film del turco-salentino Ozpetek, come il Cristo di Sammartino. Corvino intraprende, come nei nostri cammini, una sorta di pellegrinaggio. Non è un caso che i primi capitoli siano dedicati a San Giovanni a Teduccio, Pietrarsa, Portici, Ercolano, tutti luoghi che vedono il passaggio dei pellegrini diretti a Pompei. Ne segue uno scavo nell’anima nascosta della città, una full immersion nella Napoli cristiana, quella delle chiese, dell’arte e dei miracoli. E il lettore lo segue, lasciando percorsi turistici e luoghi comuni, addentrandosi nei quartieri storici ma anche in quelli meno noti, ascoltando i miti e i racconti, la musica e la letteratura che si intrecciano alle sue strade.

Napoli emerge come una città di contrasti. Nel giro di trecento metri e di un quarto d’ora, capita di rendersi conto di aver attraversato una città al tempo stesso aristocratica, borghese, popolare e multiculturale. Qui il bello e il brutto, lo splendore e il degrado, il sacro e il profano, l’antico e il moderno convivono, sovrapponendosi e mescolandosi in un’armonia all’apparenza caotica ma perfetta. È una città che non si offre al primo sguardo, ma che va decifrata con lentezza. L’autore ne racconta la bellezza sfuggente, che si rivela strato dopo strato, che richiede al visitatore l’impegno di oltrepassare la superficie per comprenderne l’essenza. La bellezza di Napoli, infatti, è “sfumata, confusa, mischiata, sovrapposta” e si rivela solo a chi ha la pazienza di immergersi davvero nella città, a chi, come Ulisse con le Sirene, si dispone all’ascolto.

Uno degli aspetti più interessanti del libro è la riflessione di Corvino sui contrasti della Napoli moderna, incarnati dal Centro Direzionale. Simbolo di un’aspirazione alla modernità incompiuta, il Centro Direzionale nasce per essere Manhattan e invece diventa un “Bronx in giacca e cravatta,” un tentativo di slancio verso il futuro che però non riesce mai a dispiegare “le ali” per intero: “percepivo lo sguardo ambizioso di un’aquila le cui ali tuttavia non riescono a dispiegarsi liberando tutta la propria potenza.” Questo luogo di grattacieli e acciaio diventa simbolo di una Napoli che cerca di stare al passo coi tempi, ma che finisce per perdere il suo carattere autentico, “uno spazio nato da una bella idea… ma trasformatosi ben presto in un caravanserraglio.”

Nei capitoli dedicati ai quartieri della Sanità, di Forcella e del Vomero, Corvino coglie le mille sfumature di una Napoli popolare e autentica, confrontandola con quella borghese e moderna. Nella Sanità, ad esempio, osserva come storia e miseria convivano a stretto contatto, tra palazzi nobiliari decadenti e botteghe di quartiere, simboli di una resistenza culturale. A Forcella, un rione segnato da una fama drammatica, Corvino percepisce l’eco delle lotte quotidiane di un’umanità schietta che resiste ai pregiudizi. Nel Vomero, con i suoi eleganti palazzi e i panorami mozzafiato, trova il respiro più borghese della città, capace di offrire, nonostante la cementificazione selvaggia, angoli di contemplazione.

Corvino dedica ampio spazio anche alle chiese di Napoli, rivelando l’importanza di questi luoghi sacri non solo come siti artistici, ma come centri di una devozione popolare commovente per la sua inossidabile genuinità. Chiese come San Domenico Maggiore, il Duomo e Santa Chiara diventano nelle sue pagine simboli di un’anima cittadina che non può essere scissa dalla fede, dal sacro, che qui si fonde con la vita quotidiana. Attraverso questi capitoli, il lettore viene invitato a scoprire una città ancora profondamente cristiana, dove la bellezza delle architetture e delle opere d’arte sacra si intreccia con le leggende e le storie di fede dei napoletani.

Con un linguaggio lirico e coinvolgente, Corvino crea un’opera intensa che invita il lettore a scoprire Napoli in tutta la sua complessità, senza fermarsi alla superficie. Napoli, dice, “non ammette distrazioni.” L’altra faccia di Partenope, che esce casualmente in contemporanea col celebrato film di Sorrentino, è un omaggio appassionato a una città dalla bellezza nascosta e complessa, una celebrazione del suo fascino ambiguo, un libro che solleva domande sul valore della tradizione, sul senso di appartenenza (“Terra mia” cantava Pino Daniele), sul rapporto tra antico e moderno, ma anche sul futuro dei centri storici invasi dal turismo e sul degrado delle periferie urbane. Un libro che non è solo una guida spirituale a Napoli, ma un inno alle sue eterne, irresistibili, turbolente, ammalianti contraddizioni.

Gigi Agnano