Marguerite Duras: “Scrivere, una ragione di vita” (NN editore, trad. Chiara Manfrinato), di Edoardo Pisani

Lacrime di Marguerite Duras – su Scrivere 

L’atto di scrivere comprende pure la sua negazione, cioè l’atto di non poter o non saper più scrivere, perché anche non scrivere è un atto, benché mancato. L’atto di non scrivere ci riconduce quindi alla scrittura stessa, sia pure nel silenzio. Scrivere significa tentare di sapere cosa scriveremmo se scrivessimo, dice Marguerite Duras. 

È seduta su una poltroncina, davanti a un pianoforte e accanto a un termosifone. Indossa una gonna a scacchi grigia e un maglione blu scuro, e ha un cerchietto nero che le incornicia i lisci capelli grigio cenere. L’obiettivo della telecamera è fisso su di lei. 

Marguerite Duras ci parla con una voce leggermente arrochita dall’alcol, scandendo lentamente ogni parola. Il suo tono è malinconico. Stanco. Ma Duras è una donna piena di dignità e saggezza, e ha molto da raccontare. 

Nel 1993 uscirono due documentari-interviste di Benoît Jacquot su di lei, Êcrire La Mort du jeune aviateur anglais, entrambi rintracciabili su YouTube. Quello stesso anno le due interviste confluirono in un libriccino edito da Gallimard, Êcrire, che Laurent Adler, la sua maggiore biografa francese, ha definito il suo testamento letterario e umano. Oltre trent’anni dopo la prima edizione italiana del testo (Feltrinelli, 1994), l’editore Enne Enne lo ripropone in nuova traduzione, a firma di Chiara Manfrinato. 

Scrivere è un libro che mancava da tempo nelle nostre librerie e che ancora ci illumina e ci commuove. Contiene cinque testi brevi, fra i quali le due interviste-monologo tratte dai documentari di Benoît Jacquot, adeguatamente riviste per la pubblicazione. Marguerite Duras fa i conti con se stessa e con la propria opera, sapendo che non le resta molto da vivere. Parla – scrive – della scrittura, del silenzio, dei suoi libri, della morte, di politica, di amore, di alcol, di Roma (un’intera sezione del libro si svolge a Roma), di pittura e di purezza. Lo stile è quello che la accompagna ormai da diversi anni, con delle frasi brevi e coincise, dalla sintassi semplice, con qualche iterazione che dà più forza al suo periodare. È una sequenza di paragrafi o frasi separati da uno o più righi bianchi che può essere letta anche come una partitura. A momenti sembra che Duras procacci una forma inedita non di scrittura ma di espressione, una nuova forma espressiva che comprenda pure gli spazi bianchi, le pause, i lunghi silenzi fra un brano e l’altro – e i suoi silenzi dicono sempre qualcosa. 

A Duras restano tre anni di vita. Tuttavia il suo sguardo verso la morte è lucido, non spaventato, come quello degli stoici greci. A un certo punto osserva l’agonia di una mosca che è sul punto di morire, forse ricordando un racconto di Katherine Mansfield (La mosca, appunto). Scrive: “La morte di una mosca è la morte. È la morte in cammino verso una certa fine del mondo, che estende il campo dell’ultimo sonno. Vediamo morire un cane, vediamo morire un cavallo, e diciamo qualcosa, per esempio: povera bestia… ma se muore una mosca, non diciamo niente, non lo documentiamo.”

Come “la morte di una mosca è la morte”, il silenzio di uno scrittore è il silenzio, verrebbe da dire leggendo Duras, perché l’atto di scrivere contiene anche il suo contrario, cioè l’atto di tacere e di contemplare la possibilità di scrivere. “Uno scrittore è un essere bizzarro” chiosa infatti Duras. “È una contraddizione  e anche un’assurdità. Scrivere è anche non parlare. È tacere. È urlare senza fare rumore.” Scrivere è dunque una parola ossimorica che unisce i due atti, il parlare e il tacere. Marguerite Duras lo sa e ce lo dice. Ha scritto per tutta la vita, come le consigliava di fare Raymond Queneau (“Non faccia altro, scriva”), e lo rivendica. Scrivere è stato il suo destino. 

Poi c’è la morte, alla quale pure la scrittura – come il silenzio – deve raffrontarsi. C’è la morte di sé e c’è la morte degli altri, dove gli altri possono essere le persone che abbiamo più a cuore ma anche degli sconosciuti. Parlando della morte in guerra di un giovane aviatore inglese, per esempio, Marguerite Duras ricorda la morte del fratello nella Guerra del Pacifico, e a lui finisce per rivolgersi, al fratello, perché scrivere è anche un impossibile dialogo con i nostri morti, con i morti che abbiamo amato e amiamo ancora, e perché “la morte di chiunque è la morte intera”, come la morte di una mosca o di un soldato o – da ultimo – di noi stessi. La prossima morte di Marguerite Duras, scrittrice e essere umano. 

“C’è l’amore di mio fratello e c’era il nostro amore” continua Duras, con i suoi mormorii strascicati, “quello tra me e lui, un amore fortissimo, nascosto, colpevole, un amore senza fine. Incantevole, perfino dopo la tua morte. Il giovane inglese morto era chiunque ma era anche soltanto lui. Era chiunque ed era lui. Ma non si piange per chiunque.” 

La scrittrice quindi si raffronta con l’impossibilità di scrivere – e ne scrive – e ricorda la propria esistenza, la solitudine, gli amori, i morti propri e altrui, perfino la politica, immaginando una lista con tutti gli uomini e tutte le donne che hanno trascorso le loro esistenze in una fabbrica della Renault ormai sul punto di chiudere, una lista esaustiva, dice Duras, priva di commenti, che raggiungerebbe il numero di abitanti di una grande capitale: un “muro di proletari”, perfetto e significativo. 

Marguerite Duras era stata iscritta al Partito Comunista Francese e non se ne era mai pentita, sebbene fosse stata espulsa quale dissidente nel 1950. Al riguardo scrive, nella prima parte del libro: “Siamo malati di speranza, noi sessantottini, della speranza che riponiamo nel ruolo del proletariato. Quanto a noi, nessuna legge, niente, nessuno e niente ci guarirà da quella speranza. Vorrei perfino riscrivermi al Partito Comunista. Ma al tempo stesso so che non dovrei.” E ancora: “Non dobbiamo sottometterci a ordini, orari, capi, armi, multe, insulti, sbirri, capi e ancora capi. Né alle chiocce che covano i fascismi di domani.” 

Una scrittrice e un’intellettuale come Marguerite Duras oggi ci manca molto, ma per fortuna possiamo ritrovarla nei suoi libri. Nel suo stile a un tempo semplice e elaborato, che in Scrivere si muove fra lunghi silenzi e assiomi fulminanti. O nel suo sguardo fisso nell’obiettivo, mentre parla piano, seria, di morte e di scrittura e quindi di tutto ciò che conta, facendo del silenzio intorno a lei – intorno a noi – un tutt’uno con la sua voce. “Un libro aperto è anche la notte” mormora. E poi, dopo un rigo bianco: “Non so perché, ma le parole che ho appena detto mi fanno piangere.” In questi tempi di chiasso sfrenato e guerre insensate la voce e l’esempio di Marguerite Duras – le sue lacrime, il suo silenzio – ci fanno credere che per l’essere umano non tutto è ancora perduto. 

Edoardo Pisani*

*Edoardo Pisani è nato a Gorizia nel 1988. Ha pubblicato i romanzi E ogni anima su questa terra (Finalista premio Berto, finalista premio Flaiano under 35) e Al mondo prossimo venturo, entrambi con Castelvecchi. Sempre con Castelvecchi ha pubblicato un libro su Rimbaud, E libera sia la tua sventuraArthur Rimbaud! Nel 2026 Marsilio pubblicherà il suo terzo romanzo.

Agustina Bazterrica: “Cadavere squisito” (Eris, 2024, trad. Francesca Signorello), di Silvia Lanzi

Marcos lavora nel mercato della carne da sempre, è un’attività di famiglia. Ma ora le cose sono cambiate, in modo radicale e irreversibile. Un virus ha attaccato gli animali, sia domestici che selvatici, per cui sono stati tutti sistematicamente abbattuti e la loro carne non può assolutamente essere consumata. Ora la carne che tratta è diversa, speciale, perché i governi di tutto il mondo hanno dovuto affrontare la situazione e hanno deciso di rendere legale l’allevamento, la produzione, la macellazione e la lavorazione della carne umana.

Marcos si è dovuto adattare, cerca di non pensare a cosa fa per vivere, e fa del suo meglio per stare dietro a fornitori, clienti, ordini e consegne, perché deve pagare la casa di riposo in cui vive suo padre. E ora che sua moglie lo ha lasciato deve pensare a tutto da solo.

Dalla sinossi del libro

Crudo, è proprio il caso di dirlo. 
Una narrazione molto intensa.
Una storia incredibile sulla crudeltà umana.
Un finale ineccepibile.
Tutto questo è “Cadavere squisito” di Agustina Bazterrica, un libro che si legge in fretta ma che lascia tracce indelebili. E non credo sia successo solo a me.
Di solito diffido dei “casi editoriali” e non mi sento particolarmente attratta dalla letteratura sudamericana (complice un incontro non troppo felice con “Cent’anni di solitudine”).
Questa volta ho fatto un’eccezione. E il risultato è stato al di là di ogni aspettativa.
La storia, raccontata con maestria e senza sbavature, è costellata di dilemmi etico-morali che si risolvono nella domanda: “Cos’è un essere umano?”.
Secondo Kant ciò che ci distingue dalle altre forme di vita è la capacità di pensiero astratto.
Le bestie del libro, che altro non sono che uomini privi di questa capacità – non ci è dato sapere il perché e questa non-conoscenza rende ancora più terrificante il racconto ponendo domande di senso cui non si può trovare risposta – sono “semplicemente” carne da macello – letteralmente.
Chi decide? Con quale criterio?
Chi si arroga il diritto di scegliere che un essere umano nasca per essere mangiato? 
Che differenza c’è tra i due se entrambi appartengono alla specie homo sapiens?
È più bestia la “bestia” o l’essere umano? A tal proposito mi viene in mente il celeberrimo discorso di Shylock nel “Mercante di Venezia”.


Il nuovo tipo di società adombrata dal romanzo, sembra portare all’estremo quello che nel 2002 Patricia Piccinini aveva già intuito con il gruppo scultoreo “The young family”.
Per marcare la differenza tra gli esseri umani e il loro cibo – la consapevolezza che ciò che hanno nel piatto è in tutto e per tutto come loro – i personaggi del libro utilizzano un linguaggio volutamente tecnico, disumanizzato.
E chi non si adegua al nuovo andamento viene considerato pazzo e rinchiuso.
E se il protagonista venisse in possesso di un capo di bestiame femmina, cosa potrebbe succedergli?
Lui che, in lutto per la morte di un figlio in fasce è abbandonato dalla moglie, troppo annichilita dal dolore per stargli accanto?
Tutto questo, e molto di più, è “Cadavere squisito”.
Si dice che sia una sorta di critica al capitalismo e alla società attuale: tutto vero. Ma credo che ci sia anche qualcosa di più profondo ed ineffabile: una riflessione, non più procrastinabile,  sull’essenza umana.
Un libro unico, intenso. Una lettura per stomaci forti che a tratti ricorda Margaret Atwood, Joyce Oates e George Orwell.

Silvia Lanzi

Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).

Lutz Seiler: “Stella 111” (Utopia Editore, trad. Paola Slaviero), di Claudio Musso

In queste pagine Lutz Seiler racconta i mesi immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino, ma non ne fa un romanzo storico né una cronaca politica. La DDR non viene mai nominata, la riunificazione resta sullo sfondo come un’eco lontana: al centro c’è un tempo sospeso in cui le certezze si sono dissolte e il presente diventa l’unico terreno da abitare. Tutto sembra avvenire fuori dal quotidiano in una dimensione che sfugge alla linearità della storia e che restituisce con forza l’esperienza di chi, in quel 1989, ha vissuto più il vuoto lasciato da ciò che era crollato che la promessa di ciò che sarebbe venuto.

Il titolo rimanda a una radio legata all’infanzia di Karl, il protagonista di questo romanzo: un oggetto che evoca un passato sereno, fatto di armonie familiari e scoperte, che non ha altro ruolo se non quello di segnale affettivo e memoria di un tempo perduto. Quel ricordo contrasta con l’animo inquieto del giovane, nutrito da una parte torbida e irrisolta. Karl porta con sé un passato disadorno e un rapporto disturbante con i genitori: li abbandona nella Turingia Orientale e li ritroverà anni dopo. La radio rappresenta allora un frammento di infanzia felice ma anche il limite oltre il quale quella felicità non si è più ripetuta.

L’incipit sorprende: non è il figlio, come molti suoi coetanei, a fuggire verso l’Ovest, ma i genitori, «interpreti principali della consuetudine», con una fuga studiata da tempo, a partire, lasciandogli la casa in una sorta di passaggio di consegne. Karl non cerca stabilità, non rincorre il benessere, ma si dirige, a bordo della sua eccentrica Zighuli, verso Berlino Est, verso la soglia dove si incontra la Storia. Qui si rifugia in una delle tante società a nicchia popolata da artisti, poeti, squatter, visionari e persone che si rifanno la carta di identità. Un luogo che si colloca ai margini sia fisicamente, nelle zone degradate della città, sia ideologicamente, fuori dalla propaganda ufficiale. E trova randagi come lui, senza più collari imposti, che cercano di fare branco e che popolano una sorta di libero ‘parco giochi’ di utopie. Al contempo si immerge in un tempo provvisorio, affidandosi alla precarietà e al qui e ora come forma di vita possibile, preferendo il margine alla sicurezza e la comunità improvvisata ma affiatata al modello dominante. Perché c’è un istante nella storia in cui tutto sembra possibile e nulla è ancora deciso. È quello tra un non più e un non ancora in cui le regole si allentano, i sogni si affacciano senza filtri e la mente elabora.

È qui che la dimensione psicologica si intensifica: nei volti dei personaggi che incontra, figure eccentriche, radicali, spesso borderline, Karl sembra ritrovare non solo nuovi compagni di strada, ma anche riflessi di sé, specchi deformanti che gli rimandano frammenti del proprio passato e di quello che non ha avuto modo di essere. Alcuni incontri hanno la concretezza ruvida del reale quotidiano, altri assumono quasi la consistenza del fantasma. Quelle cantine lasciate al logorio del tempo, quegli appartamenti abbandonati diventano così anche un nuovo spazio interiore in cui Karl, lasciandosi alle spalle «l’intero squallore della sua insufficienza» affronta i propri irrisolti e misura la propria capacità di trasformarli in possibilità di vita e, al contempo, di farne, senza sconti, la tara.

In quella che poi diventerà la celebre Prenzlauer Berg egli lavora come muratore e cameriere nel bar sotterraneo Assel, stringe legami con chi, come lui, sperimenta un’esistenza fuori dalle regole. Questa vita collettiva è instabile ma intensamente vitale: l’esperienza del presente prende il posto del futuro che non si conosce e del passato che non offre più appigli. Anche i genitori, dall’altra parte della cortina, scoprono che l’Ovest non è un approdo sereno ma un nuovo inizio fatto di difficoltà e adattamenti. Seiler mostra così che nessuno, in quel passaggio epocale, trova garanzie immediate: l’unico modo di esistere è muoversi nell’incertezza, trasformando la fragilità di passi incerti in possibilità.

La peculiarità del libro risiede soprattutto nella scrittura. Seiler proviene dalla poesia e si avverte: la sua prosa è densa, sensoriale, capace di trasformare gli oggetti quotidiani – una stufa, un mattone, un asello, una radio – in simboli vivi, dotati di una risonanza che travalica la materia. Ogni dettaglio diventa concreto e insieme poetico, restituendo non solo l’atmosfera di un’epoca ma la sua vibrazione più intima. Non è una lettura immediata: il testo è complesso, stratificato, ma proprio per questo riesce ad appagare il lettore con la ricchezza di immagini, la profondità dei personaggi e la densità di significati che emergono pagina dopo pagina, grazie anche all’attenta e vibratile traduzione di Paola Slaviero.

Da questa esperienza, controcorrente e, al tempo stesso, nella corrente, per Karl nasce l’approdo alla scrittura: non un gesto estetico ma la necessità di dare voce a un presente che altrimenti resterebbe muto. La poesia diventa l’unico modo per orientarsi in un mondo in trasformazione, per dare forma a ciò che è fragile, instabile, ma intensamente vissuto. Nello scrivere poesie egli attua una ricerca di identità in un mondo che gli sfugge, un gesto di resistenza contro la dispersione e la disgregazione che vede intorno a sé, un vissuto da elaborare per trasformare la propria esistenza in un linguaggio durevole, l’appartenenza ad una tradizione inserendosi, sopravvivendo, ad una comunità invisibile di voci.

“Stella 111” è dunque il romanzo di un passaggio: non documenta la storia, ma la trasfigura in esperienza universale. Racconta come, nel momento in cui le strutture di riferimento crollano, diventa possibile reinventarsi e cercare nuove forme di libertà e di definizione. Il gesto di Karl – lasciare la città per rifugiarsi nelle sue nicchie – non è soltanto un atto di ribellione, ma il tentativo di plasmare da sé la vita: perdersi pienamente, senza se, fuori dalla norma e dall’incasellamento, per poi ritrovarsi. È in questo smarrimento volontario che il testo trova la sua forza, come un invito a interrogarsi su cosa significhi oggi davvero abitare il presente quando ogni cornice sembra dissolversi. E, una volta compiuto questo primo passaggio decisivo, dare libero sfogo a forme espressive e strumenti interiori per orientarsi perché solo chi riesce a trasformare un tracciato di vita disorientata in occasione di riscatto può sentirsi veramente ‘a casa’ nel tempo che gli è dato.

Perché l’abitare l’oggi non è un traguardo che si raggiunge una volta per tutte, ma un compito quotidiano, un esercizio di attenzione e di invenzione. È, riprendendo Rilke, vivere le domande. Così forse un giorno, senza accorgercene, vivremo dentro le risposte.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

Federico De Roberto: “I Viceré”, di Sonia Di Furia

Con l’unificazione, l’Italia divenne una monarchia costituzionale, regolata dallo Statuto albertino del 1848. Il nuovo Stato era rigidamente accentratore: nonostante la grande varietà di tradizioni, costumi, linguaggi, condizioni economiche e sociali delle numerose province e regioni italiane, le autonomie locali erano praticamente inesistenti. A tutta l’Italia venne estesa la legislazione sabauda, per quanto riguardava l’amministrazione, l’apparato fiscale, la scuola, l’esercito. Il Governo del paese era espressione di una ristrettissima minoranza: aveva il diritto di voto il 2% della popolazione, e si trattava in prevalenza di grandi proprietari terrieri. La gran maggioranza del popolo italiano restava esclusa dai diritti politici e non era in grado di incidere col voto nella vita politica della nazione. Al suffragio universale maschile si arriverà solo mezzo secolo dopo l’unificazione, nel 1913.

Le trasformazioni della base economica generarono naturalmente, seppur con lentezza, anche trasformazioni della struttura sociale italiana. Nonostante ciò, l’aristocrazia godeva ancora di grande peso e prestigio sociale, in quanto forniva  modelli di comportamento anche ai ceti altoborghesi che si andavano formando. Ne è uno specchio la letteratura, in cui i nobili appaiono largamente protagonisti di romanzi, novelle, drammi, grazie al fascino che i loro stili di vita esercitano sul pubblico e sugli stessi scrittori di origine borghese.

Federico De Roberto si inserisce nel quadro dell’Italia postunitaria e verista e pubblica, nel 1894, il suo capolavoro “I Viceré”, di cui si legge ed esamina il volume inserito nella collana “I grandi classici” Crescere edizioni del 2011. L’opera è un vasto quadro sociale incentrato sulla storia di un’antica famiglia nobile siciliana, di cui vengono analizzate con implacabile freddezza le tare ereditarie, l’avidità interessata e la sete di dominio. Postumo, nel 1929, uscì “L’imperio”, purtroppo rimasto incompiuto, che continua I Viceré, narrando la scalata al successo politico dell’ultimo rampollo della famiglia Uzeda, Consalvo. 

Il romanzo narra le vicende della nobile famiglia siciliana degli Uzeda, discendente da antichi viceré spagnoli dell’isola, intrecciandole con gli avvenimenti storici tra il ’50 e l’80. Odi, cupidigie, meschinità, rivalità si agitano tra i numerosi componenti della famiglia, che sono perpetuamente in conflitto tra loro e sono uniti solo dall’orgoglio di casta e dalla difesa dei loro privilegi e della loro superiorità sociale. Tuttavia la decadenza della razza si rivela in un germe di follia che si manifesta in ciascuno di essi: tutti sono segnati da fissazioni e stranezze. La sete ossessiva di dominio caratterizza anche l’ultimo discendente, Consalvo, protagonista della parte finale del romanzo, che, dopo un’adolescenza dissipata, affronta con ambizione smodata e totale cinismo la carriera politica, abbracciando con opportunismo, lui aristocratico e intimamente reazionario, idee di sinistra. Egli è infatti convinto che al di là di ogni rivolgimento storico nulla può veramente mutare e che i privilegiati devono sapersi adattare alle nuove situazioni pubbliche, come quella successiva all’unità, per mantenere intatto il loro potere. 

Emblematico il brano in cui l’attenzione è rivolta alla politica, all’interesse di casta e decadenza biologica della stirpe (parte I, cap. IX). In esso, il duca Oragua, zio degli Uzeda, proveniente da una famiglia aristocratica borbonica e reazionaria, ma divenuto liberale per calcolo e opportunismo, durante la spedizione garibaldina in Sicilia acquista una grande popolarità senza alcun merito, grazie ad alcuni gesti demagogici. Alle prime elezioni del nuovo Stato unitario si presenta candidato al Parlamento, in base al principio: “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri” che suona come cinica parodia della famosa frase di Massimo D’Azeglio (Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani). Contemporaneamente, dopo anni di attesa e di delusioni, la nipote Chiara sta per dare alla luce un figlio.

L’episodio si fonda sul montaggio in parallelo, condotto con notevole abilità, di due diverse sequenze narrative, il parto mostruoso e l’elezione del duca d’Oragua. Tale montaggio è evidentemente denso di significati che l’autore, in nome dell’impersonalità, si guarda bene dall’esplicitare, lasciando che le cose parlino da sé. Si può leggere innanzitutto in chiave naturalistica: da un lato la decadenza biologica dell’antica razza nobiliare, che ormai può solo dare origine a mostri; dall’altro, però, nonostante questo, l’inesausta sete di dominio e l’avidità interessata che inducono la nobiltà ad ogni sorta di trasformismo, senza alcuno scrupolo, pur di conservare il potere, anche ad accettare il nuovo Stato liberale e il principio delle elezioni dei rappresentanti del popolo. Ma il montaggio parallelo si può anche leggere in chiave simbolica: il mostro è l’equivalete oggettivo della mostruosità morale della famiglia Uzeda, che si manifesta sia nel cinismo dei suoi trasformismi politici sia nell’ottuso reazionarismo e nella chiusura ossessiva a difesa di interessi e privilegi. 

Pur attraverso l’impersonalità, traspare egualmente la dura condanna da parte dello scrittore. Ma De Roberto non prospetta alternative: la sua visione è fatalistica, come si può intuire dalla battuta del principe Uzeda: “Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!”.  I dominatori mantengono immutato il loro potere, nonostante ogni mutamento politico. Le trasformazioni storiche sono solo fenomeni di superficie, ma nel profondo nulla può cambiare veramente. Il suo è un pessimismo affine a quello di Verga. 

Le tecniche con cui De Roberto costruisce la narrazione impersonale sono però diverse da quelle del Verga “rusticano”. Non vi è la “regressione” della voce narrante entro la realtà rappresentata. La narrazione si fonda sul dialogo, su didascalie descrittive e informative perfettamente neutre, e su discorsi indiretti liberi dei personaggi, più vicini al Gesualdo.  La narrazione tende ad avvicinarsi alla forma teatrale. De Roberto ne è perfettamente consapevole: nella Prefazione ai processi verbali (1890) afferma infatti: “L’impersonalità assoluta non può che conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive pel teatro”. Solo raramente riaffiora dall’oggettività della narrazione una mossa sarcastica, che tradisce l’atteggiamento del narratore: “il prodotto più fresco della razza dei Viceré”; “egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco”.

Nel quadro evolutivo dell’Italia unificata, teatro e palcoscenico de I Viceré, le sue strutture economiche erano ancora fortemente arretrate rispetto agli altri paesi europei come Inghilterra, Francia e Germania. La classe politica al potere nel primo quindicennio unitario, la Destra storica, erede del liberalismo cavouriano, era ostile a uno sviluppo industriale, poiché da un lato riteneva che l’Italia, essendo povera di materie prime, non avesse i requisiti adatti, e dall’altro temeva che il sorgere dell’industria, creando un proletariato di fabbrica, potesse generare enormi problemi sociali e innescare pericolose tensioni eversive, come accaduto in altre nazioni europee. Preferì quindi assegnare all’Italia la funzione meno avanzata di paese agricolo-commerciale, ritenendola più consona alle sue risorse naturali e alle sue tradizioni culturali. Convinta assertrice del libero scambio, applicò a tutto il territorio nazionale le tenui tariffe doganali del Regno di Sardegna, per favorire l’esportazione dei prodotti agricoli (vino, olio, agrumi) e l’importazione dai Paesi stranieri di prodotti industriali di cui vi era necessità, in una specie di divisione del lavoro internazionale. Una politica di industrializzazione avrebbe invece avuto bisogno di tariffe doganali molto alte, per proteggere i prodotti industriali interni dalla concorrenza di quelli esteri, più a buon mercato, per i minori costi derivanti da un’organizzazione più avanzata della produzione.

La scelta liberoscambista ebbe effetti disastrosi sulle industrie del Mezzogiorno, che sotto i Borboni erano state fortemente protette dai dazi, e che furono rapidamente spazzate via dalla concorrenza internazionale nei primi anni dell’Unità.

Il quadro comincia a cambiare con la svolta segnata dall’avvento della sinistra al potere (1876), che coagula gli interessi di gruppi sociali diversi. Tra questi gruppi cominciano ad avere peso anche gli imprenditori industriali. Le politiche della Sinistra subiscono il fascino del modello prussiano (non si dimentichi che l’Italia, rovesciando le tradizionali alleanze risorgimentali, nel 1882 si era unita con Prussia e Austria nella Triplice Alleanza) e inaugurano una politica di potenza, che spinge necessariamente alla corsa agli armamenti. Si potenziò l’industria siderurgica e in questo settore l’intervento dello Stato fu massiccio: esemplare il caso delle grandi acciaierie di Terni, fondate nel 1884, le quali avevano soprattutto il compito di fornire corazze e proiettili alla marina militare. 

Accanto a questi impulsi all’industrializzazione patrocinati dallo Stato, un altro fattore si aggiunse a partire dal 1880: la crisi agraria, in conseguenza dell’arrivo nei mercati europei di enormi quantità di grano americano a buon mercato, che fa crollare i prezzi. L’effetto di tutto ciò fu un ulteriore impoverimento del Mezzogiorno che, già privato delle primitive industrie dalla politica liberoscambista, si vede ora danneggiato dal protezionismo nell’esportazione di prodotti pregiati (vino, olio, agrumi) ed è costretto a comprare prodotti industriali a prezzo maggiore dal Nord, che nel frattempo si è andato industrializzando: il rapporto tra il Sud e il Nord si precisa sempre più come un rapporto di tipo coloniale, fondato sullo scambio ineguale “prodotti agricoli contro prodotti industriali”. Si profila quindi nettamente, sin dai primi decenni dell’Unità, la “questione meridionale”, quel divario nello sviluppo dell’economia e della società civile tra il Nord e il Sud della penisola.

Nonostante ritardi e limiti, l’Italia degli anni Settanta e Ottanta vedeva comunque gli inizi di uno sviluppo capitalistico moderno, che tendeva, come al suo sbocco inevitabile, all’industrializzazione. Se ai nostri occhi, col senno di poi, quei primi fenomeni della modernizzazione appaiono molto timidi e arretrati, con ben altra forza dirompente dovevano presentarsi agli occhi di chi viveva immerso fra essi e vi assisteva per la prima volta. Per questo le idee correnti fra scrittori e uomini di cultura di quegli anni avevano come termine di riferimento, esplicito o implicito, la nuova realtà economica e sociale che si andava affermando. Ancora, però, le masse rurali, al Nord come al Sud, rimanevano totalmente estranee al nuovo Stato unitario, ne ignoravano i principi ispiratori, non sapevano neppure chi fosse il re o contro chi si combattevano le guerre in cui erano chiamati a morire. Significativo è l’episodio dei Malavoglia in cui, nel piccolo villaggio di pescatori siciliani, giunge l’eco della battaglia di Lissa (1866, scontro navale sul mar Adriatico, nell’ambito della terza guerra di indipendenza tra la marina imperiale austriaca e quella italiana) durante la quale muore Luca, come un fatto favoloso, avvenuto non si sa bene dove e perché.

 I ceti popolari continuano a vivere in un’altra dimensione, estranea a quella della società civile, relegati in un orizzonte linguistico puramente dialettale e in una cultura tradizionale, folklorica, magica e primitiva. Queste condizioni erano più gravi al Sud, data la situazione di maggiore arretratezza di quelle regioni, ma il quadro non è tanto differente anche al Nord. Nonostante l’unificazione politica vi erano insomma due Italie, non solo in senso geografico, ma anche in senso sociale: una frattura netta, una vera barriera separava i ceti superiori dotati di istruzione, di un reddito e di condizioni di vita civili, e le masse popolari. In quel momento mette radici quel fenomeno doloroso e di grandiose proporzioni, che fu l’emigrazione all’estero in cerca di lavoro; fenomeno che interessò non solo il Sud, ma le masse proletarie di tutta la penisola.

De Roberto, con I Viceré, fornisce un affresco dai toni forti e disillusi dell’Italia pre e post unità, da cui emerge il fallimento degli ideali risorgimentali e la descrizione impietosa e ironica del popolo italiano. Quando venne pubblicato il romanzo, c’era stato da poco lo scandalo della Banca Romana e la fondazione della Banca d’Italia; erano scoppiate le manifestazioni dei Fasci Siciliani dei lavoratori; Giolitti si era dimesso e Francesco Crispi era salito al potere. Quella dello scrittore appare come una vera e propria denuncia al tradimento degli ideali risorgimentali in una Italia abitata da loschi arrivisti, nobili opportunisti, determinati a non perdere ricchezze e prestigio sociale, politica clientelare. Un libro che sradica la visione romantica e idilliaca dell’Italia unita e riporta alla luce un processo lungo e complesso, non privo di corruzione, lotte di potere, lacerazioni e spregiudicato trasformismo. Un romanzo sempre attuale che può contribuire a comprendere meglio l’Italia di oggi.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Georgi Gospodinov: “Il giardiniere e la morte” (Voland, trad. Giuseppe Dell’Agata), di Gigi Agnano

Nell’ultimo canto dell’Odissea assistiamo a uno dei momenti più intensi e toccanti della letteratura universale. Ulisse, dopo un decennio di peregrinazioni, torna a Itaca in incognito e, travestito da mendicante, si reca al podere dove lavora il padre Laerte, ormai anziano e in abiti trasandati. Non riconosciuto, Ulisse lo elogia per la cura delle piante e, solo dopo qualche tentennamento, si rivela, ma Laerte scettico gli chiede una prova. Ulisse gliene fornisce due: mostra la cicatrice di una vecchia ferita lasciata da un cinghiale e elenca con precisione gli alberi da frutta (peri, meli, fichi, viti) che il padre gli aveva donato da bambino. La commozione è tale che Laerte sviene tra le braccia del figlio.

Se si volesse immaginare una serie televisiva, l’ultimo libro di Georgi Gospodinov, “Il giardiniere e la morte”, tradotto da Giuseppe Dall’Agata e pubblicato da Voland, rappresenterebbe probabilmente il “sequel” dell’episodio omerico.

Con un incipit che trasforma il lutto in poesia – “Mio padre era un giardiniere. Ora è giardino.” -, Gospodinov elabora un commosso addio al padre; un testo intimo che rappresenta con estrema delicatezza la tenerezza e il dolore imparagonabili che si provano dinanzi al tramonto e alla perdita di un genitore.

Scritto su un taccuino con la stessa mano che ha stretto quella del padre malato di cancro, il libro è una raccolta di frammenti, di ricordi che attraversano le diverse stagioni della vita di entrambi, di riflessioni sull’invecchiamento e la malattia, di aneddoti che trasudano malinconia ma anche un lieve umorismo (“le storie divertenti per ogni evenienza”). Emerge così il ritratto di un uomo forte, temprato da una vita dura, riservato, spesso assente, incapace di dimostrare l’affetto con abbracci o baci, eppure generoso nell’affrontare le difficoltà con un “niente di grave”, una formula per non essere di peso ai figli, per rassicurarli, equivalente ad un “non preoccupatevi, va tutto bene”.

A chi è chiuso e introverso spesso accade di dedicarsi a un’attività solitaria e il padre, infatti, riserva tutte le sue attenzioni e  la sua gentilezza ad un giardino. Gli si dedica con ostinazione – arando, seminando, innaffiando – anche e soprattutto quando la diagnosi è chiara, le forze cominciano a mancare e la malattia inizia a prendere il sopravvento. È la sua lotta contro l’inevitabile. È evidente la metafora che interessa Gospodinov come figlio e scrittore: le piante e gli alberi per il giardiniere sono come per il narratore i ricordi e le storie, gli sopravvivono. Il giardino come la pagina scritta, mantiene viva la memoria di chi se ne prende cura; continua a crescere, a fiorire e a produrre frutti anche quando chi lo ha piantato non c’è più. Il giardino come la scrittura, come ogni atto di creatività e di cura, è un presidio di vita contro la morte.

Già in “Fisica della  malinconia” Gospodinov aveva fatto ricorso al mito di Sherazade, la narratrice delle “Mille e una notte”. Come Sherazade guadagna un giorno di vita dispensando ogni notte una storia nuova, così ne “Il giardiniere e la morte” le storie che l’autore raccoglie nel taccuino e la cura del giardino da parte del padre sono un modo per ritardare la fine, per resistere al dolore e mantenere vivo ciò che è prossimo a sparire. 

Scrive Gospodinov: “Questo non è un libro sulla morte ma sulla malinconia per la vita che se ne va”. O ancora: “Mio padre è morto e mio padre sta morendo – sono due frasi del tutto diverse. La prima è un fatto, una conclusione, l’altra è un romanzo”. In tal senso, “Il giardiniere” più che un libro sulla fine – che in quanto fine non ha più nulla da raccontare – è paradossalmente un libro sulla vita (“La morte è un ciliegio che matura senza di te”). 

Infatti, benché l’opera descriva l’esperienza dolorosa di accompagnare il padre fino all’ultima soglia, Gospodinov riesce a trasmettere una sensazione primaverile di rinascita, una “luce morbida” e un calore consolatori. Il libro ci dona un sillabario della tenerezza, una grammatica delle emozioni familiare a chiunque abbia affrontato un’esperienza simile. Più che un romanzo, il libro sembra nascere come un percorso di scrittura terapeutica teso a elaborare il lutto, che l’autore ha solo successivamente deciso di condividere con i lettori. 

“Dei padri si scrive con maggiore difficoltà. Forse perché nell’infanzia continua a esistere un invisibile cordone ombelicale con la mamma, lei è ovunque intorno a te, lei ti prepara il pranzo, lei si prende cura di te quando sei malato, ti mette la mano sulla fronte, lei è l’aria in cui tu nuoti. Il padre è una cosa più opaca, incerta e oscura, talvolta minaccioso, spesso assente, aggrappato al bocchino della sigaretta, lui nuota in altre acque e altre nuvole”.

Pur potendo apparire confinato nell’ampia gamma di scritti spesso tutti uguali sulla perdita dei genitori, inclini a cadere in cliché sdolcinati e in lacrimevoli luoghi comuni (romanzi un po’ furbi che sfruttano il fatto che il lettore non fatica ad identificarsi e a commuoversi); “Il giardiniere e la morte” si distingue per il rigore di una prosa essenziale, misurata e lontana da qualsiasi enfasi. Gospodinov offre una narrazione priva di artifici melodrammatici, ricca di autentica intensità emotiva e profondità di pensiero, che si inserisce in modo coerente e significativo nel suo straordinario percorso narrativo. 

“Mio padre se n’è andato. Non so cosa fare.”

Come tutta la produzione pregressa (“Romanzo naturale”, “Fisica della malinconia”, “Cronorifugio”), anche “Il giardiniere” si confronta con i temi e le riflessioni cari all’autore bulgaro: il tempo, la memoria, la perdita, la malinconia. E come spesso accade nei suoi libri, una vicenda intima diventa l’occasione per raccontare una storia collettiva: la morte del padre coincide simbolicamente con la fine di un mondo e di una generazione cresciuta a cavallo della caduta del regime.

Quello che in quest’opera forse un po’ manca – parliamo di un libro scritto, per ammissione stessa dell’autore, in soli quattro mesi – è lo slancio di originalità, la ricchezza di sfaccettature, di riflessioni, di digressioni bizzarre, di spunti geniali che aveva caratterizzato i suoi lavori precedenti. Se Gospodinov dovesse un giorno – magari anche quest’anno – aggiudicarsi un meritatissimo Nobel, probabilmente non sarà per quest’opera; tuttavia “Il giardiniere e la morte”, per il suo carattere delicato e commovente, potrebbe rappresentare un ottimo primo approccio alla narrativa dell’autore di “Cronorifugio” e di “Fisica della malinconia“, che comunque conferma il suo immenso talento e la statura di una delle voci più importanti della letteratura contemporanea. 

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori de “Il Randagio – Rivista letteraria“, nato il 15 ottobre 2023, anniversario della nascita di Italo Calvino.