Dentro questa frase c’è una teologia di strada: il cielo interviene dove la vita si fa più dura e difficile e prova a rimettere in pari i conti con un raggio di sole. Se arriva il gelo, da qualche parte può arrivare anche una carezza di luce: qui la speranza è un gesto pratico.
“Spanne” vuol dire “stende, sparge, allarga”. Il sole si distende come un lenzuolo caldo sopra il freddo, che copre e asciuga. È un’immagine che si percepisce prima ancora di capirla. Questo è il talento della lingua napoletana: inchiodare le sfumature senza perdere il calore.
Ecco perché i proverbi napoletani funzionano come mini-romanzi: neve come prova da superare, sole come risposta. In un’epoca che riduce tutto a slogan, o frasi motivazionali, la lingua napoletana fa l’opposto: complica con grazia e restituisce spessore… tutto senza perdere l’ironia.
C’è un’altra versione del detto che dice “‘O Pataterno addò vede a culata, llà spanne ‘o sole.” “Culàta” non è una parolaccia, bensì la “colata” del bucato, cioè l’operazione tradizionale in cui si faceva colare acqua bollente sui panni (spesso filtrata attraverso cenere, usata come sbiancante naturale) prima di stenderli ad asciugare. Così il proverbio diventa una fotografia domestica della provvidenza: Dio “spande” il sole proprio quando vede la biancheria fuori, quando serve davvero che il tempo regga.
Perdersi tra le pagine di un libro, farsi prendere da una storia, dai suoi personaggi e dalle vicende di cui sono protagonisti.
Di più. Assaporare il testo, parola per parola, seguirne il ritmo come fosse una musica di sottofondo, che ci accompagna pagina dopo pagina.
Credo che chi ama leggere mi capisca: sono le parole a raggrumarsi in frasi che ci accompagnano, capoverso dopo capoverso, fino all’ultimo atto, nel quale si scioglie la trama e i protagonisti ci lasciano andare.
E se queste parole e queste frasi, originariamente, non fossero nella nostra lingua? Chissà quanta bellezza andrebbe persa, quante emozioni ci sarebbero precluse.
Ed è qui che arriva, provvidenziale, il traduttore che, con la sua fatica, ci permette di aprire scrigni e scoprire innumerevoli tesori ai quali attingere a piene mani e che, a volte, ci accompagneranno per sempre, incidendo si nella nostra memoria e cambiando, perché no, anche la nostra vita.
Di questo, e di molto altro, parliamo con Elvira Grassi, traduttrice letteraria con una predilezione per la narrativa irlandese. Nata ad Ancona, Elvira si trasferisce a Roma dove, nel 2005 fonda, insieme a Leonardo G. Luccone, lo studio editoriale Oblique. Ma lasciamo a lei la parola.
Cosa l’ha portata alla traduzione?
L’amore per la lettura. Ho lavorato parecchi anni in editoria – in vari ruoli – prima di dedicarmi alla traduzione letteraria con una certa costanza. La mia palestra principale è stata la revisione delle traduzioni altrui, è lì che ho capito che la traduzione era l’ambito editoriale in cui avrei voluto dedicare gran parte delle mie giornate. Tradurre è la forma più profonda di lettura, quando traduci capisci com’è fatto veramente un testo, ne conosci alla perfezione ogni elemento, ti immergi e indugi in quella lingua e anche in tutto ciò che non è espresso. Sono partita dalla lettura e sono arrivata alla lettura.
Quali sono le sfide che affronta ad ogni pagina?
La sfida principale è rispettare la forza espressiva dell’autore. Restituire la stessa qualità di scrittura, rendere il timbro, il registro, la cadenza, la scorrevolezza o gli attriti, la musicalità o le stonature del testo originale; fare attenzione alle specificità linguistiche e culturali e alla coerenza interna. Poi ogni pagina presenta problemi puntuali – giochi di parole, scarti linguistici, espressioni gergali o dialettali, tecnicismi etc. – ma questi si risolvono più o meno facilmente, facendo ricerche, studiando, utilizzando i tantissimi strumenti che abbiamo a disposizione. La sfida è la resa globale.
Quanto è importante conoscere, oltre alla lingua, il milieu culturale dell’autore e il mondo in cui si trova a vivere?
La cultura e il mondo in cui vive l’autore ne plasmano la scrittura. In genere prima di iniziare a tradurre un’opera, dopo averla letta, faccio una serie di ricerche sull’autore, leggo interviste, la rassegna stampa estera, cerco di capire quali sono le sue influenze, le letture: tutto materiale che mi aiuta a capire l’universo linguistico e culturale dell’autore, la sua visione letteraria, e che mi permette di tradurre meglio. L’autrice più complessa che ho affrontato finora è Anna Burns, la prima nordirlandese a vincere il Booker Prize con “Milkman” (da noi uscito per Keller), e non avrei saputo tradurla se non mi fossi prima informata sul contesto politico e sociale che ha segnato la sua giovinezza, sull’impatto che hanno avuto i Troubles nella sua quotidianità. Il suo mondo è quello traumatico del conflitto politico-religioso, e la sua scrittura lo rispecchia.
Come si comporta nella traduzione di una lingua che afferisce a contesti profondamente differenti l’uno dall’altro (penso, ad esempio, all’inglese che si parla in Inghilterra e a quello che si parla negli Stati Uniti, o al tedesco della Germania e a quello dell’Austria)?
L’italiano ha una complessità e vivacità linguistica che ci permette di rendere in maniera appropriata e credibile qualunque cosa. Mi è capitato spesso di tradurre il dialetto nordirlandese, che è quasi incomprensibile a una prima lettura, molto fisico, pieno di contrazioni, di strutture sintattiche inconsuete, di parole mai sentite, molto sonore, direi “carnose”, e in quei casi ho cercato di lavorare molto sul lessico italiano attingendo al parlato, ad alcuni regionalismi ormai entrati nell’uso (evitando comunque i dialetti) e di movimentare la prosa, il fraseggio, di sporcarlo. Stesso approccio – ma con risultati diversi ovviamente – ho usato quando ho dovuto tradurre l’inglese di un autore canadese nato a Trinidad, Ian Williams, o di una scrittrice americana nera, Angela Flournoy, che fa grande uso di slang. Credo sia il testo stesso – in qualunque tipo di lingua sia scritto – a dirti come tradurlo, a far uscire la parte di te più intonata a quella lingua.
E di quegli scrittori che scelgono una lingua di elezione e non quella nativa (ad esempio Nabokov), o che sono essi stessi traduttori (ad esempio Murakami)?
Ho tradotto un romanzo scritto in inglese da un’autrice romena, Sophie van Llewyn, e uno da un’autrice thailandese, Pim Wangtechawat. Due brave scrittrici contemporanee che hanno in comune uno stile particolare, evocativo ma spoglio, che costruiscono le frasi in maniera poco convenzionale, usano una punteggiatura non standard, e lavorano molto per immagini e metafore più che per ricerca e ricchezza lessicale. L’effetto è bello, perché si sentono tutti gli stridori della non lingua materna, e quello che ho cercato di fare è stato trovare nel mio bagaglio linguistico le stesse ruvidezze e di contenere le parole. Mi piace il miscuglio, mi piace leggere autori che scrivono per riprodurre la voce che hanno in testa e non per esibire una discutibile bella forma. Cosa ne penso degli autori-traduttori? Non si può generalizzare, ma il rischio di invasione di campo c’è sempre, e di esempi – passati e recenti – ne abbiamo a volontà, fatto sta che la traduzione rimane una eccellente palestra di misura e quindi di scrittura.
Cosa ne pensa del famoso detto di Bertrand: “Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli, e quando sono fedeli non sono belle”?
Fedeltà è una parola abusata in traduzione e questa immagine mi piace poco. Le traduzioni infedeli sono davvero belle? La traduzione è sì un lavoro autoriale, ma non ci si può dimenticare che non abbiamo scritto noi quel testo.
Più che di fedeltà parlerei di adesione – espressiva, ritmica, culturale. Aderire al testo originale, rimanere dentro la misura della scrittura che si ha di fronte, qualunque essa sia (articolata e dirompente o minimale e frantumata), senza snaturarla o dire meglio o di più, per me è questa la bellezza.
E per finire, qual è il libro più ostico che ha tradotto?
Probabilmente quello che sto traducendo ora, una novella di Anna Burns, surreale, allegorica, criptica, ironica, una parodia del mondo dei supereroi. Un contesto inedito per lei, e direi anche per me. Quello che mi aiuta è ancorarmi al suo stile ricorsivo, serpeggiante e battente che ormai mi è familiare.
Quando leggerete un libro straniero, date un’occhiata a chi l’ha tradotto, e ricordatevi l’immenso lavoro che c’è dietro: persone come Elvira Grassi, che ringraziamo per la sua disponibilità, che operano la magia di restituirci, in una lingua diversa dall’originale, le atmosfere, i dialoghi, le vicende – in una parola il milieu – di una storia, proprio il suo autore come l’aveva pensata
Silvia Lanzi
Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).
Avevo i sogni lontani e nessuna idea di come raggiungerli. Solo una certezza: dovevo fuggire. Un giorno. Prima possibile. Al mio paese si fermavano tutti i treni: Milano, Firenze, Torino, Roma, Venezia… E ognuno sembrava inchinarsi a quel borgo di sedicimila anime, contando anche la mia. Caronte che passava a prendere un’orda di disperati. Ma per traghettarli in un buon altrove, dove soldi e libertà non sarebbero più mancati.
Evitavo il regionale che faceva capolinea al paese. Io corteggiavo i treni che andavano lontano. Prendevo posto nelle carrozze per città che non avevo mai visto, e scendevo dopo pochi minuti, nel solito nulla. Ma per quel quarto d’ora mi sentivo un’altra. Una in partenza. Una che stava andando via. Una con mille ipotesi di vita nuova, in attesa. Minuto per minuto, respiravo la possibilità di non scendere. Di non farmi trovare. Di esistere in un luogo dove nessuno sapesse chi ero. Da che famiglia venivo. A cosa mi avevano destinata. Quella volta mi ero sistemata in una cuccetta. Guardavo fuori. Il buio sembrava liquido. Denso come catrame. L’ultimo treno della sera, ai piedi di un Sud che si auto-dimentica. Poi, una voce.
«Sei seduta lì? Forse ho sbagliato carrozza.»
«No. Io faccio solo una fermata. Mi sono messa in un posto a caso. Vado di là.»
«Resta. Il vagone è tutto vuoto. Mi fai compagnia».
Si era seduto davanti a me. Zaino da trekking, capelli neri, pelle dorata. I suoi occhi color ghiaccio passavano da me alla melma ululante che sembravano i campi dal finestrino. Aveva ventun’anni. Io, “quasi sedici”.
«Quasi… Tra quanto li fai?»
«Otto mesi.»
«E come mai prendi il treno da sola a quest’ora? Che ne sai chi ci trovi?»
Avevo cambiato discorso. Volevo sapere dove andava.
«Adesso a Roma. Poi da lì prendo l’aereo per Ibiza. Vado a fare il cuoco per la stagione».
Il più bel ragazzo che avessi mai visto. Sembrava sceso da uno schermo del cinema. Quando parlavo si mordeva un labbro o si passava una mano tra i capelli. Gentile. Simpatico. Perfetto.
«E insomma, tu viaggi per finta?»
«Per adesso.»
«E com’è parlare con chi va dove tu non puoi?»
«Te lo dico se mi dai una sigaretta.»
Con uno sguardo complice, aveva chiuso a chiave la porta della cuccetta e tirato le tendine, mentre io aprivo il finestrino. Avevamo acceso insieme dalla fiamma del Bic.
La risposta che serbavo, era banale: mi faceva sentire bene, quel quarto d’ora in treno. Era già una libertà. Fino all’anno prima non potevo neanche attraversare la strada da sola. Scuola femminile, chiesa e casa.
«Praticamente reclusa.»
«Infatti,» avevo detto sputando il fumo. «Da cellulare, mi mettevo a fare numeri a caso, perché non conoscevo nessuno da chiamare. Se beccavo un ragazzo più o meno della mia età gli chiedevo dove viveva e continuavamo a sentirci per mesi.»
«E quando vi vedevate?»
La sua voce era vicinissima al mio viso.
«Mai. Ma qualche volta mi fidanzavo al telefono.»
«Come si fa a fidanzarsi con qualcuno che non vedi?»
«Innamorandosi delle voci e delle storie di posti che non hai mai visto.»
«E non lo fai più?»
«Quante domande…»
Mi aspettavo che mi baciasse. E invece niente. L’annuncio vocale ci aveva richiamati all’ordine. Bisognava prepararsi: stavamo entrando in stazione. Avevamo buttato i mozziconi dal finestrino. Ci eravamo salutati in fretta. Con un cenno della mano. Scendendo in banchina, pensavo:
“Che peccato”.
Le anime in partenza caricavano sul treno abiti e salami. Latte d’olio buono. Caciotte. Origano. Conserve. Maglioni fatti ai ferri dalle stesse mamme che piangevano accanto ai binari. Chissà come ci si sentiva, a essere amati in quel modo.
«Lucia!» mi aveva chiamata lui.
Ero tornata indietro di corsa. Il capotreno aveva già fischiato. Il ragazzo mi porgeva un biglietto dal finestrino. “Preso!” Era sicuramente il suo numero. Per sentirci. Per innamorarci al telefono. Lo stringevo forte in un pugno e con l’altra mano ricambiavo il suo saluto. Così, finché il convoglio si era fatto piccolo piccolo, sparendo dietro la montagna. Solo allora avevo aperto il biglietto. Delusa. C’era scritto solo:
“Sei bellissima, buona fortuna per tutto!”
Nei successivi tre anni mi era capitato spesso di pensare a lui. Mi chiedevo se avesse realizzato i suoi sogni e immaginavo che non mi avesse lasciato il numero per rispetto della mia età. Un bravo ragazzo. La mia anima gemella sfiorata.
Poi, una sera, una conoscente me l’aveva portato a casa.
«È in difficoltà, può dormire da te? Solo per oggi.»
L’avevo riconosciuto subito. Il sorriso, la pelle, gli occhi. Uguali. Perfetti. Avevo detto sì. Mi sembrava che il destino ci avesse fatti ritrovare.
La cosa peggiore che mi ha fatto nel mio letto, non è stato lo stupro, ma togliermi la fiducia che si possa riconoscere chi ci farà del male. Che il male abbia una faccia. Un segnale. Qualcosa. Mi ha tolto la fiducia negli uomini buoni. E, in cambio, mi ha inculcato il pensiero atroce che chi non lo fa, semplicemente non ne ha avuto occasione.
Roberta Russo Vizzino
Roberta Russo Vizzino è nata a Salerno e cresciuta a Villa San Giovanni. Dopo una formazione come attrice, ha progressivamente scelto di privilegiare altri linguaggi espressivi, concentrandosi sulla scrittura e sull’attività di modella d’arte.
Ha vissuto in diverse città, in Italia e all’estero. Attualmente abita a Torino. È laureanda in Arti e scienze dello spettacolo all’Università La Sapienza di Roma.
Pubblicazioni (libri): 2023 raccolta di racconti Io sono onda di mare (Edizioni Dialoghi); 2024 racconto Le chiavi di casa nell’antologia Lingua Madre Duemilaventiquattro, storie di donne non più straniere in Italia (Edizioni SEB27); 2025 raccolta di racconti Di carne e parole (Edizioni Dialoghi), con prefazione di Giuseppe Manfridi.
Pubblicazioni (riviste letterarie): 2025 racconto Randagi sulla rivista Il Randagio; 2025 racconto Oltremadre sulla rivista Sottopelle. 2025 racconto Oltremadre in traduzione francese, con il titolo Outre-mère sulla rivista L’Épiderme.
Dal 2023 collabora con la rivista femminista Vitamine vaganti, per la quale scrive articoli-saggi su arte e società.
Il napoletano è una lingua, ma purtroppo non s’insegna a scuola. Si parla a orecchio: quasi nessuno anche all’ombra del Vesuvio sa scriverlo correttamente. C’è un patrimonio di parole, di detti, di saggezze che col tempo sta scomparendo. Simona Iaccio e Stefano Russo hanno recentemente pubblicato un libretto adorabile dal titolo “Il tesoro della lingua napoletana”, che, lungi dall’avere “pretese filologiche o etimologiche”, ci propone con leggerezza una piccola antologia di cento tra espressioni, modi di dire, proverbi, con tanto di traduzione in italiano. Il volumetto ha inoltre il grande pregio di avere una grafica deliziosa e soprattutto di fornire le situazioni concrete in cui quelle frasi possono essere usate. In molte voci gli indigeni riconosceranno, tra un sorriso e un pizzico di nostalgia, la lingua dei genitori e dei nonni; i forestieri, dal canto loro, apprezzandone la ricchezza e la musicalità, avranno tanto da imparare su Napoli e la sua cultura. Personalmente l’ho regalato ai miei consuoceri comaschi, che credo abbiano apprezzato, visto che ogni tanto, nel corso di una telefonata o di una videochiamata, provano a ripeterne qualche battuta. Noi del Randagio, per darvi un’idea, abbiamo quindi deciso di proporvi una prima scheda, nella speranza che gli autori ci consentano in futuro di proporvene altre. Per dirla con Iaccio e Russo: “so’ cicere si se coceno” (sono ceci se si cuociono), ovvero “se son rose fioriranno”.
gigi agnano
C’è una Napoli che canta pure quando piange, che balla anche se ha le tasche vuote, che ride di sé stessa prima che lo facciano gli altri. È in quella Napoli, che nasce il detto “Core cuntento â Loggia”, una delle espressioni più musicali e affettuose del repertorio partenopeo.
Ma chi è, davvero, questo cuore contento alla Loggia?
La Loggia di Genova era una zona franca del porto, concessa dalla città di Napoli alla Repubblica Marinara di Genova, dove commercianti, marinai e facchini si mescolavano ogni giorno.
In quel crocevia affollato e rumoroso, secondo la tradizione popolare, viveva un uomo sempre allegro, un facchino che non si lamentava mai, anche quando caricava sacchi pesanti o si trovava senza lavoro. La gente cominciò a chiamarlo così: “core cuntento â Loggia”, il cuore contento della Loggia. E da lì, la frase si diffuse.
Con il tempo, il detto ha assunto un significato più ampio: indica chi affronta la vita con leggerezza e buon umore, anche quando le condizioni non sono ideali. Non è superficialità, ma uno stile di sopravvivenza: l’arte napoletana di alleggerire il peso delle cose con un sorriso.
Dire che qualcuno è “core cuntento â Loggia” può essere anche una presa in giro, bonaria o pungente, se la persona in questione è un po’ troppo spensierata, magari fuori contesto, leggera fino all’ingenuità.
Come spesso accade nella lingua napoletana, la frase contiene un sorriso e una stoccata insieme. Perché il napoletano non giudica mai solo con le parole: ci mette dentro un tono, uno sguardo, un gesto. È lingua viva, che vibra sul confine tra ironia e affetto.
Nel cuore di questo detto – come di molti altri raccolti nel libro Il Tesoro della Lingua Napoletana – c’è un’eredità viva e affettuosa: quella di due donne chiamate Teresa, la mamma di Simona e la nonna di Stefano. Due figlie del popolo che “per ogni situazione avevano un detto, una frase, un’espressione che calzava alla perfezione”.
Florin Lăzărescu è un autore romeno contemporaneo che racconta la quotidianità con attenzione ai rapporti familiari, ai piccoli conflitti emotivi e ai silenzi che abitano la vita di provincia. La sua narrativa è semplice, diretta, ma capace di cogliere dettagli profondi attraverso scene intime e dialoghi essenziali.
Propongo qui un breve estratto da una narrazione che segue un padre e una figlia durante una camminata mattutina nel villaggio.
Giada Chetti
I due si incamminano lungo la stradina lunga e sconnessa, attraversando banchi di nebbia che rendono la strada ancora più buia. – Come si è scaldato tutto di colpo! Al risveglio nevicava così tanto che dicevi: ne verrà un metro! Salta un fosso, per poco non gli scivola la chitarra dalle spalle. Arrivano davanti a un cancello e lo aprono. Tornano sulla strada.
– Quello scemo di Dorin non ci ha nemmeno aspettato. – Come sai che non è in casa? – Non vedo il chiavistello all’interno. Doveva esserci.
– Almeno non andiamo da soli… Facciamo due chiacchiere, no? – Non voglio annoiarti con i miei problemi, come dice tua madre. – Lascia in pace la mamma. Che problema hai con lei? Perché litigate così tanto? – Io? Lei inizia a litigare. – Papà, per litigare servono due persone.
– Eh, è una vita che lavoro come uno schiavo. Mi alzo alle quattro, lavoro tutto il giorno, poi torno a casa alle otto di sera… Parlo al vento con voi. Che ne sapete voi?! Io esco di notte e di notte rientro. – Lei non lavora? – Sì, ma non quanto me.
– Papà, chi ti lava i vestiti? Chi lava a terra? Chi ti fa da mangiare? – Tua madre. In questo caso hai ragione tu.
– E quindi perché non ti comporti bene con lei? – Quando che non ho tempo? – Non scherzare. Quando è stata l’ultima volta che le hai fatto un regalo? – Tre anni fa, per l’8 marzo.
– E lei non ha apprezzato? – Ha steso le calze e mi ha detto che sono buone come corda per impiccarsi, e spray per non puzzare nella bara. – Eh, scherzava. – Ti pare uno scherzo?
Elena scoppia a ridere.
Florin Lăzărescu
Florin Lăzărescu, scrittore e sceneggiatore, nasce a Doroșcani (Iași) il 28 marzo 1974. È uno dei fondatori del FILIT (Festival Internazionale di letteratura e traduzione) che si svolge annualmente a Iași. Nel 2003 viene pubblicato da Polirom il suo primo romanzo Ce se știe despre ursul panda (Che cosa si sa del panda gigante), ma solo nel 2005 l’autore diventa conosciuto grazie al suo romanzo Trimisul nostru special (Il nostro inviato speciale). L’ultimo suo romanzo, uscito nel 2021 sempre per Polirom, è Noaptea plec, noaptea mă-ntorc (Di notte esco, di notte rientro).
Giada Chetti, torinese, laureata all’Università degli Studi di Torino in Traduzione con specializzazione in polacco e romeno. Ha vissuto sia in Polonia che in Romania dove torna ogni volta che può grazie anche alle borse di studio, come la FILIT per traduttori offerta dal Museo Nazionale di Letteratura di Iași o quella dell’Istituto Culturale Romeno. Ha all’attivo traduzioni di Emilia Ivancu, Mihai Eminescu e Radu Florescu.