“Sotto il cielo di Gaza”: Intervista a Betta Tusset e Nandino Capovilla, di Gabriele Torchetti

Nandino Capovilla e Betta Tusset sono attivi da svariati anni nel mondo del volontariato sociale, coordinando per Pax Christi Italia numerosi progetti di inclusione sociale, abitativa e lavorativa per persone senza fissa dimora e migranti. Don Nandino, come lo chiamano nella sua parrocchia a Marghera, ha già raccontato il dramma di Gaza in un precedente libro del 2010 dal titolo esplicito: “Un parroco all’inferno”, edito dalle Edizioni Paoline. Insieme hanno pubblicato testi sulla questione israelo-palestinese, nonché sulle esperienze condotte in prima persona con uomini e donne ai margini della società e del mondo. “Sotto il cielo di Gaza“, pubblicato dalle Edizioni La Meridiana, è il loro ultimo lavoro, nato da una serie di convensazioni con Andrea De Domenico, funzionario delle Nazioni Unite nei territori palestinesi occupati. Il libro è una denuncia necessaria degli orrori perpetrati da Israele in quella che don Nandino definisce senza esitazioni “la più perversa colonizzazione”. Betta Tusset e don Nandino Capovilla sono stati intervistati dal nostro Gabriele Torchetti.

Buongiorno Betta e don Nandino e benvenuti a Il Randagio. “Sotto il cielo di Gaza” è un libro-inchiesta scritto a quattro mani; quali sono le motivazioni che vi hanno indotto a pubblicare un libro e come siete approdati a Edizioni La Meridiana?

    BETTA: buongiorno! Siamo davvero onorati di poter collaborare con voi. Dal 2004 ci interessiamo della questione israelo-palestinese, anche come promotori della ‘Campagna Ponti e non Muri’ di Pax Christi Italia e da allora abbiamo cercato in tutti i modi di dare voce alle persone, alle comunità e alle realtà locali che in quella terra vivono e ricercano spiragli di pace nella giustizia. Questo libro, ed altri che abbiamo scritto insieme su questo tema è uno dei modi per soffermarsi a riflettere, parlarne, proporre una narrazione ‘altra’.  Siamo grati a edizioni La Meridiana per questa opportunità. Ci conosciamo professionalmente anche per un altro nostro testo (“Tanta vita. Storie meticce da una città plurale“) pubblicato da loro nel 2021. Soprattutto ci lega un’amicizia, un’affinità di intenti e di sguardi per una vita dignitosa e libera per tutte e tutti. 

    Don NANDINO: La nostra lunga esperienza in Palestina e Israele ci ha fatti sempre individuare ambiti e modalità per contribuire a cambiare il modo comune di vedere al cosiddetto “conflitto arabo-israeliano” smascherando miti consolidati che instillano nella gente l’idea di una guerra permanente e simmetrica di responsabilità da equiparare. Invece anche questo testo rivela la verità di una profonda ingiustizia, di un disegno di colonizzazione da insediamento che non confonde chi occupa da chi è occupato, il popolo che è colonizzato dallo stato responsabile della più perversa colonizzazione della storia, Israele. Pubblicare testi come questo richiedono case editrici libere e coraggiose…

    Questo testo è nato da conversazioni tra voi e Andrea De Domenico, funzionario delle Nazioni Unite e accompagnato dalle preghiere di Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme. Come mai queste scelte così specifiche negli interventi? Sono state casuali o scelte consapevoli?

    BETTA: sicuramente sono state meditate e consapevoli. Nel giugno dello scorso anno don Nandino ha incontrato Andrea De Domenico a Gerusalemme est, dove ancora lui svolgeva il suo lavoro come coordinatore dell’OCHA, agenzia dell’Onu per il Coordinamento degli Affari Umanitari. Il prezioso, durissimo lavoro che Andrea stava svolgendo nel territorio palestinese occupato (a Gaza, in Cisgiordania inclusa Gerusalemme est), ci ha fatto pensare che fosse importante ascoltare la sua esperienza, che è quella di un operatore preparatissimo e attento. Soprattutto ci sembrava urgente porre in risalto quello che le Nazioni Unite fanno in quella terra, vista la situazione tragica, diciamo ormai genocidaria, in cui vive la gente di Palestina. Ci sembrava anche importante sottolineare, di volta in volta, quali strumenti giuridici il diritto Internazionale e il diritto internazionale umanitario mettono a disposizione della collettività, in un momento storico in cui sembrano essere sviliti e calpestati. E’ il momento invece di ricordarli, studiarli, difenderli. Il Patriarca Sabbah, che conosciamo da tanti anni (è stato anche presidente di Pax Christi International) e che i ‘pellegrini di giustizia’ (che dal 2006 accompagniamo nei nostri viaggi di condivisione e conoscenza) hanno sempre incontrato, in questo anno e mezzo di massacro è sempre stato a fianco del suo popolo. Ogni giorno a don Nandino e ad altri amici, ha mandato e continua a mandare le sue accorate, strazianti ma mai disperate preghiere. 

    Don NANDINO: E’ difficile registrare le reazioni emotive profonde che generano nei lettori le suppliche potenti del patriarca Sabbah. Ci dicono che ad ogni preghiera si resta scossi e senza più voglia non solo di accampare le nostre tesi e i nostri “secondo me però…” ma soprattutto le sue accorate denunce sembra salgano direttamente a Dio mentre obbligano chi le legge a restare in silenzio, a lungo. Davvero non casuale è poi l’effetto che abbiamo voluto produrre accostando questa liricità spirituale alla lucidità e precisione giuridica dei contributi di De Domenico. Ci sembra che nel ricco panorama di pubblicazioni sulla Palestina e Gaza non ci siano molti altri contributi delle Nazioni Unite.

    La tragedia di Gaza è sotto gli occhi di tutti, il massacro in corso è drammaticamente in continua evoluzione. Non soltanto bombardamenti e uccisioni, ma anche atti specifici e persecutori contro la popolazione civile di un territorio: sfollamenti, mancanza di cibo, risorse idriche esigue, una sanità letteralmente inesistente. Una situazione drammatica in cui nessuno è esente dalla sopraffazione, compresi bambini e anziani. Come avete raccolto queste storie? Qual è stata l’urgenza comunicativa più profonda?

    BETTA: Le abbiamo raccolte dalla viva voce di Andrea De Domenico, in lunghissime conversazioni durate tutto l’autunno e l’inverno scorsi. Non potevamo andare ovviamente a Gaza. Non potevamo, come abbiamo fatto altre volte in questi anni, scrivere ciò che ascoltavamo direttamente dalla voce di chi incontravamo tra le strade e nelle case di Palestina, ma l’umanità profonda di Andrea, la sua umanità, la sua partecipazione sofferta al destino di questa gente sono diventati per un po’ anche i nostri occhi e le nostre orecchie, oltre che il nostro cuore. Dopo che di fatto, nell’agosto del 2024, Israele ha espulso Andrea, funzionario ONU, non rinnovandogli il permesso di stare lì e di continuare il suo prezioso lavoro lui ha voluto consegnarci quello che aveva visto e fatto insieme al suo team, partendo dai volti, dalle singole storie, spesso durissime, che aveva ascoltato e incontrato. L’urgenza grande è stata insieme quella di denunciare un orrore che non riusciamo forse ad immaginare fino in fondo da qui. Di ricordare con fermezza che questa tragedia non nasce dagli accadimenti terribili del 7 ottobre 2023, che uno stato occupante sta opprimendo un intero popolo, sterminandone una parte stando al di fuori di qualsiasi norma e legge internazionale. L’urgenza era quella di restituire l’umanità negata al popolo palestinese e di affermare la nostra preoccupazione per gli effetti che ci saranno anche nelle generazioni future di quello israeliano. 

    Don NANDINO: La Meridiana ci ha aiutato a studiare una modalità comunicativa che evitasse il peso di un testo solamente giuridico o la banalizzazione di una simile ecatombe resa da racconti e testimonianze o preghiere. Il lettore giudicherà se siamo riusciti ad appassionarlo attraverso un’articolata composizione di stili letterari e contributi originali come le infografiche e soprattutto le due grandi mappe di Gaza e della West Bank. 

    In questa tragedia umanitaria si parla sempre meno di scuola ed educazione in Palestina e a Gaza. E allora prendendo in prestito il titolo di un vostro paragrafo, cosa succede quando ti tolgono l’istruzione?

    BETTA. Succede che se non vai a scuola e all’università per due anni di seguito, se non puoi proseguire nei tuoi studi (di cui il popolo palestinese va a ragione orgogliosissimo), se nemmeno hai avuto la possibilità di iniziare il tuo percorso formativo, il trauma cresce a dismisura. Non è solo una questione di non avere più i luoghi e gli strumenti per poter continuare a studiare: è veder interrotta anche la routine quotidiana, di socializzazione, di possibilità di elaborare collettivamente un trauma, dei lutti che non si sono mai interrotti. Il 100 % dei minori di Gaza, oggi, soffrono di sindrome da stress post traumatico. 

    Don NANDINO: Per me che ho tante volte visitato la Striscia di Gaza è inimmaginabile lo sconforto nel constatare questo “scolasticidio”, come lo descrivono le stesse Nazioni Unite. Io che restavo allibito dagli 8.000 studenti universitari del solo ateneo della Gaza University non mi dò pace nel riportare in questo nostro libro le prove e i numeri di una delle più gravi violazioni realizzate da uno stato che studia come distruggere non solo il presente di un grande sistema educativo ma soprattutto il futuro di una sua ripresa dall’incubo di un genocidio.

    Il libro nasce anche con la consapevolezza di un attento ascolto all’OCHA, voce delle Nazioni Unite. Che ruolo ha all’interno della vostra narrazione e più in generale nell’assetto geopolitico?

    BETTA: ha il ruolo di informare e far riflettere sul lavoro prezioso che questa agenzia fa e ha fatto sul campo, in Palestina dal 2001. Rilevamento dati, monitoraggio costante della situazione, delle violazioni del diritto internazionale. Azioni di Advocacy, di mediazione, quando è possibile. Collaborazione con tutte le altre agenzie e le ONG che si adoperano in quei luoghi per alleviare le sofferenze della gente. Ma come diciamo nel libro, perché Andrea ce l’ha ben fatto presente, OCHA siamo noi, perché noi siamo l’ONU. E finchè gli stati membri non incidono politicamente sulle decisioni da prendere, OCHA può fare da infermiere, non da dottore. 

    Don NANDINO: Ci colpisce ad ogni presentazione rilevare quanto sia sconosciuta l’agenzia dell’OCHA e per questo siamo ancora più soddisfatti di aver pubblicato in Italia un testo che ne restituisca la voce onorandone l’altissimo valore nell’attuale crisi delle istituzioni internazionali. L’assurdo sacrificio umano che l’organizzazione ha dovuto pagare in questi mesi nel contesto dell’uccisione di più di 200 operatori umanitari solo nel 2024 a Gaza. Mai si era registrato un numero così alto di crimini e soprattutto mai si era constatato un tale silenzio complice dei Paesi del mondo.

    All’interno del testo, i lettori che si cimenteranno nella lettura del libro troveranno anche due cartine geografiche. Come mai questa scelta? Che cosa rappresentano?

    BETTA: Sono due delle mappe aggiornate di Gaza e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, che OCHA elabora periodicamente. Queste sono le più attuali. Fanno parte del lavoro certosino che OCHA fa per monitorare la situazione sul campo, quindi sono uno strumento del suo lavoro. I lettori potranno trovarvi lo stravolgimento che il governo israeliano ha fatto recentemente e nei decenni passati sul paesaggio e sulla vita di milioni di palestinesi: il muro, le colonie, i checkpoint, le strade di apartheid in Cisgiordania; i Corridor, le zone cuscinetto, le chiusure totali a Gaza.  Ci sembrava importante allegarle non solo per riconoscere il lavoro dell’Onu anche in questo senso, ma anche per rendere immediatamente visibile al lettore, mentre affronta i vari capitolo del libro, dove esattamente avvengono i fatti narrati.

    Don NANDINO: E’ incoraggiante vedere con quanta soddisfazione le persone aprono e soprattutto si impegnano ad appendere in un luogo pubblico le grandi mappe dell’OCHA. Sapeste quante scuole le hanno esposte nelle aule e quante comunità cristiane hanno utilizzato le enormi mappe per veglie di preghiera e incontri formativi!

    Abbiamo tutti la sensazione di essere inutili, di osservare passivamente lo sterminio sistematico di una popolazione, è una domanda complicata, ma proviamoci: concretamente noi nel nostro piccolo che cosa possiamo fare per questa situazione? Per la Palestina libera?

    BETTA: possiamo innanzitutto informarci trovando i canali di informazione liberi. A volte crediamo di saperne, di Palestina, ma ne sappiamo male. Possiamo parlarne, provare a partecipare ad una narrazione che sfida quella imperante. Cerchiamo di ascoltare direttamente i palestinesi, e quegli israeliani che si battono per un futuro che garantisca dei diritti uguali per entrambi i popoli. Proviamo ad andare o a ritornare lì, in quella terra martoriata. Perché siamo di fronte ad un disastro geopolitico ma soprattutto umano, che riguarda anche noi. Possiamo non cadere nella tentazione degli equilibrismi di comodo. Possiamo far pressione verso i nostri governanti.  Impariamo dai palestinesi il coraggio della loro resilienza e della loro speranza, del loro sumud.

    Don NANDINO: Primo: Cominciamo ad…esporre la mappa dove qualcuno la veda; Secondo: leggiamo Sotto il cielo di Gaza e segniamoci alcune osservazioni che ci hanno colpito; Terzo: quando qualcuno ci chiederà della mappa prendiamoci dieci minuti e illuminiamo anche la sua coscienza non con il nostro parere ma con la voce inascoltata e attaccata delle Nazioni Unite. Perché come ripete Andrea de Domenico, “L’OCHA siamo noi!”

    Gabriele Torchetti

    Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

    Hyeonseo Lee: “La ragazza dai sette nomi. La mia fuga dalla Corea del Nord” (trad. Stefania Cherchi, Mondadori, 2024), di Elena Realino

    Hyeonseo Lee è un’attivista e portavoce per i rifugiati nordcoreani. In questo potente libro racconta la storia della sua vita, dall’infanzia in Corea del Nord alla fuga che la conduce ad essere clandestina in Cina, sospesa tra tensione e paura; fino al percorso per riuscire a far espatriare anche la sua famiglia, un calvario anche questo ai limiti dell’inverosimile. Ogni singola pagina è preziosa per conoscere la storia della Corea del Nord, una storia che si intreccia con quella personale dell’autrice e dà come risultato un libro dinamico e avventuroso.

    “Per molti versi la vita nella Corea del Nord si svolge in modo del tutto normale. Abbiamo le nostre preoccupazioni economiche, troviamo gioia nei figli, beviamo troppo e ci diamo da fare per la carriera. Ciò che non facciamo mai è mettere in discussione la parola del partito, perché rischieremmo di finire nei guai. I nordcoreani che non sono mai usciti dal paese non pensano in modo critico perché non hanno elementi di confronto (con governi precedenti, con diverse linee politiche o con altre società del mondo esterno).”

    Paese blindato, isolazionista e dittatoriale, dalla Corea del Nord è pericoloso uscire ma anche entrare (si veda la vicenda del giovane turista americano Otto Warmbier). Un paese che racchiude in sé infiniti paradossi, come quello ad esempio di definirsi una Repubblica Democratica Popolare quando invece sopprime ogni forma di individualismo, che sia un modo originale di acconciarsi e vestirsi o un’idea maturata in modo spontaneo e personale. In Nord Corea la proprietà privata non esiste, né si può professare una fede religiosa.  

    Un altro paradosso è che si tratta di un paese fortemente militarizzato, il rigore e l’ordine sono promossi e osservati, eppure un alto grado di corruzione dilaga tra le cariche istituzionali. E poi anche a livello più popolare, perché pur di sfuggire all’ottemperanza di assurdi divieti si ricorre all’inganno. “L’ironia della cosa sta nel fatto che, cercando di costringerci a diventare buoni cittadini, lo stato ci trasformava tutti in traditori e informatori.” 

    Una delle cose narrate nel libro che mi ha colpito molto riguarda le cosiddette sessioni di autocritica in cui ognuno, sia a scuola che a lavoro, deve muovere un’accusa a un altro e dire ad alta voce in cosa sarebbe venuto meno rispetto ai principi del “nostro Rispettato Padre e Leader” nell’ultimo periodo di tempo. “Se non ce la facevo proprio ad accusare un compagno, a volte accusavo me stessa, cosa che si poteva fare. Oppure io e una mia amica stringevamo un patto: una settimana lei avrebbe criticato me, e la settimana dopo io avrei criticato lei accusandola di qualcosa che avevamo inventato e concordato insieme.” “Quelle sessioni mi hanno insegnato una lezione di sopravvivenza: dovevo imparare a essere discreta, sempre attenta a ciò che facevo e dicevo, e diffidente nei confronti degli altri. Stavo già costruendomi la maschera che gli adulti indossano dopo averci fatto l’abitudine.”  

    La dinastia dei Kim si incentra sulla venerazione di questi leader considerati come semidèi, anche in virtù del presunto senso paterno e della cura verso il popolo, eppure durante la terribile carestia che colpì la Corea del Nord tra il 1994 e il 1998, in cui persero la vita mezzo milione di persone, Kim Jong-il non si adoperò per il paese, ma paventando finto interesse e simulata solidarietà continuava a fare bella vita di cibo e piaceri; nel frattempo la propaganda insinuava che la carestia era causata dalle sanzioni e dalle penali inflitte dagli americani, quando invece la verità era che col crollo dell’Unione Sovietica la Corea del Nord perdeva la sua fonte di sostegno economico. È in questo filone di eventi che si colloca la presa di consapevolezza di Hyeonseo Lee, l’inizio dei suoi dubbi e dell’eventualità di varcare il confine con la Cina, ovviamente illegalmente, perché anche in una nazione evoluta come la Cina, essendo questa alleata della Corea del Nord, un nordcoreano è un clandestino che se scoperto dal governo cinese viene rifilato dritto in patria in un campo di lavoro, o meglio inteso campo di tortura. Motivo per cui Hyeonseo Lee ricorre molte volte al cambio d’identità.                                                                                                                                     

    Un’altra menzogna propinata ai nordcoreani è che fu la Corea del Sud a dare inizio alla Guerra di Corea (1950-1953), una guerra che sappiamo si inserisce nell’ambito della Guerra Fredda: il Sud era sotto il controllo degli Stati Uniti, il Nord sotto l’Unione Sovietica. Sappiamo che a dare il via alle ostilità fu il Nord, capeggiato dall’URSS, che invase la Corea del Sud. Ma secondo quello che asserisce la propaganda dei Kim sarebbero stati il Sud e quindi gli americani ad attaccare il Nord, e questo è ciò che si trova scritto in tutti i libri di storia studiati nelle scuole della Corea del Nord, e ciò a cui la maggior parte dei nordcoreani crede. E il Nord sarebbe stato drammaticamente sconfitto dagli americani se non fosse stato per l’intervento da parte della Cina in suo favore.  La propaganda nordcoreana usa spesso l’espressione “bastardi imperialisti americani” o “maledetti yankee”. Il governo nordcoreano contempla l’esecuzione pubblica per chi è sorpreso a guardare o ascoltare film o musica americana, e assistere a queste esecuzioni pubbliche è obbligatorio.  

    Riguardo al culto della personalità dei Kim, appesi a un muro interno di ogni abitazione o edificio stanno i ritratti dei due leader, Kim Jong-il e Kim Il Sung (a quanto sembra dal 2024 è subentrato il terzo ritratto, quello di Kim Jong Un, l’attuale leader, che affianca quindi i ritratti del padre e del nonno). Questi ritratti devono essere spolverati con un panno apposito dato dal governo che fa un controllo periodico dello stato dei quadri. Nel caso di incendio di un’abitazione, la priorità dev’essere portare in salvo i ritratti prima ancora dei membri della famiglia: se i ritratti bruciano, le persone scampate all’incendio vanno in campo di prigionia.

    Tutte queste sono solo alcune delle informazioni che si apprendono leggendo questo libro: fatti e testimonianze che gettano luce su una parte di mondo di cui si sa poco. Il libro ha anche il merito di mettere in evidenza quanto i funzionari governativi possono essere spietati e corrotti. 

    Elena Realino*

    p.s. Ci è parso significativo e interessante riportare il link della conferenza TED tenuta da Hyeonseo Lee nel febbraio del 2013, in cui racconta la fuga rocambolesca, sua e della sua famiglia, dalla Corea del Nord. Cliccate sulla foto e… buona visione!

    *Elena Realino, è nata a Castrovillari, in provincia di Cosenza. Studia le pagine della letteratura con passione e spirito critico. Impegnata nel sociale, laureata in Lingue e Culture Moderne all’Unical. Crede che lo studio delle letterature straniere possa essere la chiave di accesso alla società poliedrica in cui viviamo e possa accorciare le distanze rispetto a realtà e mondi altrimenti ignoti o poco conosciuti.

                                                                                                                                  

     

    Enrico Deaglio: “C’era una volta in Italia – Gli anni settanta” (Feltrinelli), di Amedeo Borzillo

     Caro Deaglio, così non va. Siamo al “Tale e Quale Book”?

    Ho comprato con entusiasmo il tuo nuovo libro  “C’era una volta in Italia – Gli anni 70” e sono rimasto prima incuriosito, poi amaramente stupito.

    Ho riconosciuto infatti in quello che  leggevo gli stessi fatti e le stesse situazioni già descritte, con le stesse parole, in un tuo precedente libro, “Patria”, edito da “il Saggiatore” nel 2010, e nei successivi volumi per Feltrinelli, colossale opera in 3  volumi, da cui il regista Felice Farina liberamente trasse poi bel un film nel 2014.

    L’opera è una attenta e circostanziata cronologia dei principali avvenimenti che si susseguirono in quegli anni, con commenti, interviste, ricostruzioni e collegamenti davvero interessanti. 

    Sono andato perciò agli scaffali della mia libreria a casa e ho trovato il tuo libro “Patria – 1967- 1977”.

    Sorpresa !

    I libri “C’era una volta in Italia” e “Patria” sono identici.

    Stessi capitoli ma distribuiti diversamente, stesse storie, paragrafi sovrapponibili.

    Due diverse edizioni della stessa pubblicazione, ma con nome diverso, e senza riferimento alcuno, nella seconda, alla prima edizione, mai menzionata. 

    Perché di questo si tratta: una nuova edizione dello stesso libro, di cui non c’è cenno.

    Unica novità le foto degli eventi, che nella prima edizione mancavano, e qualche aggiornamento.

    Ma la memoria non tradisce e gli aggiornamenti, con aggiunta di notizia, su fatti avvenuti lasciano letteralmente di stucco.

    Un esempio: nel capitolo relativo al 1973 si riporta dell’uccisione, a Napoli il 21 di Febbraio, dello studente e militante del PCI Vincenzo Caporale, colpito al cranio dal moschetto di un poliziotto. Fatto realmente successo. Il ragazzo fu ferito e versò in gravissime condizioni per circa 2 mesi, ma fortunatamente si riprese ed oggi fa il medico del lavoro.

    La voce della sua morte si diffuse per alcuni giorni, poi per fortuna le cose andarono diversamente: possibile che un giornalista e scrittore su un evento del genere lo riporti come aggiornamento del libro ma non ne verifichi, a distanza di 50 anni, l’attendibilità ? 

    Da farci gli scongiuri.

    II libro l’ho comprato (35 euro) perché tratto in inganno dalla copertina e dal titolo nuovi, e dall’assenza di riferimenti a precedenti edizioni. Un sotterfugio per vendere più copie?

    Amedeo Borzillo 

    Ahou Daryaei: cosa possiamo fare? di Francesca Chiesa

    6 novembre 2024

    Quando ho cominciato a scrivere questo contributo era il cinque di novembre, ieri.

    Il tono della mia scrittura era improntato alla tristezza – per la vicenda di Ahou Daryaei, l’universitaria di Teheran che ha deciso di spogliarsi pubblicamente in segno di protesta contro gli agenti che l’avevano molestata perché non portava il velo – ma anche alla speranza che il giorno seguente, oggi, per la prima volta gli USA potessero avere un presidente non uomo e non bianco.

    In riferimento a questa situazione avevo iniziato una riflessione a partire dalla domanda che sentivo risuonare nel web delle ragazze italiane.  

    «Cosa possiamo fare?» 

    Una domanda commovente, anche perché al momento ha una sola risposta: leggete!

    Forse arriverà anche il momento in cui sarà necessario anche un aiuto più concreto: per adesso preparatevi, leggete, ma fatelo nella giusta prospettiva! 

    Leggete in modo rivoluzionario, come è stato rivoluzionario per le ragazze iraniane leggere Lolita a Tehran. Leggere e scrivere è sempre una rivoluzione ma in modi diversi secondo i tempi e gli obiettivi.

    Le scrittrici persiane oggi scrivono quello che le loro giovani lettrici – le più esposte alla morte per carenza di libertà – hanno bisogno di conoscere per continuare ad avere il coraggio di rischiare: che esiste un mondo dove ci si veste a piacere, si parla a voce alta senza paura, si fa l’aperitivo e si fanno mattane. Un mondo dove si ascolta musica e si balla anche nei parchi, dove ci si bacia quando se ne ha voglia e si fa all’amore senza paura.

    Le ragazze persiane che vivono in Iran di un mondo cosÌ possono solo leggere e sognare.

    Le ragazze persiane per continuare a vivere devono sapere che non sono sole, devono leggere e leggere: per sapere che le ragazze iraniane sono tante e quasi tutte pronte a cambiare il mondo.

    Quello che avrei voluto scrivere alle ragazze italiane, è stato superato dai fatti. 

    Ieri avrei voluto consigliare loro di non fermarsi alla narrativa contemporanea, ma di rivolgersi con profonda attenzione ai classici persiani perché è lì che troviamo le storie meravigliose delle regine preislamiche: autori che conoscevano e rispettavano il potere delle donne, donne che intrecciavano storie indimenticabili.

    Questo, ieri. 

    Oggi, sei novembre, è cambiato tutto: il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà un uomo appartenente a quel partito repubblicano che ha sempre appoggiato il regime degli Ayatollah. È decisamente difficile credere che la nuova amministrazione cambi orientamento e ponga tra le proprie priorità un appoggio alla lotta per la libertà che sta costando morti e sofferenze alle donne iraniane!

    Oggi, a partire da oggi, chi vuole capire l’ Iran, i fatti che hanno determinato la situazione presente e quelli che molto probabilmente seguiranno, non può certo limitarsi a leggere la narrativa contemporanea o le opere classiche che cantano il glorioso passato delle regine achemenidi e sassanidi.

    Oggi è tempo di guardare a un passato meno remoto.

    Oggi, se siete tristi come me perché è sfumata l’ennesima speranza che le donne iraniane e le donne del mondo potessero avere un’alleata alla guida dell’Impero, lasciate da parte i quotidiani e leggete come hanno “contribuito” alla storia dell’Iran uomini che si chiamavano  Kermit “Kim” Roosvelt e Ronald Wilson Reagan.

    Vi propongo tre libri che sono leggermente datati ma appaiono ancora oggi di una stupefacente attualità.

    1. Il primo è “Mossadeq. L’Iran, il petrolio, gli Stati Uniti e le radici della rivoluzione islamica del 1953“. Opera di un coraggioso diplomatico italiano, Stefano Beltrame, che lo pubblica nello stesso anno, il 2009, in cui Barack Obama ammette il coinvolgimento degli Stati Uniti nel colpo di stato che rovesciò, con l’aiuto del clero sciita, il governo nazionalista di Mohammad Mossadeq.
    2. Di Antonello Sacchetti, “Iran, 1979, pubblicato nel 2018: una acuta analisi della rivoluzione khomeinista in tutti i suoi chiaroscuri, compresa ll’oscura vicenda della occupazione dell’ ambasciata statunitense a Teheran, da parte di circa 500 studenti islamici aizzati dall’Imam Khomeini, che avvenne alle 6.30 del 4 novembre del 1979 e determinò la rovina politica del democratico Carter a favore del repubblicano Reagan. 

    Antonello Sacchetti conduce anche un interessante podcast su Youtube, dal titolo Conversazioni sull’Iran. In questi giorni potrebbe rivelarsi un ottimo strumento di aggiornamento.

    • Pubblicato nel 2016, “L’Iran oltre l’Iran. Realtà e miti di un paese visto da dentro” è stato scritto da Alberto Zanconato anche sulla base di una lunga e intensa esperienza come corrispondente dell’ANSA a Teheran (1994-1997 e 2001-2011); di grande interesse per illuminare la vera natura dei rapporti tra il “Grande Satana” (=USA) e l’Iran khomeinista.

    Ecco qui: da insegnante coscienziosa quale ero – e innamorata dell’Iran com’era e com’è – spero di avere contribuito ad allargare l’area della coscienza.[1]


    [1] Qui cito Allen Ginsberg, uno dei padri della beat generation.

    Francesca Chiesa

    Francesca Chiesa, classe 1955, laureata in filosofia. 

    Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri in Iran, Russia, Grecia, Eritrea, Libia, Kenia. Dal 2019 vive col marito prevalentemente a Syros, nelle Cicladi. 

    Pubblicazioni recenti:

    Dalla Russia alla Persia – storia di un viaggiatore per caso: Peripezie di un marinaio olandese al tempo di Alessio I Romanov e Suleiman I Safavide, La Case Books, 2023

    Una storia di donne persiane: Il romanzo di Humāy e Nahid, La Case Books, 2023

    Anna Foa: “Il suicidio di Israele” (Editori Laterza), di Vincenzo Vacca

    Anche con questo libro, “Il suicidio di Israele“, Anna Foa dimostra di essere una efficace divulgatrice della storia. Teniamo conto che questa importante intellettuale è stata docente di Storia moderna all’ Università di Roma “La Sapienza”. Inoltre, tiene frequentemente incontri pubblici su tematiche storiche.

    A scanso di equivoci,  Foa nel libro citato tiene subito a precisare che “queste pagine contengono le riflessioni di un’ ebrea della diaspora di fronte a quanto sta succedendo in Israele e in Palestina. Esse nascono dal dolore per l’ eccidio del 7 ottobre e per quello per i morti e le distruzioni della guerra di Gaza. È lo stesso dolore per gli uni e per gli altri“.

    L’ autrice ripercorre sinteticamente, ma proficuamente, la storia del sionismo, anzi, come lei tiene a precisare, la storia dei sionismi. 

    Infatti, è  necessario esaminare l’ ideologia sionista e le sue trasformazioni dalla seconda metà dell’ Ottocento alla nascita dello Stato di Israele. 

    Il sionismo, da non confondere con la politica di Israele, ha una lunga storia che nasce nel diciannovesimo secolo, e ritiene gli ebrei un popolo avente diritto al ritorno nella loro terra originaria, la Palestina. Un movimento di rinascita nazionale paragonabile al Risorgimento italiano. 

    Foa tiene a sottolineare che il sionismo si pone non solo l’ obiettivo del “ritorno” in quella che allora era ancora una terra sotto il dominio ottomano, per poi divenire Palestina sotto protettorato inglese, ma anche quello di creare un ebraismo nuovo che cancelli i venti secoli di diaspora, mettendo fine, quindi, al fenomeno di minoranze di ebrei sparse tra le nazioni.

    Nel libro si illustrano le varie correnti del sionismo e le diverse, per alcuni aspetti, sorprendenti tappe storiche che hanno originato l’ attuale situazione. 

    A questo proposito voglio citare due fatti che possono stupire.

    Il primo si svolge nel 1918 quando l’ emiro Faysal, capo della dinastia hashemita, e il presidente dell’ organizzazione sionista mondiale, Chaim Weizmann, stringevano un accordo che prevedeva una sostanziale accettazione da parte di Faysal della dichiarazione Balfour, appena emanata dagli inglesi.

    La conferenza di pace di Parigi, stabilendo che la Siria diventasse un protettorato francese, contravvenendo alle promesse fatte allo stesso Faysal in cambio dell’ appoggio nella guerra, determinava una rottura tra i sionisti e il mondo arabo. Faysal diveniva re dell’ Iraq e il nazionalismo arabo, che aveva al suo centro la Siria, si spostava alla Palestina.

    Il secondo si svolge, invece, nel 1925 ovvero quando veniva fondato un gruppo di duecento intellettuali, tra cui spiccava quello di Martin Buber, che auspicava la creazione di uno stato binazionale ebraico ed arabo dove ebrei e arabi godessero degli stessi diritti.

    Anche la sinistra del movimento sionista era a favore di uno Stato binazionale e di una pacifica convivenza con gli arabi.

    Ma nel 1936, il Gran Muftì organizzava una grande rivolta sia contro gli ebrei che contro gli inglesi mettendo fine a ogni ipotesi di accordo. Infatti, gli inglesi  reagivano con un piano che veniva accettato solo dagli ebrei, nella persona di Ben Gurion.

    Questi due fatti storici, tra i tanti che vengono raccontati nel libro, dimostrano che la convivenza tra arabi ed ebrei era possibile e lo può essere ancora, nonostante che la strada per raggiungere ciò diventi sempre più stretta. 

    Come già accennato in precedenza,  Foa ci racconta dei sionismi per arrivare agli incontri e agli scontri con gli arabi. 

    Nell’ ambito di questa ricognizione storica, l’ autrice menziona la minaccia tedesca del 1942 che incombeva sulla Palestina, venuta meno grazie alla sconfitta ad El Alamein dei tedeschi e degli italiani. Se questo non fosse avvenuto, gli ebrei presenti in Palestina sarebbero stati sterminati. Occorre ricordarlo a chi esalta sistematicamente il valore dei combattenti italiani di El Alamein, pur facendo grandi affermazioni di amicizia nei confronti di Israele.

    Ma l’ aspetto fondamentale del libro di cui stiamo parlando sta soprattutto nel focalizzare gli estremismi che guidano attualmente gli opposti schieramenti. 

    Da parte israeliana abbiamo Netanyahu che è a capo di un governo di estrema destra sostenuto dal partito “Potere ebraico”, rappresentato dal ministro Itamar Ben Gvir.

    Questo partito è erede del partito Kach, di cui Ben Gvir è stato dirigente, un partito messo fuorilegge negli anni Ottanta. Il leader del partito Kach è stato espulso dalla Knesset in base ad una legge contro il razzismo.

    Inoltre, lo stesso Ben Gvir è stato condannato nel 2007 per istigazione al razzismo. Egli sostiene la necessità di creare la grande Israele e di espellerne tutti i palestinesi.

    Un altro ministro convintamente estremista è quello delle Finanze, Bezalel Smotrich, del partito sionista religioso Truma. Smotrich risulta coinvolto in atti illegali ed arresti. È un razzista ed è sostenitore dell’ espulsione degli arabi.

    I citati ministri determinano la politica di Netanyahu. Infatti, se si dimettessero il governo cadrebbe. 

    Secondo Foa, quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas hanno attaccato i Kibbutzim posti vicino al confine con Gaza, la maggior parte delle divisioni dell’ esercito israeliano erano state spostate sul confine con la West Bank (così è chiamata la Cisgiordania), lasciando sguarnito quello con Gaza. 

    L’ esercito doveva servire a proteggere gli insediamenti illegali e le aggressioni dei coloni ai palestinesi su quel confine, in previsione di un ulteriore avanzamento di quello che dovrebbe diventare lo Stato palestinese, non a proteggere i kibbutz sulla Striscia: tutti formati da israeliani laici e di sinistra, impegnati nel mantenere rapporti di amicizia e aiuto con i palestinesi. 

    Da parte palestinese abbiamo Hamas che nel 2006 ha vinto le elezioni a Gaza. Ne è seguita una guerra civile tra l’ OLP e Hamas vinta da quel’ ultima che attuava una dura repressione e una intensa opera di islamizzazione, aumentando il peso della legge islamica, uccidendo gli oppositori dell’ OLP e/o costringendoli all’ esilio.

    Come noto, Hamas non riconosce il diritto di esistere allo Stato di Israele.

    Di fronte a tutto ciò, Anna Foa auspica la costruzione in Israele di una società civile democratica, di cittadini liberi e uguali nelle loro diversità e questo fa a pugni con uno Stato ebraico incentrato sulla supremazia degli ebrei. In fondo, occorre una ulteriore trasformazione del pensiero sionista volto a evitare il “suicidio” di Israele. 

    Leggere “Il suicidio di Israele” offre l’ opportunità di evitare banalizzazioni, luoghi comuni, di approfondire la conoscenza di quanto effettivamente è avvenuto in quella martoriata terra, ponendo le basi teoriche per un tentativo di riavvicinamento tra i due popoli, pur coscienti che non sarà facile rimarginare le ferite profonde e superare gli odî reciproci.

    Vincenzo Vacca