«Diciamolo subito, La gatta è un capolavoro. Un capolavoro di concisione, di perfezione classica», scrive Edmond Jaloux nel 1933, all’indomani della pubblicazione del romanzo. Per Jaloux, scrittore e critico in vista nella Francia degli anni Trenta, questo testo trasuda verità, intelligenza, poesia. Oggi La gattaviene pubblicato da Adelphi nell’impeccabile traduzione di Maurizia Balmelli.
Colette, che al momento della scrittura ha sessant’anni e alle spalle una produzione già vasta, si muove con un passo breve e deciso, concentrando in poche pagine un dramma impietoso. Il racconto si apre sette giorni prima del matrimonio tra Camille e Alain. Ma già dalle prime pagine è evidente che qualcosa stride. La giovane ha fretta: «sette giorni», esclama, come se il tempo che la separa dalle nozze fosse un ostacolo. Alain, invece, pensa malinconico che gli resta appena una settimana per godere appieno della creatura di cui è perdutamente innamorato, la gatta Saha.
Alain e Camille sono agli antipodi. Lei è bruna, lui è biondo. Lei è l’immagine della modernità, è dinamica, determinata. Porta la cravatta, indossa il tailleur, guida l’automobile con aggressività, usa un linguaggio gergale, pretende i baci dell’uomo. Lui è biondo, sognante, inchiodato all’infanzia, nostalgico della ritualità domestica e del tempo trascorso nel giardino della casa di famiglia a Neuilly. Camille ama la velocità, il presente, l’irriverenza. Alain ama i gesti lenti, la continuità, il passato… e il pigiama.
La distanza tra i due è psicologica, sociale, culturale, sensoriale. Alain proviene da una famiglia antica, impegnata nel commercio della seta. Camille è figlia di un’industria nuova, arricchitasi grazie alle centrifughe. La madre di Alain la definisce con disprezzo «una ragazza non esattamente del nostro rango», e Camille, dal canto suo, non ha nessuna intenzione di adattarsi a quell’universo: vuole cambiare la casa di Neuilly, non ama i domestici che vi abitano da sempre né la gatta che domina quello spazio come un’entità regale.
Quando, dopo il matrimonio, la coppia si trasferisce temporaneamente in un appartamento moderno, in attesa della fine dei lavori nella casa di famiglia, lo spazio stesso sembra riflettere le tensioni del rapporto. Camille si trova a suo agio e vorrebbe restarvi per sempre. Alain, invece, percepisce l’appartamento come un luogo ostile, lo paragona a una fetta di torta. E anche qui, i dettagli non sono casuali: quell’ambiente ha una pianta triangolare, segno tangibile che quella non sarà una relazione a due.
Il romanzo ruota attorno a una domanda cruciale: chi è la vera rivale? Camille? O la gatta Saha, «bella come un demonio! Più di un demonio»? Tra le due si gioca una partita violenta e carica di una forte valenza simbolica. La prima è una donna desiderosa, sensuale, concreta. La seconda è un essere etereo, silenzioso, soprannaturale. Se Camille ama con il corpo, Saha ama attraverso il corpo. È l’unica a comprendere davvero Alain, a comunicare con lui in modo perfetto, pur senza parlare. Alain accarezza la moglie come si fa con un animale, ma senza consapevolezza, mentre ogni gesto rivolto alla gatta è carico di intenzionalità e affetto. A poco a poco, la gatta si umanizza, Camille si animalizza.
Il conflitto tra le due cresce, così come l’insofferenza di Alain nei confronti della moglie. L’appartamento diventa teatro di una convivenza impossibile. Camille, frustrata da un desiderio che non trova più corrispondenza, si ritrova sempre più sola. La sensualità disinvolta della donna che inizialmente sconcertava Alain, ora lo respinge. Ogni gesto di Camille gli appare una violazione del proprio universo e la futura installazione della moglie nella casa d’infanzia, al termine dei lavori, è immaginata dall’uomo come un atto di profanazione.
La gatta è un racconto crudele, come ha scritto Francine Dugast, ma ha l’aura di una favola mitologica. Non solo per il modo in cui la gatta assume tratti divini o demoniaci, ma anche per la sua capacità di incarnare archetipi, come la frattura fra l’istinto e la ragione, fra la fedeltà al passato e l’apertura al futuro, fra la creatura spirituale e quella carnale.
Alcuni critici hanno letto questo romanzo come il più riuscito di Colette. Julia Kristeva ha sottolineato la potenza di questo «folgorante» racconto scisso tra una gelosia feroce e un amore inconfessabile (e invincibile). «C’è rivale e rivale», afferma Camille con amara consapevolezza.
Teresa Lussone
Teresa Lussone è ricercatrice di Lingua e traduzione francese alla Università di Bari Aldo Moro. Specialista delle opere postume di Irène Némirovsky, ha curato con Olivier Philipponnat la nuova edizione di “Suite française” (Denoël, 2020) e di “Les Feux de l’automne” (Albin Michel, 2014). Con Laura Frausin Guarino ha tradotto “Tempesta in giugno”, prima parte di Suite française (Adelphi, 2022). Ha scritto svariati articoli sull’autobiografia di Sartre e attualmente sta preparando l’edizione di due opere di Sophie Cottin per Classiques Garnier. Ha curato per Adelphi la raccolta di racconti “Il Carnevale di Nizza” in libreria dal 21 gennaio scorso.
Parallelamente alla convergenza dei mezzi artistici con i mezzi di fruizione dello spettacolo, in Occidente, dall’Ottocento in poi, si è sviluppata una classe sociale ereditaria delle corporazioni delle arti e dei mestieri, o gilde, medievali: la borghesia, la quale nasce dalla capitalizzazione dei prodotti dell’artigianato attraverso l’industrializzazione dei suoi tempi e metodi produttivi, ma ben lungi dal trattenersi a dettare soltanto leggi di mercato, ha dettato e detta leggi sociali atte ad intendere l’individuo non più come un essere umano, ma al contempo come fonte di consumo e unità forza lavoro. Da fenomeno meramente sociale ed economico, la borghesia è assurta a ideologia, incarnando così il capitalismo, secondo il quale l’unica realizzazione dell’individuo dovrebbe venire dal lavoro svolto per ore tanto estese da non permettergli una degna ripartizione di tempo necessaria a curare il rapporto con il Sé e con gli altri individui, il tutto finalizzato, al contrario dell’artigianato dove il frutto del lavoro poteva conferire senso e importanza al lavoro stesso, alla produzione di frutti immateriali, ovvero i capitali, frutti non apprezzabili dall’operatore capitalista. Non solo: il capitalismo si alimenta anche di una domanda di beni basata su necessità distorte, cioè di consumismo, ovvero l’offerta e il conseguente acquisto di beni non secondo necessità reali, ma secondo necessità indotte per seduzione dallo spettacolo nelle menti degli spettatori. Bere Coca Cola non è necessario, mangiare cibo spazzatura non è necessario, ma lo spettacolo seduce lo spettatore e lo induce ad acquistare e consumare bevande gassate e cibo spazzatura che, oltre ad essere dannosi per l’organismo, non si rivelano all’altezza delle aspettative create dalla loro pubblicizzazione, essendo in genere questi prodotti scadenti, eppure promossi come se fossero di ottima qualità. La seduzione che induce lo spettatore all’acquisto e al consumo di beni innecessari nasconde la reale, e unica, necessità di chi li produce: la necessità di venderli allo spettatore e di convincerlo del fatto che acquistarli e consumarli sia necessario.
Queste sono consapevolezze consolidatesi di recente, comunque ancora rifiutate dai più, ma venendo ai giorni nostri si potrebbe dire che il castello di vetro del capitalismo cominci a creparsi. Ponendo il lavoro e il consumo come funzioni prioritarie dell’individuo, distorcendo quindi la sua visione di sé e del rapporto con gli altri individui, per poi indurlo a considerare utilitaristicamente gli enti della realtà e i rapporti attraverso i quali interagiscono, siano questi oggetti o persone, il capitalismo si scontra con le peculiarità stesse degli individui e degli oggetti e con la loro funzione originaria. Da un lato vi è un concetto basilare di integrità dell’individuo e degli oggetti della realtà, dall’altro lato invece vi sono le logiche del capitalismo, le quali non scendono a compromessi, ma compromettono. Questa grande inconciliabilità è la causa per la quale il capitalismo, il ceto che lo incarna, la borghesia, e l’ambiente stiano deperendo, giacché il capitalismo ha bisogno, almeno per il momento, dell’uomo per essere alimentato e di spazi naturali compromessi attraverso l’antropizzazione degli stessi, mentre l’uomo e la natura hanno bisogno che il capitalismo venga riplasmato a loro misura. Anche il capitalismo stesso si rivela inconciliabile con l’uomo e con la natura, mossi da logiche antitetiche a quelle capitalistiche. Quindi una forma di compromesso, visto il sistema capitalistico vigente finora, non è stato ancora possibile attuarla e, forse, non lo sarà mai.
Quando si parla di società, ci si riferisce in genere alla società borghese, la cui stragrande maggioranza è costituita da individui facenti parte del ceto medio, erede della borghesia che ha accorpato il ceto medio-basso dal boom economico in poi grazie all’alfabetizzazione di massa e ad una controllata emancipazione economica dello stesso. Tuttavia, le differenze, in termini di possibilità economiche, rimangono: come rileva Mishima nei saggi da lui scritti tra il 1968 e il 1970, ora raccolti nel volume Lezioni spirituali per giovani samurai, se un tempo vi era un concetto di appartenenza ad una classe sociale, connotato anche dalle apparenze, a differenziare gli individui della società, ora non vi è più, ed è facile constatare come gli usi e costumi del ceto medio-basso e delle classi più ricche siano diventati gli stessi del ceto medio. Abolite in gran parte la povertà e l’aristocrazia, le quali entrambe inducevano a possedere usi e costumi distinti da quelli borghesi, ne risulta che gli usi e i costumi dominanti sono quelli del ceto medio. Si constata che in condizioni economiche impari, diversi individui di diversa estrazione sociale possiedano beni di lusso che, come gli usi e costumi del ceto medio dettano, si ritiene necessario possedere, intendendo determinati beni innecessari come beni di prima, irreale necessità, da possedere anche a costo di non soddisfare le prime, reali necessità. Non importa quanto un individuo sia povero o ricco, è probabile vederlo munito di telefoni di fascia alta, elettrodomestici più comodi che utili, talvolta del tutto innecessari come nel caso delle televisioni, e così via, per il semplice fatto che «tutti li possiedono». L’aristocrazia, invece, è stata sostituita dai magnati dell’industria, di estrazione borghese o medio-bassa, quindi di usi e costumi comunque caratteristici del ceto medio.
La spettacolarizzazione persuasiva e pervasiva del ceto medio spiega in parte l’adozione da parte del vecchio ceto medio-basso e da parte dei magnati dei suoi usi e costumi attraverso la televisione, mezzo che, sin dall’inizio, ha subito affascinato e indotto tutte le fasce della società a possederne un esemplare, prima in numero esiguo e con formule di possesso spesso più condiviso che privato e poi in sovrannumero per ogni nucleo familiare. Mentre è poco rilevante denotare quali effetti abbia avuto la spettacolarizzazione del ceto medio sulla borghesia e sui magnati, siccome potevano e possono permettersi di acquistare e consumare potenzialmente ogni bene disponibile sul mercato, lavorare, per il ceto medio-basso, non significò più, dall’avvento della televisione in poi, guadagnare denaro sufficiente per soddisfare principalmente le prime, reali necessità, ma guadagnare il denaro necessario ad acquistare anche gli usi, i costumi e gli averi del ceto medio, a fronte di disponibilità economiche ridotte, talvolta anteponendo le necessità indotte dallo spettacolo a quelle reali. Checché se ne dica, la prima fonte d’ispirazione di ogni artista è il Sé in rapporto con il mondo. Considerato che la maggior parte degli uomini delle società occidentaliste appartengono al ceto medio, è altamente probabile che gli artisti di una società occidentalista provengano per la maggior parte dal ceto medio, ne condividano gli usi e costumi e siano più propensi a rappresentarli. Non solo: gli usi e costumi del ceto medio, oggi, oltre che costituire una tendenza di classe, appaiono organizzati secondo un regime temporale. Nascere, crescere, studiare, fare vita mondana, lavorare, andare in pensione e morire, il tutto entro ritmi serrati. Se nascere richiede un tempo di gestazione biologico più o meno prefissato e morire un tempo indeterminato, crescere, studiare, fare vita mondana, lavorare e andare in pensione sono passaggi organizzati entro tempistiche stagne. La rigidità dei tempi industriali arriva così a regolare il tempo libero di ognuno. Il fatto stesso che le prospettive di vita e i ritmi, inclusi quelli lavorativi e quindi produttivi, siano già incasellati per la maggior parte degli individui, ne pregiudica la produzione artistica, che scade dall’estro, il quale richiede suoi tempi di indeterminata estensione, decadendo nel burocratico. Si considerino inoltre l’influsso delle accademie, siano queste di scrittura creativa, di belle arti, di cinema e così via, le quali stagnano l’atto creativo, e del capitalismo, che induce a prendere mosse dettate dall’andamento del mercato. Tutto ciò riduce l’arte ad una filiera di produzione di massa di opere, se non tra loro identiche, comunque contraddistinte da paradigmi comuni, e quindi di pregio prevedibile. Ne sono la prova i due recenti filoni narrativi dell’editoria italiana, quello dei gialli e quello dell’autobiografismo, i quali, ad oggi, non sembrano aver prodotto opere capitali. Quanto di rilevante è stato scritto negli ultimi anni, di fatto, esula dalla produzione seriale dei suddetti filoni. Un esempio tra tutti è quello di Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi.
Ci si soffermi in particolare sul fenomeno riguardante il recente filone narrativo dell’autobiografismo: con il ceto medio istruito come detto sopra a costituire la maggior parte degli operatori spettacolari e organizzata la sua produzione entro ritmi serrati e finalizzata questa al riscontro economico più che alla libera espressione artistica, si ottiene un’arte che èrappresentazione serializzata e spettacolarizzata del ceto medio. Quella a cui si assiste nelle società occidentaliste è, ancora una volta, la spettacolarizzazione del ceto medio attraverso i suoi prodotti di natura industriale, composti con i mezzi che contraddistinguono la produzione capitalistica, la quale, applicata all’arte, ne compromette l’elasticità conferendole una meccanicità che non le appartiene.
«I problemi della società contemporanea sono tutti di natura sessuale», risponde ad un certo punto il dottor Jacoby (Russ Tamblyn), interrogato dall’agente Cooper (Kyle MacLachlan) riguardo al mistero che avvolge la morte di Laura Palmer (Sheryl Lee) in un episodio della serie I segreti di Twin Peaks. Se non di natura prettamente sessuale, i problemi della società contemporanea potrebbero essere tutti ricondotti quantomeno alle difficoltà che si riscontrano in ambito relazionale con il Sé e con gli altri, problemi riconducibili alla visione delle cose che impone implicitamente il capitalismo, anche attraverso lo spettacolo. Premesso che la società a cui ci si riferisce escluda individui disallineati con il pensiero e l’esperienza comune del ceto medio, e premesso che la stessa società abbia alle spalle del processo di creazione spettacolare per la maggior parte individui appartenenti al ceto medio, si potrebbe aggiungere che lo spettacolo delle società occidentaliste è la rappresentazione serializzata del ceto medio occidentale in crisi, di cui è sintomatico il recente filone narrativo italiano dell’autobiografismo, le cui opere spesso vertono sulla conflittualità che viene a crearsi nei rapporti tra individui e i traumi che questa causa nei personaggi protagonisti, a cui fanno da cornice narrazioni che sono surrogati delle riflessioni di Zeno Cosini. Solo che, a differenza de La coscienza di Zeno di Svevo, l’intento non è satirico, ma serio, troppo serio. L’arte, così, si riduce alla spettacolarizzazione dei rapporti conflittuali e dell’insoddisfazione di fondo che contraddistinguono le vite degli individui appartenenti al ceto medio. Se di arte bisogna parlare in questo caso, allora così si ha una forma d’arte della crisi, che, parafrasando e invertendo un celebre assunto di Carmelo Bene, si fa crisi dell’arte.
Sempre meno spettatori ne fruiscono, sempre meno sono coloro che nutrono interesse per questa forma d’arte. La vita borghese e le sue nevrosi non costituiscono quasi più per nessuno casi affascinanti da analizzare, in parte perché costituiscono esperienze comuni pressoché a tutti e di cui tutti gradualmente si vogliono liberare, dal momento che in gran parte la società è confluita nell’adozione degli usi e costumi del ceto medio e ne sono stati riconosciuti gli effetti dannosi; in parte perché, grazie allo studio delle stesse, si è raggiunto un livello di consapevolezza tecnica tale a riguardo da non volerle approfondire oltre, laddove ci siano ancora aspetti in merito da approfondire. Si è oltre la ricerca e l’individuazione del problema in esse: si è alla loro diagnosi, mentre certi racconti autobiografici appaiono nella loro prevedibilità come la prima seduta dallo psicologo. Ciò che compromette l’interesse e la suspense in certi racconti è che al di là della scrivania si sa già tutto: come potrebbero, si ponga il caso, cento individui che conducono vite identiche e che soffrono di mali affini produrre cento narrazioni singolari tra loro e come potrebbero costituire fonte d’interesse, laddove si sa già per quale viaggio condurranno?
Quale che sia il mezzo espressivo adottato dagli artisti contemporanei, il risultato non cambia: se si appartiene con la testa al ceto medio e alle sue logiche, si è destinati a produrre riassunti di riassunti di altre opere, e con forme già viste. Tutto è stato già detto? Spesso ci si chiede. Mark Fisher, nella sua opera capitale Realismo capitalista, si interroga sulla possibilità del nuovo di emergere nella società occidentalista. Sebbene si dia gran conto al vecchio, sebbene si tenda a paragonare puntualmente le novità con i classici, e questo costituisce un malcostume della critica postmoderna, non è del nuovo che bisognerebbe preoccuparsi, ma del diverso, e per diverso si intende tutto ciò che esula dall’esperienza comune, dal punto di vista comune e dall’imitazione, quindi dalla rappresentazione serializzata del ceto medio occidentale in crisi. Il rischio che si corre non essendo diversi e non potendo di conseguenza creare opere differenti da quelle serializzate è sempre quello di saturare gli scaffali delle librerie con prodotti che, distinti a partire dal titolo, siano tra loro riassunti di riassunti dello stesso racconto. Il lettore, per quanto alle volte frivolo, non è tuttavia così disattento come si crede da non accorgersene. Si è oltre il rischio: una crisi dell’arte è già in atto, dal momento che questi mezzi creativi hanno portato alla sua trasmutazione in rappresentazione serializzata, rappresentazione che ha molto in comune con le logiche industriali e con le logiche spettacolari, ma con l’arte, se non poco, niente.
Fonti:
Yukio Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai, traduzione italiana dal giapponese di Lidia Origlia, SE 2004.
I segreti di Twin Peaks, episodio 1×05, L’Uomo Con Un Solo Braccio, diretta da David Lynch e Mark Frost, 1990-1991 e 2017.
Mark Fisher, Realismo capitalista, tradotto dall’inglese da Valerio Mattioli, Nero Editions 2018.
Antonio Meola
Antonio Meola nasce nel 1999 ad Asola, in provincia di Mantova, da genitori salernitani. Nell’aprile 2021 esordisce con il romanzo di narrativa La fine della notte, Helios Edizioni. Nel settembre 2021 pubblica tre poesie sul numero 9 “Tempo” della rivista I quaderni del Caffè, edita Il Rio Edizioni (La Donna, Passato e Persistenza) e nel giugno 2022 collabora con il collettivo poetico Freesocialpoetry pubblicando tre poesie per la chiamata poetica “Nudes poetici #2” sulla rivista elettronica Crocevia (Muta, Poesia e Ricordo).
Bisogna strapparsi alla propria casa, al calcolo sicuro sul domani o sul dopodomani, e prendere il volo per sé, per un’esigenza interiore; volar via come vola solo un uomo che lavora, che conosce il ritmo delle possibilità (Sklovskij, V)
Ho sempre immaginato la città di Palermo come una donna anziana e sempre pronta a impuparsi per le grandi occasioni.
Ogni volta che ne percorro le arterie alberate i suoi polmoni intrisi di storia e cemento sembrano ringiovanire ad ogni mio passo, specialmente di giorno, quando gli antichi palazzi del barocco siciliano mi invitano a varcare la soglia di un’epoca splendente in cui tutto era perfetto.
Dove i sogni segnavano l’equivalenza di una realtà accessibile a chiunque volesse entrare a farne parte.
È una città dai mille volti che in una sola giornata chiunque faticherebbe a cogliere nella piena e totale essenza, perché le velate cromature che ne caratterizzano il corpo e il resto dei lineamenti sotto sotto celano una ruggine che perfino alla luce del sole pare brillare.
E proprio per questo ecco che un suo difetto diviene subito splendente e insostituibile.
Non si può non amarla, soprattutto non la si può né si deve rimpiazzare con nessun’altra metropoli italiana o estera che sia, altrimenti idda si offende, ti volta le spalle e inizia a vomitare quintali di rifiuti pronti a insozzare quei residui onirici che hai coltivato sin da piccolo nel suo caldo e corrotto grembo materno.
Spesse volte ho pensato di lasciarla ma una volta riuscitoci il suo richiamo mi ha sempre raggiunto ovunque io andassi e nonostante mi tappassi freneticamente le orecchie, il suo cuore antico batteva all’impazzata in ogni anfratto del mio corpo: sostituendo il lamento a una preghiera.
La sua melodia non conosce confini, il suo spartito è un groviglio di vicoli e colori dove i semi che ogni giorno tenti di piantare vengono puntualmente sostituiti dalla paura del cambiamento e dall’ottusa convinzione che le parole è meglio tacerle anziché sbandierarle ai quattro venti in mezzo alle piazze: urlando a gran voce una diversità che nemmeno i cavalli di piazza Massimo saranno mai disposti a trainare sui loro carretti piumati e abbelliti con estremo decoro.
Io so bene quale fu il mio errore, credere che il sogno e la veglia fossero figli della stessa madre: la nostalgia. Nostalgia di che? Di quello che deve venire (Cappuccio, R)
Dirigendomi verso via Mariano D’Amelio il sole si posa prima sui balconi di case sconosciute per poi illuminare quel groviglio di memorie che gelosamente custodisco a trent’anni di distanza da quel terribile millenovecento novantadue, che ho conosciuto attraverso i racconti di mio padre e mia madre.
“Sei nato durante l’anno delle stragi” mi diceva sempre mio padre Giovanni il pomeriggio del ventitré maggio prima che un lungo corteo partisse dall’aula bunker dell’Ucciardone dove una volta ha preso parte al Maxiprocesso in veste di uomo e poi di avvocato.
Tenetelo a mente giudice, lo Stato può fare il viaggio che vuole. Lo Stato può arrivare dove vuole. Lo Stato è sempre in regola. Lo Stato è una mafia munita di passaporto (Cappuccio., R)
Sin da piccolo il termine Mafia ha assunto per me un significato difficile da decifrare, in cui a volte i buoni perdono e i cattivi vincono e dove la lotta per la libertà può esplodere in tutta la sua possente imprevedibilità fino a dissolversi in numerosi puntini.
Una volta arrivato vedo subito dei teli con sopra dipinte le facce dei due giudici, alcuni sono di una bianchezza disarmante altri invece sono un po’ ingialliti dal tempo.
Eppure sono impregnati di un’invisibile sostanza perfino in questo caldo pomeriggio d’estate, profumano un po’ di gelsomino e un po’ di salsedine.
Eh sì, perché la via D’Amelio non dista molto dal mare e come il resto della città il suo respiro si rinnova ogni qualvolta le onde si infrangono sugli ormeggi portuali oppure sugli scogli del Foro Italico vicino il quartiere della Kalsa, luogo di nascita di Paolo.
Non ricordo quanti anni avessi quando i miei genitori mi hanno fatto visitare per la prima volta il Tribunale di Palermo detto anche palazzo di Giustizia, ricordo solo un frenetico via vai di gente vestita per bene che saliva e scendeva dai piani di quella struttura risalente all’epoca fascista.
I corridoi e le varie aule erano fredde e anguste, non era un posto adatto per i bambini, lì era vietato correre, di scivoli e altalene nemmeno l’ombra.
Lì era vietato giocare.
Semplicemente perché come ebbero a spiegarmi mamma e papà, in quel luogo si era cercato negli anni di contrastare la lotta a chi vietava la libera circolazione delle idee e a chi sceglieva di stare nel giusto schierandosi dalla parte dello Stato.
“Per questo qui dentro non sorride mai nessuno”?
“Sì, perché la lotta alla mafia è una cosa seria e nessuno deve sostituire un pallone da calcio con una bomba”.
Mentre adagio il girasole acquistato poco prima dal fioraio di quartiere, sulla scalinata scorgo tanti disegni appoggiati sui gradini e distesi con perizia lungo il marciapiede mentre un vento leggero li anima con quell’invisibile soffio che dona loro un rinnovato movimento sotto questi tristi raggi di luglio.
Mi ritrovai allora un momento come davanti a due strade, l’una rivolta a rincasare nell’astrazione e sempre nella quiete, nella non speranza, l’altra rivolta alla Sicilia, e in qualcosa che poteva anche non essere una così sicura quiete e una così sorda non speranza (Vittorini, E)
La cognizione del tempo mi sfugge, il sole si fa bello e la città si imbelletta per il trentatreesimo anno di fila.
A volte col pensiero le ho perfino chiesto se non abbia mai avuto il coraggio di ribellarsi a chi ne ha invaso e calpestato la pelle rovinandole il trucco, a chi ne ha martoriato il volto trasformandola in una marionetta al servizio di burattinai corrotti pronti ad abusare della sua carne ogni qualvolta ne sentissero la spinta.
Lei però rimane in silenzio, mi guarda da ogni angolo delle sue viscere pulsanti dove un sordo dolore per i figli perduti si affianca alla sofferenza per quelli che ancora una volta la lasceranno in balia di ricordi lontani.
Questa è la pena che ogni anno le tocca scontare.
La sola (in)giustizia concessale da uno Stato che in nome di una legge straniera ha estirpato le radici di un sogno in cui molti credevano ma per il quale pochi si sono battuti davvero, anche a costo di perdere la vita.
In nome di una terra che per cambiare deve ogni giorno far brillare le proprie ferite.
Facendo i conti con chi resta, con chi sceglie di andarsene
e con chi non c’è più.
Riferimenti bibliografici
Cappuccio., R, Paolo Borsellino, 2020, “Essendo Stato”, Feltrinelli Editore, Milano.
Sklovskij., V, 1984, “L’energia dell’errore”, Editori Riuniti, Roma
Vittorini., E, 2024, “Conversazione in Sicilia”, Bompiani Editore, Firenze.
Cristi Marcì*
* Cristi Marcì è uno psicoterapeuta psicosomatico junghiano. Grazie ai libri ha scoperto la possibilità di viaggiare con l’unica compagnia gratuita: la fantasia. Adora i gialli, la saggistica e i romanzi storici. Ad oggi ha pubblicato racconti brevi sulle riviste «Topsy Kretts», «Morel, voci dall’Isola», «Smezziamo», «Offline» «Kairos» e altre ancora. Scrive articoli per il periodico scientifico «Ricerca Psicoanalitica», «Arghia» e «Mortuary Street». Trovate una sua traccia anche su «Quaerere»
La fama di Giacomo Leopardi è affidata all’opinione comune che ne sottolinea la storia delle sue sofferenze, la sua malinconia e ipocondria, la trasfigurazione lirica del suo sentire. La tradizione scolastica (che rimane l’unica occasione di conoscenza per la quasi totalità delle persone) ha restituito, e continua a farlo, l’immagine innocua e consolatoria di un’unica dimensione del poeta, quella lirica e dolente, appunto, che fa solidarizzare con lui, compiangere se stessi, per un processo inconscio di identificazione, e il mondo con tutti i suoi mali e le sue difficoltà. Schiacciato dalla sua stessa grandezza, ancora oggi Leopardi stenta a vedere affermata la sua importanza di moralista e di critico della società moderna, di quella italiana in particolare. Difatti, nella percezione della cultura media d’Italia, quella destinata a costruire e consolidare le opinioni e le valutazioni, fatica a emergere la percezione di un Leopardi pensatore e filosofo, quasi che a definire la filosofia sia la costruzione sistematica in capitoli e paragrafi e non l’originalità del pensiero e il contributo al progresso dello spirito riflettente.
Volendo, dunque, andare al di là della valutazione altissima del suo ricercare poetico, bisogna necessariamente rivolgersi al “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”, di cui si prende in considerazione l’edizione Letteratura universale Marsilio, collana Esperia, del 1989, con introduzione e cura di Augusto Placanica. Tale edizione è corredata da commenti e chiarimenti ricavati unicamente dalle riflessioni dello stesso autore e da un saggio che mira ad essere uno dei primi tentativi di avvicinare il lettore a un Leopardi interessante, controcorrente, quasi inedito, attuale, calato nell’impietosa analisi dell’evoluzione della società nel bel mezzo delle idealizzazioni risorgimentali, i cui esiti ci troviamo ancora oggi a vivere, in una condizione di soddisfatta o inebetita mediocrità, quasi inevitabile destino.
Leopardi compose il Discorso nel 1824 e lo scritto rimase inedito fino al 1906, quando fu inserito nella silloge “Scritti vari inediti delle Carte napoletane”, a cura di Giovanni Mestica (Firenze, Le Monnier, 1906) nel quadro delle Opere complete. In quest’opera Leopardi sembra pensare che i valori dell’antica civiltà classica non siano più percepibili nel contesto culturale del Mediterraneo e si siano spostati verso le civiltà del Nord d’Europa. Tale visione è presente in molti filosofi della crisi: Schopenhauer, Nietzsche, Ortega y Gasset, Toynbee, fino a Horckheimer e Adorno, in quelli della scuola di Francoforte fino alle ipotesi sul cosiddetto pensiero debole. Si potrebbe addirittura considerare, nel Leopardi che si analizza specificamente, che vi sia una tensione verso la modernità che lo avvicini a tanti pensatori dell’Europa otto-novecentesca. Si potrebbe scoprire nel Leopardi progressista e sovversivo una carica di modernità che lo distacca dall’Italia e lo avvicina all’Europa. Allora, forse, bisogna tentare una conoscenza più eterogenea, perché Leopardi è un autore affascinante, che riesce con la sua seduzione a rendere complesso ogni itinerario nella sua mente.
Quando, nel marzo 1824, Giacomo Leopardi comincia a scrivere il suo Discorso, l’Europa è entrata da qualche anno nella torbida atmosfera della Restaurazione, gravata dalla sua cappa oppressiva. Egli, fin da subito, dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, che vede dominata dall’inerzia e dal tedio. Ciò vale soprattutto per l’Italia, miserevolmente decaduta dalla grandezza del passato. Conclusasi l’età napoleonica, in un continuo formarsi e riformarsi di Stati, si è interrotto anche lo spirito di novità sociali e culturali da cui essa aveva preso inizio e legittimazione. Dopo la Rivoluzione Francese, che sembra ormai allontanarsi dal palcoscenico della storia, si smarrisce il grande patrimonio di idee, progetti, utopie del tardo secolo dei lumi, di riflessioni sulla società, di ideali e innovazioni filosofiche, della riscoperta della dimensione politica di ogni cosa, dell’economia, degli ordinamenti della cultura che erano confluiti in un unico irrefrenabile desiderio di modernità. Ebbene, tutto questo sembra arrestarsi con la benedizione dei principi più tradizionali. Infatti, la Restaurazione, non vuole soltanto combattere gli esiti eversivi dell’epopea napoleonica, ma abrogare gli stessi principi ispiratori dell’ondata rivoluzionaria, che dopo qualche decennio non sono del tutto scomparsi dalla mente e dal cuore di tanti che ancora sperano nella razionalità e nella modernità.
Il 1904 è l’anno in cui accadono significativi eventi storici e si sperimentano nuove tendenze culturali. Da una parte il tramonto delle illusioni rivoluzionarie, dall’altra il riconoscimento che si andava attenuando l’egemonia culturale della Francia e che la Germania imponeva all’Europa la ragione innalzata a metafisica. Leopardi vive questa complessità di intrecci con lucidità, anche se in lui convivono le contraddizioni dell’antiromantico intriso di un suo personalissimo romanticismo, e del difensore della civiltà classica intollerante all’imbalsamazione della classicità. Tutta questa complessità rientra nel Discorso sopra i costumi degli italiani. Questa coerenza e questa complessità, ben al di là delle mode, collocano Leopardi a contatto con l’Europa e con il grande dibattito culturale europeo del tempo.
Dopo la Rivoluzione e l’età napoleonica, grazie al potenziamento degli scambi economici, civili e culturali, le nazioni europee tendono a conoscersi e apprezzarsi meglio, senza i reciproci pregiudizi del passato. L’Italia è, in questa fase, al centro di attenzione, ma gli italiani sospettosi, benché poveri di amore di patria, sopportano male ogni piccola critica nei loro riguardi, anche perché poco propensi a riflettere su qualsiasi tema che li riguardi. Persi gli ideali su cui si fonda la morale, la virtù appare sciocca, mentre si impongono il tornaconto e il vizio. La società umana sembra reggersi in piedi per puro miracolo, dato che la politica può offrire sostegni di natura esclusivamente coercitiva e formale, ripetutamente inefficaci. Pertanto, se le nazioni civili riescono a preservare la morale pubblica e la società in generale, questo avviene esclusivamente per l’azione di una limitata fascia di questa stessa società borghese e intellettuale, che segue determinati valori morali e costumi. I valori e i comportamenti di questa parte di società influenzano i valori e i comportamenti della società complessiva e ne permettono l’espansione e lo scambio con altre realtà nazionali. Ora, una delle caratteristiche della società stretta è che essa spinge i suoi membri a una sana ambizione (il senso dell’onore) che consiste nella tendenza a stimare gli altri con il desiderio di esserne stimati. Da qui nasce il rispetto verso la pubblica opinione, il bisogno di comportarsi bene e di evitare il male. Tendenza meschina, certo, ma ormai l’unica possibile, una volta che sono state distrutte le illusioni della filosofia e svaniti tutti gli ideali sociali.
A partire dall’età moderna, gli italiani non hanno più illusioni e non hanno più ideali, poiché hanno compreso la nuda e deludente realtà che si cela al di sotto degli assiomi morali (verità o princìpi che si ammettono senza discussione, evidente di per sé). Diventati più filosofi e più razionali di qualsiasi altro popolo civilizzato d’Occidente, essi sono privi di quei fondamenti morali che sostengono e conservano la società. Inoltre, per un insieme di elementi (il clima favorevole, la spiccata ingegnosità, l’amore per i divertimenti), l’Italia risulta priva di quella società stretta di cui si è detto, per cui il passeggio, le cerimonie religiose e gli spettacoli caratterizzano la dissipata vita sociale degli italiani, che non amano la vita discreta e riservata negli ambienti della loro casa, né utilizzano il loro tempo in interessanti e solide conversazioni. Gli italiani, soprattutto quelli più avvezzi alle cose del mondo, non si preoccupano, anzi disprezzano l’opinione pubblica, cioè la stima degli altri. Di conseguenza, ragionando razionalmente e in termini di tornaconto concreto, avere una reputazione positiva serve a poco; viceversa, una fama negativa non toglie nulla, per cui, prima o poi, cade nell’indifferenza.
Venendo a mancare quella parte di società che fissa le regole di comportamento generali, non solo non ci sono più buone maniere, ma non ci sono nemmeno maniere, nel senso che ogni italiano fa regole e maniera a sé. Priva di un vero avvenire economico e sociale, la società è concentrata sul presente e non riflette su progetti e piani per il futuro. Altrove, è la stessa società generale, fondata sulla tendenza dell’uomo a imitare coloro di cui subisce in qualche modo l’influenza, a rimanere l’unico rimedio contro la presa di coscienza dell’inutilità del proprio agire. In altre parole, se ci si convince che gli altri hanno cura e rispetto della vita, si da valore e significato all’esistenza; anche il più scettico e disilluso viene trascinato ad apprezzare la vita, viverla in piena attività e impegnarsi per essa.
Queste convinzioni possono circolare solo in una società ispirata da solidi principi morali (siano pure illusorii), per tanto, nemica della società vera è la vita dissipata e corrotta tipica della classe medio-alta d’Italia: una vita totalmente concentrata sulla quotidianità e il soddisfacimento di ogni desiderio, istinto e impulso soggettivo ed egoistico. Inevitabilmente, si generano conseguenze nefaste: l’indifferenza, il cinismo, il ridere di sé e degli altri, il disprezzo per tutto e per tutti. Atteggiamenti tipici, questi, di chi vive nel disprezzo della vita. In questo campo gli italiani hanno un triste primato: il loro reciproco rapporto si riduce a un’inesorabile guerra di tutti contro tutti, condotta attraverso la presa in giro, l’offesa e la denigrazione. Sarebbe ingenuo credere che in altre nazioni la società non abbia i suoi difetti, che poi sono i difetti comuni a tutte le società umane: dappertutto esiste l’egoismo, che è frutto della naturale predisposizione dell’uomo a emergere, ma in Italia questi difetti sono più gravi, più frequenti, più diffusi, più funesti.
L’Italia moderna non possiede nuovi fondamenti morali e, tuttavia, ha perso quelli antichi distrutti dalla stessa civiltà. Gli italiani non hanno solidi e coerenti costumi, ma soltanto usanze e abitudini, passivo adeguamento ai comportamenti altrui. Ne consegue che il livello morale è più basso là dove più limitata è la circolazione della civiltà moderna e della sua cultura ed è più alto dove c’è più civiltà di ragione. A questo si aggiunga che, proprio perché caldi ed esuberanti di natura, gli italiani si sono raggelati e intorpiditi quando hanno provato il disinganno operato dai progressi della ragione; al contrario, i popoli settentrionali, meno inclini al calore dell’entusiasmo, hanno meglio resistito alla caduta dell’antica tensione ideale. Da ciò nasce che l’Italia oggi è del tutto priva di una filosofia e di una letteratura proprie, benché in passato sia stata all’avanguardia proprio in virtù della sua immaginazione, mentre è indiscussa l’attuale supremazia dei popoli settentrionali, che sono diventati i più caldi, i più sentimentali e i più intimamente legati a correnti mistiche e religiose. Laddove in Italia la stessa religione è fredda adesione conformistica, nei popoli settentrionali pare che si siano innestate le forme, le passioni e l’immaginazione dell’età antica. È venuto ormai il tempo del settentrione, e la civiltà meridionale è al suo tramonto: questo processo è appena agli inizi e bisogna credere che esso durerà a lungo. Con questa costatazione, e con l’auspicio della definitiva affermazione della modernità, si chiude il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani.
Nell’economia del Discorso vanno considerati almeno tre spunti di particolare originalità. Innanzitutto, la tensione verso una società veramente moderna e vitale, che aspiri a eguagliare i fasti e la gioia dell’età classica, pur nella ferma convinzione che sono ormai impossibili salti all’indietro. Secondo elemento, anch’esso nuovo e originale, la convinzione che le forme della più avanzata civiltà siano ormai proprietà e conquista dei soli popoli settentrionali. Infine, la lucida analisi di Leopardi a proposito dei ceti abbienti e della borghesia intellettuale dell’Italia moderna.
Siamo alle ultime pagine dello Zibaldone e sono passati circa quattro anni dal Discorso, ma le convinzioni di Leopardi sulla funzione della borghesia intellettuale italiana non sono cambiate. Se un popolo è in stato di semi barbarie, ciò avviene perché le sue élites non sono riuscite a liberarsi dei ceppi della cultura vecchia. È questo che caratterizza in negativo il Mezzogiorno d’Italia rispetto al resto della Nazione e l’Italia rispetto all’Europa. Senonché Leopardi non è uno storico. In lui lo spessore sociologico e perfino antropologico supera la dimensione storica vera e propria e, forse, l’eccezionale sensibilità dell’analisi psicologica, degli individui come delle masse, supera le ambizioni di inquadramento sociologico. Leopardi ha il senso dei tempi lunghi dell’evoluzione storica: produzione, commerci, tecnologie, istituzioni, culture, comportamenti, valori, lingue e tende a collegare strutture fattuali e strutture mentali in modo che, volta per volta, tutto si tenga insieme e si spieghi alla luce di una sola idea forte. Ma proprio per questo non bisogna chiedergli quando, come e perché una data struttura si sia evoluta in altre.
Il Discorso di Leopardi invita, inevitabilmente, a fare una riflessione: dopo due secoli, che ne è dei costumi degli italiani. La lettura di questo saggio spinge a chiedersi se sono avanzati culturalmente, eticamente e moralmente; oppure sono rimasti fermi nell’arretratezza sociale che li ha caratterizzati sin dal secolo dei lumi o, addirittura, sono arretrati inesorabilmente verso un declino sociologico, antropologico e psicologico che li pone fuori dalla contemporaneità.
Sonia Di Furia
Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.
Dopo essere stato licenziato dall’Istituto di Kiel per l’Economia Mondiale per aver rifiutato di rientrare in aereo dalla Papua Nuova Guinea pur di restare fedele al suo impegno di ridurre l’impatto ambientale, Gianluca Grimalda, ricercatore in scienze sociali e attivista, è diventato un simbolo della lotta al cambiamento climatico. Dopo il licenziamento, Grimalda è tornato in Europa da Bougainville (Isole Salomone) senza aereo, in un viaggio di 28.000 km durato 72 giorni. Il libro “A fuoco” (Feltrinelli), uscito lo scorso 4 giugno, è il resoconto di quel viaggio, un diario con digressioni scientifiche, ma anche un documentario sugli effetti dell’emergenza climatica che già colpiscono le periferie del mondo. La sua storia è un invito alla disobbedienza civile e a riflettere sulla necessità di superare la dipendenza dai combustibili fossili.
Abbiamo chiesto a Gianluca Grimalda di parlarci del suo libro.
“Lo scorso 4 giugno è finalmente uscito in libreria per Feltrinelli Editore il mio primo libro, “A Fuoco“.
È il diario del viaggio di 28.000 km percorsi via terra e mare dalle Isole Salomone all’Europa, un viaggio senza aerei nato dalla mia scelta di ridurre le emissioni di CO2, scelta che mi è costata il lavoro di ricercatore.
Di fronte all’ordine dell’ ex datore di lavoro di tornare in aereo dalla mia ricerca sul campo a Bougainville, in contrasto con i miei 15 anni di viaggi lenti per minimizzare l’impatto ambientale, ho scelto di restare fedele ai miei principi, anche a costo di perdere il lavoro. Le mie motivazioni le ho raccontate in dettaglio in questo articolo su The Guardian:
In “A fuoco” ho voluto dare voce alle persone delle periferie del mondo incontrate durante la mia ricerca a Bougainville e lungo il viaggio, che già subiscono gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici.
Ho cercato di trasmettere lo spirito di comunità che regna lungo la Via della Seta, dove sconosciuti si aiutano come fratelli, facendomi sentire a casa ovunque mi fermassi.
Con il supporto di dati scientifici, il libro documenta il rischio di collasso ecosistemico, già evidente in molti dei luoghi che ho attraversato.
È anche un invito a riflettere sulla necessità di un’azione collettiva e anche di disobbedienza civile per contrastare l’aumento delle temperature. Nel testo discuto le basi filosofiche e l’efficacia di queste forme di attivismo.
“A fuoco” è anche un libro personale: racconta molto di me, compreso il mio rapporto a volte difficile con mio padre. Ma, soprattutto, vorrei che questo libro appartenesse e fosse un omaggio alle migliaia di persone della “periferia globale” che ho incontrato, che affrontano il disastro climatico senza essere responsabili delle sue cause, legate allo stile di vita “jet-setting” dei privilegiati del Nord globale.”