Italo Calvino: “Sotto il sole giaguaro”, di Dino Montanino

Sotto il sole giaguaro è un’opera di Italo Calvino pubblicata postuma, nel maggio 1986, dall’editore Garzanti. Calvino si proponeva di scrivere cinque racconti dedicati ai cinque sensi ma la morte improvvisa non gli consente di portare a termine il suo progetto. Il libro dell’86 contiene i tre titoli compiuti: Il nome, il nasoSotto il sole giaguaro, Un re in ascolto, dedicati rispettivamente all’olfatto, al gusto e all’udito. 

Il racconto Sotto il sole giaguaro è la storia di un viaggio in Messico. Chi racconta è il protagonista maschile che viaggia con Olivia, la sua compagna. Il racconto si apre con la descrizione di un dipinto. Siamo a Oaxaca, tra Città del Messico e il Chapas e, in una saletta che porta al bar dell’hotel dove sono ospitati i due viaggiatori, c’è una grande tela oscura che rappresenta “una giovane monaca e un vecchio prete, in piedi, affiancati, le mani leggermente staccate dal corpo, quasi sfiorandosi”. Una didascalia nella parte bassa del quadro ci racconta che lui era stato il cappellano e lei la badessa del convento. Si tratta del convento di Santa Catalina successivamente trasformato in albergo. Nella didascalia si trova un’affermazione strana che cattura l’attenzione dei due viaggiatori. Si dice che la donna, di nobile famiglia, era entrata in convento all’età di diciotto anni e che lui era stato il suo confessore; i due erano ritratti insieme per l’amore che li aveva legati per trent’anni. Quando lui era morto lei, più giovane di vent’anni, si era ammalata gravemente ed “era spirata d’amore per raggiungerlo in cielo”. Che amore poteva essere quello che legava il cappellano alla badessa? Sicuramente un “amore difficile” per citare Calvino al punto che il narratore sente di trovarsi “in presenza d’un dramma o d’una felicità” che impedisce ogni commento; che intimidisce, suscita timore e comunica un senso di malessere. Olivia, di fronte al dipinto, resta in silenzio poi esprime il desiderio di mangiare chiles en nogada, peperoncini rossobruni in salsa di noci. Perché, dopo la vista del dipinto, Olivia afferma di voler mangiare? Ce lo spiega il suo compagno, di viaggio e di vita. Pochi giorni prima, in un ristorante di Tepotzotlán, anche questo ricavato da un vecchio convento, i due avevano assaggiato pietanze preparate secondo le antiche ricette delle monache. Pietanze raffinate ed elaborate che richiedevano ore e ore di lavoro. Quelle monache passavano intere giornate in cucina? La curiosità di Olivia è legittima ma le viene spiegato che le figlie di famiglie nobili entravano in convento “portando con sé le proprie donne di servizio; cosicché per soddisfare i veniali capricci della gola, i soli a esser loro concessi, le monache potevano contare su uno stuolo alacre e infaticabile d’esecutrici”. Risultato: piatti nati da “vite intere dedicate alla ricerca di nuove mescolanze d’ingredienti e variazioni nei dosaggi, all’attenta pazienza combinatoria, alla trasmissione d’un sapere minuzioso e puntuale”. Piatti capaci di generare un’estasi barocca e ridondante, una mescolanza tra tradizione india e cultura ispanica che ricorda gli eccessi degli edifici coloniali. La sfida tra le antiche civiltà d’America e lo sfarzo barocco introdotto dai conquistatori dall’architettura si era estesa alla cucina dove era avvenuta una mirabile e inattesa fusione. “Attraverso bianche mani di novizie e mani brune di converse, la cucina della nuova civiltà ispano-india s’era fatta anch’essa campo di battaglia tra la ferinità aggressiva degli antichi dèi dell’altopiano e la sovrabbondanza sinuosa della religione barocca…”.  

Ma torniamo a Olivia e al suo desiderio di mangiare. Da quando è iniziato il viaggio in Messico, la donna mangia in modo diverso. “Le labbra d’Olivia nel bel mezzo della masticazione indugiavano fin quasi a fermarsi, ma senza interrompere del tutto la continuità del movimento, che rallentava come non volendo lasciar allontanare un’eco interiore, mentre il suo sguardo si fissava in un’attenzione senza oggetto apparente, quasi come in allarme”. Ma, nonostante possa sembrare un approccio teso a vivere in solitudine l’esperienza della scoperta di nuovi sapori, in realtà la donna sente continuamente il bisogno di condividere le sue emozioni gustative coinvolgendo continuamente il suo compagno “come se in quel preciso momento i nostri incisivi avessero triturato un boccone di composizione identica e la stessa stilla d’aroma fosse stata captata dai recettori della mia lingua e della sua”. Il narratore gradisce moltissimo il bisogno di condivisione manifestato dalla sua compagna anche perché, dall’inizio del viaggio in Messico, l’intesa fisica con Olivia sta vivendo un momento di rarefazione e la nuova complicità costruita a partire dalla degustazione di cibi esotici porta l’uomo a notare con compiacimento come “certe manifestazioni della carica vitale di Olivia, certi suoi scatti o indugi o struggimenti o palpiti, continuassero a dispiegarsi senz’aver perso nulla della loro intensità, con una sola variante di rilievo: l’aver per teatro non più il letto ma una tavola apparecchiata”. Ma la speranza che dalla tavola apparecchiata si possa tornare alla ritrovata pratica dell’amore fisico è destinata, almeno per ora, a restare frustrata. La cucina messicana evoca e stimola il desiderio, ma si tratta di un desiderio che trova soddisfazione solo nell’ ambito che lo ha fatto nascere: il cibo. E, di conseguenza, si alimenta mangiando sempre nuovi piatti senza, per questo, investire l’intimità amorosa.

Tornando alla badessa e al cappellano, il narratore è convinto che, come stava accadendo a lui e a Olivia, anche quell’amore immortalato nel dipinto, se riusciamo a sconfinare oltre la cornice del quadro e al di là delle parole contenute nella didascalia, dobbiamo immaginarlo come un sentimento “perfettamente casto, e nello stesso tempo d’una carnalità senza limiti in quell’esperienza dei sapori raggiunta per mezzo d’una complicità segreta e sottile”.

Il racconto potrebbe finire qui. Utilizzando la metafora del viaggio potremmo dire che siamo arrivati alla meta. Il percorso del narratore e di Olivia li ha portati a una scoperta inattesa, a ritrovare una complicità nuova e mai immaginata. Ma quando si viaggia evitando di ancorarsi a programmi rigidi è possibile scoprire in ogni momento realtà e suggestioni impreviste. È quello che accade ai viaggiatori protagonisti del racconto che, come molti turisti in Messico, vanno a visitare, in prossimità di Oaxaca, gli scavi archeologici di Monte Albán. Monte Albán “è un complesso di templi, bassorilievi, grandiose scalinate, piattaforme per i sacrifici umani”. Tre civiltà si sono succedute a Monte Albán: Olmechi, Zapotechi, Mixtechi. La guida che accompagna il narratore e Olivia è un uomo grosso di nome Alonso che fornisce le sue spiegazioni accompagnandole con ampi gesti teatrali; si sofferma a lungo sui bassorilievi detti «Los Danzantes» che raffigurano scene legate a riti sanguinosi e a sacrifici umani. Si fa riferimento anche a gare sportive: “figure che corrono o lottano o giocano a palla”. Quella gare non hanno nulla di olimpico, di pacifico. Coloro che gareggiano sono prigionieri di guerra obbligati a entrare nell’agone per decidere chi di loro dovesse salire per primo sull’altare del sacrificio. E, con grande sorpresa di Olivia, si scopre che erano i vincitori a essere sacrificati per primi: avere il petto squarciato dal coltello d’ossidiana era un onore. La donna, sempre più incuriosita, chiede ad Alonso quale fine facessero i corpi delle vittime, le loro membra, le loro viscere. Le bruciavano? Alonso, interdetto e imbarazzato, risponde che non venivano bruciati, venivano lasciati in pasto agli avvoltoi. Olivia incalza l’uomo come se sapesse che non sta dicendo tutta la verità, come se avesse capito che c’è dell’altro che Alonso non vuole riferire. Lui continua a illustrare lo scavo ma Olivia è pensierosa e resta in silenzio per tutta durata della visita.   

Quando rientrano in albergo scoprono che in una delle grandi sale dell’ex convento è in corso una manifestazione elettorale in occasione delle imminenti elezioni presidenziali. Tra i partecipanti compare Salustiano Velazco, un amico di Città del Messico che aveva dato alla coppia molti consigli sul viaggio che si accingevano a compiere. L’uomo va incontro ai due viaggiatori e si informa su quello che, fino a quel momento, hanno visto. Quando gli viene raccontato che sono di ritorno da Monte Albán, Salustiano fa fatica a contenere la sua emozione e, nel fragore della sala, comincia a parlare di sangue, coltelli di ossidiana, sacrifici. Lo fa con un misto di partecipazione ammirata e di sacro orrore e Olivia non si lascia sfuggire l’occasione di chiedergli quello che non era riuscita a sapere da Alonso: il cibo che gli avvoltoi non si portavano via… come finiva? Salustiano risponde e non risponde. Parla di sacerdoti che assumevano le funzioni del dio, di cerimonie segrete, di pasto rituale, di cibo divino… Olivia non si accontenta e chiede come si svolgeva questo pasto. L’interlocutore risponde che, in verità sono solo supposizioni, che forse anche i principi e i guerrieri partecipavano a quel pasto, che la vittima era già parte del dio perché trasmetteva la sua forza divina… e che “solo il guerriero che aveva catturato il prigioniero sacrificato non poteva toccare la sua carne… Stava in disparte piangendo”. Quello che Olivia aveva sospettato si rivela terribilmente vero. Le vittime venivano mangiate, il pasto rituale era fondato sul cannibalismo. Ma alla donna non basta questa sconcertante scoperta, vuole sapere di più. Chiede come veniva preparata quella carne perché, dicono, non è buona da mangiare e allora, forse, ci volevano condimenti forti, per coprire quel sapore. Ma magari quel sapore veniva fuori lo stesso, non era possibile coprirlo. E i sacerdoti? Non hanno lasciato qualche indicazione scritta. Sembra incredibile ma in pochissimo tempo siamo passati dalle raffinate preparazioni delle monache, all’ipotesi di un ricettario utile a preparare piatti a base di carne umana. Salustiano non può dare risposte precise. Ribadisce che quei riti restano avvolti nel mistero e che quella era una “cucina sacra… doveva celebrare l’armonia degli elementi raggiunta attraverso il sacrificio, un’armonia terribile, fiammeggiante, incandescente…”. Poi resta in silenzio e si congeda dalla coppia di amici. 

Durante la cena, Olivia e il suo compagno non possono fare a meno di ritornare sul cannibalismo e sulle modalità con cui venivano preparate le pietanze a base di carne umana. Forse, ipotizza Olivia, il sapore di quella carne “non si poteva, non si doveva nasconderlo… Altrimenti era come non mangiare quel che si mangiava… Forse gli altri sapori avevano la funzione d’esaltare quel sapore, di dargli uno sfondo degno, di fargli onore…”. Come in tutto il racconto, Olivia assume su di sé il ruolo dell’osservatrice attenta del mondo che la circonda. È una viaggiatrice-antropologa che indaga usando strumenti originali. Pone domande, come tutti gli antropologi, e si aspetta risposte esaustive. Ma la sua indagine va ben oltre le modalità consuete. Lei vuole scoprire il mondo anche attraverso i sensi, in particolare attraverso il gusto. E la scoperta del cannibalismo la porta a desiderare di squarciare il diaframma che separa la modernità, a cui lei e il suo compagno, in quanto viaggiatori-turisti, appartengono a pieno titolo, dalla misteriosa e indecifrabile cultura mesoamericana.  

Anche per il narratore l’incontro con il cannibalismo rituale rappresenta un elemento di forte novità. Lui, contrariamente alla sua compagna, non sembra interessato a scoprire i misteri che nascondono gli antichi riti precolombiani. Lui è interessato solo a Olivia, osserva lei perché vuole capire in che modo il rapporto della donna con il cibo messicano possa rappresentare l’occasione per ritrovare gli amplessi rimossi. E dopo le rivelazioni sui banchetti rituali nei quali si serviva carne umana, a cena, osserva Olivia con occhi nuovi. La guarda masticare ogni boccone delle pietanze che ha ordinato e gli sembra di sentire i denti di lei che lo azzannano, che si conficcano nella sua carne, sente la lingua della donna che penetra la sua bocca fino al palato e, poi indietro, sotto la punta dei canini. “Ero seduto lì, davanti a lei ma nello stesso tempo mi pareva che una parte di me, o tutto me stesso fossi contenuto nella sua bocca, stritolato, dilaniato fibra a fibra”. Una situazione di grande intensità ma, anche, di grande reciprocità. Perché mentre viene “masticato” da lei, sente di non essere vittima passiva delle sue fauci. Mentre era “divorato” si convince che sta trasmettendo a Olivia “sensazioni che si propagavano dalle papille della bocca per tutto il suo corpo: era un rapporto reciproco e completo che ci coinvolgeva e ci divorava”. Il narratore non ha la vocazione dell’antropologo. Ci appare, più che altro, un sognatore innamorato desideroso di indagare i comportamenti della sua compagna per immaginare tutte le possibili strade che lo portano a lei, per ritrovare l’intimità perduta. Per questo motivo, quando scopre il cannibalismo rituale, sogna di stabilire con Olivia un rapporto erotico attraverso il cibo arrivando a immaginare di essere “mangiato” per vivere fino in fondo un’unione totale: se mi mangi io posso entrare completamente in te provocando nel tuo corpo vibrazioni mai vissute. 

Ma è un’illusione. Olivia non condivide i desideri del suo compagno. Lo accusa di restare sempre chiuso in se stesso, indifferente al mondo, insipido. Insipido? Se lui è insipido la cucina messicana, forse, può venirgli in aiuto. I suoi sapori accesi potrebbero aiutare Olivia a nutrirsi di lui, della sua sostanza. Ma lei azzera ogni speranza. “La cucina è l’arte di dar rilievo ai sapori con altri sapori, ma se la materia prima è scipita, nessun condimento può rialzare un sapore che non c’è!”. Il viaggiatore, agli occhi di Olivia, è insipido perché non ha nessuna voglia, nessuna intenzione di rompere il diaframma che lo separa dal mondo arcaico. Lui resta un uomo del nostro tempo e le suggestioni che provengono dai cibi messicani lo attirano solo perché possono portarlo alla donna che desidera. 

Con l’amico Salustiano Velazco vanno a visitare uno scavo ancora poco conosciuto. C’è una statua che rappresenta una figura umana semisdraiata che tiene un vassoio posato sul ventre. È il chac-mool. Su quel vassoio venivano offerti al dio i cuori delle vittime. Il narratore chiede come avveniva l’offerta agli dei e Salustiano prefigura varie ipotesi. “Potrebbe essere la vittima stessa, supina sull’altare, che offre le proprie viscere sul piatto… O il sacrificatore che assume la posa della vittima perché sa che domani toccherà a lui…”. In quei riti misteriosi non è facile stabilire la linea di confine tra il carnefice e la vittima. Vigeva una sorta di reversibilità dei ruoli e la vittima accettava di essere tale perché “aveva lottato per catturare altri come vittime…”. Il narratore tira le conclusioni: i sacrificati potevano essere mangiati perché erano loro stessi mangiatori di uomini. Ma Salustiano non lo ascolta perché sta parlando del serpente, l’animale che simboleggia la continuità della vita e del cosmo.

Dopo la visita al chac-mool il narratore crede di aver capito dove ha sbagliato con Olivia: per essere mangiato da lei deve essere lui, per primo, a mangiarla. La sera a cena ordinano due piatti di gorditas pellizicadas con manteca, polpette mantecate al burro, e lui le divora immaginando di mangiare “tutta la fragranza di Olivia attraverso una masticazione voluttuosa”. Quando, dopo cena, si ritrovano in camera da letto, per la prima volta, dopo tanti giorni, ritrovano l’intesa fisica che sembrava assopita. Le proiezioni fantastiche del narratore sono state finalmente appagate. Lui e Olivia hanno fatto l’amore, è riuscito nel suo intento e il racconto, ancora una volta, potrebbe terminare qui.

Ma il viaggio in Messico continua nei territori dei Maya e, di conseguenza, continua anche il racconto. E, nel finale, ci attende una svolta che potrebbe mettere in discussione molte delle nostre osservazioni. A Palenque il narratore visita il Tempio delle Iscrizioni. Olivia, che non ama salire le scale, decide di non seguirlo. Assistiamo ad un improvviso rimescolamento dei ruoli. Lei, l’antropologa indagatrice, resta da sola “confusa nella folla di comitive chiassose di suoni e colori che i torpedoni scaricavano e ingurgitavano di continuo nello spiazzo tra i templi”. Rinuncia per sempre a cogliere il mistero che ammanta quelle affascinanti civiltà e si lascia risucchiare dalla modernità, dalla caciara dei turisti numerosi e disattenti. Lui, al contrario, sale fino al bassorilievo del Sole-giaguaro ed entra nella cripta sotterranea dove c’è la tomba del re-sacerdote. Quando ritrova la luce e comincia la discesa prova una sensazione inattesa. “Il mondo vorticò, precipitavo sgozzato dal coltello del re-sacerdote giù dagli alti gradini sulla selva di turisti con le cineprese e gli usurpati sombreros a larghe tese, l’energia solare scorreva per reti fittissime di sangue e clorofilla, io vivevo e morivo in tutte le fibre di ciò che viene masticato e digerito e in tutte le fibre che s’appropriano del sole mangiando e digerendo”. L’uomo che ha vissuto tutto il viaggio nella posizione privilegiata di osservatore di Olivia ha scoperto una vocazione nuova? La sensazione di vertigine che lo avvolge, l’esperienza panica che vive, per un attimo ci fanno pensare a uno scambio di ruoli. Come se dopo gli amplessi notturni, Olivia avesse ceduto al suo compagno il suo desiderio di aprire un varco per andare oltre i limiti angusti della modernità. Ma è un attimo, un’illusione. La “selva di turisti con le cineprese e gli usurpati sombreros a larghe tese” sono lì davanti a ricordare che il nostro destino è segnato. Pure i viaggiatori più attenti e raffinati, coloro che sono capaci di cogliere la raffinatezza dei cibi esotici e la misteriosa e inquietante profondità di civiltà arcaiche, sono ancorati al tempo limitato e angusto del turismo di massa che può solo immaginare di collegarsi al tempo ciclico e tragico che caratterizzava le civiltà precolombiane. Ma, nonostante tutto, anche nel tempo del turismo di massa il viaggio può assumere una funzione importante. Forse non sarà mai possibile varcare la soglia che dall’oggi ci conduce nei meandri delle società del passato, ma due viaggiatori sensibili come Olivia e il suo compagno riescono a trovare comunque una strada originale per ritrovarsi. Quando sono a tavola, nell’ultima scena del racconto, i denti dei due amanti, per la prima volta, si muovono lentamente con pari ritmo e il loro sguardi si fissano l’uno nell’altro con l’intensità dei serpenti. “Serpenti immedesimati nello spasimo di d’inghiottirci a vicenda, coscienti d’essere a nostra volta inghiottiti dal serpente che tutti ci digerisce e assimila incessantemente nel processo d’ingestione e digestione del cannibalismo universale che impronta di sé ogni rapporto amoroso e annulla i confini tra i nostri corpi e la sopa de frijoles, lo huacinango a la veracruzana, le enchilladas…”.

Il cannibalismo universale riferito al rapporto tra i due protagonisti chiude la storia con una suggestiva e problematica ipotesi di pratica dell’amare e del viaggiare che, fino alla fine, non può prescindere dalla degustazione condivisa di cibi raffinati. 

Dino Montanino

Dino Montanino, laureato in Lettere moderne presso l’università Federico II di Napoli, ha insegnato Italiano e Latino nei licei. È stato formatore in corsi di aggiornamento per docenti. Si occupa di teatro della scuola e ha condotto laboratori teatrali in qualità di esperto esterno presso molti istituti scolastici. È tra i fondatori dell’associazione culturale “Le macchine desideranti” nata con l’intento di diffondere la cultura teatrale e letteraria tra i giovani curando la drammaturgia di tredici spettacoli. Conduce laboratori di scrittura creativa e incontri letterari tematici presso associazioni culturali.

Italo Calvino: “I nostri antenati”, di Valeria Jacobacci

Ero al liceo, secondo classico, quando ho letto i libri che avrebbero formato la trilogia “I nostri antenati”.  Circolavano gli scritti di Calvino, fra noi liceali, fuori programma,  il primo  era stato “Il sentiero dei nidi di ragno”, ancora interamente ispirato alla Resistenza. “Il barone rampante” ci colpì tutti straordinariamente, sarà poi il secondo della “trilogia araldica”. Pubblicato nel 1957, ci arrivava dopo una decina d’anni, quando non eravamo più troppo giovani per apprezzarlo ma già abbastanza maturi per comprenderne tutte le implicazioni culturali. Avevamo alle spalle quarto e quinto ginnasio e poi il liceo, ci inoltravamo verso l’anno della maturità. Calvino era l’autore capace di racchiudere, rappresentare ed esemplificare tutto quello che avevamo studiato fino a quel momento. Lo faceva evocando, ironizzando ed esaltando, al tempo stesso, l’intera letteratura precedente. Avevamo respirato epica fin dalle scuole medie, assorbito il Medio Evo, il Rinascimento dominava la scena e l’Ottocento filtrava dal panorama delle letture degli autori stranieri, letti per conto nostro, principalmente russi, francesi e inglesi, subito dopo arrivarono gli americani e il Novecento. L’anno dopo sul banco avremmo avuto, diversamente languidi, Pascoli e D’Annunzio, poi, sentinelle  del traguardo finale, Pirandello e Svevo. Sotto il banco, in primo liceo, avevamo Steinbeck ed Hemingway, in secondo, Calvino.  Calvino non somigliava a nessuno e in qualche modo li inglobava tutti. Non che ci fosse arrivato in totale antitesi, rappresentava, appunto, tutto quanto lo aveva preceduto, lo aveva per così dire riattualizzato, come uno stilista che gioca con sete e merletti, tirandoli fuori da una scatola magica e improbabile.

La trama del “Barone rampante” è a tutti nota: un ragazzino di dodici anni, sul finire del ‘700, in una località della Liguria che non esiste, di nome Ombrosa, rampollo di una famiglia aristocratica e di nome Cosimo Piovasco di Rondò, un giorno rifiuta di mangiare una disgustosa zuppa di lumache. Il barone, suo padre, gli ordina di farlo ma lui esce in giardino e si arrampica su un albero. Chi, cinquant’anni fa, non ha  rifiutato di mangiare un cibo che non gli piaceva? E chi non ha avuto un padre che si è imposto di farsi ubbidire, pena, per lui, la perdita di ogni autorità? Nessuno, cinquanta e passa anni fa. C’era chi si piegava e chi no, nessuno che, dopo essersi arrampicato su un albero, non ne sia mai più disceso. Cosimo lo fa: promette di non scendere mai più e non scenderà mai più.

Metaforicamente gli alberi sono tuttora pieni di gente che non è più scesa, ma non si vede. La ribellione però covava nel profondo e ben presto cominciò a farsi sentire in quegli anni che precedevano il ’68, sebbene fosse un messaggio che proveniva dal profondo di un subconscio culturale. Sì, è vero che Calvino aveva partecipato alla Resistenza, aveva raccontato della Resistenza, ne “Il sentiero dei nidi di ragno”, del 1947, in un immediato dopoguerra, tuttavia il protagonista era un bambino, e la prospettiva di un bambino è senza compromessi, priva di schemi mentali. In verità, a guerra finita, restavano ancora molti conti in sospeso e molta strada da fare, Calvino lo fa camminando su molti percorsi, viaggiando, scrivendo, interessandosi di scienze e letteratura, servendosi di stili e linguaggi diversi. Di tutti i suoi modi espressivi, quello che mi piacque, e continua a piacermi di più, è quello della fantasia e della fiaba, che si àncora alla cultura classica, alla storia e alla tradizione popolare, indifferentemente e a volte contemporaneamente.

Perciò Cosimo, il barone rampante, che passa la vita sugli alberi, è colui che osserva, da una prospettiva distaccata, tutto quello che gli accade intorno, riuscendo, tuttavia, a parteciparvi lo stesso. Non è un caso che, dall’alto, il protagonista osservi i fatti della Rivoluzione Francese e dell’avvento napoleonico, che partecipi alla guerra contro i Turchi e alla sconfitta dell’Impero Ottomano, e che, infine, si aggrappi a una mongolfiera, simbolo di progresso scientifico e tecnologico, e proprio da lì si lanci in mare, per morire senza rimettere più piede a terra, come aveva promesso. Si tratta del distacco dell’intellettuale, Calvino stesso, che aderisce alla Resistenza partigiana ma non è convinto del PCI, che ne esce quando vede, in concreto, la negazione di libertà del pensiero, della parola e dell’opinione, non gratuita, certo, ma indipendente, sì.   

E, nel fitto dell’assurdità narrativa e fiabesca, lo scenario è quello della Liguria, dove ha vissuto, a Sanremo; la villa del barone Piovasco di Rondò è la villa di famiglia, dove i genitori, entrambi agronomi di fama internazionale,  sperimentavano novità botaniche. Calvino era nato a Cuba nel 1923, dove il padre aveva avuto un incarico ministeriale per la coltivazione della canna da zucchero, la madre era stata assistente della cattedra di Botanica all’Università di Pavia. In una foto, Calvino è con il fratello, seduto su un albero. L’argomento fantasioso non esclude infatti i riferimenti biografici, così Arminio, il personaggio del padre autoritario, ha come modello il padre dell’autore, Mario, e la madre di Cosimo, Corradina, è la madre, Eva. Il narratore, Biagio, fratello minore di Cosimo, è proprio il fratello minore dell’autore, Floriano. I tre rappresentano l’autorevolezza genitoriale e l’obbedienza filiale, lui, il protagonista, invece, fa eccezione. Personaggi e categorie, corrispondenze dei caratteri e dei ricorrenti fatti storici, appaiono in una prospettiva chiara, come solo nelle favole è possibile. Il personaggio di Viola, conosciuta da Cosimo da bambina, persa e poi ritrovata, è strutturato sul personaggio della Pisana, protagonista de “Le memorie di un Italiano” di Ippolito Nievo, lo afferma lo stesso Calvino, al quale i genitori hanno dato il nome Italo, affinché, vivendo all’estero, non dimentichi di essere italiano.  Viola è una ragazzina viziata e capricciosa ma dal temperamento forte e ardimentoso, l’unica che Cosimo possa amare.

E  l’arrampicata sugli alberi? Di certo influenzò un’epoca.

Il primo romanzo della trilogia, che apparve nel 1952 per Einaudi, curata da Calvino, che collaborava con la Casa editrice, è “Il visconte dimezzato”. Si sviluppa fra Seicento e Settecento, durante la guerra dell’Austria con i Turchi, lo lessi per secondo,  mi affascinò non meno dell’altro.  Sul finire del liceo le descrizioni della peste le avevamo lette forse tutte, quella manzoniana de “I promessi sposi”, la boccaccesca che incornicia il “Decameron”, la peste di Atene del V secolo, narrata da Tucidide, alcuni avevano letto, per proprio conto, “La peste” di  Albert Camus, di enorme successo,  Camus ebbe il Nobel per la letteratura nel 1957. “Il visconte dimezzato” era  diverso,  altro clima narrativo, altra espressività, anche qui una peste decima l’esercito, il visconte difende la cristianità ma è un losco figuro, vessatore e prepotente. Poi una palla di cannone lo divide  esattamente a metà, di lui rimane solo la parte malvagia, Medardo “il Gramo” (la parte destra), quella buona è andata perduta. Così pensano gli abitanti della terra alla quale fa ritorno dopo la guerra con gli infedeli (la Liguria), ma anche il buono, Medardo “il Buono” (la parte sinistra),  si salva, e proverà a rimediare ai mali provocati dall’altro se stesso. Le due parti si sfidano a duello per sposare Pamela, amata da entrambi, non vince nessuna delle due: mentre giacciono in fin di vita,  il medico, il dottor Trelawney, le ricuce insieme riportandole all’interezza.

Affascinante allegoria  umana, storica e politica! La peste è quella degli intoccabili e segregati lebbrosi, gli Ugonotti sono i religiosi che non ricordano più le parole dei salmi che cantano. Se la peste e la carestia si accompagnano alle guerre, la guerra stessa è lotta fra bene e male, così confusi e inestricabili che è impossibile porvi termine. E’ la guerra fratricida del Peloponneso narrata da Tucidide: la malattia che si trascinano dietro gli eserciti, con il suo corredo di cortigiane infette. Il ricongiungimento del bene e del male segna una tregua, fino alla prossima palla di cannone.  Fine della guerra è la pace, fine della pace è la guerra, in un ciclo che rincorre se stesso. Nessuno l’ha mai raccontato in modo divertente come Calvino: non è satira, non è tragedia, non è epica e non è poesia, è Calvino.

“Il cavaliere inesistente” è un omaggio ai poemi cavallereschi, non rifà il verso e non sbeffeggia, Carlo Magno e i paladini di Francia sono seri come l’opera dei pupi. Come i pupi i personaggi sono vuoti dentro, non hanno corpi ma sono pieni di ideali. “Ecchisietevoi” chiede  Carlo Magno alle armature schierate prima della battaglia, uguali a quelle che visitiamo nei musei, idea brillantissima che mi fece ridere di gusto quando lessi quella pagina la prima volta. Gli elementi del poema cavalleresco ci sono tutti, con le lotte fra mori e cristiani, gli inseguimenti e gli amori ingannevoli e fatali, fino al dissolvimento completo del cavaliere che, appunto, è inesistente.  Non manca  il riferimento a Don Chisciotte, con la figura dello scudiero del cavaliere inesistente, che qui è  Agilulfo, mentre Gurdulù è Sancho Panza. E’ però sparita la nostalgia per la cavalleria, che era propria del Cervantes: i contadini capiscono bene che possono farne tranquillamente a meno. E questo è un lieto fine. Così sembrò a noi ragazzi, che all’epoca in cui leggevamo Calvino eravamo al liceo. 

 La guerra è fra Mori e cristiani, l’imperatore ha duecento anni, la contesa molti di più. Siamo ancora oggi a contendere, dalla Chanson de Roland  ai giorni nostri la lotta si ripropone come una malattia endemica. Occidente e Oriente non vanno d’accordo, si odiano,  si fanno la guerra, poi fanno la pace, poi fanno la guerra. A volte i Mori vanno in Occidente e i Paladini veleggiano verso Oriente. I Mori non hanno cambiato abbigliamento, i Paladini non hanno più le armature: in giacca e cravatta, non hanno l’elmo con la visiera, perciò è difficile scoprire che dietro non c’è niente.                   

Il Mediterraneo è pieno di vele colorate.

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi. 

Italo Calvino: “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, di Silvia Lanzi

Ho conosciuto Calvino, come molti, sui banchi di scuola: ho amato particolarmente Marcovaldo e le sue tenere e tragicomiche avventure.
L’ho ritrovato, scrittore per adulti quando, qualche tempo fa, ho letto, su consiglio di mia moglie, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Ed è stato subito amore. Il libro è qualcosa di strepitoso, un incrocio tra matrioska e labirinto: storie dentro storie dentro storie. Racconti divergenti che si intrecciano come il filo di un gomitolo di lana. Iniziano. Si interrompono e si inseguono. Quando ne inizi una ti prende forte e vorresti sapere come finisce. Ma inevitabilmente viene interrotta da un’altra – e con quella nuova succede lo stesso e via così fino all’ultima pagina.


A volte si tratta di storie volutamente assurde o quantomeno improbabili e grottesche, ognuna scritta con uno stile diverso, unico, che intrigano e spiazzano e nelle quali sono nascoste suggestioni e rimandi a diversi altri autori. Calvino dissemina ogni storia di riferimenti apparentemente fantasiosi che sembrano creati ad hoc – gruppi etnico/linguistici dai nomi buffi e poco probabili, opere che sembrano pseudobiblia – che però, in effetti, sono reali.
Segno senz’altro della grande erudizione dell’autore ma messi lì con una tale naturalezza, che sembrano parole e concetti di uso quotidiano, talmente banali da non dovercisi neanche soffermare.
Il Calvino del “Viaggiatore” è sublime e frustrante.
Sublime perché è scritto in maniera pressoché perfetta. L’autore infatti, ammicca al lettore, lo coinvolge fattivamente, direi che lo costringe ad amare l’intrecciarsi delle storie che scrive; frustrante perché, alla fine, la storia che dà il titolo al libro non compare nemmeno.
E a me è venuta voglia di scriverla come una sorta di appendice-omaggio quasi un’esigenza fisica. Chissà che qualcuno non l’abbia già fatto.

Silvia Lanzi

Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).

Calvino ci ha regalato la consapevolezza della scrittura, di Maurizia Maiano

Come siamo quando leggiamo? Chiedo ai miei figli cosa sia stato leggere per loro da adolescenti. Per me i ricordi sono più lontani, riesco a focalizzarli sulla copertina rigida  delle Fiabe dei fratelli Grimm. Un libro che ho fatto accuratamente rilegare, una operazione di maquillage per un eccesso di tempo vissuto e per tutte le volte che l’ho aperto e ne ho sfogliato le pagine. Sulla  copertina una Biancaneve con i capelli color dell’ebano e la pelle bianca come la neve, seduta nel bosco ai piedi di un albero secolare e nerboruto, circondata dai sette nanetti che, incantati, la osservano mentre racconta la sua storia, l’essere sfuggita alle grinfie della matrigna, alla sua crudeltà che l’aveva mandata nel bosco affinché il cacciatore la uccidesse riportandole il suo cuore ed il suo fegato come prova del misfatto compiuto. Un racconto cruento eppure non mi stupiva, non riesco a trovarne motivazione nella mia mente di bambina. Era il libro che mia madre mi leggeva prima di addormentarmi o quando avevo la febbre e mi accucciavo nel suo lettone. Gli oggetti ci rimandano a momenti che si fissano indelebili nella memoria. Quelle poche figure, accompagnate dalla leggerezza delle parole del racconto, innescavano la nostra  fantasia. Ripenso al Calvino delle Lezioni americane: “ci aggrappiamo alla leggerezza” e dov’è la leggerezza se non nelle parole? Esse non devono seguire la pesantezza degli oggetti, esse nascondono il mistero del linguaggio la cui origine non riusciamo a definire. Forse nascondono quel mistero per cui, come scrive Federico Faggin, la coscienza, il soffio vitale vengono prima della materia e sono al contrario generatori di materia, dei fatti che ci accadono. 

La leggenda di Perseo e Medusa, che sottende la riflessione sulla leggerezza di Calvino, vede Perseo che deve sfuggire allo sguardo di Medusa, deve guardarla nella sua immagine riflessa. Medusa pietrifica ogni cosa, ma Perseo librandosi in alto vince Medusa, la decapita ma deve continuare a tenere la sua testa in un sacco per occultarla al suo stesso sguardo. Le nuvole sostengono Perseo, la loro volatilità trasforma la negatività di Medusa nel proprio contrario, il miracolo della leggerezza delle parole. La Leggerezza è un elogio della letteratura che ci permette di uscire dall’opacità del mondo e di guardarlo attraverso la lente delle bellissime immagini che essa stessa crea. Ho chiesto ancora ai miei ragazzi cosa fosse per loro la lettura, non c’è altra risposta se non la fuga dal mondo, un posto in cui rifugiarsi e sentirsi sicuri e dimenticare i disagi, il non sentirsi adeguati, accettati, non avere lo sguardo dell’altro; tutto questo accadeva anche a noi. 

Scrittura e letteratura come antesignana del mondo virtuale? Come la leggerezza delle parole è necessaria per sfuggire al peso che è dell’esistere delle cose, così la rapidità non è essere frenetici o ancor peggio frettolosi ma godere dell’indugio e donare alla scrittura quella velocità di pensiero che da sempre le appartiene, così l‘esattezza, simboleggiata da una piuma, che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime, significa evocazione di immagini visuali nitide, icastiche, per usare un aggettivo caro a Calvino. La letteratura è esattezza ma  vede il suo contrario nel vago, il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago e impreciso. Il cristallo e la fiamma sono i due simboli in cui si condensa il valore della letteratura che cristallizza nella forma la bellezza della realtà e vivacizza con la fiamma il sentire che essa ci trasmette. 

Eravamo abituati a generare le immagini con le parole. Esse erano l’input per sfuggire al mondo esteriore e lasciarsi rapire da quello interiore. Ci riusciamo ancora, ci riescono i nostri ragazzi, in una società dominata e bombardata dalle immagini? Le immagini attraverso il tempo hanno origini diverse: Dante ne proclama la diretta ispirazione divina, scrittori vicini a noi  ne stabiliscono contatti con emittenti terrene: l’inconscio individuale o collettivo, il tempo ritrovato nelle sensazioni che riaffiorano dal tempo perduto. E’ come se l’inconsistenza, la leggerezza della parola ci trasmettesse la sensazione che qualcosa esorbita dal nostro controllo, facendo riaffiorare, in un mondo senza Dio, uno strano sentimento di trascendenza. 

Da dove provengono le immagini che l’artista armonizza nella sua mente? Hofstadter risponde: è tutto sommerso sott’acqua come un iceberg, non visibile e l’artista lo sa. Ed ecco che ci risiamo con una cosa ed il suo contrario. Riemerge il compito dell’Arte: rendere visibile l’invisibile, aprire una ferita, come i tagli sulla tela di Fontana. Le teorie dell’immaginazione possono, dunque, andare d’accordo o sono incompatibili con la conoscenza scientifica? Qui mi si aprono dei dubbi. La mente del poeta e dello scienziato funzionano secondo una associazione di immagini che è il modo più veloce di collegare e scegliere tra le infinite forme del possibile e dell’impossibile e a questo punto si tratta di riflettere se il sistema agisce secondo il libero arbitrio o secondo un destino.

La fantasia funziona come una macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili scegliendo quelle che corrispondono ad un fine, possono essere divertenti, piacevoli ed interessanti, tristi o malinconiche. Un raccontare che diventa sempre più intrigante. Calvino riconosce l’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è, né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere. Diventa in questo modo possibilità una molteplicità potenziale e indispensabile per conoscere. Potenza della fantasia, dell’invisibile ed allora spazio alla scrittura dove il tutto del mondo e dell’io si condensa in materia verbale, caratteri maiuscoli e minuscoli, punti, virgole, segni allineati e fitti rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo, uguale e sempre diverso, come le dune spinte dal vento del deserto.

A noi, abitanti di questo tempo, di una società bombardata dalle immagini rimane il dubbio: da dove attingerà la fantasia, sarà possibile una letteratura fantastica in una crescente inflazione d’immagini prefabbricate?

 Quando chiedo ai miei figli cosa è leggere rispondono “fuga, trasferirsi in un  altrove o, aggiungono, quando leggevo pensavo che fosse tutto vero e fino ai 25 anni ho pensato che potessi imparare a vivere leggendo, poi mi sono accorto che forse sarebbe stato peggio, le contraddizioni in quello spazio virtuale potevano sopravvivere, la realtà mi imponeva di distinguere e scegliere ed operare secondo canoni non sempre fantastici anche se questi rimanevano a portata di mano, mi aiutavano in una operazione di straniamento di percezione della realtà per poter in essa agire e così ho aperto la Partita Iva”. Leggere è in ogni caso viaggiare ed è così ad ogni età. E’ riconoscere funzioni terapeutiche alla scrittura, riconoscere al nostro sistema neurale che si attiva attraverso l’uso delle parole, abitare altri spazi per prendere le distanze dalle dissonanze che permeano le nostre vite. 

 Il processo fantastico era un tempo induzione, era intuizione e fantasia, oggi la scienza riconosce alla scrittura questa funzione che l’uomo in modo inconsapevole ha sempre cercato. I nostri neuroni sono una sorta di generatori di mondi, qualcuno l’ha chiamata produttività dello spirito, in contrapposizione ad un mondo degli antichi considerato naif dove si viveva in un tutt’uno con la natura, perché se ne accettava il bene e il male come parte imprescindibile dell’essere e della realtà. La distinzione tra bene e male ci pone però di fronte ad un problema etico, ad un desiderio: realizzare ciò che pensiamo.  Nell’adolescenza non ne abbiamo consapevolezza, abbiamo il tempo per raggiungere la meta e realizzare il desiderio. Pian piano con gli anni diventa una necessità, uno spazio indispensabile al nostro presente: e quando l’abbiamo capita ecco che è quasi finita (da una poesia di Barbara Gramegna).

Non saprei definire perché ci piace la parola, ascoltare o leggere mentre siamo fermi. Sulle ginocchia di un genitore e su una poltrona illuminata da una lampada, ascolto  Robinson Crusoe di De Foe, che non poté viaggiare ma visse nel libro il suo viaggio nel nuovo mondo. “Le mille e una notte”, “Alice nel paese delle meraviglie”,  i racconti dal libro Cuore, “Dagli Appennini alle Ande” o “La piccola vedetta lombarda”, coraggio civile dei bambini, quante lacrime. Il bambino lì sull’albero, coraggioso, fiero, scruta lontano e nonostante le preghiere dell’ufficiale non scende giù, finché una pallottola non lo colpirà. Una bandiera tricolore sarà il suo drappo funebre. 

E non più adolescenti permettiamo che i ricordi ci vengano incontro leggeri e visibili, molteplici e rapidi sì, pensando a Calvino, osservo il loro leggero movimento verso di noi. E a chi  potrei pensare? Mi viene in mente Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte. Potenza della fantasia che ci fa immaginare di avere vicino chi non avremo più e essere dove mai più potremo essere o vederlo scorrere davanti alle nostre palpebre abbassate come in un film di Quentin Tarantino

Lo spazio letterario è l’unico che ci consente di porci domande e a lasciarci la libertà di interpretazione  e fuga. Visibilità nella società dell’apparire più che dell’essere sembra quasi allontanarci dalla riflessione di Calvino. 

E’ nella letteratura che accettiamo l’infinita molteplicità del reale, nella letteratura viviamo le contraddizioni, ne diventiamo consapevoli. Il mondo è un sistema di sistemi singoli che vicendevolmente si condizionano. Strane immagini cerebrali ci fanno decollare in uno spazio curvo e vuoto o immergere in un fluido addensato dove i quanti impazziti si muovono come sulla pista di un autoscontro. Già, atterrare più in alto, la prima contraddizione: atterrare in alto perché lì sono le nostre radici, le radici della nostra fantasia e della nostra complessità. L’unica cosa che mai non sapremo è ciò che determina la scelta nel mare infinito della molteplicità. Anche il tempo è plurimo ed ogni presente si biforca in due o più futuri e così si forma una rete di tempi divergenti, convergenti e paralleli, non funziona così la vita? 

E, forse, Il castello dei destini incrociati ne è l’esempio più bello ed eclatante. I tarocchi sono un insieme di ipotesi possibili, interpretabili a piacimento e a seconda della connessione tra loro e che si siano incontrati prima o dopo.Vorremmo racchiudere il mondo in una mano ma ci sfugge e resta incompiuto, ma essere incompiuti è essere infiniti, si lascia spazio a nuove possibilità e nuovi inizi. Sono queste le grandi opere, quelle che sfuggono al self di chi scrive e diventano luoghi di identificazioni di mondi per tutti e fanno parlare ciò che non ha parola

Lu cuntu non metti tempu, mi piace questa espressione dialettale del Sud. Non smetteremmo mai di parlare e di raccontare. Quanto al tempo, che si passava nelle piazze, nelle agorà a discutere e a guardarsi negli occhi, ad accusarsi, a rimproverarsi o a scoprire unità di intenti, è agli sgoccioli: le piattaforme social hanno sostituito le piazze, stesse cose e forme diverse

Ascoltarsi, raccontare procedono come un incantesimo: contraggono e dilatano il tempo di chi ascolta e di chi legge. Conosciamo una  cosa e il suo contrario. E’ un insegnamento antico.

E così come la leggerezza ha bisogno della pesantezza, perché è ciò che deve tradurre, nel senso di trans, portare dall’altra parte e rendere leggero, così la rapidità deve conoscere l’indugio e l’attesa. E quale immagine più bella se non nel rappresentarla in una sorta di alleanza tra Vulcano e Mercurio? Il primo, rintanato nella sua fucina, fabbrica scudi, armi, gioielli e ornamenti per gli dei e le dee. Vulcano   contrappone al volo aereo di Mercurio il suo passo  claudicante e il battere cadenzato del suo martello. Entrambi sono complementari e inseparabili. Il lavoro dello scrittore ha bisogno di tempi diversi: della immediatezza di Mercurio e degli aggiustamenti pazienti di Vulcano che, nascosto agli occhi del mondo tra le gole degli anfratti della sua officina, rimugina la vita e il suo vissuto con melanconia saturnina senza la quale non ci sarebbe arte. 

Calvino ci ha regalato la consapevolezza della scrittura.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

In cammino tra le città invisibili, di Maurizia Maiano

“Le città invisibili“, pubblicato nel 1972, rappresenta un momento centrale nella produzione letteraria di Calvino, che ha abbandonato da tempo il neorealismo de “Il sentiero dei nidi di ragno” (1947), si è per aperto ad una dimensione fantastica già a partire dalla trilogia de I nostri antenati (Il visconte dimezzato è del 1952, Il barone rampante del ’57, Il cavaliere inesistente del ’59), ed entra definitivamente nel novero degli autori postmoderni. Il libro, che, com’è noto, è una raccolta di racconti e ha per protagonista Marco Polo che descrive a Kublai Khan, imperatore dei Tartari, alcune città del suo impero, consente all’autore di rinunciare ad una trama lineare, ad una narrativa tradizionale, per sostituirla con una raffinata serie di immagini poetiche e metaforiche.

Ogni città è un simbolo, uno stato dell’animo ed un’esperienza vissuta intensamente, un modo di essere, un peccato, una gioia, una conquista e una sconfitta, un amore corrisposto e una disillusione, un sogno e un’illusione, la pace e la guerra. “Invidia per chi è stato una volta felice, desideri che diventano ricordi“, è la città di Isidora; “strade deserte che si popolano di carovane, vie che portano al mercato ad incontrare gente che ti guarda dritta negli occhi” è Dorotea, la città e il desiderio; poi c’è Anastasia, “la città ingannatrice”, dove “si lavora sodo per otto ore al giorno e la fatica dà forma al desiderio e a sua volta prende forma da quella“; o Cloe “la più casta delle città, se gli uomini cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia di inseguimenti, di finzioni, di malintesi e la giostra delle fantasie si fermerebbe” e Armilla fatta di soli impianti idraulici, Leonia, dove si accumulano i rifiuti. Sono cinquantacinque le città descritte, immaginate come sogni, visioni, labirinti di simboli.

Il cammino raccoglie e contiene in sé le tre dimensioni del tempo: il presente, il passato e il futuro. Marco ha deciso di viaggiare e, alla domanda del Khan: “Viaggi per rivivere il tuo passato?” e che avrebbe anche potuto essere. “Viaggi per ritrovare il tuo futuro?”, risponde: “l’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.” 

Si può essere più bravi di così a raccontare il cammino dell’uomo? Ma chi è l’imperatore?Siamo noi nel momento della nostra vita che “segue all’orgoglio per l’ampiezza dei territori che abbiamo conquistato“, nel momento disperato “in cui si scopre che quest’impero, che era stato la somma di tutte le meraviglie, è uno sfacelo senza fine né forma e che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo e che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.”

Il destino a cui nessuna città sfugge è il nostro destino: ha la forma di uno scettro, ma non è altro che il testimone che aspettiamo con ansia per riprendere la corsa, diventando eredi della stessa rovina dei nostri predecessori. Continuità sempre uguale a se stessa dell’esistenza a cui nessuna interpretazione epistemologica, storica può sfuggire. Simboli, immagini concrete per rappresentare concetti astratti. Leggerezza ed esattezza della scrittura che traduce il significato in simbolo e diventa visibile.

Vanità e inconsistenza dell’esistenza: “tutto è inutile se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo, in una spirale sempre più stretta, che ci risucchia la corrente.”

A questa affermazione del Khan, Polo risponde: “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui e ci sono due modi per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo esige attenzione e apprendimento continui, cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.”

Un libro che avevo letto da ragazza, ma se non si hanno gli anni per leggere, dopo essere passati per la vita, non sarei mai riuscita a coglierne l’estrema bellezza ed inquietudine.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.