Krisztina Tóth: “Gli occhi della scimmia” (Voland, trad. Mariarosaria Sciglitano), di Vincenzo Vacca

Il libro di Krisztina Tóth “Gli occhi della scimmia”, tradotto da Mariarosaria Sciglitano, è da considerare una opera letteraria capace di scavare nel destino delle persone che vivono sotto la cappa dei regimi autocratici. 

Può apparire distopico, ma, in realtà, il contenuto del libro rispecchia, in tutto o in parte, una concreta situazione in cui vivono già diversi popoli sotto la cappa asfittica di regimi tirannici che, non solo negano i diritti fondamentali dei cittadini, ma controllano con ogni mezzo le vite private delle persone con lo scopo di soffocare sul nascere qualsiasi comportamento che, in qualche modo,  possa generare delle forme di ribellione o di semplice dissenso nei confronti del regime autoritario.

Nel libro si ipotizza che nel Paese in cui si racconta la storia – senza precisare né il nome, né il periodo e questo lo rende ancora più profetico – sia avvenuta una guerra civile che si è conclusa con l’ avvento di un sistema politico dispotico. 

Questo, naturalmente, ha effetti anche sulla vita quotidiana di tutti gli abitanti che saranno indotti in modo diretto o indiretto a badare esclusivamente alle piccole incombenze delle loro esistenze, al ménage famigliare e a come conservare il proprio lavoro. 

Infatti, una protagonista del libro a un certo punto dice: “…Del mio lavoro all’ università,  è brutto a dirsi ma è così,  mi vergognavo alquanto. Imbottivamo le teste degli studenti di menzogne, nella migliore delle ipotesi di mezze verità,  inorridivamo se qualche volta ci facevano delle domande.  Non sapevamo mai se ci stessero davvero chiedendo qualcosa o se si trattasse solo di una provocazione…”.

È il caso di evidenziare che, tra gli  esiti  della menzionata guerra civile, emerge una esasperata diseguaglianza sociale tale che coloro che fanno parte dei ceti poveri vengono confinati in  zone del Paese circoscritte con l’ unica preoccupazione che entrino il meno possibile in contatto con i componenti dei ceti privilegiati. Una diseguaglianza sociale codificata, ritenuta insormontabile, data una volta per tutte.

Uno dei protagonisti principali del libro è un certo dottor Kreutzer, psichiatra, che tiene quotidiane sedute psicoanalitiche, ma il vero scopo di tali sedute non è quello di guarire i pazienti. Il vero scopo è un altro e lo scoprirà il lettore. 

Inoltre, Kreutzer è una persona afflitta da una serie di ossessioni che vengono meravigliosamente e terribilmente raccontate dall’ autrice con qualche punta di ironia. Sì, anche di ironia perché il libro ha il pregio di una sua scorrevolezza, senza perdere una acuta finezza letteraria.

Sono davvero esilaranti le modalità con le quali la scrittrice descrive i rapporti tra il dottor Kreutzer e la sua famiglia, in particolare con la moglie, restituendo al lettore un idealtipo di una persona che fa parte dell’ ingranaggio tirannico a cui si è già accennato. 

Ma un aspetto del libro che va particolarmente sottolineato è il fatto che l’ autrice sia riuscita a raccontare come anche persone non esattamente in cima alla scala sociale, grazie a un abile intreccio di omertà e sottili ricatti creati astutamente dal regime, si rendono complici di ingiuste e illegali azioni che tornano utili alla costruzione di un consenso di massa.

Infatti, basti pensare che a un certo punto una donna che lavora in un ospedale afferma: “…La maggior parte delle volte portavano giù i pazienti nell’ ufficio dell’ interrato per fargli firmare vari documenti. Bisognava provvedere quando erano ancora fisicamente in grado di farlo, vale a dire quando gli si poteva ancora mettere in mano una penna…la maggior parte di chi scriveva le dediche redigeva una lunga e dettagliata confessione dei crimini commessi durante la guerra civile, risarcendo spontaneamente lo Stato con la cessione di beni mobili e immobili…”.

Non manca l’ indicazione degli effetti di una certa campagna sovranista, così egemone di questi tempi, a tal punto che una donna dice (al lettore il compito di scoprire chi): “…c’erano alcune parole che la signora… era in grado di pronunciare solo con voce strozzata o accompagnandole con determinati gesti e mimica. Una di queste era la parola “straniero”. Quando in un dato contesto capitava questo termine, lei abbassava la voce e pronunciava la parola in modo sommesso, con prudenza, come un monaco medievale il nome di Satana, quasi a temere che al proferirla la persona potesse materializzarsi là, nel soggiorno…”.

La Tóth riesce a far percepire al lettore anche un tipico clima dei regimi assolutistici facendo riferimento a una certa entità, superiore a tutto e a tutti, che per l’intero libro viene indicata solo con un acronimo: “GUN”. E solo alla fine del libro viene svelato (anche questo lo scoprirà il lettore proseguendo la lettura). Può sembrare una cosa di poco conto, invece, a parere del sottoscritto, questo artificio letterario, considerato il contesto, rende l’intera narrazione ancora più immersa in una realtà sinistra, fortemente foriera di angoscia se non di terrore.

La lettura de “Gli occhi della scimmia” è stimolante. Ci pone di fronte a gravi domande sul presente e sul futuro prossimo. Ci fa assaporare cosa possono diventare, e in parte già sono diventate, le nostre vite in un contesto sociale e politico opprimente.

Vincenzo Vacca

Maria Rosaria Selo: “Pucundria” (Marotta&Cafiero), di Vincenzo Vacca

Maria Rosaria Selo ha scritto un nuovo libro, Pucundria, dimostrando ancora una volta di essere una scrittrice che va oltre il luogo comune. 

In un momento storico come il nostro nel quale lo schiacciamento su scelte securitarie è predominante, il libro della Selo riesce a conquistare il lettore narrando l’ umanità che pure è presente in un ambito concentrazionario: un penitenziario femminile, in particolare quello di Pozzuoli.

La protagonista del racconto è una agente della Polizia Penitenziaria,  Teresa Ricciolo, che viene assegnata presso il citato penitenziario.

È una donna che ha precedentemente vissuto una drammatica esperienza con un uomo violento che si era presentato a lei come una persona dolce e comprensiva. Un diavolo presentatosi come un angelo, ma che dopo un pò manifesta la sua vera natura.

Questa esperienza non ha indurito Teresa nei rapporti con gli altri, ma soprattutto l’ ha indotta a preservare nel suo servizio di agente penitenziario un sentimento di umanità, di comprensione, senza cedere ad una accondiscendenza nei confronti delle detenute. 

La scrittrice non edulchera la descrizione dell’essere associato a una Casa circondariale, della privazione della libertà e del trovarsi a condividere una cella giorno e notte con altre persone sconosciute. 

Persone che hanno conosciuto e prodotto il male, arrivando anche a commettere efferati omicidi, ma una delle intuizioni importanti del libro sta nel fatto che mette in evidenza la possibilità della metamorfosi da parte degli esseri umani, i quali non possono e non devono essere etichettati definitivamente come perduti criminali da parte di una non meglio specificata “parte migliore” della società. 

Quest’ ultima, tra l’ altro, non può fregiarsi di tale titolo anche perché spesso è con il suo comportamento  che produce, direttamente o indirettamente, disagi sociali forieri di azioni criminali. 

Maria Rosaria Selo con il suo ultimo romanzo ci parla di donne e di uomini che sono fatti innanzitutto delle loro storie. Storie che possono schiacciare definitivamente,  ma che possono, invece, anche diventare una leva per cambiare, ma per il cambiamento occorre incontrare le persone giuste.

Un cambiamento che non è unidirezionale, ma afferisce tutti coloro che sono coinvolti nella relazione con gli altri.

Ecco, il romanzo di Maria Rosaria Selo ci narra della complessità del vivere secondo determinate regole ponendo l’ accento sui rapporti tra uomini e donne. 

Rapporti che vedono troppe volte uomini violenti che non sanno amare.

Nel libro viene ricordato che per la valutazione di un profumo occorre del tempo, infatti, è necessario avvertire le note di testa, poi quelle di cuore e, infine, quelle di fondo.

La scrittrice non poteva trovare migliore allegoria per riferirsi, io credo, alla valutazione di un essere umano; valutazione che non può assolutamente prescindere dalla natura delle relazioni che di volta in volta nella vita si instaurano.

Come accennavo precedentemente,  il contenuto del libro di Maria Rosaria Selo rappresenta un importante contributo al dibattito pubblico in corso in ordine al concetto e alla pratica attuazione del senso e dello scopo della pena, la quale, come vollero le madri e i padri della nostra Costituzione, deve tendere al recupero della persona che si trova in carcere. Il carcere non deve essere una sorta di discarica sociale rimossa dalla coscienza collettiva.

Non possiamo considerarci, innocenti, perché l’ innocenza ha una dimensione non giuridica. Il nostro fare o non fare ha un impatto nei confronti della società, pur non essendone consapevoli.

Con la sua ultima fatica letteraria, la Selo ce lo ricorda, ci instilla dei dubbi, degli interrogativi circa una presunta totale estraneità da parte di chi sta “fuori” rispetto a chi sta “dentro”. 

E questi dubbi e interrogativi non potevano non nascere soprattutto dalle donne, dalla loro intelligenza intuitiva ed emotiva. 

Sulla loro capacità di guardare oltre a ciò che a un primo sguardo sembra. Di cogliere dei segnali che l’ altro conserva per evitare un totale annichilimento.

Nel libro non si sostiene un generico “perdonismo” che annulla la responsabilità del gesto criminale e non fa sconti sul male procurato ad altri con le relative sofferenze. Mettendo al centro della narrazione le biografie di chi si è macchiato di comportamenti criminali, prova a svelare i meccanismi a causa dei quali certe cose accadono.

Avremo l’ onore e il piacere di parlare del libro, insieme all’ autrice dello stesso, il giorno 25 marzo 2025, a Napoli, presso il Clubino, via Luca Giordano 73, alle ore 18.00, con la giornalista e critica letteraria Bernardina Moriconi e l’ estensore di questo articolo.

Vincenzo Vacca

Marzio Mori: “Arte e Carattere” (Volumnia Editrice), di Mauro Di Ruvo

Se mai nessuno l’aveva fatto, ebbene lo ha anticipato Marzio Mori, riuscire a parlare di arte coniugandola con il suo apparente opposto: il carattere. 

Il suo nuovo libro infatti si intitola proprio Arte e Carattere, ma con una precisazione che troviamo poco più avanti nella sovraccoperta: Dalla città ideale alla strada di Delft. Viaggio nelle certezze e nelle angosce dell’uomo moderno. Un libello di sole 63 pagine, bibliografia esclusa, edito a Perugia quest’anno dalla Volumnia Editrice che ha la superba mira di attraversare tutta la storia dell’arte in una veste non monocromatica e specialistica, bensì di ripercorrere a grandi tratti ma affondando il coltello dello storico in piccole profonde pieghe per Mori significative al rapporto arte-carattere.

L’autore di Alfagemo (Aletti Editore, 2008) non ha abbandonato la soglia dello spazio storico-artistico, anzi ha aperto la porta a una nuova considerazione sullo stato antropologico delle diverse stagioni cronologiche che più affascinano lo spettatore moderno e odierno. 

È stata dunque messa in dubbio quella monotonia della “classicità” che ha fatto intermittenza a blocco nella trasmissione secolare della intera letteratura sin dai tempi dell’onciale romana.

Una delle molteplici domande che Marzio Mori si pone, ma forse quella principale,  è in quale misura ciò che chiamiamo “percezione classica”, ossia senso del “classico”, abbia potuto contaminare il progresso della storia (non solo dell’arte) verso una attualità che si sente già in debito con l’Intelligenza Artificiale. Ma soprattutto se sia questa la deriva più diretta proprio della nostra tradizione umanistica o di quella meno umanistica, e fratta al suo interno della religiosità. 

Il narratore parla di “retaggio cristiano-umanistico” per esemplificare lo scontro di una enorme nave contro le sue stesse scialuppe su cui ci stiamo imbarcando, noi “amatori e professori”, quasi fuggitivi dal mostro della bellezza che abbiamo pasciuto tutto questo tempo. 

La sequenza con cui vengono narrate le varie opere più rappresentative di un Tardogotico giottesco, di un Rinascimento raffaellesco, d’un Umanesimo fiammingo, o piuttosto d’un Manierismo veneto, è molto serrata nel ritmo logico e rapida, tale da richiedere al lettore uno sforzo immaginativo per figurarsi davanti agli occhi i tumulti degli ordini francescani nella Roma bembiana, lo sgomento della gente che assiste al rogo di Giordano Bruno, o i tormenti interiori di un Caravaggio che traspone l’icona dell’eretico Bruno nella Chiesa di San Luigi dei Francesi. 

L’originalità che però maggiormente demarca la posizione di questo libello è la sua capacità di far capire l’arte senza troppi retoricismi accademici anche ai non addetti ai lavori attraverso proprio una concentrazione quasi “entropica”, cioè di taglio fisico-psicologico, sull’origine di alcuni capolavori che tutti conosciamo, come la Canestra di Frutta di Caravaggio, che qui è brillantemente descritta e spiegata proprio parlando della renovatio morale introdotta dal Furioso dell’Ariosto.

Due binari, letteratura ed arte, che non sono stati mai separati, ma anzi nati dallo stesso parto gemellare, e questo libro ne continua a darcene la più lucida e verace conferma.

Dalla rivoluzione di  Giotto alla reazione di Manzoni, dall’eroicità di Raffaello alla concinnità di Rubens, l’occhio umano può riuscire a curare la miopia della perfetta intelligenza artificiale per non inciampare nella strada in discesa del futuro.

Mauro Di Ruvo

Mauro Di Ruvo: Critico d’arte, classicista e medievista, si occupa di diritto romano a Perugia e di politica interna presso il giornale “Lanterna”. Si è anche occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista “Nuova Antologia” e collabora con la Fondazione Spadolini. È autore del romanzo Pasqualino Apparatagliole (2023, Delta Tre Edizioni), e curatore della recensione al libro Oltre il Neorealismo. Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo di Gabriella Izzi Benedetti, già presidente del Comitato per l’Unesco, per la collana fiorentina “Libro Verità”. Ha già curato per la “Delta Tre Edizioni” le prefazioni alla silloge Lo Zefiro dell’anima (2019) di Pasquale Tornatore e al romanzo Le memorie del dio azteco (2021) dello storico Saverio Caprioli. A Ottobre 2024 ha tenuto e curato il convegno accademico “L’eidolon di Dante. Il codice dell’Inferno” a Foligno e nella Chiesa del Purgatorio recentemente è stato relatore della lectio magistrali “Dante, l’Inferno, Saffo”.

Anna Foa: “Il suicidio di Israele” (Editori Laterza), di Vincenzo Vacca

Anche con questo libro, “Il suicidio di Israele“, Anna Foa dimostra di essere una efficace divulgatrice della storia. Teniamo conto che questa importante intellettuale è stata docente di Storia moderna all’ Università di Roma “La Sapienza”. Inoltre, tiene frequentemente incontri pubblici su tematiche storiche.

A scanso di equivoci,  Foa nel libro citato tiene subito a precisare che “queste pagine contengono le riflessioni di un’ ebrea della diaspora di fronte a quanto sta succedendo in Israele e in Palestina. Esse nascono dal dolore per l’ eccidio del 7 ottobre e per quello per i morti e le distruzioni della guerra di Gaza. È lo stesso dolore per gli uni e per gli altri“.

L’ autrice ripercorre sinteticamente, ma proficuamente, la storia del sionismo, anzi, come lei tiene a precisare, la storia dei sionismi. 

Infatti, è  necessario esaminare l’ ideologia sionista e le sue trasformazioni dalla seconda metà dell’ Ottocento alla nascita dello Stato di Israele. 

Il sionismo, da non confondere con la politica di Israele, ha una lunga storia che nasce nel diciannovesimo secolo, e ritiene gli ebrei un popolo avente diritto al ritorno nella loro terra originaria, la Palestina. Un movimento di rinascita nazionale paragonabile al Risorgimento italiano. 

Foa tiene a sottolineare che il sionismo si pone non solo l’ obiettivo del “ritorno” in quella che allora era ancora una terra sotto il dominio ottomano, per poi divenire Palestina sotto protettorato inglese, ma anche quello di creare un ebraismo nuovo che cancelli i venti secoli di diaspora, mettendo fine, quindi, al fenomeno di minoranze di ebrei sparse tra le nazioni.

Nel libro si illustrano le varie correnti del sionismo e le diverse, per alcuni aspetti, sorprendenti tappe storiche che hanno originato l’ attuale situazione. 

A questo proposito voglio citare due fatti che possono stupire.

Il primo si svolge nel 1918 quando l’ emiro Faysal, capo della dinastia hashemita, e il presidente dell’ organizzazione sionista mondiale, Chaim Weizmann, stringevano un accordo che prevedeva una sostanziale accettazione da parte di Faysal della dichiarazione Balfour, appena emanata dagli inglesi.

La conferenza di pace di Parigi, stabilendo che la Siria diventasse un protettorato francese, contravvenendo alle promesse fatte allo stesso Faysal in cambio dell’ appoggio nella guerra, determinava una rottura tra i sionisti e il mondo arabo. Faysal diveniva re dell’ Iraq e il nazionalismo arabo, che aveva al suo centro la Siria, si spostava alla Palestina.

Il secondo si svolge, invece, nel 1925 ovvero quando veniva fondato un gruppo di duecento intellettuali, tra cui spiccava quello di Martin Buber, che auspicava la creazione di uno stato binazionale ebraico ed arabo dove ebrei e arabi godessero degli stessi diritti.

Anche la sinistra del movimento sionista era a favore di uno Stato binazionale e di una pacifica convivenza con gli arabi.

Ma nel 1936, il Gran Muftì organizzava una grande rivolta sia contro gli ebrei che contro gli inglesi mettendo fine a ogni ipotesi di accordo. Infatti, gli inglesi  reagivano con un piano che veniva accettato solo dagli ebrei, nella persona di Ben Gurion.

Questi due fatti storici, tra i tanti che vengono raccontati nel libro, dimostrano che la convivenza tra arabi ed ebrei era possibile e lo può essere ancora, nonostante che la strada per raggiungere ciò diventi sempre più stretta. 

Come già accennato in precedenza,  Foa ci racconta dei sionismi per arrivare agli incontri e agli scontri con gli arabi. 

Nell’ ambito di questa ricognizione storica, l’ autrice menziona la minaccia tedesca del 1942 che incombeva sulla Palestina, venuta meno grazie alla sconfitta ad El Alamein dei tedeschi e degli italiani. Se questo non fosse avvenuto, gli ebrei presenti in Palestina sarebbero stati sterminati. Occorre ricordarlo a chi esalta sistematicamente il valore dei combattenti italiani di El Alamein, pur facendo grandi affermazioni di amicizia nei confronti di Israele.

Ma l’ aspetto fondamentale del libro di cui stiamo parlando sta soprattutto nel focalizzare gli estremismi che guidano attualmente gli opposti schieramenti. 

Da parte israeliana abbiamo Netanyahu che è a capo di un governo di estrema destra sostenuto dal partito “Potere ebraico”, rappresentato dal ministro Itamar Ben Gvir.

Questo partito è erede del partito Kach, di cui Ben Gvir è stato dirigente, un partito messo fuorilegge negli anni Ottanta. Il leader del partito Kach è stato espulso dalla Knesset in base ad una legge contro il razzismo.

Inoltre, lo stesso Ben Gvir è stato condannato nel 2007 per istigazione al razzismo. Egli sostiene la necessità di creare la grande Israele e di espellerne tutti i palestinesi.

Un altro ministro convintamente estremista è quello delle Finanze, Bezalel Smotrich, del partito sionista religioso Truma. Smotrich risulta coinvolto in atti illegali ed arresti. È un razzista ed è sostenitore dell’ espulsione degli arabi.

I citati ministri determinano la politica di Netanyahu. Infatti, se si dimettessero il governo cadrebbe. 

Secondo Foa, quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas hanno attaccato i Kibbutzim posti vicino al confine con Gaza, la maggior parte delle divisioni dell’ esercito israeliano erano state spostate sul confine con la West Bank (così è chiamata la Cisgiordania), lasciando sguarnito quello con Gaza. 

L’ esercito doveva servire a proteggere gli insediamenti illegali e le aggressioni dei coloni ai palestinesi su quel confine, in previsione di un ulteriore avanzamento di quello che dovrebbe diventare lo Stato palestinese, non a proteggere i kibbutz sulla Striscia: tutti formati da israeliani laici e di sinistra, impegnati nel mantenere rapporti di amicizia e aiuto con i palestinesi. 

Da parte palestinese abbiamo Hamas che nel 2006 ha vinto le elezioni a Gaza. Ne è seguita una guerra civile tra l’ OLP e Hamas vinta da quel’ ultima che attuava una dura repressione e una intensa opera di islamizzazione, aumentando il peso della legge islamica, uccidendo gli oppositori dell’ OLP e/o costringendoli all’ esilio.

Come noto, Hamas non riconosce il diritto di esistere allo Stato di Israele.

Di fronte a tutto ciò, Anna Foa auspica la costruzione in Israele di una società civile democratica, di cittadini liberi e uguali nelle loro diversità e questo fa a pugni con uno Stato ebraico incentrato sulla supremazia degli ebrei. In fondo, occorre una ulteriore trasformazione del pensiero sionista volto a evitare il “suicidio” di Israele. 

Leggere “Il suicidio di Israele” offre l’ opportunità di evitare banalizzazioni, luoghi comuni, di approfondire la conoscenza di quanto effettivamente è avvenuto in quella martoriata terra, ponendo le basi teoriche per un tentativo di riavvicinamento tra i due popoli, pur coscienti che non sarà facile rimarginare le ferite profonde e superare gli odî reciproci.

Vincenzo Vacca

Alferio Spagnuolo: “Mille motivi per un assassinio” (Robin Edizioni), di Vincenzo Vacca

In genere, quando iniziamo a leggere un giallo, ci aspettiamo una narrazione già in qualche modo strutturata: uno o più omicidi, un investigatore brillante e, infine, la individuazione della persona che ha commesso l’assassinio o gli assassinii. Naturalmente, possono esserci delle varianti, ma sostanzialmente è quello che ci aspettiamo. 

Invece, Alferio Spagnuolo con il suo libro “Mille motivi per un assassinio” sorprende positivamente il lettore, perché delinea con molta originalità il contesto ambientale ed esistenziale in cui maturano gli omicidi. 

Restituisce una serie di dinamiche relazionali attraverso le quali l’ omicidio viene pensato, attuato e reso quasi “legittimo” nella coscienza dei responsabili.

Il libro è ambientato a Napoli,  ma non una Napoli da cartolina o da “pizza e mandolino” con la tipica descrizione della città per la quale non possono mancare il mare, il sole, etc..

È una Napoli plumbea, vitrea, quasi a voler efficacemente ambientare dei rapporti umani ridotti al lumicino, scarnificati, retti da interessi molto terreni o da perniciose passioni.

Questo rende più chiara la narrazione del male, rispetto al quale nessuno può dichiararsi completamente estraneo, lontano dal proprio stile di vita.

Credo che Spagnuolo ci parli di un mondo del crimine che è specchio dell’ immaginario collettivo. 

Un immaginario costituito troppo dalla competizione, dal successo,  dalla voglia spasmodica di arricchirsi senza alcun scrupolo né di ordine etico, né di ordine giuridico.

Anche le eventuali proprie conseguenze di carattere penale, nella coscienza collettiva e/o personale, passano in secondo piano. Manco la paura della galera che pure dovrebbe essere una forte deterrenza, paragonata alla possibilità (non alla certezza) di evitarla, non fa da filtro alla decisione di commettere un reato efferato. 

Spagnuolo esagera con il suo giallo? Non direi, considerando quello che succede da diversi anni e tutti i giorni nella vita reale. 

Anzi, possiamo senz’altro condividere la considerazione per la quale la realtà ha superato l’ immaginazione. 

Per ovvi motivi si eviterà di anticipare tante cose del libro, ma è opportuno provare a offrire una chiave di lettura,  ancorché non esaustiva, del testo. Non si può non fare riferimento,  infatti, ai dialoghi che emergono dalla lettura del libro.

A mio parere, l’autore, attraverso delle riuscite pennellate letterarie, sottolinea la caduta verticale di tutto ciò che dovrebbe caratterizzarci come esseri umani. 

L’ uomo ridotto solo a far di calcolo, volto esclusivamente o quasi a stabilire ciò che è utile o meno per sé stesso.

Sembra che l’ autore voglia dirci che, se il denaro diventa l’ unico mezzo per acquisire beni e/o soddisfare bisogni, il denaro cessa di essere un mezzo e diventa l’ unico fine con il quale si vedrà eventualmente di ottenere dei beni e/o appagare bisogni.

Una vita umana ridotta a calcolo e che si illude di poter fare a meno della bellezza, della fantasia, di uno sano sguardo per l’altro. 

Credo che non sia un caso che Spagnuolo, pur avendo un protagonista principale nella figura di un commissario di polizia, in realtà, il suo libro ha una coralità di protagonisti, la cui descrizione e il cui operato delineano, a volte chiaramente a volte sotto traccia, lo stato del degrado valoriale. 

Spagnuolo non divide i protagonisti in buoni e cattivi, sia per quanto riguarda i poliziotti sia per quanto attiene i sospettati.

Egli fa una operazione molto più profonda con il suo giallo, facendoci percepire il male che non è allocato in una determinata persona o in uno specifico ambiente.

Infatti, nel libro in argomento vengono narrate delle operazioni di polizia svolte molto oltre i limiti di legge, e questo ci porta a riflettere sulla estrema delicatezza del concetto di giustizia. 

Una “giustizia” può molto facilmente trasformarsi in “ingiustizia” se fa propria la malsana idea che il fine giustifica i mezzi. I mezzi qualificano il fine e quest’ ultimo viene meno se non si prova a raggiungerlo con la mitezza del diritto moderno.

È il caso di evidenziare che il male, in tutte le sue declinazioni, ha un suo fascino e per questo tutti, in qualche modo, devono farci i conti scegliendo il giusto comportamento.

Il libro di Alfiero Spagnuolo è denso di colpi di scena, cattura e sorprende il lettore. Suscita la voglia di non sospendere la lettura per capire come, di volta in volta, si sviluppano le vicende. Vicende spesso aggrovigliate tra loro. 

Un giallo a tutto tondo, ma che non rinuncia a far riflettere, a porci delle domande, a insinuare dei dubbi. Insomma, a fine lettura ci induce a interrogarci ancora sullo stato della società nel suo complesso. Una fine lettura che può costituire un inizio, perché esaurite le dinamiche fattuali degli eventi delittuosi raccontati nel libro, proseguono nella mente del lettore le dinamiche che hanno reso possibili gli eventi in questione.

Abbiamo di fronte un libro che non ci rassicura, sulla scia della buona letteratura che non deve tranquillizzare le persone sul periodo storico che ci tocca vivere. L’ arte letteraria deve provare a fare luce sulle zone d’ ombra e, si sa, l’ ombra a tutti capita che si formi, di giorno e di notte.

Vincenzo Vacca

Dal sito di Robin edizioni:

Il napoletano Alferio Spagnuolo esordisce nel 1987 con il romanzo “Nucleo impenetrabile” (Società editrice napoletana).

Il libro reca la dicitura “giallo a quattro mani” perché scritto in coppia con il poeta, nonché padre dell’Autore, Antonio Spagnuolo, con cui ha pubblicato nel 2006 il giallo napoletano “L’ultima verità” (Kairòs Edizioni, prefazione di Maurizio De Giovanni).

Nel 2017 esce la raccolta noir “Tra il nero e il rosa, racconti per una notte” (Aletti Editore).

Due racconti sono stati pubblicati nell’antologia Giallo Festival: “Nel paese delle meraviglie” (2020) e “Nel vortice della perdizione” (2023).

La collaborazione con Robin Edizioni ha inizio nel 2016 con la pubblicazione del thriller “Il mistero del giglio scarlatto”, prima indagine del Commissario Giulio Salvati, a cui faranno seguito “Soave, innocente filastrocca di morte” (2018) e “Il sentiero delle metamorfosi” (2021).