Hamid Ismailov: “Il figlio del sottosuolo” (Utopia, trad. Nadia Cicognini, 2025), di Claudio Musso

Ci sono narrazioni che sembrano giungere da un luogo che non appartiene né alla vita né alla morte, da un punto sospeso dove la memoria continua a parlare anche quando tutto il resto tace. La storia di Mbobo nasce esattamente lì. È la voce di un bambino meticcio, figlio di una madre siberiana e di un padre africano mai conosciuto, che attraversa gli ultimi respiri dell’URSS sentendosi già escluso, già altrove. Troppo nero per essere russo, troppo russo per essere africano, troppo povero per appartenere alla grande capitale del socialismo. Il suo racconto postumo non è un espediente narrativo, è lo sguardo di chi ritorna sulla vita con una lucidità che solo chi non ha più nulla da perdere può permettersi.

In questa condizione di sospensione la metropolitana di Mosca emerge come il suo vero luogo d’appartenenza. Scendere sottoterra gli permette di sfuggire a un mondo che non lo riconosce e in questo sottosuolo trova un rifugio, una mappa, un ritmo. Le stazioni, con i loro lampadari monumentali e i corridoi umidi, diventano le costellazioni della sua infanzia e la città sotterranea vibra come una seconda pelle, oltre a quella genetica. Lì, dove la luce arriva filtrata e la vita scorre più lentamente, Mbobo impara a muoversi con la naturalezza di chi, in superficie, è sempre fuori posto. Nel sottosuolo egli percepisce, prima ancora che comprenda, la fine imminente dell’URSS non come un crollo ma come un lento allentarsi dei contorni, un’erosione che si sente nel corpo prima che nella storia.

E mentre vaga da una stazione all’altra, sempre descritte con dettaglio indugiante, Mbobo cresce osservandosi come da lontano, come un’ombra che tenta di rientrare nel proprio corpo. La sua paura lo insegue «come una lanterna incrinata», un tremolio che illumina solo a tratti. Persino il soprannome che gli affibbiano, Puškin, diventa un appiglio affettivo, come se il ragno avesse trovato il proprio filo. In quel poeta dal bisnonno africano egli trova una parvenza di genealogia, un padre simbolico da cui sentirsi filiazione legittima.

La scrittura di Ismailov restituisce tutto questo attraverso una memoria franta che avanza per scarti e improvvisi affioramenti, proprio come i treni che si incrociano nel buio. Le stazioni tornano e ritornano, a volte con una insistenza quasi stancante, andare e riandare sul medesimo luogo, ma questa ridondanza non è difetto: è gesto. Il rallentamento della prosa coincide con il passo esitante di chi tenta di capire chi è e svelare il volto del luogo in cui vive. Così Kirovskaia e Turgenevskaia non sono solo semplici fermate: sono frontiere interiori. La prima evoca il peso della violenza politica staliniana, la seconda la delicatezza della tradizione letteraria. Passarle significa attraversare, ogni volta, un pezzo della Russia.

Il senso di alienazione del protagonista si riflette nel suo stesso corpo. L’immagine di sentirsi «come Ittandrio senz’acqua», il ragazzo-anfibio di Beljaev, è una delle metafore più prismatiche del romanzo: Mbobo è un essere sottratto al proprio elemento, costretto a respirare un’aria che non lo vuole. Il modo in cui si osserva, il naso irregolare, le labbra carnose, contrasta con la sua credenza intima di essere un caucasico “puro”, rivelando quanto profondamente abbia introiettato i modelli e le gerarchie di una società che chiede invisibilità come forma di adattamento e che, nonostante i proclami, non include.

Intorno a lui la storia si frantuma: i pogrom in Uzbekistan, le rivolte nel Caucaso, la dissoluzione dell’URSS. Gli eventi attraversano la sua vita come correnti sotterranee; il bambino, con la sua identità senza radici, diventa la piccola incarnazione di un impero che implode. E la metropolitana, ancora una volta, torna a essere archivio e custodia: il luogo dove si conservano ciò che in superficie viene disperso, madre, patria, infanzia.

In questo percorso la cultura appare come un salvagente. L’incontro con Borges e con il racconto L’accostamento ad Almotasim apre una finestra sul mondo: l’idea di un viaggio verso un volto che illumina tutti gli altri diventa immagine della propria ricerca di senso. Perfino i due patrigni, Gleb e Nasar, insieme a quella madre intermittente dal nome fin troppo simbolico, Mosca, si fanno figure emblematiche di un paese smarrito: l’intellettuale fragile e autodistruttivo e l’uomo pragmatico e autoritario che educa a una mascolinità ruvida. Due strade che Mbobo percorre senza mai riconoscersi in nessuna, due fermate, sballottato da una famiglia allargata, dove deve sostare mentre il suo sguardo vira.

Il figlio del sottosuolo è un romanzo che non si lascia affrontare frontalmente. Va letto di sbieco, come si osserva un fiume dalla riva per coglierne i riflessi più segreti. È la voce di chi non appartiene a nulla e, proprio per questo, illumina tutto ciò che ci riguarda. Nelle parole di Mbobo vibra un’eco universale: il respiro dei bambini senza guida, degli esclusi, di coloro che crescono in un tempo oramai sgretolato. Forse, dentro questa voce ferita, c’è anche molto dell’autore, esule uzbeko eppure capace di trasformare la distanza in prosa.

Il romanzo colpisce perché non cerca di commuovere ma di risuonare. La lingua cristallina, sospesa, splendidamente resa dalla traduzione dal russo di Nadia Cicognini per Utopia Editore riesce a trattenere insieme la fragilità dell’individuo e la fine di un mondo. È un libro che chiede tempo e ascolto e che invita a scendere nelle nostre zone d’ombra o penombra. Quando lo si chiude e la mente, gravida, rincorre rimandi intimamente citazionali della grande tradizione russa, resta un rumore che non abbandona: quello di un treno che scompare nel buio della metropolitana ma continua, ostinatamente, a farsi sentire, trascinando dietro di sé l’eco di un passaggio che non smette di interrogarci. 

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

Lutz Seiler: “Stella 111” (Utopia Editore, trad. Paola Slaviero), di Claudio Musso

In queste pagine Lutz Seiler racconta i mesi immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino, ma non ne fa un romanzo storico né una cronaca politica. La DDR non viene mai nominata, la riunificazione resta sullo sfondo come un’eco lontana: al centro c’è un tempo sospeso in cui le certezze si sono dissolte e il presente diventa l’unico terreno da abitare. Tutto sembra avvenire fuori dal quotidiano in una dimensione che sfugge alla linearità della storia e che restituisce con forza l’esperienza di chi, in quel 1989, ha vissuto più il vuoto lasciato da ciò che era crollato che la promessa di ciò che sarebbe venuto.

Il titolo rimanda a una radio legata all’infanzia di Karl, il protagonista di questo romanzo: un oggetto che evoca un passato sereno, fatto di armonie familiari e scoperte, che non ha altro ruolo se non quello di segnale affettivo e memoria di un tempo perduto. Quel ricordo contrasta con l’animo inquieto del giovane, nutrito da una parte torbida e irrisolta. Karl porta con sé un passato disadorno e un rapporto disturbante con i genitori: li abbandona nella Turingia Orientale e li ritroverà anni dopo. La radio rappresenta allora un frammento di infanzia felice ma anche il limite oltre il quale quella felicità non si è più ripetuta.

L’incipit sorprende: non è il figlio, come molti suoi coetanei, a fuggire verso l’Ovest, ma i genitori, «interpreti principali della consuetudine», con una fuga studiata da tempo, a partire, lasciandogli la casa in una sorta di passaggio di consegne. Karl non cerca stabilità, non rincorre il benessere, ma si dirige, a bordo della sua eccentrica Zighuli, verso Berlino Est, verso la soglia dove si incontra la Storia. Qui si rifugia in una delle tante società a nicchia popolata da artisti, poeti, squatter, visionari e persone che si rifanno la carta di identità. Un luogo che si colloca ai margini sia fisicamente, nelle zone degradate della città, sia ideologicamente, fuori dalla propaganda ufficiale. E trova randagi come lui, senza più collari imposti, che cercano di fare branco e che popolano una sorta di libero ‘parco giochi’ di utopie. Al contempo si immerge in un tempo provvisorio, affidandosi alla precarietà e al qui e ora come forma di vita possibile, preferendo il margine alla sicurezza e la comunità improvvisata ma affiatata al modello dominante. Perché c’è un istante nella storia in cui tutto sembra possibile e nulla è ancora deciso. È quello tra un non più e un non ancora in cui le regole si allentano, i sogni si affacciano senza filtri e la mente elabora.

È qui che la dimensione psicologica si intensifica: nei volti dei personaggi che incontra, figure eccentriche, radicali, spesso borderline, Karl sembra ritrovare non solo nuovi compagni di strada, ma anche riflessi di sé, specchi deformanti che gli rimandano frammenti del proprio passato e di quello che non ha avuto modo di essere. Alcuni incontri hanno la concretezza ruvida del reale quotidiano, altri assumono quasi la consistenza del fantasma. Quelle cantine lasciate al logorio del tempo, quegli appartamenti abbandonati diventano così anche un nuovo spazio interiore in cui Karl, lasciandosi alle spalle «l’intero squallore della sua insufficienza» affronta i propri irrisolti e misura la propria capacità di trasformarli in possibilità di vita e, al contempo, di farne, senza sconti, la tara.

In quella che poi diventerà la celebre Prenzlauer Berg egli lavora come muratore e cameriere nel bar sotterraneo Assel, stringe legami con chi, come lui, sperimenta un’esistenza fuori dalle regole. Questa vita collettiva è instabile ma intensamente vitale: l’esperienza del presente prende il posto del futuro che non si conosce e del passato che non offre più appigli. Anche i genitori, dall’altra parte della cortina, scoprono che l’Ovest non è un approdo sereno ma un nuovo inizio fatto di difficoltà e adattamenti. Seiler mostra così che nessuno, in quel passaggio epocale, trova garanzie immediate: l’unico modo di esistere è muoversi nell’incertezza, trasformando la fragilità di passi incerti in possibilità.

La peculiarità del libro risiede soprattutto nella scrittura. Seiler proviene dalla poesia e si avverte: la sua prosa è densa, sensoriale, capace di trasformare gli oggetti quotidiani – una stufa, un mattone, un asello, una radio – in simboli vivi, dotati di una risonanza che travalica la materia. Ogni dettaglio diventa concreto e insieme poetico, restituendo non solo l’atmosfera di un’epoca ma la sua vibrazione più intima. Non è una lettura immediata: il testo è complesso, stratificato, ma proprio per questo riesce ad appagare il lettore con la ricchezza di immagini, la profondità dei personaggi e la densità di significati che emergono pagina dopo pagina, grazie anche all’attenta e vibratile traduzione di Paola Slaviero.

Da questa esperienza, controcorrente e, al tempo stesso, nella corrente, per Karl nasce l’approdo alla scrittura: non un gesto estetico ma la necessità di dare voce a un presente che altrimenti resterebbe muto. La poesia diventa l’unico modo per orientarsi in un mondo in trasformazione, per dare forma a ciò che è fragile, instabile, ma intensamente vissuto. Nello scrivere poesie egli attua una ricerca di identità in un mondo che gli sfugge, un gesto di resistenza contro la dispersione e la disgregazione che vede intorno a sé, un vissuto da elaborare per trasformare la propria esistenza in un linguaggio durevole, l’appartenenza ad una tradizione inserendosi, sopravvivendo, ad una comunità invisibile di voci.

“Stella 111” è dunque il romanzo di un passaggio: non documenta la storia, ma la trasfigura in esperienza universale. Racconta come, nel momento in cui le strutture di riferimento crollano, diventa possibile reinventarsi e cercare nuove forme di libertà e di definizione. Il gesto di Karl – lasciare la città per rifugiarsi nelle sue nicchie – non è soltanto un atto di ribellione, ma il tentativo di plasmare da sé la vita: perdersi pienamente, senza se, fuori dalla norma e dall’incasellamento, per poi ritrovarsi. È in questo smarrimento volontario che il testo trova la sua forza, come un invito a interrogarsi su cosa significhi oggi davvero abitare il presente quando ogni cornice sembra dissolversi. E, una volta compiuto questo primo passaggio decisivo, dare libero sfogo a forme espressive e strumenti interiori per orientarsi perché solo chi riesce a trasformare un tracciato di vita disorientata in occasione di riscatto può sentirsi veramente ‘a casa’ nel tempo che gli è dato.

Perché l’abitare l’oggi non è un traguardo che si raggiunge una volta per tutte, ma un compito quotidiano, un esercizio di attenzione e di invenzione. È, riprendendo Rilke, vivere le domande. Così forse un giorno, senza accorgercene, vivremo dentro le risposte.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.