Dopo “La scortecata” e “Pupo di zucchero”, Emma Dante conclude l’ideale trilogia dedicata a “Lo cunto de li cunti” con “Re Chicchinella”, una rilettura della favola nera, grottesca e amara, tratta dal capolavoro di Giambattista Basile.
La storia, surreale e immaginaria, ha come protagonista un re che per sbaglio, dopo aver defecato, si pulisce con una gallina viva. Da questo insolito, insano e impensabile gesto deriva la sua condanna: da quel giorno lo sfortunato sovrano dà alla luce, con sforzo sovrumano, bellissime uova d’oro.
Una fortuna incalcolabile!
Questa fantastica e alquanto insolita ricchezza farà la felicità dell’intera corte e dell’ ingrata famiglia del re. Infatti, quest’ultimo verrà quotidianamente adulato con pranzi luculliani affinché possa continuare a produrre questa innaturale ricchezza.
Il re, dal canto suo, soffre in maniera indicibile e decide di lasciarsi morire di fame pur di distruggere il male che domina il suo corpo: la sventurata gallina.
La scena è nera e vuota. La luce che la riempie confonde, tanto è perfettamente studiata e precisa. Gli attori, tutti, sono perfetti nel corpo e nella voce: abili personaggi variegati, dotati di intensità e forza non comuni, danzatori e attori intorno al bravissimo Carmine Maringola (il re) che, in una particolare veste nera, a torso nudo, si dimena, affannandosi e soffrendo, davanti allo spettatore attonito e affascinato dalla sua potente fisicità.
La scena vuota fa parte del linguaggio teatrale di Emma Dante, ma ogni volta è vuota talmente bene da sembrare piena, nel senso che tutto ciò che non è reso visibile è perfettamente illustrato con corpo e voce dagli attori (tutti bravissimi e che meritano di essere applauditi infinitamente). Il racconto della storia somiglia ad una grande lotta tra tanti eserciti di emozioni in combattimento continuo: l’esercito della rabbia, quello della compassione e quello dell’amarezza; l’esercito spirituale, quello concreto e quello fantastico; l’esercito arcaico, quello contemporaneo e quello del quotidiano; l’esercito delle presenze, quello delle assenze e quello delle illusioni.
Emma Dante, con il suo perfetto adattamento della fiaba/novella di Basile, elimina dal palcoscenico la magia fiabesca del testo originale e catapulta lo spettatore nel nero vortice di temi come la corruzione e la sete di ricchezza dell’uomo.
La talentuosa regista è abile nell’uso della metafora per rappresentare la profondità dell’animo umano e trascina con maestria chi guarda, nel sogno e nell’incubo di questo spettacolo.
La strada che lo spettatore percorre è impervia ma perfettamente trascinante nel potente universo della regista; un universo dove ci si disseta alla fonte del dialetto napoletano del seicento, abilmente rivisto e mescolato con parole francesi e di cui si apprezza la leggerezza e la forza, la nostalgia e la musicalità. Ma la parola è resa essenziale; è il corpo a dettare ritmi e regole.
In questo spettacolo i ruoli si confondono; si alternano buio e luce, silenzio e rumore, danza e riposo, abiti e nudità.
È una giostra senza tempo, che gira continuamente come il re con il suo abito circolare. Gira, gira, gira fino alla fine della musica che corrisponde alla fine della vita del re e del suo tempo, ma che continua in un altro tempo, in cui a governare sarà una bellissima gallina bianca (apparsa in scena viva, in carne e ossa) che rappresenta la più vivida fonte di luce sul nero palco e che diventa protagonista dell’intera scena.
È la sopravvivenza degli ultimi.
L’ultimo sforzo del re per deporre l’ultimo uovo fa nascere la splendida gallina che aveva in corpo, quella che gli faceva mettere al mondo uova d’oro. Ma ora che la gallina è fuori dal corpo di un re, continuerà a deporre uova d’oro?
All’immaginazione di chi ha assistito, il compito di considerare ciò che ha visto un semplice gioco grottesco o un raffinato affresco dell’umana meschinità.
Applausi!
*Brunella Caputo è nata e vive a Salerno. È regista teatrale, attrice, scrittrice, cura progetti culturali e scrive racconti per Il Mattino. Per Homo Scrivens ha pubblicato “Attesa – Frammenti di pensiero”, da cui è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale, “Dell’acqua e dell’amore” , “Le notti dei Barbuti – Il teatro dei sogni” e “Le ore dell’alba”. Ha pubblicato molti racconti in diverse antologie. Coordina il gruppo di lettura di Feltrinelli Salerno e della Biblioteca Comunale di Maiori. È direttore artistico della rassegna teatrale La notte dei Barbuti.
Uno spettacolo commovente, nel raccontare, con le piene note della verità, ogni umana fragilità.
Uno spettacolo bello, talmente bello da lasciarti con gli occhi gonfi di beatitudine.
Uno spettacolo intimo, come la storia che racconta. Una storia densa di coraggio, lotta, ribellione, senza tralasciare l’accoglienza e i suoi principi fondamentali che fanno da collante all’interno di una famiglia.
L’affetto tra i personaggi è viscerale, a tratti arrogante e invadente ma caratterizzato da una disarmante attualità.
Sono io quella madre o quel padre o quel figlio? Ecco il quesito ricorrente nello spettatore attento, perché l’immedesimazione nella storia, da parte di chi la guarda, è totale: sei dentro quella cucina, in quel giardino, bevi una tazza con qualcosa di caldo, coltivi piante inutilmente, ritorni, vai via, sbatti la porta, parti per un lungo viaggio, cambi sesso, divorzi.
In questa commedia, striata di dramma, dal sapore malinconico, i protagonisti fanno una lenta esplorazione dei loro fallimenti, nel tentativo di somigliare ad una famiglia serena. Invece, senza saperlo, hanno costruito la loro felicità su fondamenta fragili, impastate con la sabbia delle verità nascoste, affogate nel silenzio (che parla in maniera assordante) senza rendersi conto di volare, velocemente, verso lo scontro che genera, inevitabilmente, una lacerante infelicità.
Su uno straordinario palcoscenico girevole, volteggiano sei straordinari attori, tutti al servizio di una storia che resta sotto la pelle, carica di dialoghi serrati e sempre perfettamente comprensibili, senza mai cadere nella banalità.
Il cuore resta coinvolto, assorbendo tutte le sfumature, le contraddizioni, l’incoerenza della vita di ognuno; della propria vita.
Il testo di Bovell, drammaturgo e sceneggiatore australiano, esplora sapientemente le complesse dinamiche che regolano le relazioni umane, mettendone in evidenza drammi, paure, delusioni, falsa felicità.
La regia di Valerio Binasco è perfetta, assecondata da una scenografia che sembra essere l’ulteriore attore (tanto è presente e determinante) e che sottolinea il passare del tempo e le stagioni della vita.
È comunque l’amore a dominare il tutto. L’amore tra persone e per le persone; l’amore che genera legami indissolubili pur nella loro frantumazione; l’amore che regola lo scorrere del tempo e il senso della vita.
La verità emerge violenta, in ognuno dei protagonisti. Quella verità che è magma incandescente che aspetta solo il momento giusto per esplodere, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Così, l’animo di ogni singolo protagonista corre veloce sulla pista libera della trasparenza e conquista il podio grazie al sostegno della già più volte citata verità.
Non racconterò la trama – la aggiungerò alla fine come mero riassunto – non credo sia necessario.
Il bello è sapere che esiste uno spettacolo (con una Giuliana De Sio sublime), in giro per l’Italia, capace di coinvolgere lo spettatore nel suo vortice di legami e famiglia e relazioni. Coinvolgerlo al punto da farlo sentire parte di un nucleo vitale, centro dell’amore di ognuno.
Brunella Caputo*
Trama (dal web)
Bob e Fran Price hanno quattro figli: Pip, Mark, Ben e Rosie. Ognuno di loro affronta difficoltà e segreti che cerca di tenere nascosti ai genitori, ma Fran ha un talento nel comprendere la verità su ciò che accade nelle vite di ciascuno. Sia che si tratti di un matrimonio infelice (Pip), di un cuore spezzato (Rosie), di una sessualità ridefinita (Mark) o dell’uso di droghe (Ben), la madre percepisce ciò che è reale. Mentre i figli tentano di mettere a punto le proprie vite, distaccandosi dalle aspettative e dai sogni dei genitori, ciò che è autentico e genuino nella famiglia Price inizia a sgretolarsi sotto il peso della verità, costringendo Bob e Fran a ridefinire i rapporti con i propri figli e tra loro stessi.
*Brunella Caputo è nata e vive a Salerno. È regista teatrale, attrice, scrittrice, cura progetti culturali e scrive racconti per Il Mattino. Per Homo Scrivens ha pubblicato “Attesa – Frammenti di pensiero”, da cui è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale, “Dell’acqua e dell’amore” , “Le notti dei Barbuti – Il teatro dei sogni” e “Le ore dell’alba”. Ha pubblicato molti racconti in diverse antologie. Coordina il gruppo di lettura di Feltrinelli Salerno e della Biblioteca Comunale di Maiori. È direttore artistico della rassegna teatrale La notte dei Barbuti.
La bottega del caffè, deliziosa commedia in prosa scritta in tre atti, viene rappresentata per la prima volta a Mantova nella primavera del 1750, in seguito a Milano e, nell’autunno e successivo carnevale, a Venezia. Ce ne parla lo stesso Goldoni nelle Mémories, inestimabile fonte di notizie circa le sue opere. Si prende qui in considerazione l’edizione dei Classici BUR Rizzoli, con l’introduzione di Luigi Lunari e la premessa al testo e note di Carlo Pedretti.
Il socievolissimo Settecento aveva conosciuto una vera e propria passione per il gioco d’azzardo, che costituiva non solo un semplice divertimento, ma anche un’ulteriore occasione per stare insieme, per coltivare relazioni e stringere amicizie galanti, naturalmente con grave pericolo per la gioventù sprovveduta. Il buon esito della “Bottega del caffè” aveva indotto Goldoni a sfruttarne sino in fondo l’argomento del gioco e a scrivere altre opere con lo stesso tema, a iniziare da “Il giocatore”, che non piacque al suo apparire e continuò a non piacere, contrariamente al “Cavaliere di buon gusto”, composto in precedenza e che, dopo un inizio incerto, aveva sfondato con il passare del tempo.
Si trattava di un argomento attualissimo, che rispecchiava la società veneziana del Settecento, nella quale, accanto alla passione per il gioco coesisteva quella della vita di relazione, avente il suo centro proprio nelle botteghe da caffè. Queste si erano moltiplicate a dismisura e, nel 1750, sulla sola Piazza lungo le Procuratie Nuove se ne contavano circa quaranta: numero destinato a crescere con l’andar del tempo, tanto che il Senato, dieci anni più tardi, ne fissava tassativamente il limite massimo a duecento sei, cioè quelle esistenti nelle isole di San Marco, Rialto e contrade adiacenti. Non stupisce, quindi, che una commedia così calata nel contesto cittadino abbia avuto anche una stesura in dialetto, con le maschere di Brighella e Arlecchino al posto di Ridolfo e Trappola, che anche nella versione italiana conserva tracce arlecchinesche.
La critica si è dimostrata favorevole alla Bottega del caffè, che ha sempre incontrato i gusti del pubblico, costantemente rappresentata nell’Ottocento e nel Novecento, anche in vesti vernacolari non veneziane e in dramma musicale.
Carlo Goldoni è colui che di fatto si assume il compito di creare un teatro che rifletta l’ideologia, gli interessi, i problemi, la sensibilità della nuova classe. La borghesia, sempre più struttura portante della società, esige ormai un teatro fatto a propria immagine e somiglianza; e questo teatro non può trovarlo né nella commedia dell’arte, avulsa oramai dalle proprie fonti di ispirazione e dalle proprie motivazioni storiche, e decaduta a campionario di lazzi volgari e assurdi, né nel dramma neoclassico in versi, tutto irto di dèi e di eroi, e intessuto di locuzioni e di tematiche inaccessibili alla vita borghese di tutti i giorni. Goldoni non teorizza in questo senso la propria opera, tuttavia egli costruisce una drammaturgia che risponde con assoluta coerenza alle implicite richieste di questo nuovo pubblico; che ne riflette la gnoseologia, l’estetica e l’etica ( la conoscenza, il gusto e la morale) e illustra e propaganda le costruttive virtù del buon senso, della concretezza, della prudenza, della operosità della borghesia.
I concetti che paiono muovere il Goldoni della Riforma sono quelli della verosimiglianza degli eventi, della naturalezza e della credibilità dei personaggi, della educativa moralità delle storie narrate, della decenza del linguaggio; al punto che l’appellativo di <<riformatore de’ teatri>>, che egli volentieri si attribuisce, sembra alludere ad una semplice opera di pulizia e di polizia: bandire dal teatro la volgarità dell’espressione e dei lazzi, l’assurdità delle situazioni, la stantia convenzionalità delle vicende, l’incredibilità delle psicologie. Tuttavia, quello che si cela sotto questa apparente modestia di formulazione è nientemeno che la verità, l’esigenza di ricondurre e commisurare l’opera drammatica alla realtà dell’uomo, della società, della storia. Quando Goldoni rivendica l’importanza del carattere, e ne fa la colonna portante del proprio teatro, egli rimette l’uomo al centro dell’universo teatrale, liberandolo dai meccanismi della commedia dell’arte in cui non figurava ormai che, come automa, portatore di una tesi o di una passione. Il <<carattere>> altro non è che l’uomo credibile, verificabile, realistico e così devono essere le vicende in cui è coinvolto. Tutto questo è possibile attraverso l’osservazione del reale, secondo quello stesso metodo che centocinquant’anni fa Galileo e Cartesio avevano formulato per le scienze.
Goldoni crea una drammaturgia che soddisfa le richieste di questo nuovo pubblico: buon senso, concretezza, prudenza, operosità, le virtù insomma, aureamente mediocri, della borghesia nella sua fase positiva e progressiva.
Egli non teorizza in senso classista e sociopolitico la propria azione, non tanto per la prematurità dei tempi, quanto piuttosto per il suo stesso carattere, poco incline alla polemica; prudentemente attento a non urtare la sensibilità e non infastidire la suscettibilità di una nobiltà ancora potente e ricca di privilegi. Preferisce fare le cose piuttosto che dirle e teorizzarle, seguendo il <<Si fa ma non si dice>, maliziosa norma del perbenismo borghese.
Goldoni si sente a suo agio nella città natale e in confidenza con la Venezia del XVIII secolo, in cui il passaggio dal ‘600 al ‘700 avviene senza fratture, portando avanti un’evoluzione artistica che lentamente trasforma, senza annullare. L’arte italiana perde in questo periodo quel ruolo di guida in Europa che l’aveva caratterizzata da quasi tre secoli, anche se resta il suo enorme prestigio. Solo l’arte veneziana ha ancora una posizione di primaria importanza. Venezia, dove tutte le istituzioni sono in decadenza, trova nei colori della sua pittura la lingua internazionale attraverso la quale lancia l’ultimo messaggio della sua civiltà, libera dalle responsabilità di rappresentanza e dall’impegno religioso. L’interesse per la città lagunare è condiviso dagli artisti e dalla committenza privata, che commissiona opere a Canaletto, Bellotto, chiamati a Dresda, Varsavia e Londra a diffondere le loro vedute; Guardi, e Longhi che osserva con curiosità discreta i piccoli episodi della vita borghese. Ma sarà Giovan Battista Tiepolo a compiere la straordinaria operazione di concludere il Barocco in Europa, trasferendo tutti i personaggi dei miti in un mondo di luminosa e serena evasione dove, eternamente belli, reciteranno una smaliziata fiaba che non potrà essere corrosa dal tempo. Questa Venezia, in cui Goldoni decide di far ritorno mancandovi dal 1743 e in cui si stabilisce con la moglie in casa della madre, nelle vicinanze di San Marco in corte San Zorzi, si fa scrigno del passato anche lontano, come quando mura, sin dal XIII secolo su un angolo della basilica di San Marco, sicuramente proveniente da Costantinopoli, il gruppo in porfido dei tetrarchi eseguito in Egitto, immagine simbolica dell’impero romano unito sotto il governo della prima tetrarchia, che rappresenta le figure degli Augusti e dei Cesari stretti in un emblematico abbraccio.
Sonia Di Furia
Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.
Mentre mi dispongo alla scrittura di questo pezzo, dalla finestra aperta della mia stanza, per questo autunno lieve, iniziale, arriva il suono prima metallico poi più pieno della banda. Qui nel mio paese è festa e io devo scrivere un pezzo su qualcosa che mi suona astratto come la religione e soprattutto che mi evoca troppo bande di paese, pianure e coste un po’ turche, santi e martiri e in generale un passo iniquo, sghembo. Penso che la letteratura, meglio, la poesia, abbiano questo odore. Se è così, la letteratura deve essere, prima di tutto, una sensazione, forse. È questo fatto un po’ ridicolo e dermico (intanto si è alzato un vento calmo che mi arriccia la pelle), è questo dubbio mal speso che voglio tenere dentro mentre scrivo, se questa banda non finisce di suonare, riprende sempre, continua.
Tommaso Landolfi nel suo Rien va scriveva che «La pittura non si fa con la pittura. La musica non si fa con la musica. La letteratura non si fa con la letteratura». Suggestiva e icastica, l’affermazione dello scrittore costringe a una interrogazione profonda sul senso della scrittura, sulle sue modalità, ma soprattutto, nel medesimo spazio, rivela un minus e un plus. Una insufficienza e un’eccedenza potenziale o già in atto dell’essenza letteraria, uno scarto. La sua pratica non basta ed eccede, sembra dire Landolfi. La frase lascia questa ironia inconclusa, un disturbo o un segreto sarebbe meglio dire, un segreto difficile da rilevare chiuso nel corpo profondo della letteratura. Esso, forse, è rintracciabile solo in alcune opere e non tutte le opere ci parlano di questa complessità.
Esistono scritture nelle quali il segno letterario si presenta poroso, tanto da permettere di essere pensate opere oltre il libro stesso, di oltrepassare il dispositivo che gli è proprio, di vedersi altrove. Ciò accade almeno in due sensi: nella potenzialità dell’opera di essere tradotta in visione, (dunque il consueto passaggio dal libro allo schermo) e in una vocazione – questa più rara – già insita nella scrittura, a ibridarsi senza per questo tradursi, effettivamente, con la forma cinema. È quello che sembra accadere nella produzione di molte avanguardie del Novecento, ma non solo.
Ci sono posizioni ancora più inaspettate e spiazzanti. Tra queste, a risultare interessante, smagliante di indisciplina, si trova il primo romanzo dell’attore, scrittore di scena e poeta Carmelo Bene: Nostra signora dei Turchi (1966). Se tre anni prima, in Italia, si costituiva la neoavanguardia del Gruppo 63 in rotta con i corposi romanzi neorealisti degli anni Cinquanta e a favore, invece, della sperimentazione (Marx nella mano sinistra e nella destra la filosofia strutturalista), il caso di Bene ne resta ancora fuori avvicinandosi a un estremo incollocato. A reggere l’opera, infatti, non c’è ideologia e la “Storia umana” – qualunque storia sia, da quella grande con le sue guerre, i suoi moti e gli uomini a una vicenda più modesta – è presente soltanto come un fondale di quinta deformato e soprattutto dai contorni sbavati o troppo illuminati perché possano essere decifrabili. Nostra Signora dei Turchi non ha trama, si compone, forse, di residui sfilacciati di una vita interiore possibile del suo protagonista: egli è un attore, un quasi santo, uno dei martiri d’Otranto nell’assedio ottomano del 1480. Tutto questo insieme e niente di tutto questo allo stesso tempo. Il personaggio vive in un meridione parodiato, continuamente sospeso tra il lirico e il comico dove unico riferimento storico al passato arabo e alla strage operata dai turchi, è un palazzo moresco «Attiguo a casa sua». È in questa atmosfera, in cui lo spazio-tempo appare sospeso, che l’uomo si prodiga in una serie di atti da attore alle prove (ma vedremo essere molto di più). Questa è la stessa atmosfera in cui incontra le sue apparizioni, una su tutte quella della Santa Margherita, un “deus ex machina” ancora una volta capovolto e rifiutato. La trama, poca cosa ma difficile a concedersi, si amalgama tutta nel procedimento stilistico e narrativo.
Il racconto, infatti, sembra procedere davvero per sequenze, per lampi, scarni di fatti ma pieni di sensazioni e volute della scrittura e del pensiero. Voluta qui si legga davvero come una prova di volo e caduta, come un involamento, la cui traccia contenutistica è evidente nella parte del libro più celebre: un monologo quasi a sé stante, parlato-sognato dal protagonista a seguito di un suo rovinoso esercizio di volo («I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso»). È forse qui, in questo punto, che compare un segno della poetica che muove l’autore-attore a “dire”: quando in questo monologare, in questo involamento del narrato scrive che «è l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto». Ecco schiudersi una chiave di lettura dell’opera e della sua filosofia. Scrive a tal proposito lo studioso Marco Sciotto, «proprio etimologicamente “estasi” coincide con lo “star fuori da” ed è così che il protagonista di Nostra Signora dei Turchi cerca spasmodicamente la propria estasi che fa tutt’uno con il tirarsi fuori dal resoconto stesso del testo cui appartiene come protagonista». In questo passaggio, dunque, è ben sintetizzato quello che dal principio (o già dopo poche pagine) è chiaro, ossia che qui si legge una voce protagonista, la quale è continuamente alle prese con la propria fratturazione.
Ecco, quindi, la sequenza di gesti compiuti dall’uomo, colto nel pieno di “un fare” e nel troppo pieno di un ambiente chiuso con cui ha inizio il racconto. Si ha la sensazione che per parlarne bisognerebbe abbandonarsi all’elencazione meccanica di questi atti, compiuti tutti in una foga ora più calma ora ossessa e non dire più nulla. A guardare bene, è questa serie di atti a comporre in modo chirurgico proprio la sclerotizzazione di ogni senso e di ogni narrazione possibile. Nelle prime pagine quest’uomo-attore si specchia e indietreggia dalla propria immagine riflessa, interagisce con oggetti ma è lo specchio a dominare il momento iniziale che diventa – nel racconto tutto all’imperfetto e in terza persona – un vero e proprio rituale senza magia. Si assiste, investiti totalmente, ad un uomo che è un attore mentre fissa se stesso allo specchio per annullarsi. L’abbondanza degli oggetti usati (proprio come se si fosse su una scena), sembrano concorrere anch’essi a questo obiettivo: oltre alla cancellazione del senso e della narrazione, si arriva a comprendere l’annullamento dell’identità, del personaggio. Il protagonista, infatti, sembra degradarsi a mero materiale di scena, truccato attraverso una pratica di rigore di “deformazione e ripetizione”: «Non aveva ancora terminato il trucco. E il trucco è meditazione. In fondo, in questi riti, salvo una o due volte soltanto, non era mai riuscito a superare i preamboli.». Reificato dunque. Ma in qualche modo sofferente, come un Pinocchio, a metà tra le piaghe del legno e della carne – e qui viene in mente l’ultima versione di Bene dell’opera collodiana, dove il burattino è definitivamente legno pieno, inorganico e senza agonie.
È impossibile, in questa girandola fastosa e tragica, poetica e materica, inquadrare per un pubblico di lettori il genere cui essa appartiene. A concorrere semmai sono più generi incrociati, capovolti e “vampirizzati” che toccano più epoche e stagioni letterarie. Dall’epica medioevale ai romanzi modernisti, includendo anche il romanzo storico, sempre però attraversati dal movimento anchilosato del comico e dalla sua balbuzie.
Protagonista di quest’opera – non è forse un caso – che sia, latamente, il corpo, di cui componente imprescindibile è anche la voce da esso emessa. Ancora una volta, anche in questo senso, è la scrittura a sorprendere, perché non solo lascia trasparire la grana acustica come componente musicale dello stile, ma anche come traccia organica – di un organismo continuamente provato e votato alla distruzione – e presenza immateriale ma evocata. È a questo punto che la letteratura non basta più, che va oltre, intrappolata com’è, sapientemente, in una zona ibrida alle porte dell’oralità e della sua fisiologia. Perché l’immaginazione che offre la lettura di Nostra signora dei Turchi, non è la rappresentazione mentale e diegetica di un fatto – leggere per credere – ma pensiero in movimento in cui il suo autore fa giocare la filosofia. Voce che si fa visione.
Il 1968 è l’anno in cui questa prova originalissima di letteratura che definire sperimentale sarebbe ancora parziale, esce dal dispositivo in cui è nata, per essere trasferita dallo stesso scrittore-attore sullo schermo e rivelare e aprire così le potenzialità larghe di una scrittura che elude ogni genere.
Nel film, il libro si ritrova smembrato ed espunto. Di quest’ultimo è una vera e propria traduzione in un altro linguaggio (quello del cinema), sebbene tale peculiarità fosse già in nuce. Senza trama e senza una consequenzialità di eventi, la pellicola non comincia dall’inizio del romanzo. Delle riprese allucinate, compiute con l’ausilio di lenti deformanti si muovono a inquadrare il palazzo moresco. È forse lui a parlare attraverso la voce fuori campo di Bene e a ricordare l’assedio di cinquecento anni prima, come si fosse riavuto da un oblio polveroso e riesumato attraverso la voce che parla; mentre la musica di Musorgskij insegue il dinamismo della macchina da presa, dei contorni e le volte della costruzione «sunto di storia ». Sembra di assistere ad un improvviso lirico, a un’aria da Opera per la vista, oltre che per l’ascolto. Compare Bene in un corpo quasi sempre malato o prostrato in qualche modo. Lo si vede, poco oltre la scena iniziale, dimenarsi nel tentativo di riempire una valigia nel bel mezzo di un incendio, o ancora dopo tentare un maldestro suicidio buttandosi dal balcone. Bene qui, meglio che nel romanzo, può disporre del suo corpo per mettere in scena un inconscio a cielo aperto. Egli lo usa tutto, lo disturba e lo disarticola poiché è il centro di espulsione di sé, è il mezzo con cui può o non può volare, può o non può diventare cretino. Non c’è una metafisica, è tutto nel mezzo e nel suo utilizzo. Allo stesso modo del corpo sembra intendere anche il cinema e la letteratura. Usati totalmente, sprigionandone ogni volta la loro intensità, ipotizzando le loro minorazioni ma promettendo ogni volta un di più. Il film – come anche il romanzo –, per non riuscire immediatamente a colpire la razionalità del pubblico, ne cattura per primo i sensi. Sembra in questo posto, nel luogo della sensazione, condensarsi in stile e poetica questa possibilità di sconfinamento e ibridazione della letteratura, questa promessa che fa pensare a un fenomeno proprio della medicina e della poesia chiamato sinestesia. Ecco allora la voce che si legge, la visione che si ascolta.
Il lettore è questo che può ricavare – stordimento e gioco – se ben disposto e accogliente come per un improvviso di banda, non solo ad abbandonarsi ma anche a interrogarsi non già su cosa sia la letteratura o il cinema, ma prima di tutto su cosa sia un’ esperienza di lettura e di visione. Forse, ma questo è dubbio, rispondersi.
Michela Pellegrini
Michela Pellegrini. Laureata in lettere moderne teatrali. Studentessa magistrale. Appassionata di cinema e dei linguaggi mediali. Lettrice in cerca di meraviglia