Luigi Natoli: I Beati Paoli, di Sonia Di Furia

Nessun romanzo d’appendice fu mai tanto popolare quanto I Beati Paoli che Luigi Natoli, con lo pseudonimo di William Galt, scrisse appositamente per il Giornale di Sicilia, pubblicandolo in 239 puntate dal 6 maggio 1909 al 2 gennaio 1910. Qui viene proposto nell’edizione della Flaccovio editore che si fregia dell’introduzione di Umberto Eco (Rizzoli, nel 2024, ne ha proposto una nuova edizione con prefazione di Giorgio Vasta). 

L’autore si ispirò alle gesta dei componenti di una società segreta, il cui ricordo ancora oggi è mantenuto vivo da una costante tradizione orale; di una, quella dei Beati Paoli, che il popolo, con ostinazione, pretende essere stata formata da giustizieri e non da sicari.

Gramsci afferma che il romanzo d’appendice favorisce il fantasticare dell’uomo del popolo sull’idea di vendetta e punizione dei colpevoli dei mali sopportati; dobbiamo allora convenire che nel romanzo di Natoli ci sono tutti gli elementi per favorire tali fantasticherie e propinare un narcotico che attenui il senso del male.

Luigi Natoli, attento conoscitore della storia e dei costumi del popolo siciliano, non si limitò nella sua narrazione a prendere lo spunto delle leggendarie vicende della misteriosa setta, ma sviluppò l’intera trama del romanzo ambientandola con scrupolosa aderenza alla realtà storica e a quella topografica,  da cui l’azione dei numerosi protagonisti si discosta soltanto eccezionalmente e solo in quei pochi casi in cui esigenze letterarie lo impongono. Pochissimi i personaggi immaginari, ma anch’essi così abilmente inseriti nel carosello storico settecentesco da far sì che il lettore non distingua più la realtà dall’immaginazione.

Il romanzo di Natoli, sin dal suo primo apparire, fu seguito con grande interesse. Non entrò soltanto nelle case della povera gente e nelle portinerie delle abitazioni del medio ceto, ma conquistò l’interesse anche della borghesia siciliana. Per gli abitanti del quartiere del Capo, che per tradizione si ritenevano i legittimi discendenti della setta, il romanzo divenne al contempo sillabario e testo sacro, tenuto al capezzale del pater familias che, nelle lunghe sere d’inverno, ne leggeva i diversi capitoli a parenti e vicini che lo attorniavano ascoltandolo nel più religioso silenzio.

Il periodo in cui si svolgono i fatti narrati nel romanzo va dal 1698 al 1719. Esso segna una delle epoche più complesse per contrasti di idee e di principi. La guerra tra la Spagna e la Francia era finalmente cessata ma, dopo qualche anno, a Carlo III, morto senza lasciare eredi, era succeduto Filippo di Borbone, secondogenito del Delfino di Francia, che assunse il nome di Filippo V, riconosciuto ed acclamato a Palermo come re di Sicilia, inaugurando così il dominio della dinastia borbonica nell’isola, dove però esplodevano e venivano soffocate nel sangue sedizioni e rivolte.

Furono giustizieri o sicari i componenti di questa setta? Certamente l’uno e l’altro contemporaneamente. Giustizieri, quando operarono per vendicare delitti impuniti ed impedire soprusi; sicari, quando invece si prestarono ad eseguire vendette personali o allorché si servirono dell’alone di mistero che li circondava e dell’indubbio favore popolare per compiere delitti comuni.

Poche sono le notizie sulla setta dei Beati Paoli, ancora minori sono quelle relative ai suoi appartenenti. Si sa per certo che un famoso vetturino di nome Vito Vituzzu, probabilmente fu uno degli ultimi Beati Paoli. Il motivo per il quale i componenti della setta si chiamassero così e la data di inizio della loro attività rimangono alquanto incerti.

La Palermo settecentesca in cui sono ambientate le vicende è resa da Natoli, che si rivela profondo conoscitore della topografia coeva della città, in modo talmente reale da identificare perfino i più minuti particolari. Nel romanzo rivivono le piazze, le strade, i vicoli, i cortili, i palazzi dei nobili, i conventi e i monasteri, le misere abitazioni del popolo, ma anche la vita dei suoi abitanti, i loro usi e i costumi oggi i gran parte scomparsi.

All’inizio del XVIII secolo, epoca in cui, come già detto, si svolgono i fatti narrati, la città era ancora compresa entro la cinta muraria secentesca, ma era già scomparsa la sua divisione nei quartieri dell’antico nucleo punico-romano, del periodo arabo e di quello sorto sulle aree del naturale interramento dell’antico porto.  Sontuosi palazzi di nobili potenti, grandiosi complessi conventuali occupavano buona parte dell’area urbana. I poveri, gli artigiani, i piccoli borghesi si concentravano nelle umili abitazioni degli antichi quartieri dove gli artigiani, riuniti in maestranze e congregazioni, innalzavano altre chiese ai loro santi protettori. Vicino al quartiere militare sorgeva l’antica reggia normanna, palazzo del viceré; in una delle piazze principali aveva il suo palazzo il Tribunale della Santa Inquisizione con le sue tremende prigioni.

Ma le vicende, i fatti e le azioni che vengono narrati non riguardano soltanto la città che emerge dal suolo. C’è un’altra Palermo nascosta, fatta di grotte, di cripte, di lunghi e tortuosi cunicoli; una vera e propria città sotterranea misteriosa e sconosciuta; regno incontrastato dei Beati Paoli che qui avevano il loro tremendo tribunale e attraverso la quale raggiungevano ogni luogo interno ed esterno di Palermo.

Dov’era precisamente il tribunale dei Beati Paoli? Secondo la tradizione il luogo di riunione dei componenti la setta fu identificato in una cavità sotterranea esistente nel quartiere del Capo, in prossimità della chiesa di S. Maria di Gesù. L’ingresso alla Palermo sotterranea era fornito dal primo piano di un’abitazione privata, casa Baldi, attraverso una porticina che percorre la superficie che copre una grotta sottostante. Giunti a una grata di ferro si ridiscendono cinque scalini di pietra rustica che portano a un piccolo altare, anch’esso di pietra, al lato del quale si trova una piccola stanza oscura che funge da nascondiglio. Al centro, un tavolo sul quale venivano poggiate le carte degli atti e dei segreti di quei micidiali giudici. Da lì si entrava nella grotta principale dove si trova un’ampia camera con sedie lungo tutto il perimetro, nicchie e scansie alle pareti, per deporvi le armi sia da fuoco che da taglio. Qui si riuniva la setta a lume di candela allo scoccar della mezzanotte. Oltre all’ingresso di casa Baldi, la grotta aveva un altro accesso attraverso una porticina che si apriva nel vicolo degli Orfani, ancora oggi esistente.

Sarebbe facile considerare I Beati Paoli un prodotto tardo del romanzo storico, ma la chiave giusta per leggerlo sta nel considerarlo un esempio di romanzo popolare, i cui ascendenti sono Dumas, Siie, Gramegna. Le vicende narrate si svolgono a partire dal 1713. Cavalcando il suo scheletrico ronzino, lo spadone al fianco, Blasco di Castiglione, cuore tenero, buontempone e testa calda, fa il suo ingresso a Palermo. Volendo scoprire il segreto della sua nascita, incontrerà don Raimondo della Motta che, pur di cingere la corona ducale, ha commesso ogni tipo di crimine; la splendida e turbolenta Donna Gabriella, che sa cosa vuol dire amare fino a morire; lo sbirro Matteo Lo Vecchio, campione di scelleratezza; Violante, bella come un sogno di purezza; il misterioso Coriolano della Floresta. Scoprirà una città di palazzi arabi, di chiese spagnole, di fortezze normanne, con i suoi quartieri e le sue catacombe dove si riunisce la setta dei Beati Paoli.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Italo Calvino: “Lezioni americane” (Leggerezza), di Sonia Di Furia

Il 6 giugno del 1984 Calvino fu invitato ufficialmente dall’Università di Harvard, Cambridge, nel Massachusetts, a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures. Si trattava di un ciclo di sei conferenze da tenere nel corso di un anno accademico, che per Calvino sarebbe stato quello del 1985- 1986. Purtroppo, la morte lo colse mentre vi stava lavorando. L’edizione che qui si prende in considerazione è pubblicata da Mondadori con il sottotitolo “Sei proposte per il prossimo millennio” e uno scritto di Giorgio Manganelli. Poiché sui temi e l’elaborazione delle Lezioni Calvino non ha lasciato né scritti né interviste, si fa integralmente riferimento alla nota introduttiva scritta per la prima edizione, quella del maggio 1988, dalla moglie Esther Calvino.

Il termine Poetry significa in questo caso ogni forma di comunicazione poetica- letteraria, musicale, figurativa e la scelta del tema è totalmente libera. Le Norton Lectures presero inizio nel 1926 e sono state affidate nel tempo a personalità come T. S. Eliot, Igor Stravinsky, Jorge Luis Borges. Era la prima volta che venivano proposte a uno scrittore italiano. Questa libertà è stato il primo problema che Calvino dovette affrontare, convinto di quanto fosse importante la costrizione nel lavoro letterario. Una volta definiti i temi da trattare e alcuni valori letterari da trasmettere nel terzo millennio, cominciò a dedicare quasi tutto il suo tempo alla preparazione delle conferenze, arrivando a sviluppare idee e materiali per almeno otto lezioni e non soltanto le sei previste e obbligatorie. Al momento di partire per gli Stati Uniti, delle sei lezioni ne aveva scritte cinque. Manca la sesta, Consistency, l’avrebbe scritta ad Harvard. Naturalmente queste sono le conferenze che Calvino avrebbe letto. Ci sarebbe stata certamente una nuova revisione prima della stampa, ma senza importanti cambiamenti. Le differenze tra le prime versioni e le ultime riguardano la struttura, non i contenuti. Questo libro riproduce il dattiloscritto come è stato trovato sulla sua scrivania, e in perfetto ordine, ogni singola conferenza in una cartella trasparente, l’insieme raccolto dentro una cartella rigida, pronto per essere messo nella valigia.

Calvino ha lasciato il testo senza titolo italiano. Aveva dovuto pensare prima al titolo inglese “Six memos for the next millennium” ed era il titolo definitivo. Impossibile sapere cosa sarebbe diventato in italiano.

L’autore dedica le conferenze ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che gli stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, Cominciare e finire. In prefazione così dice: – Il millennio che sta per chiudersi ha visto nascere ed espandersi le lingue moderne dell’Occidente e le letterature che di queste lingue hanno esplorato le possibilità espressive e cognitive e immaginative. È stato anche il millennio del libro, in quanto ha visto l’oggetto- libro prendere la forma che ci è familiare. Forse il segno che il millennio sta per chiudersi è la frequenza con cui ci si interroga sulla sorte della letteratura e del libro nell’era tecnologia cosiddetta postindustriale. La mia fiducia sul futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici. –

La prima conferenza è dedicata all’opposizione leggerezza- peso. Calvino sostiene le ragioni della leggerezza, non perché consideri le ragioni del peso meno valide, ma perché solo sulla leggerezza pensa di avere più cose da dire. 

Due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube o, meglio, un pulviscolo sottile o, meglio ancora, come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni. Alle origini della letteratura italiana ed europea queste due vie sono aperte da Guido Cavalcanti e Dante Alighieri.

Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può essergli rivelato in una visione indiretta.  La pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario (Dal sangue di Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso). Perseo uccide Medusa, taglia la sua testa e la porta con sé; quando deve lavarsi le mani, la adagia delicatamente al suolo reso soffice da uno strato di foglie su cui stende dei ramoscelli nati sott’acqua (Ovidio, Metamorfosi, IV, 740-752). Quanta delicatezza d’animo serve per essere un Perseo, vincitore di mostri. Medusa è il mostro per antonomasia; la Gorgone con il potere di pietrificare chiunque incroci il suo sguardo; colei che evoca paure ancestrali e ha influenzato l’arte e la cultura nei secoli.

Edward Coley Burne- Jones: nascita di Pegaso e Crisaore (1885)

Si pensi alla raffigurazione di Perseo che uccide Medusa, in una metopa del tempio C di Selinunte (seconda metà del VI secolo a.C.); a una Medusa sul frontone occidentale del tempio di Artemide a Corfù (580 a.C.); allo scudo con testa di Medusa di Caravaggio (1590 circa) Galleria degli uffizi di Firenze; alla Medusa di Peter Paul Rubens (1618 circa) Kunsthistorisches Museum di Vienna; alla scultura Perseo con la testa di Medusa di Benvenuto Cellini (1545-1554) Piazza della Signoria a Firenze; al busto di Medusa di Gian Lorenzo Bernini (1630- 40) Musei capitolini al Palazzo dei Conservatori; all’illustrazione Pegaso e Crisaore del Preraffaellita Edward Coley Burne- Jones (seconda metà del XIX sec.) Southampton City Art Gallery.

È evidente che per riuscire a parlare della sua epoca, Calvino ha dovuto fare un lungo giro, evocare la fragile Medusa di Ovidio e il bituminoso Lucifero di Montale (Piccolo Testamento).

È difficile per un romanziere rappresentare la sua idea di leggerezza, se non facendone l’oggetto irraggiungibile di quiete senza fine. Lo fa Milan Kundera ne “L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere”, che è un’amara constatazione dell’ineluttabile pesantezza del vivere. Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti.

In Lucrezio e in Ovidio la leggerezza è un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza: la dottrina di Epicuro per Lucrezio; le dottrine di Pitagora per Ovidio. Ma in entrambi i casi la leggerezza e qualcosa che si crea nella scrittura, con i mezzi linguistici del poeta.

Nella novella del Decameron (VI, 9), l’autore presenta Guido Cavalcanti come un austero filosofo che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo davanti a una chiesa. Invitato dalla gioventù fiorentina, ricca e gaudente, a fare baldoria, si rifiuta e con fare leggerissimo salta lontano e se ne va. L’agile salto improvviso del poeta- filosofo, che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostra che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero di automobili arrugginite. Non è un caso che il sonetto di Dante Alighieri ispirato alla più felice leggerezza “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io” sia dedicata a Cavalcanti.

Calvino conclude dicendo: – Spero innanzitutto d’aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Marco Vitruvio Pollione: “Architettura” (Rizzoli, trad. Silvio Ferri), di Sonia Di Furia

Quando Marco Vitruvio Pollione, architetto romano del I sec. a.C., scrisse e dedicò il trattato “De Architectura” all’imperatore Cesare Augusto, si stava ideando una nuova strutturazione urbana della città di Roma, che fosse adeguata ai suoi compiti di grande capitale, in un momento storico in cui la costruzione degli edifici di maggior rilievo dimostrava l’enorme disponibilità di denaro, materiali e manodopera di cui poteva disporre l’autorità pubblica.

Il testo viene qui proposto nella preziosa edizione BUR Rizzoli, classici greci e latini, anticipata da un’approfondita introduzione dell’insigne archeologo classico Stefano Maggi e presentata, tradotta e commentata dallo studioso del mondo antico e della storia dell’arte greca e romana Silvio Ferri. L’architettura e l’urbanistica sono tra le attività umane più legate alle strutture e agli organismi sociali e politici: lo sono state soprattutto nel mondo antico. Oggi tale legame tende a non essere più così stretto, pur rimanendo prioritaria la gestione del problema urbanistico – architettonico.  

Se si vogliono comprendere le società che ci hanno preceduto o persino il quadro della vita attuale, è necessaria una vera e propria archeologia dei tempi moderni e contemporanei. Non si tratta di ricostruire il passato in quanto tale, ma piuttosto di rinnovare una relazione tra forma e società. Nel mondo romano, più che nel mondo moderno, lo Stato modella lo spazio urbano secondo le proprie strutture ideologiche. Il potere è in grado di definire e dichiarare la propria ideologia politica anche attraverso architetture e complessi architettonici in cui si riconosca. Alla politica governativa, che enfatizza l’impegno nei servizi pubblici per creare un’impressione di solidità e ricchezza e di interesse e protezione nei confronti del cittadino, si associa in questo modo quella delle classi elevate che esprimono così il loro appoggio all’impero, in nome del mantenimento di un equilibrio da cui esse stesse traevano la sicurezza del loro ruolo.

 Non dobbiamo però pensare a un’immagine esclusivamente monumentale di Roma: i grandi complessi emergono entro il tessuto articolato e vario dell’edilizia residenziale, della complessità della rete viaria e dei servizi pubblici più minuti (botteghe, fontane, latrine). Il complesso dei fori imperiali rappresenta la massima emergenza urbanistica della capitale dell’impero, ma tutta Roma viene caratterizzata, nell’arco di tempo che vide la loro realizzazione, da edifici che per il loro alto valore rappresentativo ne definirono l’immagine grandiosa destinata a durare nei secoli.

Nel tentativo di sistematizzare una materia contraddittoria ed estremamente varia, Vitruvio tratta di templi e teatri, di piazze e ginnasi, di porti e case private; stabilisce relazioni tra le misure del corpo umano e le dimensioni degli edifici e le loro proporzioni; esamina la formazione e la cultura dell’architetto, facendovi confluire più tradizioni; espone la sua teoria urbanistica della formazione della città, con la costruzione delle mura, la disposizione delle strade in funzione dei venti, la distribuzione degli spazi e degli edifici pubblici; dedica un intero capitolo all’idrologia e all’idraulica e l’ultimo alla meccanica.

In un primo momento Vitruvio non osa pubblicare i suoi “prolissi ed astrusi scritti sull’architettura”, come egli stesso li definisce, nel timore di incontrare il disappunto dell’imperatore, vedendo poi che egli ha cura, non solo del bene di tutti e dello Stato, ma anche degli edifici pubblici, stima che sia arrivato il momento di pubblicare l’opera. Questo trattato rimane l’unico di architettura antica a noi pervenuto e conserva intatto il fascino del passato, insieme al dibattito su chi pensa che l’architettura debba possedere regole ben definite e chi crede che si possa fare tutto sotto l’ispirazione della pura fantasia. Rimane la convinzione che pensare storicamente porta al recupero della dimensione umana del vivere, che è poi quello di cui ha bisogno una cultura che rischia di inseguire troppo i tecnicismi.

Così come già detto, per l’architettura e l’urbanistica, due facce della stessa realtà, non si tratta di riesumare l’esempio dell’antico, ma di considerare storicamente e criticamente una lezione che gli antichi sono ancora in grado di trasmetterci. Questo ha fatto un grande spirito moderno dell’architettura del secolo scorso, Le Corbusier, che visitando la città di Pompei guardò, fotografò, disegnò, annotò, ma soprattutto misurò. E poi scrisse: – Le misure sono la causa di questa bellezza – aggiungendo che la rilettura antiaccademica dell’antico gli aveva svelato i principi basilari della modernità. 

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Gertrude Stein: “Picasso”, (Adelphi, trad. Vivianne Di Maio), di Maria Rosaria Paolella

“Nell’Ottocento i pittori scoprirono il bisogno di avere sempre un modello da guardare;

nel Novecento scoprirono che l’unica cosa da non fare era guardare un modello.”

Gertrude Stein

Nel corso di una ricerca, mi sono imbattuta in un interessante volumetto, pubblicato per la prima volta nel 1938 e proposto, in Italia, da Adelphi nel 1973.

In poche pagine e con una scrittura rapida, ma incisiva, la scrittrice statunitense Gertrude Stein offre un vivacissimo ritratto del pittore spagnolo Pablo Picasso e ne delinea l’evoluzione artistica e umana dalle prime fasi della sua nuova vita parigina fino al 1937, l’anno del celebre dipinto “Guernica”. E lo fa da una speciale prospettiva: quella di chi ha conosciuto e frequentato l’artista, fin dal suo arrivo nella capitale francese, e di chi ha condiviso con lui un’intensa e parallela ricerca stilistica. 

Nel 1903 Gertrude Stein si trasferisce a Parigi, assieme al fratello Leo; dà vita a un celebre salotto, frequentato da artisti e letterati, e si dedica a un’intensa attività di collezionista e mecenate. I due fratelli acquistano opere di Cézanne, di Renoir ma anche quelle di artisti non ancora famosi. Tra gli altri c’è Pablo Picasso, da poco arrivato nella capitale francese. La scrittrice d’avanguardia ne diventa presto amica e sostenitrice; il suo primo acquisto è la Fanciulla con cesto di fiori.

Con rapide pennellate e da diverse angolazioni, la Stein dà conto di tutte le fasi della produzione di Picasso, facendoci seguire i cambiamenti che avvengono nell’animo e che si riflettono nelle opere del geniale pittore. Una profonda e continua lotta interiore alla ricerca del proprio linguaggio si accompagna, secondo la scrittrice, a un particolare meccanismo di assorbimento e di “svuotamento”

È la sua profonda sensibilità che lo porta ad accogliere sempre nuove suggestioni da cui, però, Picasso aspira progressivamente a liberarsi, a “vuotarsi” per tornare all’espressione del proprio sguardo sulla realtà. 

Così, in occasione di una prima, breve permanenza a Parigi, il giovane artista è attratto dalla pittura di Toulouse-Lautrec, dal cui influsso si libera molto presto dando inizio al cosiddetto “periodo blu”. 

Dal 1904, quando si trasferisce definitivamente nella capitale francese, viene travolto dal fascino e dalla “gaiezza” dell’ambiente parigino dove i suoi amici sono “scrittori più che pittori […] Max Jacob, Guillaume Apollinaire, André Salmon, Jean Cocteau, i surrealisti”. È qui che prende vita il “periodo rosa o degli arlecchini”, periodo di immensa attività che termina con il  ritratto della Stein. La letterata americana posa per lui nel corso di un intero anno ma alla fine Picasso, come in altre occasioni, sente il bisogno di dipingere senza modello. Non soddisfatto dal risultato, cancella il viso della scrittrice per ridipingerlo poi, a memoria, al rientro da un nuovo viaggio in Spagna. Rompendo con le convenzioni artistiche del tempo, riesce a cogliere l’essenza della personalità dell’amica, che dichiara di vedersi perfettamente ritratta nel quadro. “Picasso era l’unico, nella pittura, a vedere il Novecento con i suoi occhi, a vedere la sua realtà.”

Vuotatosi” ancora una volta dell’influsso francese, il pittore si accosta alla scultura africana, grazie a Matisse, e da questa esperienza nascono gli studi che lo porteranno a creare Les Demoiselles d’Avignon

È di questi anni il rapporto con Derain e Braque.

Dopo un breve viaggio in Spagna, nel 1909, il pittore torna a Montmartre con i primi paesaggi cubisti. Ma, essendo interessato principalmente alla figura umana, decide di utilizzare la nuova visione per rappresentare le persone. Ha inizio “l’era felice del Cubismo”. Con il nuovo decennio, arrivano il successo e la fama. 

L’Europa, però, vive anni complessi, di lì a poco scompare la “gaiezza “ che aveva contraddistinto il periodo precedente. Nel 1914 “tutto [è] guerra”: gli amici partono, o perché richiamati o perché volontari, e Picasso si accosta a Erik Satie e a Jean Cocteau. Risultato di tali frequentazioni è l’approdo al teatro: ”il cubismo stava per essere messo in scena”. Per lavorare ai costumi e alle scene di Parade, nel 1917, Picasso si dirige verso Sud. Benché non ami viaggiare, questa volta è contento di visitare l’Italia. 

Nuova terra, nuova seduzione: prende il via un nuovo periodo rosa che ha inizio col ritratto della moglie e termina con il ritratto del figlio in costume di arlecchino. In Francia Picasso dipinge altri quadri e disegna  nuovi Arlecchini, in una fase realista, a cui fa seguito una di soggetti classici e di donne con drappeggi. La pittura naturalista lascia il passo a quella delle “grandi donne”. 

Si susseguono nuove sperimentazioni: lo stile calligrafico, poi un ritorno al colore intenso finché, nel 1935, l’artista non smette di dipingere e di disegnare per ben due anni. 

Liberarsi dall’influsso francese o da quello italiano, una volta accolte le rispettive suggestioni, è relativamente facile per l’artista, molto  più difficile è affrancarsi da quello russo, nato in precedenza e rafforzato dalla  collaborazione con i Ballets Russes di Sergej Diaghilev. La lotta interiore si presenta più dura a causa di un forte contatto tra la sensibilità spagnola e quella russa. Ma poi tutto ha termine. 

Ben diverso è, per tutta la vita, il rapporto con la Spagna: la  vera sensibilità di Picasso è tutta spagnola e così è la sua visione. Della Spagna non potrà mai “liberarsi perché la Spagna è lui, è lui stesso”.

Dopo il 1935 il pittore arriva a smettere di adoperare il linguaggio che gli è proprio, quello del disegno e della pittura, e a dedicarsi ad altre forme espressive, tra cui anche la poesia. È un lungo periodo di riposo.

Ma quando la guerra travolge la Spagna, Picasso si risveglia, sente che la sua terra è viva, che lui stesso è vivo; è allora che  ricomincia “a parlare come ha parlato tutta la vita, parlando con disegno e colori…”. E nel 1937 partecipa alla grande Esposizione internazionale di Parigi, avendo a disposizione un’intera parete del padiglione spagnolo.

 L’artista torna a dipingere e lo fa con una raggiunta consapevolezza, con un uso perfetto dei colori e con una visione tutta personale, libera da qualsiasi influsso: “Picasso, è certo, ha trovato ora il suo colore, il suo vero colore, nel 1937”.

L’agile libretto è corredato di venti illustrazioni in bianco e nero che riproducono opere, menzionate nel libro, e realizzate dall’artista spagnolo tra il 1895 e il 1937. 

L’intenso rapporto di amicizia e di collaborazione tra Gertrude Stein e Pablo Picasso, a lungo indagato da critici e studiosi, è stato recentemente ripreso in un’interessante mostra allestita, tra il 13 settembre 2023 e il 28 gennaio 2024, dal Musée du Luxembourg di Parigi. L’esposizione, intitolata Gertrude Stein et Pablo Picasso – L’invention du langage, si è incentrata sull’influsso che i due artisti hanno avuto sui loro contemporanei e sulle prime avanguardie americane della seconda metà del Novecento. Per chi fosse interessato, le curatrici della mostra  Cécile Debray, Presidente del Musée National Picasso – Paris e Assia Quesnel, specialista di storia dell’arte moderna e contemporanea, hanno pubblicato, per Gallimard, un Carnet d’Expo, disponibile in lingua francese.   

Maria Rosaria Paolella

Maria Rosaria Paolella, napoletana, di formazione classica, ha molte passioni tra cui la letteratura, la danza, il teatro e la storia della sua città. È stata docente di ruolo nei Licei e negli Istituti di istruzione secondaria e poi cultore della materia e docente a contratto presso la cattedra di Letteratura per l’infanzia dell’Unisob. 

È autrice di articoli e recensioni su temi di letteratura latina e di letteratura giovanile, nonché di diversi libri per ragazzi, editi dalle case editrici Loescher, Marco Derva, Emme Erre. 

Tra le sue ultime pubblicazioni, per le Edizioni Apeiron, figurano Una storia: un balletto – L’Uccello di fuoco (2019), primo volume di una collana incentrata su letteratura e danza nel Balletto narrativo del Novecento e Itinerari leggendari partenopei (2023), un libro-guida che, attraverso la narrazione di antiche leggende, conduce il lettore nei luoghi più suggestivi della città. Nello stesso anno ha inoltre collaborato alla realizzazione del volume I fari dell’anima.

Italo Calvino: “Il castello dei destini incrociati”, di Sonia Di Furia

In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti. Passai per un ponte levatoio sconnesso, smontai di sella in una corte buia, stallieri silenziosi presero in consegna il mio cavallo. Salii una scalinata; mi trovai in una sala alta e spaziosa: molte persone- certamente anch’essi ospiti di passaggio, che mi avevano preceduto per le vie della foresta- sedevano a cena attorno a un desco illuminato da candelieri”.

Inizia così il racconto di Calvino, edito da Mondadori nella collana Oscar, con la presentazione dell’autore stesso e la postfazione di Giorgio Manganelli.

Il volume è composto di due testi: Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati. Nel primo le figurine che accompagnano il racconto riproducono il mazzo di tarocchi miniati da Bonifacio Bembo per i duchi di Milano verso la metà del XV secolo, che ora si trovano parte all’Accademia Carrara di Bergamo, parte alla Morgan Library di New York. Alcune carte del mazzo Bembo sono andate perdute, tra cui due molto importanti: Il Diavolo e La Torre.

Il secondo testo è costruito con lo stesso metodo mediante il mazzo dei tarocchi oggi internazionalmente più diffuso: L’Ancien Tarot de Marseille della casa B. P. Grimaud, che riproduce un mazzo stampato nel 1761 dall’incisore Nicolas Conver, maître cartier a Marsiglia e che, sbiadito e alterato dal tempo, è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Il mazzo marsigliese non è molto diverso dai tarocchi ancora in uso in gran parte d’Italia come carte da gioco; ma mentre in ogni carta dei mazzi italiani la figura è tagliata per metà e si ripete capovolta, qui ogni figura conserva la sua compiutezza di quadretto insieme rozzo e misterioso che la rende particolarmente adatta all’operazione di raccontare attraverso figure variamente interpretabili.

L’idea di adoperare i tarocchi come una macchina narrativa combinatoria venne a Calvino da Paolo Fabbri che, in un seminario internazionale sulle strutture del racconto del luglio 1968 a Urbino, tenne una relazione su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi. Di quell’apporto metodologico di ricerca, l’autore ha inteso prendere l’idea per cui il significato di ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono; partendo da questa idea, si è mosso in maniera autonoma, secondo le esigenze interne del suo testo.

Il riferimento letterario naturale è l’Orlando furioso; anche se le miniature di Bonifacio Bembo precedevano di quasi un secolo il poema di Ludovico Ariosto, esse potevano ben rappresentare il mondo visuale nel quale la fantasia ariostesca s’era formata.

Ogni carta è uno stemma e di carta in carta i narratori confessano le loro vicende tra incaute avventure e frettolosi amori. A uno a uno i taciturni ospiti seduti al tavolo diventano i protagonisti dei racconti e il lettore ne scopre vite e drammi, gioie e angosce infinite, in un gioco narrativo che coinvolge e sconvolge. A un certo punto nelle intenzioni dell’autore questo volume avrebbe dovuto contenere non due ma tre testi. Calvino avrebbe dovuto cercare un terzo mazzo di tarocchi abbastanza diverso dagli altri due. Ma quale avrebbe potuto essere l’equivalente contemporaneo dei tarocchi come rappresentazione dell’inconscio collettivo? Pensò ai fumetti, non a quelli comici, ma a quelli drammatici, avventurosi, paurosi: gangsters, donne terrorizzate, astronavi, vamp, guerra aerea, scienziati pazzi. Pensò di affiancare al Castello e alla Taverna, Il motel dei destini incrociati. Non andò oltre la formulazione dell’idea. Il suo interesse teorico ed espressivo per quel tipo di esperimento si era esaurito. Era tempo di passare ad altro.

Nel raccontare le storie altrui, quella dell’alchimista, della sposa dannata, del ladro di sepolcri, dell’Orlando pazzo per amore di Angelica, di Astolfo che sale sulla luna per recuperare il senno dell’amico racchiuso in un’ampolla (insieme a lacrime e sospiri d’amore, ozio, tempo perso nel gioco, desideri irrealizzati, doni fatti con speranza di ricompensa, tranne la pazzia, quella sta tutta sulla Terra), Calvino racconta la sua storia e la sua personale concezione della vita. Dissemina di qua e di là pensieri, riflessioni, opinioni, come quando scrive che: “Due diverse vie s’aprono a chi ha ancora da trovare se stesso: la via della passioni, che è sempre una via di fatto, aggressiva, a tagli netti, e la via della sapienza, che richiede di pensarci su e imparare a poco a poco“; oppure: “Il buffone ogni volta che apre la bocca, tra uno sberleffo e un lezzo, semina sospetti, dicerie denigratorie, angosce, allarmi“; o ancora riflette sul tempo che passa: “Per sentieri d’inchiostro s’allontana al galoppo lo slancio guerriero della giovinezza, l’ansia esistenziale, l’energia dell’avventura spesi in una carneficina di cancellature e fogli appallottolati“. E forse tutti ci riconosciamo in questo teatro della vita a cui Calvino ha tentato di dare ordine.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.