Giacomo Leopardi: “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”, di Sonia Di Furia

La fama di Giacomo Leopardi è affidata all’opinione comune che ne sottolinea la storia delle sue sofferenze, la sua malinconia e ipocondria, la trasfigurazione lirica del suo sentire. La tradizione scolastica (che rimane l’unica occasione di conoscenza per la quasi totalità delle persone) ha restituito, e continua a farlo, l’immagine innocua e consolatoria di un’unica dimensione del poeta, quella lirica e dolente, appunto, che fa solidarizzare con lui, compiangere se stessi, per un processo inconscio di identificazione, e il mondo con tutti i suoi mali e le sue difficoltà. Schiacciato dalla sua stessa grandezza, ancora oggi Leopardi stenta a vedere affermata la sua importanza di moralista e di critico della società moderna, di quella italiana in particolare. Difatti, nella percezione della cultura media d’Italia, quella destinata a costruire e consolidare le opinioni e le valutazioni, fatica a emergere la percezione di un Leopardi pensatore e filosofo, quasi che a definire la filosofia sia la costruzione sistematica in capitoli e paragrafi e non l’originalità del pensiero e il contributo al progresso dello spirito riflettente.

Volendo, dunque, andare al di là della valutazione altissima del suo ricercare poetico, bisogna necessariamente rivolgersi al “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”, di cui si prende in considerazione l’edizione Letteratura universale Marsilio, collana Esperia, del 1989, con introduzione e cura di Augusto Placanica. Tale edizione è corredata da commenti e chiarimenti ricavati unicamente dalle riflessioni dello stesso autore e da un saggio che mira ad essere uno dei primi tentativi di avvicinare il lettore a un Leopardi interessante, controcorrente, quasi inedito, attuale, calato nell’impietosa analisi dell’evoluzione della società nel bel mezzo delle idealizzazioni risorgimentali, i cui esiti ci troviamo ancora oggi a vivere, in una condizione di soddisfatta o inebetita mediocrità, quasi inevitabile destino. 

Leopardi compose il Discorso nel 1824 e lo scritto rimase inedito fino al 1906, quando fu inserito nella silloge “Scritti vari inediti delle Carte napoletane”, a cura di Giovanni Mestica (Firenze, Le Monnier, 1906) nel quadro delle Opere complete. In quest’opera Leopardi sembra pensare che i valori dell’antica civiltà classica non siano più percepibili nel contesto culturale del Mediterraneo e si siano spostati verso le civiltà del Nord d’Europa.  Tale visione è presente in molti filosofi della crisi: Schopenhauer, Nietzsche, Ortega y Gasset, Toynbee, fino a Horckheimer e Adorno, in quelli della scuola di Francoforte fino alle ipotesi sul cosiddetto pensiero debole. Si potrebbe addirittura considerare, nel Leopardi che si analizza specificamente, che vi sia una tensione verso la modernità che lo avvicini a tanti pensatori dell’Europa otto-novecentesca. Si potrebbe scoprire nel Leopardi progressista e sovversivo una carica di modernità che lo distacca dall’Italia e lo avvicina all’Europa. Allora, forse, bisogna tentare una conoscenza più eterogenea, perché Leopardi è un autore affascinante, che riesce con la sua seduzione a rendere complesso ogni itinerario nella sua mente.

Quando, nel marzo 1824, Giacomo Leopardi comincia a scrivere il suo Discorso, l’Europa è entrata da qualche anno nella torbida atmosfera della Restaurazione, gravata dalla sua cappa oppressiva. Egli, fin da subito, dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, che vede dominata dall’inerzia e dal tedio. Ciò vale soprattutto per l’Italia, miserevolmente decaduta dalla grandezza del passato. Conclusasi l’età napoleonica, in un continuo formarsi e riformarsi di Stati, si è interrotto anche lo spirito di novità sociali e culturali da cui essa aveva preso inizio e legittimazione. Dopo la Rivoluzione Francese, che sembra ormai allontanarsi dal palcoscenico della storia, si smarrisce il grande patrimonio di idee, progetti, utopie del tardo secolo dei lumi, di riflessioni sulla società, di ideali e innovazioni filosofiche, della riscoperta della dimensione politica di ogni cosa, dell’economia, degli ordinamenti della cultura che erano confluiti in un unico irrefrenabile desiderio di modernità. Ebbene, tutto questo sembra arrestarsi con la benedizione dei principi più tradizionali. Infatti, la Restaurazione, non vuole soltanto combattere gli esiti eversivi dell’epopea napoleonica, ma abrogare gli stessi principi ispiratori dell’ondata rivoluzionaria, che dopo qualche decennio non sono del tutto scomparsi dalla mente e dal cuore di tanti che ancora sperano nella razionalità e nella modernità. 

Il 1904 è l’anno in cui accadono significativi eventi storici e si sperimentano nuove tendenze culturali. Da una parte il tramonto delle illusioni rivoluzionarie, dall’altra il riconoscimento che si andava attenuando l’egemonia culturale della Francia e che la Germania imponeva all’Europa la ragione innalzata a metafisica. Leopardi vive questa complessità di intrecci con lucidità, anche se in lui convivono le contraddizioni dell’antiromantico intriso di un suo personalissimo romanticismo, e del difensore della civiltà classica intollerante all’imbalsamazione della classicità. Tutta questa complessità rientra nel Discorso sopra i costumi degli italiani. Questa coerenza e questa complessità, ben al di là delle mode, collocano Leopardi a contatto con l’Europa e con il grande dibattito culturale europeo del tempo. 

Dopo la Rivoluzione e l’età napoleonica, grazie al potenziamento degli scambi economici, civili e culturali, le nazioni europee tendono a conoscersi e apprezzarsi meglio, senza i reciproci pregiudizi del passato. L’Italia è, in questa fase, al centro di attenzione, ma gli italiani sospettosi, benché poveri di amore di patria, sopportano male ogni piccola critica nei loro riguardi, anche perché poco propensi a riflettere su qualsiasi tema che li riguardi. Persi gli ideali su cui si fonda la morale, la virtù appare sciocca, mentre si impongono il tornaconto e il vizio. La società umana sembra reggersi in piedi per puro miracolo, dato che la politica può offrire sostegni di natura esclusivamente coercitiva e formale, ripetutamente inefficaci. Pertanto, se le nazioni civili riescono a preservare la morale pubblica e la società in generale, questo avviene esclusivamente per l’azione di una limitata fascia di questa stessa società borghese e intellettuale, che segue determinati valori morali e costumi. I valori e i comportamenti di questa parte di società influenzano i valori e i comportamenti della società complessiva e ne permettono l’espansione e lo scambio con altre realtà nazionali. Ora, una delle caratteristiche della società stretta è che essa spinge i suoi membri a una sana ambizione (il senso dell’onore) che consiste nella tendenza a stimare gli altri con il desiderio di esserne stimati. Da qui nasce il rispetto verso la pubblica opinione, il bisogno di comportarsi bene e di evitare il male.  Tendenza meschina, certo, ma ormai l’unica possibile, una volta che sono state distrutte le illusioni della filosofia e svaniti tutti gli ideali sociali. 

A partire dall’età moderna, gli italiani non hanno più illusioni e non hanno più ideali, poiché hanno compreso la nuda e deludente realtà che si cela al di sotto degli assiomi morali (verità o princìpi che si ammettono senza discussione, evidente di per sé). Diventati più filosofi e più razionali di qualsiasi altro popolo civilizzato d’Occidente, essi sono privi di quei fondamenti morali che sostengono e conservano la società.  Inoltre, per un insieme di elementi (il clima favorevole, la spiccata ingegnosità, l’amore per i divertimenti), l’Italia risulta priva di quella società stretta di cui si è detto, per cui il passeggio, le cerimonie religiose e gli spettacoli caratterizzano la dissipata vita sociale degli italiani, che non amano la vita discreta e riservata negli ambienti della loro casa, né utilizzano il loro tempo in interessanti e solide conversazioni. Gli italiani, soprattutto quelli più avvezzi alle cose del mondo, non si preoccupano, anzi disprezzano l’opinione pubblica, cioè la stima degli altri. Di conseguenza, ragionando razionalmente e in termini di tornaconto concreto, avere una reputazione positiva serve a poco; viceversa, una fama negativa non toglie nulla, per cui, prima o poi, cade nell’indifferenza.

Venendo a mancare quella parte di società che fissa le regole di comportamento generali, non solo non ci sono più buone maniere, ma non ci sono nemmeno maniere, nel senso che ogni italiano fa regole e maniera a sé. Priva di un vero avvenire economico e sociale, la società è concentrata sul presente e non riflette su progetti e piani per il futuro. Altrove, è la stessa società generale, fondata sulla tendenza dell’uomo a imitare coloro di cui subisce in qualche modo l’influenza, a rimanere l’unico rimedio contro la presa di coscienza dell’inutilità del proprio agire. In altre parole, se ci si convince che gli altri hanno cura e rispetto della vita, si da valore e significato all’esistenza; anche il più scettico e disilluso viene trascinato ad apprezzare la vita, viverla in piena attività e impegnarsi per essa. 

Queste convinzioni possono circolare solo in una società ispirata da solidi principi morali (siano pure illusorii), per tanto, nemica della società vera è la vita dissipata e corrotta tipica della classe medio-alta d’Italia: una vita totalmente concentrata sulla quotidianità e il soddisfacimento di ogni desiderio, istinto e impulso soggettivo ed egoistico. Inevitabilmente, si generano conseguenze nefaste: l’indifferenza, il cinismo, il ridere di sé e degli altri, il disprezzo per tutto e per tutti. Atteggiamenti tipici, questi, di chi vive nel disprezzo della vita. In questo campo gli italiani hanno un triste primato: il loro reciproco rapporto si riduce a un’inesorabile guerra di tutti contro tutti, condotta attraverso la presa in giro, l’offesa e la denigrazione. Sarebbe ingenuo credere che in altre nazioni la società non abbia i suoi difetti, che poi sono i difetti comuni a tutte le società umane: dappertutto esiste l’egoismo, che è frutto della naturale predisposizione dell’uomo a emergere, ma in Italia questi difetti sono più gravi, più frequenti, più diffusi, più funesti. 

L’Italia moderna non possiede nuovi fondamenti morali e, tuttavia, ha perso quelli antichi distrutti dalla stessa civiltà. Gli italiani non hanno solidi e coerenti costumi, ma soltanto usanze e abitudini, passivo adeguamento ai comportamenti altrui. Ne consegue che il livello morale è più basso là dove più limitata è la circolazione della civiltà moderna e della sua cultura ed è più alto dove c’è più civiltà di ragione. A questo si aggiunga che, proprio perché caldi ed esuberanti di natura, gli italiani si sono raggelati e intorpiditi quando hanno provato il disinganno operato dai progressi della ragione; al contrario, i popoli settentrionali, meno inclini al calore dell’entusiasmo, hanno meglio resistito alla caduta dell’antica tensione ideale. Da ciò nasce che l’Italia oggi è del tutto priva di una filosofia e di una letteratura proprie, benché in passato sia stata all’avanguardia proprio in virtù della sua immaginazione, mentre è indiscussa l’attuale supremazia dei popoli settentrionali, che sono diventati i più caldi, i più sentimentali e i più intimamente legati a correnti mistiche e religiose. Laddove in Italia la stessa religione è fredda adesione conformistica, nei popoli settentrionali pare che si siano innestate le forme, le passioni e l’immaginazione dell’età antica. È venuto ormai il tempo del settentrione, e la civiltà meridionale è al suo tramonto: questo processo è appena agli inizi e bisogna credere che esso durerà a lungo. Con questa costatazione, e con l’auspicio della definitiva affermazione della modernità, si chiude il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani.

Nell’economia del Discorso vanno considerati almeno tre spunti di particolare originalità. Innanzitutto, la tensione verso una società veramente moderna e vitale, che aspiri a eguagliare i fasti e la gioia dell’età classica, pur nella ferma convinzione che sono ormai impossibili salti all’indietro. Secondo elemento, anch’esso nuovo e originale, la convinzione che le forme della più avanzata civiltà siano ormai proprietà e conquista dei soli popoli settentrionali. Infine, la lucida analisi di Leopardi a proposito dei ceti abbienti e della borghesia intellettuale dell’Italia moderna.

Siamo alle ultime pagine dello Zibaldone e sono passati circa quattro anni dal Discorso, ma le convinzioni di Leopardi sulla funzione della borghesia intellettuale italiana non sono cambiate. Se un popolo è in stato di semi barbarie, ciò avviene perché le sue élites non sono riuscite a liberarsi dei ceppi della cultura vecchia. È questo che caratterizza in negativo il Mezzogiorno d’Italia rispetto al resto della Nazione e l’Italia rispetto all’Europa. Senonché Leopardi non è uno storico. In lui lo spessore sociologico e perfino antropologico supera la dimensione storica vera e propria e, forse, l’eccezionale sensibilità dell’analisi psicologica, degli individui come delle masse, supera le ambizioni di inquadramento sociologico. Leopardi ha il senso dei tempi lunghi dell’evoluzione storica: produzione, commerci, tecnologie, istituzioni, culture, comportamenti, valori, lingue e tende a collegare strutture fattuali e strutture mentali in modo che, volta per volta, tutto si tenga insieme e si spieghi alla luce di una sola idea forte. Ma proprio per questo non bisogna chiedergli quando, come e perché una data struttura si sia evoluta in altre.

Il Discorso di Leopardi invita, inevitabilmente, a fare una riflessione: dopo due secoli, che ne è dei costumi degli italiani. La lettura di questo saggio spinge a chiedersi se sono avanzati culturalmente, eticamente e moralmente; oppure sono rimasti fermi nell’arretratezza sociale che li ha caratterizzati sin dal secolo dei lumi o, addirittura, sono arretrati inesorabilmente verso un declino sociologico, antropologico e psicologico che li pone fuori dalla contemporaneità.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Leonardo Sciascia: “La scomparsa di Majorana” , di Sonia Di Furia

Nel dicembre del 1975, subito dopo la pubblicazione de “La Scomparsa di Majorana”, Leonardo Sciascia, in un articolo apparso sulla Stampa, spiega le motivazioni che lo avevano portato a scrivere di quell’enigma insoluto. Lo fa attraverso le parole di Albert Camus: “Vivere contro un muro, è vita da cani. Ebbene, gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle facoltà, hanno vissuto e vivono sempre più come cani. Grazie anche alla scienza, grazie soprattutto alla scienza“. Camus dice anche: “Io ne ho abbastanza della gente che muore per un’idea. Non credo nell’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. A me interessa che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano”. L’accusa lanciata da Camus è che un cane e un muro rappresentano la limitazione della libertà come condizione di vita; la situazione in cui si è senza quella via di uscita che delinea l’impotenza umana. A quel punto chiunque si sente direttamente coinvolto e spinto a cercare di riconoscere la via che conduce al muro, la possibilità di evitarla, e il pensiero va a coloro che si sono rifiutati di costruire quel muro. 

Il testo che si prende in considerazione è pubblicato da Adelphi nella ristampa del 1997, con un saggio di Lea Ritter Santini, che in origine accompagnava la traduzione tedesca della Scomparsa di Majorana (Der Fall Majorana), poi riproposto nell’ambito dell’edizione einaudiana del testo di Sciascia. Ritter Santini cita Bertolt Brecht, Vita di Galileo: “E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale“. Segue l’affermazione di Albert Einstein al fisico Max Born, 29 aprile 1924: “L’idea che un elettrone esposto a una radiazione scelga liberamente l’attimo e la direzione in cui vuole saltare mi è insopportabile. In questo caso preferirei fare il ciabattino o addirittura il croupier in un casinò piuttosto che il fisico”.

Quando uscì, il libro fu accolto in Italia con accese polemiche. Il fisico Edoardo Amardi, nell’Espresso del 5 ottobre 1975, prese posizioni critiche nei suoi confronti, affermando che l’ipotesi di Sciascia fosse “priva di fondamento“, in quanto Majorana non avrebbe potuto presagire la forza distruttrice dell’energia atomica, in quanto, in quegli anni, la scienza non sarebbe stata in grado di concepire gli anelli della catena che ancora mancavano per arrivare all’energia nucleare. In Germania, invece, la tesi di Sciascia aveva incontrato l’attenzione dei protagonisti del dibattito che seguì la scoperta dell’elemento n. 93, Ida Noddack e Fritz Strassmann.

Sciascia aveva ottenuto notorietà già nel 1961 con l’opera “Il giorno della civetta”, con cui portava all’attenzione dell’opinione pubblica la questione della mafia, spesso trascurata o minimizzata dall’informazione e dagli organismi stessi del potere. Egli insisteva sul pericolo della potente organizzazione criminale, sull’oscura rete di collusioni che la legava al potere politico, suscitando con le sue posizioni aspre polemiche. Con “La scomparsa di Majorana”, che fa parte di una serie di brevi opere dedicate alla ricostruzione di casi di cronaca misteriosi, recenti o lontani, Sciascia si propone di seguire le tracce di un caso, di un destino umano mai chiarito, che appartiene ormai alla storia della scienza e ha suscitato sconcerto e inquietudine negli ambienti accademici e intellettuali italiani. Un mistero che, ancora oggi, la polizia non è riuscita a risolvere. Certo è che Sciascia ha sempre percorso vie scomode e anche in questo caso non si accontenta di seguire quella più lineare.

Dietro al breve romanzo, come in quasi tutte le trasposizioni letterarie dell’autore di fatti realmente accaduti, c’è il lungo e approfondito lavoro sui documenti e, ancora prima, la ricerca di fonti, tracce, ricordi, testimonianze. La ricerca inizia negli archivi della polizia fascista per visionare gli atti burocratici che collegavano la scomparsa del giovane fisico Ettore Majorana a implicazioni poco chiare di carattere politico. La ricostruzione della vicenda parte dal marzo 1938, quando lo scienziato siciliano, secondo i documenti, si sarebbe imbarcato a Palermo per raggiungere Napoli, città dove non arrivò mai. Il romanzo d’indagine inizia con una lettera che l’allora senatore Giovanni Gentile invia al senatore Arturo Bocchini, capo della polizia, con la preghiera di ricevere e ascoltare il dottor Salvatore Majorana, fratello del fisico scomparso. Una nuova traccia, infatti, suggeriva di riaprire il caso e ispezionare i conventi di Napoli e dintorni, forse di tutta l’Italia meridionale e centrale. Ma si sa, la scienza come la poesia sono a un passo dalla follia e Bocchini, che si era informato sulla vicenda, si era fatto l’idea, per esperienza e mestiere, che vi fossero in atto due follie: quella dello scomparso e quella dei familiari. Era plausibile che Majorana si fosse buttato in mare o nel Vesuvio o avesse scelto qualche altro genere di morte e la famiglia, come succede nei casi in cui non si trova il cadavere, era entrata nello stato di follia che le faceva credere che fosse ancora vivo, magari ritiratosi in convento.

Ettore Majorana era un giovane scienziato riservato e solitario ed Enrico Fermi lo definì uno di quei geni che compaiono una, massimo due volte nel corso di un secolo. Egli, nel 1933, aveva trascorso alcuni mesi in Germania, presso l’Istituto di Fisica dell’Università di Lipsia, da Werner Heisenberg. Nei mesi in cui visse in Germania, Majorana aveva stretto un forte legame di amicizia con Heisenberg, uomo che viveva il problema della fisica dentro un vasto e drammatico contesto di pensiero. Era, per dirla banalmente, un filosofo. Tra quelli che avrebbero potuto fare per Hitler l’atomica, Werner Heisenberg era senz’altro il più importante. Infatti, i fisici che lavoravano a farla in America credevano, fino all’ossessione, che la stesse realizzando. Va da sé, secondo Sciascia, che il legame professionale, oltre che umano, tra Majorana e Heisenberg fosse troppo stretto perché il primo non fosse a conoscenza, o addirittura non partecipasse, degli studi portati avanti nel centro di Lipsia dal secondo.

Chi conosce, sia pure molto sommariamente, la storia dell’atomica, sa che ci furono fisici mentalmente liberi e schiavi. I primi non si fecero problemi di ordine etico: la proposero, vi lavorarono, la misero a punto e la consegnarono ai politici e ai militari; gli altri ne ebbero paura, sentirono angoscia e preoccupazione per gli esiti disastrosi che lo scoppio avrebbe causato sugli uomini. E non cambia molto che gli schiavi l’avrebbero consegnata a Hitler, il dittatore di fredda e atroce follia, mentre i liberi la consegnarono a Truman, colui che rappresentava la democrazia americana. Hitler avrebbe deciso esattamente come Truman decise: fare esplodere la bomba su città accuratamente e scientificamente scelte fra quelle raggiungibili di un paese nemico.

Tornando alle indagini della polizia, alcuni giorni dopo il colloquio tra il dottor Salvatore Majorana e il senatore Bocchini, il caso fu chiuso e archiviato. Solo negli ambienti della bassa burocrazia nacque il sospetto che ci fosse un intrigo spionistico contro gli interessi degli italiani e la difesa nazionale a capo della scomparsa del fisico, considerato l’unico che poteva proseguire gli studi di Guglielmo Marconi, per cui un oscuro complotto lo aveva levato dalla circolazione. Era, appunto, un favoleggiare e Arturo Bocchini lo sapeva bene. D’altra convinzione era Fermi che disse: “Con la sua intelligenza, una volta che avesse deciso di scomparire o di far scomparire il suo cadavere, Majorana ci sarebbe certo riuscito“.

Per Sciascia nessun investigatore sarebbe stato in grado di portare a conclusione un simile intricato caso, l’unico che considera all’altezza proviene dalla  letteratura di genere: è il detective straordinario Dupin, nato dalla penna di Edgar Allan Poe, ispirato dal cavaliere Carlo Augusto Dubin, precursore dell’indagatore moderno, protagonista del racconto “La duplice tragedia nella via Morgue”. 

Mussolini, che aveva ricevuto una “supplica” dalla madre di Ettore e una lettera da Fermi, chiese il fascicolo al capo della polizia. Dopo averlo letto, scrisse sulla copertina: “Voglio che si trovi”, seguito da una postilla di Bocchini: “I morti si trovano, sono i vivi che possono scomparire”. Si sospettò di tutto, anche che fosse stato rapito o fosse fuggito all’estero. È possibile che del caso si siano interessati i servizi segreti; che le ricerche siano state attente e intense, se non febbrili. Di questa attività non è rimasta traccia nell’archivio della famiglia, solo la “supplica” e la lettera di Fermi. Siamo alla fine di luglio 1938. Il 14 era stato pubblicato il Manifesto della razza. Fermi, già insicuro e in animo di emigrare, ritirò il Nobel assegnatogli stringendo la mano al re di Svezia, senza fare il saluto romano, ed emigrò negli Stati Uniti.

Sciascia non segue l’ipotesi della follia che porta al suicidio, ma quella che il silenzioso e introverso giovane professore potrebbe aver scelto il ritiro assoluto del chiostro, l’impotenza del silenzio per paura o insicurezza di fronte ai grandi interrogativi che la scienza gli imponeva. L’autore sceglie la libertà di credere a quest’ultima ipotesi, rispetto alle altre più semplici e tranquillizzanti. Si spinge a pensare che Ettore Majorana potrebbe aver riconosciuto e calcolato la potenza dell’energia atomica qualche mese prima che l’avvenuta scissione dell’atomo fosse resa nota e avrebbe provato orrore e terrore tali da fargli prendere la decisione di scomparire.

 Al problema della perdita d’identità, all’alienante estraneità dell’individuo in un mondo che gli appare fittizio e minaccioso, all’inesorabile tormentoso interrogativo dei rapporti fra la propria esistenza e i riflessi che vengono percepiti dagli altri è legato, inevitabilmente, il nome di Luigi Pirandello. Siciliano come Sciascia, siciliano come Majorana. È certo, infatti, che alla base della sua visione del mondo vi sia una concezione vitalistica, che è affine a quelle di varie filosofie del ‘900 (in particolare quelle di Henri Bergson e di Georg Simmel): la realtà è tutta vita, perpetuo movimento vitale, inteso come eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all’altro, “flusso continuo, incandescente, indistinto“, come lo scorrere di un magma vulcanico. Tutto ciò che si stacca da questo flusso, e assume forma distinta e individuale, si rapprende, si disgrega, si smarrisce, si perde; i suoi confini si fanno labili e la consistenza si sfalda nel naufragio di tutte le certezze. La crisi dell’idea d’identità e di persona risente evidentemente dei grandi processi in atto nella realtà contemporanea, dove si muovono forze che tendono proprio alla frantumazione e alla negazione dell’individuo. Proprio nel ‘900 si affermano quelle tendenze spersonalizzanti della società i cui echi ed estreme conseguenze arrivano fino a noi: l’instaurarsi del capitale monopolistico, che annulla l’iniziativa individuale e nega la persona in grandi apparati produttivi anonimi; l’espandersi della grande industria e dell’uso delle macchine, che meccanizzano l’esistenza dell’uomo e riducono il singolo a insignificante rotella di un gigantesco meccanismo, priva di relazioni e di coscienza; la creazione di sterminati apparati burocratici che annullano l’individuo in quanto tale e cancellano la sua interiorità, riducendolo alla sua pura funzione esteriore; il formarsi delle grandi metropoli moderne, in cui l’uomo smarrisce il legame personale con gli altri e diviene una particella isolata e alienata nella forma anonima.

Sciascia, riprendendo la poetica pirandelliana, lascia indovinare quale trappola pericolosa e micidiale può diventare la scienza, quando l’azione combinata dei dati “tempo, spazio, evento” mette in moto il suo meccanismo. E la trappola può evocare solo l’immagine dell’animale che, attirato fuori strada, crede di trovare la via giusta nell’imboccare una nuova entrata; invece, è costretto a continuare a vivere nella grande gabbia della scienza, prigioniero dei suoi costruttori. Il rifiuto di servirli anche quando, come nel caso di Majorana, si appartiene alla scienza in maniera esistenziale, rimane l’appello che l’enigma attorno al giovane fisico italiano scomparso rivolge ai lettori. Così come il fisico Mobius, nel dramma di Friederich Durrenmatt, rinnega la sua scienza, perché essa può solo nuocere alla comunità: “Siamo giunti, nella nostra scienza, ai confini dello scibile… Abbiamo raggiunto il traguardo del nostro cammino. Ma l’umanità non c’è ancora arrivata … La nostra scienza è diventata tremenda, la nostra ricerca pericolosa, la nostra conoscenza mortale. Non resta per noi fisici che la capitolazione di fronte alla realtà… Dobbiamo rinnegare la scienza, e io l’ho rinnegata. Non c’è nessuna altra soluzione, nemmeno per voi“.

Sciascia (e Pirandello) ci consegna la visione di un “io”, ora più che mai attuale, che si disgrega e smarrisce la sua identità personale. Non solo noi stessi ci fissiamo in una forma, anche gli altri con cui viviamo in società, vedendoci ciascuno secondo le sue prospettive particolari, ci danno determinate forme. Noi crediamo di essere uno per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda. Ciascuna di queste forme è una costruzione fittizia, una maschera che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale. Sotto questa maschera non c’è un volto definito, immutabile: non c’è nessuno o, meglio, vi è un fluire indistinto e incoerente di stati in perenne trasformazione, per cui un istante più tardi non siamo quello che eravamo prima.

Pirandello fu influenzato dalle teorie dello psicologo Alfred Binet sulle alterazioni della personalità, ed era convinto che nell’uomo coesistessero più persone, ignote a lui stesso, che possono emergere inaspettatamente; condusse quindi una critica serrata al concetto di identità personale, di “io”, su cui si era fondata una lunga tradizione filosofica e a cui si appellava abitualmente la coscienza comune. Questa teoria della frantumazione dell’io in una varietà di stati incoerenti, in continua trasformazione, senza un vero centro e senza un punto di riferimento fisso, è un dato storico significativo: nella società novecentesca entra in crisi sia l’idea di una realtà oggettiva, organica, definita, ordinata, univocamente interpretabile con gli schemi della ragione, sia un soggetto forte, unitario, coerente, punto di riferimento sicuro di ogni rapporto con la realtà. 

Come nella migliore tradizione dei cold case, Sciascia consegna al lettore una storia ancora misteriosa, che sarebbe rimasta sconosciuta se non ce l’avesse raccontata nella sua ricostruzione ipotetica, al netto di quella che rimarrà, presumibilmente, una vicenda oscura, a meno che il futuro non ci riservi un ribaltamento e un colpo di scena che spiazzi tutti.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Fausta Cialente: “Le quattro ragazze Wieselberger” – uno Strega dimenticato, di Sonia Di Furia

Questo meraviglioso romanzo, in cui l’autrice coinvolge il lettore attraverso la forza evocatrice delle parole, narra la storia delle sorelle Wieselberger e le vicende della loro famiglia, in un arco temporale che va dal 1860, anno dell’unificazione dell’Italia, alle due guerre mondiali. Si prende in considerazione l’edizione Mondadori-De Agostini nella collana “Grandi premi della letteratura italiana” del 1996. Il romanzo è vincitore del Premio Strega 1975.

Angelo Vivante l’8 dicembre del 1910 scrive su La voce: “che nella Giulia vivono da secoli due popoli; che l’uno (l’italiano) si è nutrito fin d’ora dell’altro (lo slavo) perché questo dormiva, ma ora lo slavo si è svegliato e non si riaddormenterà, mentre l’irredentismo parolaio, regnicolo e giuliano pare pagato apposta per strappare il ridesto dal letto e sospingerlo nel suo cammino. Occorre che chi parla e scrive d’irredentismo, anche professandosi tale, rinunzi a tutto il corredo delle frasi fatte. Dopo di che potrebbe anche darsi che di questo irredentismo, ritemprato in un bagno di realtà, rimanga ancora qualche cosa almen di sincero!” Questo a prefazione del libro.

 Scrive Cavour nel 1860, in una lettera a Lorenzo Valerio, regio commissario in Ancona, che aveva fatto nascere un incidente diplomatico con la Prussia, chiamando in un documento ufficiale Trieste città italiana: “Debbo pregare la S.V. di evitare ogni espressione dalla quale possa risultare che il nuovo regno italiano aspira a conquistare non solo il Veneto, ma anche Trieste con l’Istria e la Dalmazia. Io non ignoro che nelle città lungo la costa vi hanno centri di popolazione italiana. Ma nelle campagne gli abitanti sono tutti di razza slava, e sarebbe inimicarsi gratuitamente i croati, i serbi, i magiari e tutte le popolazioni germaniche, il dimostrare di volere togliere a così vasta parte dell’Europa centrale ogni sbocco sul Mediterraneo. Ogni frase avventata in questo senso è un’arma terribile nelle mani dei nostri nemici che ne approfittano per tentar d’inimicarci l’Inghilterra stessa, la quale vedrebbe essa pure di malocchio che l’Adriatico ridivenisse com’era ai tempi della repubblica veneta, un lago italiano. (Tratto da <<Irredentismo Adriatico>> di Angelo Vivante ed. Parenti). Ancora a  prefazione al libro.

Le prime tre sorelle si chiamavano Alice, Alba e Adele, la quarta Elsa. Adele era bellissima, la più bella fra tutte, non solo in famiglia. Una bionda con grandi occhi neri, alta e snella, e nessuno poté mai sapere quanti cuori palpitarono al suo passaggio mentre in cima alla torre Mìkeze e Jàkeze battevano le ore.  Era il 1872 e, nonostante non fosse lei l’ultima depositaria dell’iniziale che era toccata alle altre, fu quella che, all’incirca diciottenne, ebbe l’occasione di danzare più volte, durante i balli della famosa Società Filarmonica triestina, con quel signor Ettore Schmitz che si rivelerà essere Italo Svevo.

Quando, nei primi decenni del 1800, Vienna aveva preso la decisione di far ampliare il porto di Trieste, che godeva del privilegio di essere porto franco dal 1719, per merito di Carlo VI, padre di Maria Teresa, e poiché ciò causava l’inevitabile progredire dell’edilizia, il governo austriaco aveva mandato in città i suoi più celebri architetti e i suoi più rinomati costruttori. Questo spiegava il carattere viennese che era rimasto ai vecchi quartieri nobili della città, ma come lo stile si fosse mantenuto anche dopo; difatti, assai più tardi la piazza della Posta veniva rifatta, tale da sembrare una piazza di Vienna. Anche il Lloyd triestino, sede della compagnia di navigazione, stava per nascere.

 Nella casa della famiglia Wieselberger il tempo passava e scorreva a un ritmo idilliaco di musica, dolci affetti, vivere cauto ma sereno. Erano anni violenti, in cui la storia non aveva insegnato veramente nulla: l’ombra del Grande Impiccato sarebbe tristemente caduta dal capestro sulla terra (Guglielmo Oberdan, patriota irredentista italiano, impiccato il 20 dicembre 1882 dalla giustizia austriaca per alto tradimento e diserzione in tempo di pace, avendo confessato le intenzioni di attentare alla vita dell’imperatore Francesco Giuseppe); e il re, cosiddetto buono, sarebbe caduto sotto i colpi dell’anarchico Bresci (per vendicare le vittime di Milano, uccise durante le 4 giornate, conosciute come i moti del pane, e punire il comportamento tenuto dal sovrano, l’anarchico italiano, Gaetano Bresci, che viveva in America, tornò in Italia per uccidere re Umberto I di Savoia. I moti iniziarono il 6 maggio 1898 fra gli operai della Pirelli, che accusavano il governo di essere responsabile della carestia che subiva il popolo). Nel frattempo, nella loro villa di campagna, le ragazze continuavano a fare musica, avendo tutte studiato fin da bambine pianoforte con maggiore o minore disposizione. Elsa era anche brava nel canto; la Bella leggeva poesie in lingua italiana e tedesca; Alba, la scorbutica, considerata da tutti l’intellettuale della famiglia, l’ascoltava con passione. 

La villa confinava con un possedimento ancora più ricco e vasto che apparteneva a una famiglia ebrea, i cui discendenti avevano cominciato ad arricchirsi mezzo secolo prima in Somalia ed Eritrea. Molti anni dopo, gli eredi sarebbero andati tutti in rovina, quando le generazioni fortunate erano già scomparse. Uno degli avvenimenti più elettrizzanti che aveva luogo durante la villeggiatura era la vendemmia. Quelle erano giornate quasi sempre bellissime. I vendemmiatori erano in maggioranza sloveni, amici o parenti di Ursula e suo marito Giacomo, i contadini- guardiani della tenuta, anch’essi sloveni. I rapporti con i due coloni erano sempre stati buoni e cordiali e la famiglia non si sarebbe mai permessa in loro presenza e nei loro riguardi un linguaggio men che rispettoso. Nel privato, invece, avevano anch’essi la deprecabile abitudine di chiamarli in dialetto “s’ciavi” o, meglio, “sti maledeti s’ciavi”, incapaci com’erano di interpretare la realtà e capire la situazione nella quale la lunga e abile mano dell’impero austriaco apponeva e aizzava gli uni contro gli altri, in modo che tutti si sentissero offesi e provocati. 

Trieste non decadeva, ma questo non dipendeva dal buon volere o la generosità degli Asburgo ai quali si era affidata completamente, ma per l’inarrestabile decadenza di Venezia. Ciò le permetteva di sviluppare i suoi commerci, ma la incorporava sempre di più nell’impero austriaco, rendendola la porta occidentale dell’immenso retroterra orientale, un destino al quale sembrava naturalmente e geograficamente legata. Gli orrori del razzismo erano ancora lontani; un paio di generazioni sarebbero nel frattempo maturate, invecchiate e morte, ma certi discorsi e toni erano già l’alba dell’orrore. 

Gli avvenimenti che suscitarono nuove memorabili emozioni nella famiglia, al di fuori della permanente ossessione irredentista che ogni tanto saltava fuori nelle discussioni, furono le nozze della primogenita Alice e, qualche anno dopo, la partenza per l’Italia della giovane Elsa, che si recava a Bologna a studiare canto. Il matrimonio di Alice aveva introdotto l’elemento ebraico nella famiglia, che era conosciuta anche per non essere particolarmente osservante del proprio cattolicesimo. Negli anni però il padre aveva preso l’abitudine di dire con ironico disprezzo “quell’ebreo” riferendosi al genero, non particolarmente stimato. In realtà, in mezzo a tante questioni politiche che esacerbavano gli animi e agitavano la città e le campagne, a Trieste l’antisemitismo non era particolarmente diffuso a quei tempi o, perlomeno, non era ostentato, forse perché la comunità ebraica era una delle più ricche e potenti fra gli alti ceti sociali e una simile avversione non si era palesata. 

I sentimenti familiari verso i parenti erano ondeggianti, insicuri, ostacolati dalle vicende storiche, quindi poco inclini all’affetto; nonostante ciò, le ragazze non riuscivano a capire perché un ebreo dovesse valere meno d’un cristiano, anzi non sapevano addirittura dove fosse la differenza. Loro, d’altronde, erano state tenute fuori da qualsiasi pratica religiosa, a scuola erano perfino esenti dalle lezioni di catechismo, che del resto non sempre faceva parte del programma scolastico nell’Italia laica di quei tempi. Pensavano che, quando si è messi difronte a un tempio e invitati ad ammirarne l’architettura, che il tempio dove la gente usa raccogliersi e pregare sia cattolico o ortodosso, sia una sinagoga o una moschea, sono dettagli puramente formali. Ciò che esse guardavano era la pura bellezza.

Da tempo, Lidia, la cugina maggiore, amoreggiava con Felice, nipote del famoso Giacomo Venezian, morto nella difesa della Repubblica Romana nel 1849, in pieno Risorgimento. Anch’esso ebreo, giovane intriso dell’irredentismo familiare, era diventato gran capo del partito nazionalista triestino e della Lega Nazionale. Nel 1908 l’uomo morì e la numerosa comunità irredentista gli riconobbe il merito di aver voluto creare a Trieste le condizioni politiche necessarie a denunciare la Triplice alleanza (Germania, Austria-Ungheria, Regno d’Italia), cosa che puntualmente accadde sette anni dopo allo scoppio della guerra con l’Austria.

In realtà, già allora gli avversari non erano più gli “austricanti”, coloro che alla fine dei conti avevano rappresentato e difeso i grossi interessi di una città tanto ricca, dipendente da uno Stato ancora ricchissimo e potente, e non avevano mai voluto compromettersi con un irredentismo troppo acceso. Gli avversari erano fatalmente diventati i socialisti insieme agli sloveni, una minoranza, indubbiamente, ma la cui nascente solidarietà dava fastidio e forse preoccupava. Questo spiega la trionfale votazione che ebbero gli irredentisti nel 1897.

Dieci anni dopo, la situazione era capovolta e la ricca e ottusa borghesia, nei suoi discorsi, non lasciava mai entrare le questioni dei lavoratori, sembrava anzi volerle ignorare. Nella forma di governo che essa auspicava per la città, quando fosse “divenuta italiana”, la voce dei lavoratori era esclusa. Respingeva la massa condannandola all’emarginazione per antica miseria. Al razzismo, che stava alla base dell’annosa e insoluta questione slovena, si aggiungeva, quindi, l’incomprensione o addirittura l’indifferenza, quando non la sprezzante ostilità nei riguardi dei lavoratori; ma il peso degli enormi sbagli commessi nell’Ottocento, che non furono solamente triestino- irredenti, ma italiani, avrebbero finito, dopo una disastrosa Prima guerra mondiale, per trascinare la nazione italiana nel fascismo, e Trieste con essa. 

Non si dovette aspettare molto, perché le roventi trattative dell’Austria con la Serbia e la Russia, la tracotanza della Germania, le faticose diplomazie della Francia e della Gran Bretagna, che erano durate tutto il mese di luglio, non servirono a nulla: il primo giorno di agosto l’Austria dichiarava guerra alla Serbia e, pochi giorni dopo, la Germania invadeva il Belgio, mentre l’Italia rimaneva neutrale poiché, ufficialmente, la guerra di aggressione dell’Austria era contro il carattere difensivo della Triplice. 

Per quello che riguardava i Wieselberger, erano in quel momento soltanto una famiglia allo sbaraglio costretta a trasferirsi a Firenze. Gli stolti ottimisti che l’estate precedente avevano annunciato il “Tutto finito” per Natale, cioè tutti a casa per il Natale 1914, erano stati tragicamente smentiti dall’autunno e dall’inverno appena trascorsi. La guerra si era svolta soprattutto nelle trincee e si era abbattuta in maniera talmente nefasta e mortale sulle milizie, da portare il soldato Giuseppe Ungaretti ad esprimersi attraverso la parola poetica che interagiva con la storia, quella privata del poeta e quella collettiva dell’umanità.

 Trascorreva intanto quel terribile 1916 e iniziava l’anno più drammatico, il 1917. Gli Stati Uniti erano entrati in guerra al fianco degli Alleati, grosso smacco per gli Imperi Centrali; lo zarismo era crollato in Russia e la parola bolscevismo spaventava tutti. La massa dei combattenti, ormai stremata, non era più formata dagli “eroici soldati che si sacrificavano per l’onore e la grandezza della patria”, ma da “ignobili simulatori” che fingevano di combattere e invece se la squagliavano appena potevano, preoccupati soltanto di riportare “la pancia a casa, la pancia per i fichi”. C’era, insomma, già la puzza di Caporetto che il 24 ottobre sarebbe caduta, seguita dal cedimento del pilastro difensivo del Monte Maggiore.

Qualche anno dopo la fine della guerra, il fascismo si era messo al servizio di una miope politica di conservazione e andava facendosi le ossa. La borghesia, sia gli industriali del nord che gli imprenditori agrari del sud, finalmente si vendicava sulla massa di tutte le paure sofferte dopo Caporetto, le rivolte, gli scioperi, le settimane rosse, e si proponeva di agguantare il potere. Da Milano, una sparuta e scarsa marmaglia in camicia nera e nappe ballonzolanti si radunava in piazza del Duomo per la Marcia su Roma. Seguivano l’assassinio di Matteotti, la morte di Gobetti e di Gramsci e più tardi la guerra d’Etiopia e la Seconda guerra mondiale. Dopo di essa, finisce un’epoca maledetta, durante la quale, ad una ad una se n’erano andate le protagoniste Wieselberger, ormai anziane ma sempre vive nel tragitto della storia.

L’autrice, nel consegnare alle stampe le “sue quattro ragazze”, si libera della dolorosa fatica di chi tornando con la mente indietro nel tempo, negli anni e nei decenni, non può rimanere distaccato dalla storia che non è, come afferma Pasolini, unica e unilineare, ma ha un suo spessore fatto di persone, luoghi e vicende, gioie e sofferenze. In questo libro, Fausta Cialente ci ha raccontato la sua storia per come l’ha vissuta e si è svolta, a cominciare dalle sue antenate.

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Pier Paolo Pasolini: “Petrolio” – una partita ancora aperta, di Sonia Di Furia

Non è facile scrivere di Petrolio e non è opportuno esprimere pareri soggettivi, quindi ne parlerò e basta. E proverò a ragionare sulle emozioni, le sensazioni e i pensieri che questa lettura mi ha costretto a provare.

 Non è mia prassi soggettivizzare una storia, ma l’onestà fino alla scomodità di questa mi costringe a scriverne cercando una qualche angolazione che mi convinca.

Mi imbattei nel titolo quando, durante il mio lavoro di docente di letteratura e storia, lo trovai collegato ai fatti delle stragi di Milano del 12 dicembre 1969 e di Brescia e Bologna dei primi mesi del 1974 per i quali, in un articolo scritto sul Corriere della Sera, intitolato “Che cos’è questo golpe”, Pasolini affermava di conoscere i nomi dei responsabili di quello che veniva chiamato golpe, delle stragi, del vertice che ha manovrato, ha gestito, ha dato disposizioni.

Decisi di andarlo a prenotare personalmente in edicola, quando ancora mi piaceva e non mi pesava (solitario lupo irpino) il contatto fisico e colloquiale con le persone; andai a ritirarlo, portando con me le 638 pagine dell’edizione Oscar scrittori moderni del 2005. 

Proseguii le mie ricerche alla scoperta del mondo pasoliniano, del quale non mi ero interessata granché, troppo presa in quegli anni dai poeti tra le due guerre del ‘900. Lessi Patmos, rappresentabile come orazione laica per voci e megafono; poemetto scritto all’indomani, 13 e 14 dicembre, della strage di piazza Fontana. Patmos era il nome dell’isola greca in cui l’apostolo Giovanni aveva scritto l’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, contenente le rivelazioni relative al destino finale dell’umanità, fatte da Gesù Cristo al suo servo Giovanni. Patmos era l’asciutta e composta reazione dell’autore alla notizia, a casa di Antonioni con Moravia, che un ordigno di sette chili di tritolo era esploso alle 16:37 nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura e aveva causato 17 morti e 86 feriti.

Tornai alla lunga e difficile lettura del romanzo non finito, al quale Pasolini stava ancora lavorando quando fu ucciso, tra il primo e il 2 novembre 1975, e cominciai a chiedermi presto perché avesse voluto parlare di bassi impulsi sessuali, restituendomi una scomoda visione dell’uomo dietro lo scrittore, plausibilmente forzata. Pensai di abbandonare, ma la lettrice che era in me mi suggeriva di andare fino in fondo se volevo provare a capire che uomo era Pasolini e cosa mi stava dicendo.

Continuai la lettura e contemporaneamente presi ad ampliare la conoscenza sulla sua produzione. Fu inevitabile imbattermi (Appunto 103° a) nella “Lettera a Malvolio”, poesia emblematicamente polemica che Montale aveva scritto in risposta a Pasolini, il quale aveva in un certo senso censurato “Satura” per l’atteggiamento tiepido dimostrato dal poeta sugli argomenti più controversi della politica contemporanea: il conflitto sociale, le stragi e, a livello internazionale, la guerra del Vietnam. 

Mentre andavo avanti nella lettura di Petrolio, leggevo che quel libro presupponeva un pubblico di lettori che nessun Dio dei libri era ancora riuscito a creare in Italia. Mi sentivo investita di una grave responsabilità.

 Le descrizioni paesaggistiche erano poetiche; le analisi sociologiche lucide e analitiche. Petrolio era bello, poetico, a tratti dannatamente scandaloso, e mi obbligava a demolire i miei muri mentali e mi invitava a non rifiutare le bassezze descritte senza filtri e autocensure perché, se avessi voluto capire la vita e il mondo, la mia conoscenza di essi avrebbe dovuta essere ampia o per lo meno avviata. Mi trovavo davanti a un libro che pareva uccidermi e farmi risorgere ad ogni Appunto.

Andando avanti Pasolini mi spostava da una dimensione all’altra e mi segnalava che lo spirito critico, una volta messo in moto, non poteva fermarsi (se non per un atto artificiale di volontà). La sua capacità descrittiva era visionaria, come non avevo ancor incontrato in nessun altro scrittore, se non in Dante.

D’un tratto mi parlava di politica e affermava che ai politici non importa niente dei poveri e agli intellettuali dei giovani; della borghesia italiana, la quale per lo 0,06 per cento legge ogni tanto un libro e di essa lo 0,01 per cento avrebbe finito per costituire l’élite intellettuale che avrebbe dovuto dissociarsi dalla società in cui operava. In realtà non era così. La vera e propria intelligencija, quella che veramente contraddiceva la borghesia e veramente si opponeva ad essa, era ancora più ristretta: alcune migliaia di persone sparse qua e là per la nazione. L’occhio di Pasolini luccicava di ironia nel guardare le cose, gli uomini, “i vecchi imbecilli al potere”, “i giovani che credono di incominciare chissà che”.

Continuando il mio viaggio esplorativo in quella vita e in quel mondo, nelle dinamiche sociali nazionali e internazionali, mi imbattevo nella Santità, attraverso la quale si può raggiungere il Potere ed era proprio il Diavolo a dirlo: <<tu otterrai il Potere attraverso la Santità!>> scomparendo, dopo essersi fatto una risatina rassicurante.

Sapevo che non sarei uscita indenne da quelle pagine, o almeno uguale a prima, e insistevo.

Avendo Carlo, il protagonista, il suo alter ego in un secondo Carlo, avrei potuto incorrere nell’errore di considerare quegli scritti un romanzo sulla dissociazione, al contrario si parlava dell’ossessione dell’identità e la sua frantumazione. “La dissociazione è ordine” precisava Pasolini, “L’ossessione dell’identità e la sua frantumazione è disordine”. 

 E arrivai all’Appunto 43° “La continuità della vita quotidiana” in cui Pasolini metteva in scena una complessa impalcatura sintattica per spiegare che i tempi verbali del presente e del passato remoto testimoniavano la volontà di concepire la storia come unica e unilineare, mentre l’imperfetto incoativo (il ripetersi abitudinario delle azioni per un periodo lungo) riportava il dato dello spessore della storia. La vita, insomma, che diventava ricordo. 

Pasolini m’illuminava, ma mi portava anche sulle montagne russe.

Procedevo con i dati dell’Africa, e dell’Eni che aveva investito miliardi senza trovare petrolio; poi del Medio Oriente, nel golfo Persico precisamente, dove il petrolio era stato trovato ed era potuto entrare in funzione lo Scarabeo, la famosa piattaforma galleggiante. Seguiva l’amara considerazione riguardo la trasformazione del mondo, la distruzione di culture tradizionali e reali, sostituite da quella nuova alienante e omologante; l’interruzione della vita nei villaggi e nei campi, svuotati e contaminati dalle nuove civiltà che li ricopriva di immondizia, rifiuti, oggetti innaturali. E poi la morte di Feltrinelli e la lotta per il potere fra “opposti estremismi”, in un’Italia avviata verso “l’Edonismo del Consumo” durante “il Governo Andreotti”.

Arrivai all’Appunto 97 e alla nota 53. Carlo entrava nelle sale del potere e raggiungeva il <<cerchio più stretto della Rosa>>, con chiara allusione all’Empireo del Paradiso di Dante. In fondo, motore immobile, stava Saragat. Leggevo i nomi illustri di De Gasperi, Segni, Mancini. Tutti erano presi dal gioco del potere; tutti interessati all’Eni e l’Iri che, nel frattempo, mettevano a disposizione fondi ai partiti. 

La capacità che aveva Pasolini di leggere le dinamiche politiche e sociali mi impressionava; la sua cultura era vasta, estesa e profonda; il coraggio della sua denuncia disarmante. Citava autori e testi mai sentiti, come Anna Banti e “La villa abbandonata”, in cui un popolo barbaro di invenzione si insediava nella pianura padana intorno a una villa romana abbandonata. Metafora del mondo contadino che, di conseguenza, era crollato, aveva perduto i propri valori, al posto dei quali si era affermato quello del superfluo. I miseri cittadini erano ormai presi dall’angoscia del benessere, corrotti e distrutti “dalle mille lire di più, che una società sviluppata aveva infilato loro in saccoccia”. Erano uomini incerti, grigi, impauriti. Nevrotici. 

Il mio viaggio finiva lì e, pensando di trovare risposte, Pasolini me ne aveva messe ancora di più in testa. Decisi allora di leggere “L’odore dell’India”.

Petrolio è uno Zibaldone, e a questo tipo di opere difficilmente si mette la parola fine. E poi c’è la questione del capitolo scomparso. 

Alla maniera montaliana, prendendo le distanze da ogni posa letteraria o pretesa di assurgere a verità, e giocando un po’ con le parole, sfido chiunque a leggere Petrolio, in una partita ancora aperta.

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Carlo Goldoni: La bottega del caffè, di Sonia Di Furia

La bottega del caffè, deliziosa commedia in prosa scritta in tre atti, viene rappresentata per la prima volta a Mantova nella primavera del 1750, in seguito a Milano e, nell’autunno e successivo carnevale, a Venezia. Ce ne parla lo stesso Goldoni nelle Mémories, inestimabile fonte di notizie circa le sue opere. Si prende qui in considerazione l’edizione dei Classici BUR Rizzoli, con l’introduzione di Luigi Lunari e la premessa al testo e note di Carlo Pedretti.

Il socievolissimo Settecento aveva conosciuto una vera e propria passione per il gioco d’azzardo, che costituiva non solo un semplice divertimento, ma anche un’ulteriore occasione per stare insieme, per coltivare relazioni e stringere amicizie galanti, naturalmente con grave pericolo per la gioventù sprovveduta. Il buon esito della “Bottega del caffè” aveva indotto Goldoni a sfruttarne sino in fondo l’argomento del gioco e a scrivere altre opere con lo stesso tema, a iniziare da “Il giocatore”, che non piacque al suo apparire e continuò a non piacere, contrariamente al “Cavaliere di buon gusto”, composto in precedenza e che, dopo un inizio incerto, aveva sfondato con il passare del tempo. 

Si trattava di un argomento attualissimo, che rispecchiava la società veneziana del Settecento, nella quale, accanto alla passione per il gioco coesisteva quella della vita di relazione, avente il suo centro proprio nelle botteghe da caffè. Queste si erano moltiplicate a dismisura e, nel 1750, sulla sola Piazza lungo le Procuratie Nuove se ne contavano circa quaranta: numero destinato a crescere con l’andar del tempo, tanto che il Senato, dieci anni più tardi, ne fissava tassativamente il limite massimo a duecento sei, cioè quelle esistenti nelle isole di San Marco, Rialto e contrade adiacenti. Non stupisce, quindi, che una commedia così calata nel contesto cittadino abbia avuto anche una stesura in dialetto, con le maschere di Brighella e Arlecchino al posto di Ridolfo e Trappola, che anche nella versione italiana conserva tracce arlecchinesche.

La critica si è dimostrata favorevole alla Bottega del caffè, che ha sempre incontrato i gusti del pubblico, costantemente rappresentata nell’Ottocento e nel Novecento, anche in vesti vernacolari non veneziane e in dramma musicale.

Carlo Goldoni è colui che di fatto si assume il compito di creare un teatro che rifletta l’ideologia, gli interessi, i problemi, la sensibilità della nuova classe. La borghesia, sempre più struttura portante della società, esige ormai un teatro fatto a propria immagine e somiglianza; e questo teatro non può trovarlo né nella commedia dell’arte, avulsa oramai dalle proprie fonti di ispirazione e dalle proprie motivazioni storiche, e decaduta a campionario di lazzi volgari e assurdi, né nel dramma neoclassico in versi, tutto irto di dèi e di eroi, e intessuto di locuzioni e di tematiche inaccessibili alla vita borghese di tutti i giorni. Goldoni non teorizza in questo senso la propria opera, tuttavia egli costruisce una drammaturgia che risponde con assoluta coerenza alle implicite richieste di questo nuovo pubblico; che ne riflette la gnoseologia, l’estetica e l’etica ( la conoscenza, il gusto e la morale) e illustra e propaganda le costruttive virtù del buon senso, della concretezza, della prudenza, della operosità della borghesia.

I concetti che paiono muovere il Goldoni della Riforma sono quelli della verosimiglianza degli eventi, della naturalezza e della credibilità dei personaggi, della educativa moralità delle storie narrate, della decenza del linguaggio; al punto che l’appellativo di <<riformatore de’ teatri>>, che egli volentieri si attribuisce, sembra alludere ad una semplice opera di pulizia e di polizia: bandire dal teatro la volgarità dell’espressione e dei lazzi, l’assurdità delle situazioni, la stantia convenzionalità delle vicende, l’incredibilità delle psicologie. Tuttavia, quello che si cela sotto questa apparente modestia di formulazione è nientemeno che la verità, l’esigenza di ricondurre e commisurare l’opera drammatica alla realtà dell’uomo, della società, della storia. Quando Goldoni rivendica l’importanza del carattere, e ne fa la colonna portante del proprio teatro, egli rimette l’uomo al centro dell’universo teatrale, liberandolo dai meccanismi della commedia dell’arte in cui non figurava ormai che, come automa, portatore di una tesi o di una passione. Il <<carattere>> altro non è che l’uomo credibile, verificabile, realistico e così devono essere le vicende in cui è coinvolto. Tutto questo è possibile attraverso l’osservazione del reale, secondo quello stesso metodo che centocinquant’anni fa Galileo e Cartesio avevano formulato per le scienze.

Goldoni crea una drammaturgia che soddisfa le richieste di questo nuovo pubblico: buon senso, concretezza, prudenza, operosità, le virtù insomma, aureamente mediocri, della borghesia nella sua fase positiva e progressiva.

Egli non teorizza in senso classista e sociopolitico la propria azione, non tanto per la prematurità dei tempi, quanto piuttosto per il suo stesso carattere, poco incline alla polemica; prudentemente attento a non urtare la sensibilità e non infastidire la suscettibilità di una nobiltà ancora potente e ricca di privilegi.  Preferisce fare le cose piuttosto che dirle e teorizzarle, seguendo il <<Si fa ma non si dice>, maliziosa norma del perbenismo borghese.

Goldoni si sente a suo agio nella città natale e in confidenza con la Venezia del XVIII secolo, in cui il passaggio dal ‘600 al ‘700 avviene senza fratture, portando avanti un’evoluzione artistica che lentamente trasforma, senza annullare. L’arte italiana perde in questo periodo quel ruolo di guida in Europa che l’aveva caratterizzata da quasi tre secoli, anche se resta il suo enorme prestigio. Solo l’arte veneziana ha ancora una posizione di primaria importanza. Venezia, dove tutte le istituzioni sono in decadenza, trova nei colori della sua pittura la lingua internazionale attraverso la quale lancia l’ultimo messaggio della sua civiltà, libera dalle responsabilità di rappresentanza e dall’impegno religioso. L’interesse per la città lagunare è condiviso dagli artisti e dalla committenza privata, che commissiona opere a Canaletto, Bellotto, chiamati a Dresda, Varsavia e Londra a diffondere le loro vedute; Guardi, e Longhi che osserva con curiosità discreta i piccoli episodi della vita borghese. Ma sarà Giovan Battista Tiepolo a compiere la straordinaria operazione di concludere il Barocco in Europa, trasferendo tutti i personaggi dei miti in un mondo di luminosa e serena evasione dove, eternamente belli, reciteranno una smaliziata fiaba che non potrà essere corrosa dal tempo. Questa Venezia, in cui Goldoni decide di far ritorno mancandovi dal 1743 e in cui si stabilisce con la moglie in casa della madre, nelle vicinanze di San Marco in corte San Zorzi,  si fa scrigno del passato anche lontano, come quando mura, sin dal XIII secolo su un angolo della basilica di San Marco, sicuramente proveniente da Costantinopoli, il gruppo in porfido dei tetrarchi eseguito in Egitto, immagine simbolica dell’impero romano unito sotto il governo della prima tetrarchia, che rappresenta le figure degli Augusti e dei Cesari stretti in un emblematico abbraccio.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.