Mirella Armiero: “Un pensiero ribelle. Maria Bakunin la Signora di Napoli” (Solferino), di Bernardina Moriconi

    “La Signora” così semplicemente era nominata, forse per quella soggezione che ispirava, mista ai modi spicci e a un piglio risoluto non poco in contrasto col suo fisico minuto. Ma l’appellativo derivava anche e soprattutto dall’ammirazione che Maria Bakunin, illustre chimica napoletana, ché di lei parliamo, ispirava, grazie a quella conoscenza delle misteriose e complesse concatenazioni capaci di tenere assieme sostanze ed elementi diversi e distanti. E lei, Marussia per i familiari, di distanze se ne intendeva visto che dalla lontana Siberia,  dove era nata nel 1873, era approdata  a Napoli. E qui sarebbe vissuta – fino alla fine dei suoi giorni, nel 1960 – assieme alla madre e ai fratelli, compiendovi quegli studi che l’avrebbero portata a essere la prima donna in Italia a laurearsi in chimica e anche la prima a conseguire una cattedra universitaria. E se Maria visse lontana da quel padre fisicamente e ideologicamente ingombrante e da molti temuto, Michail Bakunin, il grande teorico del pensiero anarchico, la giovane ebbe modo di crescere e maturare la sua formazione di donna e di studiosa  all’ombra di quel monte altrettanto ingombrante e temuto: lo Sterminator Vesevo. 

   

Proprio dall’ eruzione del Vesuvio  del 1906 prende le mosse Mirella Armiero per raccontarci nel suo volume Un pensiero ribelle. Maria Bakunin la Signora di Napoli (Solferino) i momenti salienti della vita familiare e professionale della Bakunin.

   E lo fa, la Armiero, mettendo le sue comprovate doti di giornalista – attenta alla verifica e alla documentazione – a servizio di una accattivante vena narrativa e di una scrittura fluida e agevole  pur nel trattare situazioni complesse ed  eterogenee (storiche, scientifiche, politiche…). Ciò appare evidente fin dalle succitate prime pagine, grazie al racconto dettagliato e ad ampio raggio di quella terribile eruzione. Mentre la Napoli che contava era infatti in fermento per l’attesa prima assoluta al San Carlo della Tess di Frédéric Alfred d’Erlanger, che da un mese soggiornava in città per allestire l’evento, il Vesuvio iniziava a ruggire e ribollire. E quando il 9 aprile lo spettacolo va finalmente in scena dopo un rinvio sempre dovuto alle intemperanze vulcaniche, i luccichìi degli abiti da sera delle dame verranno offuscati dai più sostanziosi e tristi bagliori della Montagna che erutta costringendo gli abitanti di interi paesi a fuggire lontano.

    A osservare la situazione, quasi a monitorarla, tra i tanti, italiani e stranieri, scienziati e  semplici curiosi accorsi, da segnalare anche la presenza di due donne, entrambe poderose nel proprio campo e che seguono la situazione con occhi e interessi diversi. Una è la Signora del giornalismo, Matilde Serao, all’epoca direttrice del <<Giorno>>, interessata ai risvolti sociali e cronachistici dell’evento, l’altra è la Signora della Chimica, che si muove per curiosità preminentemente scientifiche. 

   Ma certo la Bakunin non si interessò mai solo ed esclusivamente di scienze, vivendo in ambienti ideologicamente e culturalmente impegnati; inoltre, anche se il padre Michail, col quale aveva condiviso solo i primissimi anni dell’infanzia, morì distante dalla famiglia quando Maria era ancora molto piccola, lei coltiverà sempre un affetto che si farà quasi venerazione per quell’uomo dal forte appetito e dalle forti passioni, che continuò a considerare suo padre sebbene fosse figlia naturale  (lei e gli altri tre fratelli) dell’avvocato Carlo Gambuzzi, con cui la moglie di Bakunin ebbe una storia lunga e complicata che si concluderà con le nozze celebrate sempre a Napoli tre anni dopo la scomparsa di Michail: il quale a sua volta era a conoscenza del legame fra il Gambuzzi e la sua giovane moglie Antonia, ma  applicò anche alla sua vita privata quei principi di massima libertà che predicava in politica, lasciando alla consorte piena autonomia di decisione e quindi di azione in campo sentimentale. E per comprendere meglio lo spirito e gli ideali che informarono il grande filosofo dell’anarchismo  – l’ “idealista sentimentale”,  lo aveva definito Marx – la Armiero offre un’ampia  e illuminante digressione, trasportando il lettore in altri luoghi e in altri anni: precisamente nella Russia della prima metà dell’800, dove Michail trascorse un’infanzia serena e agiata in una ampia casa circondata da giardini e riscaldata dall’affetto di ben undici tra fratelli e sorelle. Ma presto il suo spirito irrequieto e l’ardore rivoluzionario, spiega la Armiero, lo spingeranno in altri luoghi e all’elaborazione di un pensiero rivoluzionario. E’ l’inizio della storia dell’ideologia  anarchica. Ma non fu certo solo un teorico, Bakunin: lo spirito irrequieto e l’ardore che l’animavano lo videro impegnato in prima linea in diversi moti e rivolte che infiammavano gli anni Quaranta del Diciannovesimo secolo e che gli costarono  prima alcuni anni di carcere duro a San Pietroburgo e poi un esilio in Siberia. Qui conobbe la giovanissima Antonia, appena diciassettenne ma ragazzina di carattere, tanto da decidere di sposarlo, malgrado il parere contrario della famiglia, e di seguirlo nella sua turbolenta e disordinata esistenza, che li condusse anche a Napoli una prima volta nel 1865: i due trascorsero un periodo sereno nella città che da pochi anni aveva perso il titolo di capitale di un regno e che  Michail ebbe modo di amare, anche perché gli appariva come la più anarchica fra le città europee – e forse non si sbagliava, se si pensa che il primo attentato a opera di un anarchico (il terzo gli sarebbe stato fatale), re Umberto lo subì proprio nella città campana nel 1878. Proprio negli anni napoletani, Bakunin cominciò ad approfondire ed elaborare il suo pensiero, distaccandosi progressivamente dal marxismo e valutando il fallimento del Risorgimento italiano che non aveva saputo colmare il divario economico e sociale del Paese. Ed è sempre  qui che Antonia conobbe Carlo Gambuzzi, sodale di Bakunin e  suo compagno di molte battaglie; dalla lunga, discontinua relazione fra Carlo e Antonia nasceranno ben quattro figli che continueranno a mantenere il cognome del rivoluzionario russo anche dopo la morte di Michail e le nozze dei genitori:  Gambuzzi si ritagliò un ruolo di padre presente e affettuoso ma defilato, rispettando e incoraggiando le scelte di vita e di studi dei ragazzi:  Maria si dedicherà alla chimica, mentre la sorella Sofia si iscrisse alla facoltà di Medicina che in Italia solo da poco era diventata accessibile alle donne.

  Ma Marussia  non vanta solo illustri ascendenti: non è da dimenticare che, grazie alle nozze della sorella Sofia col noto medico Giuseppe Caccioppoli, diverrà zia del grande matematico  Renato, al quale il regista Mario Martone nel ’92 ha dedicato il film Morte di un  matematico napoletano, alla cui sceneggiatura  fornì un fondamentale contributo la scrittrice Fabrizia Ramondino:  alla quale – a riprova che non solo nella Fisica tutto si tiene – la stessa Mirella Armiero ha dedicato un recentissimo volume , Bagaglio leggero. Viaggio nei luoghi di Fabrizia Ramondino (Nutrimenti) realizzato assieme a Francesco Paolo Busco.

   

Ovviamente, il grosso del volume è incentrato sulla Signora della chimica, sulle sue scelte professionali e anche sentimentali sempre libere e coraggiose, frutto di quel pensiero ribelle che contraddistingue lei e altri membri della famiglia: “La vita di Maria, all’apparenza cristallina e rettilinea, è stata piena di contraddizioni, probabilmente di dubbi,  – spiega Armiero – che la rendono molto più autentica di quanto non appaia attraverso il mito di scienziata integerrima e severa, pioniera  nel cammino di affermazione delle donne”. La scienziata coltivò molti interessi, oltre a quelli connessi alle sue discipline, anche grazie ai sodalizi che dal campo scientifico si allargavano a quello sentimentale: così accadde col suo professore e mentore Agostino Oglialoro Todaro che divenne suo marito, e poi col chimico Francesco Giordani, di ben ventitré anni più giovane di lei.

    La curiosità d’altronde non le manca e ne fa una studiosa non sedentaria: numerosi sono i viaggi di lavoro che intraprende, come quelli che nel 1913 la portano, su incarico del ministro Nitti, a osservare le metodologie  didattiche degli istituti tecnici industriali e commerciali del Belgio e della Svizzera;  e poi gli Stati Uniti, in lungo e in largo, assieme a quel Francesco Giordani, che forse ha il potere di rallegrarla col suo entusiasmo e quella fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del mondo e dell’Italia. Una fiducia che lo avrebbe portato negli anni ad aderire al regime fascista e ad assumervi incarichi di prestigio, pur serbando la convinzione che gli studi scientifici si sarebbero mantenuti scevri da condizionamenti politici e che anzi proprio il fascismo li avrebbe favoriti e sostenuti in nome di quei principi autarchici che Mussolini voleva vedere applicati anche in ambito chimico e tecnologico. Invece la Signora e ormai sua compagna di vita Maria, non prende posizione  ma certo quel cognome e il suo rifiuto del distintivo e del saluto fascista prima delle lezioni universitarie non la pongono in una situazione ideale: situazione che si complicherà ulteriormente con l’ostentata ostilità al regime e certe azioni provocatorie manifestate dall’amato nipote, il geniale, ironico e dichiaratamente antifascista, Renato Caccioppoli.

   Il libro della Armiero, dalle vicende personali e familiari della Bakunin, si allarga al racconto,  accurato e documentato – e l’ampia bibliografia finale ce lo conferma –  della città e di più di una generazione di  intellettuali, filosofi , scienziati che animavano  Napoli, facendola  centro di dibattiti di fondamentale importanza e di progresso: si pensi alle riunioni all’Accademia Pontaniana, di cui Maria fu inizialmente socia e per poi divenirne presidente, dopo la guerra:  rimanendo prima e unica donna posta alla guida della prestigiosa istituzione. O si pensi, anni prima, alla frequentazioni di quel Circolo Filologico di via San Sebastiano, fondato da  Francesco De Sanctis e poi diretto dall’ancora giovane ma già autorevole Benedetto Croce, dove uomini ma soprattutto numerose donne, con grande meraviglia finanche della Serao che pure lo frequentava, accorrevano ad ascoltare dibattiti accesi e anche audacemente progressisti.

   E in effetti, uno degli aspetti che rendono prezioso questo libro è proprio questa narrazione di una Napoli fuori dagli stereotipi e dai cliché, per nulla provinciale, capace semmai di coniugare tradizioni e riti ancorati al passato con fermenti e idee  che spesso, ma non solo, vengono da fuori, portati da personaggi di gran calibro che a Napoli hanno soggiornato e lavorato. Si pensi ad Anton Dohrn che nel 1873 all’interno della Villa comunale fonda la Stazione zoologica, poi con annesso acquario, destinata a diventare un centro di studi internazionale e all’avanguardia. Ma soprattutto Armiero ci illumina, in molte pagine del volume, circa una attiva, intraprendete, progressista presenza femminile operante nella città partenopea: è il caso della scrittrice svedese Anne Charlotte Leffler, moglie del celebre matematico Pasquale Del Pezzo, con cui  aveva aperto un salotto intellettuale nell’abitazione di via Tasso e alla quale va il merito (oltre che di aver scandalizzato col suo divorzio in terra scandinava i benpensanti del tempo) di aver contribuito a far conoscere il teatro di Ibsen, che proprio in luoghi ameni del nostro territorio, Sorrento e Amalfi, aveva composto due dei capolavori della sua drammaturgia, Gli spettri e Casa di bambola. E ancora Mirella Armiero ci parla di Emily Reeve, figura quasi ignorata, eppure questa intraprendente garibaldina venne qui su incarico della pedagogista Julie Schwabe  per aprirvi una scuola destinata ai bambini poveri, e qui trovò la morte durante l’epidemia di colera del 1865 accudita amorevolmente fino agli ultimi istanti  da Antonia, la moglie di Bakunin che in quegli anni a Napoli soggiornava assieme allo stesso Michail. Ma Antonia era solo una delle tante donne russe presenti in città a cavallo dei due secoli (alcune di loro vi giungeranno in fuga dalla madrepatria dopo la Rivoluzione d’ottobre), che ben si inserivano  in un contesto cittadino saldo e operoso di personalità colte e internazionali.

   È su tale fondale policromo che cresce, si forma e lavora Marussia. E se è vero , come scrive l’autrice, che col trascorrere dei decenni la sua figura è rimpicciolita e sbiadita anche per i nuovi traguardi che si sono raggiunti nell’ambito delle scienze, del progresso sociale e dell’emancipazione femminile, tanto più prezioso appare questo libro proprio perché a tracciare un sentiero verso tali traguardi ha contribuito non poco – con l’impegno coraggioso, con l’intraprendenza professionale e sentimentale, in una parola, col suo pensiero ribelle –  Maria Bakunin, la piccola grande Signora della Chimica.

Bernardina Moriconi

Bernardina Moriconi: Filologa moderna, Dottore di ricerca in Storia della Letteratura e Linguistica Italiana,  giornalista pubblicista e docente di materie letterarie, ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana e Storia a tecniche del giornalismo presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”. Ha pubblicato libri sulla letteratura teatrale e svolge attività di critico letterario presso quotidiani e riviste specializzate. E’ direttore artistico della manifestazione “Una Giornata leggend…aria. Libri e lettori per le strade di Napoli”.

Dahlia de la Cerda: “Bastarde disperate” (trad. Sara Cavarero – Solferino), di Gigi Agnano

In Messico la vita per le donne è perfino più difficile che altrove. “Ogni tre ore e venticinque minuti, una donna muore squartata, soffocata, violentata, picchiata a morte, bruciata viva, mutilata, crivellata dalle coltellate, con le ossa rotte e la pelle livida”.  Le violenze sono perpetrate da organizzazioni criminali  ma anche da bracci armati dello Stato e il 98% dei femminicidi resta impunito. “Essere donne è uno stato d’emergenza”. Il virgolettato è di Dahlia de la Cerda, l’autrice di Bastarde disperate (pubblicato in Italia da Solferino con la traduzione di Sara Cavarero), una raccolta di tredici racconti narrati in prima persona da una varietà di voci femminili accomunate dalla lotta quotidiana per sopravvivere. 

Sono donne di età e orientamenti sessuali diversi, provenienti da contesti sociali e culturali differenti, personaggi fragili ma combattivi che affrontano violenze domestiche, aborti, femminicidi, pregiudizi di classe. L’autrice di Aguascalientes, attivista femminista oltre che scrittrice e giornalista, con un linguaggio incisivo mette a nudo l’umanità di un universo femminile tormentato, alternando momenti di violenza a passaggi di struggente lirismo.

Nel racconto d’apertura, “Prezzemolo e Coca-Cola“, una ragazza sta seduta sulla tazza del water e ha appena orinato sul test di gravidanza che risulta positivo. Studentessa universitaria, orfana e sola in un paese cattolico dove l’aborto è illegale in 20 dei 32 stati, si mette alla ricerca su Google di metodi casalinghi per interrompere la gravidanza: prezzemolo nella vagina, lavande con Coca-Cola, aspirina, zapote nero, tè di ruta, di origano, di anice stellato. Navigando nel web le compare il video di un feto che grida “Ehi! Ehi! La mia gambetta!”. Anziché pungersi l’utero con una gruccia, si procurerà l’aborto da sola, in casa, con pastiglie di misoprostolo, tra tremori, vomito, diarrea e fiotti di sangue. 

I racconti successivi offrono angolazioni diverse della condizione femminile. Yuliana, figlia di un boss del narcotraffico, si ritrova erede di un impero criminale. Constanza, figlia di un deputato, è vittima di un femminicidio che tutti preferiscono mascherare come suicidio. Stefi, minorenne, viene abbandonata con un messaggio WhatsApp da Yandel “il coglione”, col quale ha avuto un figlio.

Giacché queste donne non hanno avuto la possibilità di parlare da vive, molte delle voci di “Bastarde disperate” raccontano le loro storie dall’oltretomba, in una sorta di Spoon River latinoamericano. “Mi sono svegliata molto confusa senza sapere cosa cazzo stesse succedendo. Ho guardato da una parte all’altra e ho emesso un urlo tremendo nel vedere il mio corpo buttato lì in mezzo a un mucchio di spazzatura. Mi sono avvicinata lentamente e ho avuto la conferma ai miei sospetti: ero morta. Quei puttanieri del cazzo mi avevano ammazzata. Ho preso la mia mano insanguinata e ho pianto un po’ per me.”

I racconti sono ricchissimi di rimandi alla musica pop messicana: canzoni tex-mex, ballate, cumbia, rap. Al ritmo di questa colonna sonora le protagoniste bevono, ballano, afferrano l’attimo, anche se le baldorie coincidono sempre con il momento che precede la tragedia. Due amiche vanno a una festa e non sanno, quando si salutano, che quella sarà l’ultima volta che si vedono. In “Regina”, una liceale di buona famiglia balla reggaeton e twerka sognando un fidanzato narcos, ignara che il suo destino è segnato da un proiettile tra gli occhi. 

Sono storie di donne reali, generalmente vittime, ma capaci a loro volta di essere cattive, moralmente grigie. Donne cui la vita non offre altre opzioni, che imbrogliano, ingannano, rubano e uccidono per sopravvivere. Sono forti e bastarde come “La China”, con un passato di violenza domestica, che uccide per soldi, per provvedere alla figlia, e che dice di non fare la puttana solo perché non sa “che prezzo dare alle chiappe”. O come la ragazza che va al Nord  per lavorare nelle “maquilas”, stabilimenti industriali che adoperano manodopera femminile sottopagata, che viene stuprata e uccisa nel deserto da una banda di cinque balordi. È una scena straziante che grida vendetta: “Mi hanno violentata tutti e cinque. Facevano i turni per violentarmi. Mi hanno legato mani e piedi. Mi hanno bruciato con le sigarette, mi hanno colpita finché non si sono stufati. Mi liberavano e poi si divertivano a darmi la caccia. Mi hanno morso i seni. Mi lasciavano andare, io correvo con tutte le mie forze, ma loro erano più veloci e più forti di me. Non appena uno mi raggiungeva, mi afferrava per i capelli, mi buttava sulla sabbia e mi prendeva a calci in faccia, sul petto, con furia.” Il fantasma della ragazza stuprata incastrerà in un autobus gli aggressori che l’hanno uccisa. Per ipotizzare un riscatto contro l’impunità, bisogna ricorrere al sovrannaturale e al fantastico. Il racconto è “Il sorriso”, quello che più di tutti gli altri fa l’occhiolino al genere horror e al gotico messicano. 

Vittime di una violenza e di un’ingiustizia spropositate sono anche le donne trans. Nel caso dei transfemminicidi il tasso di impunità è ancora più elevato, in Messico come altrove. Sono crimini in cui la misoginia si mescola al machismo e le vittime, invece di trovare giustizia, vengono criminalizzate e stigmatizzate. In “Paillettes” una trans, cacciata di casa, si prostituisce e viene violentata e assassinata: “Quando il mio cadavere è stato ritrovato, nessuno mi ha chiamata Julia, è stato come se un pezzetto di plastica con una fotografia valesse più di una vita di trasformazioni.” 

La raccolta si conclude con “La Huesera”, una lettera d’addio, scritta su consiglio dello psicologo, a un’amica vittima di femminicidio: “eccomi qui a scriverti com’è e come è stata la vita senza di te. Dopo la tua improvvisa scomparsa da questo mondo.” Il ricordo è straziante: “Ho la mia top ten delle tue risposte del cazzo. Ancora penso a quella data al tizio che ti aveva detto «Che belle gambe, a che ora aprono?», e tu: «Alla stessa ora di quelle di tua madre, coglione».”

Con uno stile provocatorio e seducente, una scrittura trasgressiva, anarchica e selvaggia, la de la Cerda ci propone un Decamerone adattato ai nostri tempi malati, con il grande pregio di scuotere le coscienze creando un rapporto empatico tra i suoi personaggi e il lettore, che non può restare indifferente all’ascolto.

Libro “politico”, di critica sociale filtrata dalla letteratura, commedia nera che si fa leggere informando, che suscita lacrime divertendo, Bastarde disperate è un debutto grintoso, inquietante e necessario di uno dei più emozionanti nuovi scrittori latinoamericani. E non sorprende che, dopo aver vinto numerosi premi, sia stato inserito nella longlist dei candidati all’International Booker Prize 2025, di cui conosceremo i finalisti il prossimo 8 aprile.

Gigi Agnano

Napoletano, classe ’60, è l’ideatore e uno dei fondatori – il 15 ottobre 2023 – de “Il Randagio – Rivista letteraria“.

“Ricette Letterarie”: i tacos di Dahlia de la Cerda, di Anne Baker (video)

🍽 📚 Le Ricette Letterarie di Anne Baker  🍽 📚

La rubrica de Il Randagio che unisce cucina e letteratura

Il Randagio vi consente di gustare i grandi capolavori della letteratura! 

La pasticciera randagia Anne Baker da Arnhem in Olanda vi svelerà come realizzare piatti ispirati a storie indimenticabili. Scopriremo come il cibo e la letteratura possano fondersi per offrirci nuove emozioni.

🍲 Pronti a mettervi ai fornelli? Ogni piatto racconterà una storia e, perché no, vi inviterà a (ri)leggere le pagine di qualche capolavoro.

Questa settimana la nostra Anne ci propone i tacos vegetariani ispirandosi al racconto “Yuliana”, tratto da “Bastarde disperate” di Dahlia de la Cerda (dove, per la verità, si parla di una versione preparata con le cotiche di maiale…) La de La Cerda è una scrittrice messicana, nata a Aguascalientes nel 1985. “Bastarde disperate”, il suo esordio letterario, uscito in Messico nel 2019 e in Italia nl 2023 pubblicato da Solferino, è una raccolta di tredici racconti caratterizzati da una narrazione dove la violenza si alterna a momenti di toccante lirismo. La de la Cerda, attivista femminista, oltre che scrittrice e giornalista, con questo libro viene considerata una delle voci più interessanti dell’ultima generazione di scrittori latinoamericani. “Bastarde disperate” è nella longlist dell’International Booker Price, i cui finalisti si conosceranno il prossimo 8 aprile.

*** I BISCOTTI ALLA CREMA DI JAMES JOYCE ***

👉 Guarda il video… in cucina! A seguire gli ingredienti e il procedimento.

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Ricette Letterarie: i tacos vegetariani da “Yuliana” (Bastarde disperate) di Dahlia de la Cerda 

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Vuoi provare a farlo in casa? Eccoti la preparazione.

RICETTA DEI TACOS VEGETARIANI

Ingredienti per 4 persone

Per il ripieno:

  • 1 confezione di formaggio Feta da 200g (o di tofu bianco nel caso si vogliano preparare vegani o fagioli neri lessati)
  • 2 cucchiai da tè di concentrato di pomodoro
  • 1 bustina di condimento per tacos
  • 4 pomodori rossi ramati
  • 1 cipolla rossa
  • 4 peperoni lunghi (2 rossi e 2 arancioni o gialli)
  • 1 peperoncino rosso fresco
  • 2 zucchine 
  • 2 avocado maturi
  • 2 Lime
  • 2 spicchi di aglio
  • Qualche fogliolina di basilico Prezzemolo o coriandolo
  • Olio extravergine di oliva, pepe e sale

Per i tacos:

  • 150g farina di mais
  • 150g farina bianca di frumento 
  • 2g lievito chimico (non vanigliato!)
  • 5g sale fino
  • 150g acqua
  • 10g olio extravergine di oliva

Procedura.

Per il ripieno:

  1. Lavare, mondare e tagliare a cubetti le zucchine. Poi saltarle in padella con uno spicchio di aglio, olio e basilico. Mettere da parte.
  2. Lavare, mondare e tagliare a cubetti i peperoni. Poi saltarli in padella con uno spicchio di aglio, olio e basilico. Mettere da parte.
  3. Pelare, affettare e tagliare a cubetti la cipolla. Metterla in acqua fredda.
  4. Tagliare a rondelle il peperoncino. Mettere da parte.
  5. Tritare il prezzemolo o il coriandolo.
  6. Pelare e tagliare a cubetti gli avocado e spruzzarli subito con il succo di lime per evitare che anneriscano.
  7. Frantumare il formaggio Feta (o il tofu, non i fagioli!) mescolandolo con le spezie per tacos, un filo di olio e il concentrato di pomodoro. Mettere da parte.

Per i tacos:

  1. Mescolare la farina di mais con quella di frumento e il lievito chimico. Aggiungere il sale e l’acqua e impastare fino ottenere un impasto sodo.
  2. Aggiungere l’olio, impastare velocemente e formare una palla.
  3. Fare riposare l’impasto coperto con una ciotola di plastica per 10 minuti.
  1. Nel frattempo preparare il pico de gallo: scolare la cipolla e mescolarla con i pomodori e il peperoncino a rondelle. Condire con sale, pepe e un filo di olio.
  2. Tagliare l’impasto in 4 pezzi, arrotolarli a formare delle palline e poi stenderli con il matterello per ottenere una tortilla tonda e molto sottile.
  3. Cuocere le tortilla in una padella dal fondo molto caldo, girandola una volta sola, quando si formano le bolle sulla superficie.
  4. Per finire farcire le tortillas con il pomodoro condito (pico de gallo), i peperoni, le zucchine, la feta o il tofu, l’avocado e il coriandolo. Oppure portare tutto in tavola e lasciare che gli ospiti compongano il loro taco.

Marilù Oliva: ‘’La Bibbia raccontata da Eva, Giuditta, Maddalena e le altre’’ (Solferino, 2025), di Claudio Musso

Proviamo a considerare la Bibbia letteratura e non dogma. In fondo essa è un insieme di racconti orali che prendono forma nel vicino Oriente Antico e abitano un momento storico in cui tutto deve essere ancora deciso. Vi ritroveremo figure che abbiamo conosciuto nelle ore di religione, che sono state protagoniste di film e di serie tv, che la storia dell’arte, di ieri e di oggi, ha dipinto per sempre su tela, eternizzato sul marmo, rendendole vive e palpitanti di osservazioni e riletture. E non sono mancate trasposizioni teatrali e chiamate in causa di alcune figure bibliche per spiegare il nostro presente. Insomma una libreria di vite, lontane nel tempo ma croniste di un certo modo di stare al mondo, sempre a portata di mano e che in molti hanno sentito il bisogno di riannodarne i fili. E qui troviamo Marilù Oliva e il suo La Bibbia edito da poche settimane da Solferino Editore.

Aveva ragione Dostoevskij quando era solito ricordare che questo insieme di testi appartengono a tutti, fanno parte del nostro patrimonio culturale, perché è un libro per e dell’umanità. Come non possiamo dare torto a chi, vedendo nuove traduzioni, aggiunte e revisioni, sottolinei come la Bibbia sia una sorta di testo in fieri nel senso che in quelle pagine molto si racconta ma molto si sottace.  

Ma, lasciando gli esegeti al loro importante lavoro, un elemento risulta lampante ma storicamente spiegabile senza scomodare nelle nostre riflessioni facili femminismi: se la Bibbia è un palco, il ruolo di primo attore è quasi esclusivamente dato agli uomini che sono i protagonisti di avventure e disavventure e devono vedersela con un Dio regista esigente, per non dire autoritario. Le donne, salvo rarissimi casi, stanno nel dietro le quinte e spesso non compaiono neanche come interpreti nel cartellone. La loro assenza di voce, parole e significati, e anche inferiorità è un dato di fatto per la mentalità di quelle popolazioni che nel loro nomadismo non hanno ancora trovato un posto per le proprie donne, se non come strumento di procreazione e di garanzia di discendenza.

«Nessuna situazione preserva una ragazza. L’onta del serpente ci accompagna, come se ci meritassimo un destino sfavorevole. Se una di noi non si sposa, la sua esistenza non ha senso per la comunità. Se si sposa, può essere sfortunata e trovare un marito stolto. Se non resta incinta, viene disprezzata. Se questo avviene, teme il giorno del parto, poiché ha visto tante donne morire mettendo alla luce un figlio. Se il marito la maltratta, deve tacere e prenderle in silenzio. Se la rispetta, lei soffre all’idea che potrebbe perderlo in guerra, in un agguato, per una malattia. Se si ammoglia con un sovrano, deve accettare che lui giaccia anche con altre»

Così osserva con acume e rassegnazione Micol, una delle tante mogli del bello e sfuggente David che vince sul gigante Golia e una delle protagoniste, voci narranti e soliste di questo libro. Perché cosa fa Marilù Oliva dopo avere dato prova in passato di rileggere da prospettiva femminile le grandi opere dell’epica classica? Confeziona un libro essenzialmente ad intarsio, mantiene come stella polare la versione ufficiale delle scritture e, pur concedendosi qualche virata e approdando a lidi narrativamente sconosciuti in onore all’arte del romanzo, dà voce alle donne della Bibbia.

Nel suo viaggio le pone infatti alla prua e non alla poppa della barca con cui attraversa le vicende che vanno dall’Eden ai patriarchi del Regno di Israele rendendole narratrici di fatti che hanno sotto i loro occhi e intrama le sue pagine con cosa avrebbero potuto dire nella contingenza di quegli eventi, quando il mare è in burrasca, quando soffiano venti contrari o quando il nemico è lì che ti aspetta sull’altra riva e, in generale, quando si è immersi in situazioni che anticipano l’Apocalisse.

In sostanza ci offre la possibilità di immaginare pensieri, opere e emissioni di alcune figure che comunque sono rimaste nel ricordo del lettore per via di letture o rifrazioni pregresse. Non ci offre una nuova versione dei fatti perché non avrebbe senso cambiare la Bibbia (del resto di Vangeli secondo Tizio o secondo Caio con nuove sensazionali scoperte inedite le librerie abbandonano, fatta eccezione per la versione di Saramago che vale l’esperienza di lettura) ma uno sguardo in più, che è portatore di una sensibilità diversa, su quanto sappiamo dalla Bibbia e dal suo senso.

Del resto qualcuno si sarà chiesto cosa pensasse Eva di quanto le è accaduto dopo la tentazione del serpente, lei che non si arresta al che delle cose ma cerca il perché? Di Lia, la seconda moglie di Giacobbe che è costretta a condividere il proprio uomo con la sorella e che, prolifiche o meno di figli, sono spettatrici passive degli accordi tra gli uomini e non hanno voce in capitolo? Di Miriam, la sorella di Aronne e Mosè, che insieme ai fratelli forma, licenza di Oliva, un formidabile trio guidato dal senso di giustizia per salvare il proprio popolo dalla schiavitù in Egitto, che ascolta sul Sinai le parole di un Dio che la ignora e che la punisce, dopo un diverbio con Mosè, perché una donna che dissente è più empia di un uomo che fa la stessa cosa? Dell’indomita Giuditta, l’eccezione in questo caleidoscopio di donne sempre un passo dietro gli uomini, che sfida Oloferne? Di Maria Maddalena che è presente in tutti i momenti cruciali della passione di Gesù mentre gli apostoli sono altrove?

Quanto sono credibili le versioni di Marilù Oliva in questa sua nuova impresa letteraria? In fondo non è tanto determinante quanto dicono – anche se è sempre suggestivo potere contare su nuove voci nella comprensione di un coro e affinare il nostro ascolto – ma chi sono coloro che dicono e che sono rimaste sempre ai margini del racconto biblico. Sono donne che per tutta la vita non si sono mai allontanate dalla strada maestra degli uomini, hanno ripercorso gli stessi spazi, senza mai sconfinare con lo sguardo in un mondo troppo concentrato a crearsi una credibilità e un futuro.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

Intervista a Vladimiro Bottone per “Il peso del sangue” (Solferino), di Daniela Marra

Questo è un libro coraggioso. Scuote, divide, potenzialmente scandaloso, mette alla prova il lettore, che si trova smarrito nell’incertezza, perdendo gradualmente i suoi punti di riferimento. L’incedere della narrazione è serrato, un ritmo da noir, dove nulla è scontato. Tuttavia l’autore resta sempre onesto con il lettore e lascia tracce, briciole di senso, niente è lasciato al caso. 

Vladimiro Bottone innesca bombe e chi ci cammina su viene irrimediabilmente colto dallo scoppio, barcollando sul baratro delle ambiguità e delle ambivalenze che accompagnano tutta la storia. Se ne esce destabilizzati. 

L’ambientazione storica degli anni della Repubblica di Salò è stata la prima scelta coraggiosa dell’autore, anni oscuri che fanno da sfondo a sentimenti oscuri, ambivalenti, ambigui. È come se una cortina fumosa stazionasse sulla Torino del ’44, una nebbia tossica rossastra, che ha il sapore ferroso del sangue, sangue versato, sangue oscuro, sangue ingrato, rancoroso, ambiguo, perturbante e nessuno se ne salva. Impregna ogni vita, ogni storia, ogni sentimento nella carne fino alle ossa.  Sono gli anni precari che precedono la fine del conflitto, tra una guerra civile senza fronte, guerriglie e terrorismo, deportazioni e resistenze.

Una giovane ebrea in fuga, bella, audace e colta, Myriam, incontra il commissario Troise, fascista napoletano che da poco si è trasferito a Torino per affari segreti. Dal loro incontro deflagra una storia tra Eros e Thanatos, un amore ambiguo dove vittima e carnefice si fondono e si confondono fino a svelare, in un gioco di specchi, tutta l’oscurità che preme in ognuno di loro. La stessa Myriam è una creatura inquieta, oscura, ambivalente, non la solita ebrea buonista da fiaba postbellica, non l’eroina che lava il mondo dai peccati, basta leggere le prime pagine per trovarsi invischiati nella carne e nel sangue di una giovane donna che morde la vita senza esclusione di colpi, nessun vittimismo, nessun ripensamento, nessun sacrificio.  Colpisce la consapevolezza di tutta l’oscurità che la abita, un’autocoscienza che pulsa nel suo sangue e la rende oscura.

 Accanto ai protagonisti una galleria di personaggi regola la temperatura emotiva del romanzo, è un’oscillazione involontaria di sentimenti ambivalenti in cui il lettore si trova immerso senza possibilità di fuga. Ne parlo con l’autore in un dialogo che approfondisce alcuni aspetti del romanzo.

-Vladimiro ti sembrerà poco ortodosso non aprire il nostro dialogo sui cosiddetti protagonisti ma con un personaggio marginale che mi ha colpito notevolmente, ossia Carlo.

Invece è una piacevole sorpresa perché di solito l’attenzione viene molto accentrata da Myriam e Troise, che obbiettivamente hanno una statura protagonistica e sono l’origine della storia, però Carlo è un personaggio importante. Quando viene messo in risalto sono particolarmente soddisfatto come autore perché era un personaggio sul quale puntavo.

– Carlo sembra incarnare la contraddizione e l’ambivalenza che guida tutta la narrazione. E’ un personaggio abissale, ctonio, legato alla profondità oscura della psiche, come oscuro è il suo sangue. Mi fa pensare a l’archetipo di Efesto, non solo per la sua zoppia, per essere considerato uno scarto, per la sua indole rancorosa, ma anche per la potenza delle pulsioni che lo portano a compiere il suo destino, per quanto discutibile sia il modo.

Questo sai cosa dimostra? Ed è veramente molto interessante. Come gli archetipi e i miti vivano in noi anche quando non ce ne accorgiamo. Ho dato a Carlo questa zoppia senza pensarci, per una necessità narrativa: un giovane uomo che sta terminando gli studi universitari doveva necessariamente arruolarsi nell’esercito della Repubblica di Salò. Carlo non viene arruolato per via della sua menomazione fisica. E qua miti e archetipi suggeriscono all’autore. Carlo è uno dei personaggi su cui il peso del sangue è più forte perché proviene da un sangue oscuro, di qui la sua sofferenza. Lui è il primo e l’unico della famiglia ad aver studiato. La sua è una famiglia proletaria, di operai, di anonimi e Carlo vuole riscattarsi a ogni scosto da questa mediocrità. Perciò si laurea e diventa uno studioso, mettendosi sulla scia di un importante storico dell’arte, il professor Alberganti.

– Questo riscatto a tutti i costi è l’unica certezza che Carlo possiede e non ammette smarrimenti o ripensamenti. Cosa ne deriva?

Negli anni dell’università Carlo si farà mantenere dalla polizia politica del regime e nello specifico da Troise, il quale nel momento in cui scoppia la guerra civile dal settembre del ’43 all’aprile del ’45 viene a chiedere qualcosa in cambio.

– Ed è proprio da questo momento in poi che Carlo rivela un’identità spiccatamente ambivalente. Un giovane uomo mosso da profonde contraddizioni e piegato dalla storia personale e schiacciato dalla grande storia. Carlo tradito o traditore? Vittima o carnefice?

Carlo deve saldare un debito, deve ora più che mai infiltrarsi in determinati ambienti per informare Troise di cosa bolle in pentola. Quindi sotto certi aspetti è anche una vittima oltre che colpevole di aver calpestato dei principi di moralità pur di riscattarsi dal peso del sangue. Ha tradito i suoi compagni di studi, altre persone, continua a tradire tutti…

-Ma non tradisce Emanuela.

Esatto! Questo è un punto centrale. Carlo mostra elementi di debolezza, per alcuni aspetti è anche sordido, ma nella sua natura si nasconde un frammento di diamante: la passione non ricambiata per Emanuela. Un personaggio che possiamo anche a ragione considerare negativo, ma che contempla un aspetto di positività, proprio perché la mia idea di personaggio è questa: il narratore deve mostrare qualcosa di non scontato, che il lettore non sospetta e non si aspetta. 

– Carlo è una chiave, una sintesi di quelle forze che muovono le grandi tragedie classiche. E tutta la storia ne è imbrattata. Agisce Eros, quella forza irrazionale che si manifesta all’improvviso, in un attimo che possiamo definire fatale, possiede la potenza del cambiamento. Così i personaggi si trovano di fronte a rovesciamenti, voragini profonde e baratri sconosciuti. Ad esempio l’incontro di Myriam e Troise avviene su questo terreno: attraverso uno sguardo si mette in moto l’irrazionale che non è irragionevole. È il tempo giusto del cambiamento. Troise non decide di salvare Myriam, di portarla a casa per uno scopo, non è forse mosso da una pulsione irrazionale, una forza sconosciuta che agisce in quell’attimo?

Sì e tutto si gioca, ed è quello che nella vita mi lascia veramente stupefatto, nei pochi secondi di uno sguardo. E’ incredibile! Troise probabilmente scorge in quello sguardo una paura ancestrale, un richiamo antico di salvezza, di sopravvivenza e anche la natura perturbante di Myriam. Evidentemente lui era pronto e qui hai ragione il tempo era giusto: alcune certezze politiche stavano crollando, la sua vita era in pericolo perché durante la guerra civile si poteva essere uccisi in qualunque momento. Troise è perciò un uomo precario che al momento giusto incontra lo sguardo giusto per una svolta radicale della sua esistenza.

– Quel momento che appare irrazionale ha quindi radici profonde, e lì che una luce si proietta su Troise, un’umanità inaspettata che allontana l’ombra dell’infamia, si arriva addirittura a simpatizzare per lui. Incredibile!

E questo è un mio divertimento. Il divertimento perverso dell’autore, quello di aver costruito un personaggio che ha certamente degli stigmi negativi molto forti, perché lui è un fascista convinto, pur non essendo un convinto antisemita. Troise, potenzialmente negativo, suscita una certa simpatia. La narrativa deve aggirare gli stereotipi, le idee correnti, il già visto e il già noto e mettere in crisi le aspettative, le idee e le opinioni del lettore. Se diamo al lettore esattamente quello che lui pensa, se gli diciamo ciò in cui egli crede e soddisfiamo tutte le sue aspettative gli avremo dato il famoso biberon di camomilla prima di andare a dormire. Invece bisogna metterlo in crisi. Troise  si dovrebbe odiare potenzialmente e anche con buone ragioni, di fatto sostiene il regime, perfino nella sua ultima e peggiore incarnazione, la Repubblica di Salò. Cosa c’è di peggio che essere un vassallo del nazismo? Eppure come individuo ti ha suscitato una crisi.

– E’ un uomo ed è proprio quella sua umanità, che è un punto di aggancio fortemente emotivo per il lettore. E allora accade che quello che può essere vero a livello generale cade sul piano individuale: il fascista sfuma davanti all’uomo e assume tante sfaccettature. 

E proprio quello di cui parla il narratore che si occupa di individui. Il compito della scrittura narrativa è proprio quello, non di confermarti nelle tue certezze, anche quando sono certezze valide e fondate, di incrinarle, se no, non avrebbe senso. Leggere sarebbe superfluo.

– Un’immagine di grande potere simbolico è sicuramente quella di Troise quando, nel conforto della casa che abita con Myriam, si spoglia dalla sua camicia nera e la fa cadere a terra. Solo con la canottiera addosso Myriam riesce ad abbandonarsi a lui. Ecco che un piccolo gesto, volutamente banale, è un seme, una traccia indelebile.

E posso dire per nulla casuale. Di me si potrà dire tutto, scrivo bene, scrivo male, c’è la tensione, non c’è, tutto quel che si vuole, ma nulla di ciò che scrivo è casuale. Cogli molto bene che in quel piccolo atto c’è tutto il dramma di Myriam e di Troise. Certamente lei non può amare un fascista, infatti lo tradisce politicamente legandosi alla resistenza. Lui è un nemico, quelli come lui hanno deportato le persone del suo sangue, però quando si spoglia diventa uomo e un uomo che la ama, la protegge, la desidera e che lei a sua volta desidera. Quindi c’è il dramma di essere amanti e nemici, la tensione estrema di questa coppia paradossale. Myriam non è una donna remissiva o passiva, lei è una donna indipendente che ha un’idea chiarissima di chi è amico e chi è nemico, e Troise si pone proprio sul confine tra chi si ama e chi si odia.

– Troise e Myriam sono due solitudini, due naufraghi della storia: Myriam “sola al cospetto della sua sopravvivenza”, porta su di sé uno stigma, lei è la sopravvissuta, quindi vive un incessante senso di colpa. Smarrita e reietta non è forse lo specchio di Troise?

In effetti, possono sembrare due personaggi solo antitetici ma sono legati fatalmente da alcuni aspetti. Uno è la solitudine, perché anche Troise è un uomo solo in un luogo che non gli appartiene ed è solo rispetto alla propria sopravvivenza, perché in una guerra civile, in cui non esiste un fronte, fatta di guerriglia, terrorismo, segreti, un uomo in borghese può uscire da un portone seguirti e darti un colpo alla nuca. Myriam e Troise sono due creature estremamente precarie per quanto riguarda l’esistenza. Certo più Myriam che Troise e poi sono due creature sole ed è questo che rende possibile il loro avvicinamento, al di là del desiderio e di ciò che forse anche io non conosco. A volte il testo ne sa più dell’autore. Come la tua lettura archetipica e mitologica di Carlo su cui sto riflettendo e che trovo molto interessante. L’archetipo che inconsciamente agisce sull’autore è un’osservazione su cui riflettere.

– Forse è il motivo per cui ho riconosciuto in Carlo un grande potenziale, come anche in un altro personaggio marginale, che trovo molto interessante, simbolo di grandi contraddizioni  e di cui mi piacerebbe raccontassi qualcosa, ossia l’ebreo che denuncia i suoi correligiosi. Una bella sfida psicologica per l’autore.

Hai perfettamente ragione è una figura che mi affascina e quasi mi soggioga, l’ebreo che odia se stesso. Per motivi strutturali non potevo dargli più spazio. Avrebbe meritato un romanzo a parte. Un personaggio così ingombrante, che ha così tanto da dire, che è così tanto contraddittorio, ci vorrebbe un libro dedicato.

– Anche la paura gioca un ruolo fondamentale: in Troise è emblematico come un ideale, quello della gloria, si manifesti come nevrosi, nella forma della paura di una morte anonima e ingloriosa.

L’incontro con Myriam e le circostanze estreme della guerra civile fanno capire a Troise che il senso della vita non è l’ossessione della gloria, ma la passione e l’amore.

– E’ non è forse l’amore che spegne le loro solitudini, anche se per brevi momenti? Se no Myriam se ne sarebbe andata, perché le occasioni non sono mancate.

Giustissimo. Myriam poteva andare via. Non accetta la proposta della resistenza perché bisogna prima catturare questo ebreo, questo delatore dei suoi correligionari, ma avrebbe potuto farlo anche se scappava. 

– Due solitudini che riescono in attimi di inaspettata intimità ad essere rifugio l’uno dell’altra, come se una bolla li tenesse fuori dalla grande storia. Ma nella casa di Troise c’è una porta chiusa a chiave, non è forse emblema della storia da tenere sotto chiave per non inquinare quell’oasi senza tempo che è spazio dei loro incontri?

Quando esce al mattino Troise torna a essere un nemico, porta gli abiti del nemico, non può essere amato se non è privo di abiti, ridotto alla sua intimità di essere umano. Dietro quella porta sono ammassati i beni degli ebrei che abitavano la casa confiscata. E’ storicamente vero, i beni venivano sequestrati e spesso dati a funzionari che si erano spostati da altre parti di Italia per mettersi al servizio presso la Repubblica di Salò. In questo caso ha un grande impatto simbolico: la porta è la storia, la porta sono gli altri ebrei, la porta è il senso di colpa che non bisogna aprire. Potrebbe irrompere e gravare sulla storia di Myriam e Troise. Nessuno dei due vuole aprirla e nessuno dei due tenta di aprirla. 

Daniela Marra

Vladimiro Bottone, nato a Napoli nel 1957, vive e lavora a Torino. Ha pubblicato i romanzi L’ospite della vita (1999, selezionato al Premio Strega 2000), Rebis (2002), giunto alla seconda edizione, Mozart in viaggio per Napoli (2003), Vicaria (2015) pubblicato da Rizzoli e Non c’ero mai stato (Neri Pozza, 2020). Collabora alle pagine culturali de Il Corriere del Mezzogiorno e de L’Indice dei libri del mese. Il suo ultimo romanzo uscito nel 2024 s’intitola “Il peso del sangue”, ed è edito da Solferino.