Ho appena finito di leggere un libro bellissimo. Si tratta di “Paradisi proibiti. Storie di sesso, alcol e droga nelle opere d’arte” di Claudio Pescio. Il volume, edito da Giunti, in verità non è nuovissimo essendo uscito nel 2023, ma secondo me merita un’attenzione speciale per almeno un paio di motivi: la veste grafica impeccabile e l’approccio all’argomento.
Infatti è diverso dal solito volume di storia dell’arte, e l’approccio, appunto, è più personale ed è intrigante che l’argomento sia trattato in maniera trasversale e a volte, mi si lasci dire, ironica. Anche il linguaggio che l’autore usa è lontano dal solito accademismo freddo e privo di originalità: infatti Pescio, in genere, non usa un linguaggio per addetti ai lavori, ma, pur non venendo meno al rigore storico-filologico dei quadri, ripropone l’argomento in maniera molto attuale. Che dire poi delle meravigliose tavole a colori che corredano il testo? Incredibilmente precise e belle, che fanno quasi entrare il lettore nella scena , proposta e riprodotta su una carta patinata molto raffinata. Non mi era mai capitato di leggere un libro che trattasse un argomento così particolare e non in una sola epoca storica, ma fino agli inizi del XX secolo (praticamente ieri) – il che dà agio di capire anche come si sia evoluto il costume ed il modo di pensare della società rispetto a determinati argomenti perché, oltre a raccontarci le storie dietro ad ogni capolavoro, l’autore tratteggia, in modo semplice ma esaustivo, i (mal)costumi di ogni epoca di cui discute – una sorta di piccolo trattato antropologico per immagini. Le osservazioni che Pescio fa riguardo ai vari dipinti, almeno per me che non sono un’addetta ai lavori, hanno fatto scoprire piccoli-grandi particolari che prima non conoscevo. E sicuramente, d’ora in poi, quando vedrò un dipinto, cercherò di guardarlo in modo diverso, meno ingenuo. Adesso che si avvicina il Natale, “Paradisi proibiti”, potrebbe essere la strenna perfetta: raffinata e piena di contenuti.
Silvia Lanzi
Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).
Perdersi tra le pagine di un libro, farsi prendere da una storia, dai suoi personaggi e dalle vicende di cui sono protagonisti.
Di più. Assaporare il testo, parola per parola, seguirne il ritmo come fosse una musica di sottofondo, che ci accompagna pagina dopo pagina.
Credo che chi ama leggere mi capisca: sono le parole a raggrumarsi in frasi che ci accompagnano, capoverso dopo capoverso, fino all’ultimo atto, nel quale si scioglie la trama e i protagonisti ci lasciano andare.
E se queste parole e queste frasi, originariamente, non fossero nella nostra lingua? Chissà quanta bellezza andrebbe persa, quante emozioni ci sarebbero precluse.
Ed è qui che arriva, provvidenziale, il traduttore che, con la sua fatica, ci permette di aprire scrigni e scoprire innumerevoli tesori ai quali attingere a piene mani e che, a volte, ci accompagneranno per sempre, incidendo si nella nostra memoria e cambiando, perché no, anche la nostra vita.
Di questo, e di molto altro, parliamo con Elvira Grassi, traduttrice letteraria con una predilezione per la narrativa irlandese. Nata ad Ancona, Elvira si trasferisce a Roma dove, nel 2005 fonda, insieme a Leonardo G. Luccone, lo studio editoriale Oblique. Ma lasciamo a lei la parola.
Cosa l’ha portata alla traduzione?
L’amore per la lettura. Ho lavorato parecchi anni in editoria – in vari ruoli – prima di dedicarmi alla traduzione letteraria con una certa costanza. La mia palestra principale è stata la revisione delle traduzioni altrui, è lì che ho capito che la traduzione era l’ambito editoriale in cui avrei voluto dedicare gran parte delle mie giornate. Tradurre è la forma più profonda di lettura, quando traduci capisci com’è fatto veramente un testo, ne conosci alla perfezione ogni elemento, ti immergi e indugi in quella lingua e anche in tutto ciò che non è espresso. Sono partita dalla lettura e sono arrivata alla lettura.
Quali sono le sfide che affronta ad ogni pagina?
La sfida principale è rispettare la forza espressiva dell’autore. Restituire la stessa qualità di scrittura, rendere il timbro, il registro, la cadenza, la scorrevolezza o gli attriti, la musicalità o le stonature del testo originale; fare attenzione alle specificità linguistiche e culturali e alla coerenza interna. Poi ogni pagina presenta problemi puntuali – giochi di parole, scarti linguistici, espressioni gergali o dialettali, tecnicismi etc. – ma questi si risolvono più o meno facilmente, facendo ricerche, studiando, utilizzando i tantissimi strumenti che abbiamo a disposizione. La sfida è la resa globale.
Quanto è importante conoscere, oltre alla lingua, il milieu culturale dell’autore e il mondo in cui si trova a vivere?
La cultura e il mondo in cui vive l’autore ne plasmano la scrittura. In genere prima di iniziare a tradurre un’opera, dopo averla letta, faccio una serie di ricerche sull’autore, leggo interviste, la rassegna stampa estera, cerco di capire quali sono le sue influenze, le letture: tutto materiale che mi aiuta a capire l’universo linguistico e culturale dell’autore, la sua visione letteraria, e che mi permette di tradurre meglio. L’autrice più complessa che ho affrontato finora è Anna Burns, la prima nordirlandese a vincere il Booker Prize con “Milkman” (da noi uscito per Keller), e non avrei saputo tradurla se non mi fossi prima informata sul contesto politico e sociale che ha segnato la sua giovinezza, sull’impatto che hanno avuto i Troubles nella sua quotidianità. Il suo mondo è quello traumatico del conflitto politico-religioso, e la sua scrittura lo rispecchia.
Come si comporta nella traduzione di una lingua che afferisce a contesti profondamente differenti l’uno dall’altro (penso, ad esempio, all’inglese che si parla in Inghilterra e a quello che si parla negli Stati Uniti, o al tedesco della Germania e a quello dell’Austria)?
L’italiano ha una complessità e vivacità linguistica che ci permette di rendere in maniera appropriata e credibile qualunque cosa. Mi è capitato spesso di tradurre il dialetto nordirlandese, che è quasi incomprensibile a una prima lettura, molto fisico, pieno di contrazioni, di strutture sintattiche inconsuete, di parole mai sentite, molto sonore, direi “carnose”, e in quei casi ho cercato di lavorare molto sul lessico italiano attingendo al parlato, ad alcuni regionalismi ormai entrati nell’uso (evitando comunque i dialetti) e di movimentare la prosa, il fraseggio, di sporcarlo. Stesso approccio – ma con risultati diversi ovviamente – ho usato quando ho dovuto tradurre l’inglese di un autore canadese nato a Trinidad, Ian Williams, o di una scrittrice americana nera, Angela Flournoy, che fa grande uso di slang. Credo sia il testo stesso – in qualunque tipo di lingua sia scritto – a dirti come tradurlo, a far uscire la parte di te più intonata a quella lingua.
E di quegli scrittori che scelgono una lingua di elezione e non quella nativa (ad esempio Nabokov), o che sono essi stessi traduttori (ad esempio Murakami)?
Ho tradotto un romanzo scritto in inglese da un’autrice romena, Sophie van Llewyn, e uno da un’autrice thailandese, Pim Wangtechawat. Due brave scrittrici contemporanee che hanno in comune uno stile particolare, evocativo ma spoglio, che costruiscono le frasi in maniera poco convenzionale, usano una punteggiatura non standard, e lavorano molto per immagini e metafore più che per ricerca e ricchezza lessicale. L’effetto è bello, perché si sentono tutti gli stridori della non lingua materna, e quello che ho cercato di fare è stato trovare nel mio bagaglio linguistico le stesse ruvidezze e di contenere le parole. Mi piace il miscuglio, mi piace leggere autori che scrivono per riprodurre la voce che hanno in testa e non per esibire una discutibile bella forma. Cosa ne penso degli autori-traduttori? Non si può generalizzare, ma il rischio di invasione di campo c’è sempre, e di esempi – passati e recenti – ne abbiamo a volontà, fatto sta che la traduzione rimane una eccellente palestra di misura e quindi di scrittura.
Cosa ne pensa del famoso detto di Bertrand: “Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli, e quando sono fedeli non sono belle”?
Fedeltà è una parola abusata in traduzione e questa immagine mi piace poco. Le traduzioni infedeli sono davvero belle? La traduzione è sì un lavoro autoriale, ma non ci si può dimenticare che non abbiamo scritto noi quel testo.
Più che di fedeltà parlerei di adesione – espressiva, ritmica, culturale. Aderire al testo originale, rimanere dentro la misura della scrittura che si ha di fronte, qualunque essa sia (articolata e dirompente o minimale e frantumata), senza snaturarla o dire meglio o di più, per me è questa la bellezza.
E per finire, qual è il libro più ostico che ha tradotto?
Probabilmente quello che sto traducendo ora, una novella di Anna Burns, surreale, allegorica, criptica, ironica, una parodia del mondo dei supereroi. Un contesto inedito per lei, e direi anche per me. Quello che mi aiuta è ancorarmi al suo stile ricorsivo, serpeggiante e battente che ormai mi è familiare.
Quando leggerete un libro straniero, date un’occhiata a chi l’ha tradotto, e ricordatevi l’immenso lavoro che c’è dietro: persone come Elvira Grassi, che ringraziamo per la sua disponibilità, che operano la magia di restituirci, in una lingua diversa dall’originale, le atmosfere, i dialoghi, le vicende – in una parola il milieu – di una storia, proprio il suo autore come l’aveva pensata
Silvia Lanzi
Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).
Il nuovo libro di Edurne Portela“Maddi oltre il confine” inizia come un monologo, anzi come una lunga preghiera a Dio, in cui la protagonista racconta di sé.
Una pennellata dopo l’altra, questo dialogo interiore ci restituisce Maddi, piano piano, e così il lettore si trova nel cuore della sua vicenda quasi senza accorgersene.
Credo che sia questo uno dei punti forti del libro: una narrazione che non soverchia, ma porta quasi per mano chi si accosta a questa storia che parla di una donna straordinaria che si dà da fare come corriere: in tempo di guerra – siamo negli anni ’40 del secolo scorso – inizia a contrabbandare beni voluttuari al di là del confine – in Spagna, per integrare i guadagni di un’attività non sempre florida. La sua vicinanza alla Resistenza, che all’inizio non la segna più di tanto, con il prosieguo della vicenda, complice anche la requisizione del suo hotel da parte dei nazisti, diventa la sua ragione di vita, e da tiepida simpatizzante ne diventa un membro molto attivo.
Maddi è una donna forte, insolita per quei tempi: divorziata, manda avanti un albergo con un socio molto più anziano di lei e, per sbarcare il lunario nei momenti di poco afflusso turistico si dedica ad un commercio non proprio legale. Molto religiosa, non manca mai alla messa domenicale dove viene regolarmente umiliata non potendo accostarsi all’eucarestia.
Insieme a lei ci sono tanti altri protagonisti che influenzeranno grandemente la sua vita: un figlio non esattamente suo, l’anziano socio (poi marito), varie figure della Resistenza da cui si farà coinvolgere un po’ alla volta (uno tra tutti il pizzicagnolo del suo paese), la nipote che la seguirà nella sua avventura, un sacerdote un po’ particolare…
Il racconto di Maddi, a cui la Portela dà un particolarissimo accento spesso drammatico ma anche ironico e forte, nasce da un incontro fortuito dell’autrice con un archivio storico dove è documentata, in modo spesso frammentario e contraddittorio, la vita di María Josefa Sansberro, nata a Oiartzun (una cittadina dei Paesi Baschi spagnoli) nel 1895 e che negli anni ’30 gestiva un albergo molto popolare ai piedi del monte Larrún, al confine tra Spagna e Francia.
È proprio per colmare alcune lacune e risolvere contraddizioni che la Portela ha iniziato ad inventare. Non ad inventare tout court, ma ad immergersi nel personaggio di Maddi per farne emergere tutta la complessità. E a compulsare decine se non centinaia di testi, tra cui studi, memoir, saggi, volumi, lettere e diari per dare spessore agli altri personaggi, ai luoghi e agli ambienti in cui si svolge la vicenda. Non contenta delle letture fatte, la Portela ha parlato a lungo con chi Maddi l’ha conosciuta e con figli e nipoti di chi, purtroppo, è morto nel frattempo.
Ne risulta un romanzo corale, in cui la fantasia e la verosimiglianza hanno riempito in modo superbo gli interstizi lacunosi e privi di documentazione.
Una denuncia contro la barbarie dell’uomo, un memoir antifascista perché, afferma l’autrice, non è possibile non schierarsi.
Maddi diventa così la portavoce di tutti quegli individui, uomini e donne, che hanno concretamente fatto qualcosa contro l’atrocità nazista e di cui si sono perse tracce e nomi.
La storia di Maddi diventa una parabola e uno sprone per non dimenticare.
Edurne Portela ci accompagna in un luogo lontano, sia nello spazio che nel tempo, per farci conoscere una donna concreta, forte e testarda, una donna vera, che con le sue luci e ombre ci fa rivivere in modo privilegiato, uno dei periodi più bui della nostra storia recente.
Silvia Lanzi*
Edurne Portela presenterà “Maddi oltre il confine” a Napoli, alla libreria Luce di Lorenzo Marone giovedì 4 dicembre alle 18.30; e a Roma, alla Nuvola Centro Congressi dell’EUR (Sala Antares), il 6 dicembre alle 14,30 nell’ambito di “Più Libri Più Liberi”.
*Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).
Vi siete mai innamorati di un libro a prima vista? Non intendo quel sentimento che vi prende quando lo sfogliate, ma un amore puro per il layout di copertina, a prescindere dall’argomento: a me è capitato con i libri dell’editore Moscabianca. Quel formato un po’ sovradimensionato rispetto al solito, cartonatura rigida, immagini incredibilmente strane ed eleganti. Ma non è solo l’apparenza ad intrigare, il contenuto è un vero scrigno di bellezza e curiosità: storie strane, pseudobiblia, bestiari e affini si squadernano davanti agli occhi del lettore, incantato e affascinato da tanta meraviglia. La linea editoriale è sostanzialmente bipartita: da una parte libri “scientifici”; dall’altra opere che potremmo definire weird (fantasy e fantascienza in primo luogo), il tutto curato fin nel più minuscolo dettaglio, sicché il piacere profondo della vista si stempera e si compenetra in un piacere intellettuale sottile ma corposo. Incuriosita da questa esperienza di lettura così particolare, ho provato a contattare la casa editrice. Mi ha risposto Diletta Crudeli, la responsabile editoriale, che mi ha concesso una breve intervista. Intanto mi ha raccontato che in redazione lavorano tre persone che, oltre a occuparsi tutte della stampa, hanno compiti specifici: oltre a lei, infatti, ci sono anche Silvia La Posta, responsabile editoriale e Federica De Gregorio che si occupa in particolare di Social Media Marketing: un gruppo in rosa – rigorosamente sotto i trentacinque anni – e due collaboratori esterni che si occupano rispettivamente di editing e diritti stranieri: la magia è opera loro. Ma entriamo nel vivo della chiacchierata.
Da quanto esiste la vostra casa editrice e perché questo nome che è tutto un programma?
Moscabianca è nata nel 2018, con l’intento di pubblicare libri strani e storie capaci di raccontare la realtà senza però farne del tutto parte. Ci piace la narrativa speculativa, insomma, declinata nei generi del fantasy, della fantascienza e del new weird. Moscabianca, come nome, indica proprio questo: qualcosa di particolare e inconsueto.
Qual è il concept che c’è dietro?
Pensiamo che la narrativa speculativa sia in grado di testimoniare e indicare con estrema chiarezza la realtà che ci circonda. Le tematiche che più ci stanno a cuore – antispecismo, femminismo, identità e crescita – sono elementi forti e parti integranti dei romanzi che pubblichiamo. E non solo i romanzi. Il nostro catalogo si concentra soprattutto sui libri illustrati, che siano bestiari, enciclopedie o romanzi ergodici accompagnati da illustrazioni. Abbiamo anche una collana di storie brevi illustrate, i Cuspidi, una collana Young Adult e infine la nostra nuova collana Fushigi. In quest’ultima autori e autrici ci raccontano in piccoli saggi pop come anime, manga e mangaka hanno plasmato il nostro immaginario. Insomma, per noi tematiche e genere si uniscono sempre nel trovare storie capaci di lasciare qualcosa in chi legge, stimolandone ulteriormente immaginazione e riflessione.
I vostri libri sono molto particolari… Con quale criterio scegliere i volumi da pubblicare?
Per quanto riguarda la narrativa italiana abbiamo un’email dedicata agli invii che è sempre aperta. Spesso tuttavia ci appoggiamo anche ad agenzie, cosa che accade più di frequente, soprattutto nel caso di romanzi esteri. In generale, per qualsiasi collana, facciamo noi stesse molto scouting. Le storie che ci piacciono sono quelle che riescono a declinare in modo nuovo e inaspettato i generi da noi amati e che non hanno paura di “sporcarsi le mani” nel voler raccontare la realtà che ci circonda. Pubblichiamo le storie che noi stesse vorremmo leggere e che speriamo riescano a indicare nuove vie di sopravvivenza in questo mondo sempre più difficile da sostenere.
Non vediamo l’ora di leggerlo! E, per chi fosse interessato agli altri titoli, una breve consultazione al loro sito, essenziale e ben disegnato, è d’uopo. Un plauso a queste tre ragazze che hanno saputo creare qualcosa di nuovo e che lo portano avanti con entusiasmo, dimostrando che la cultura, non è qualcosa di vecchio e impolverato, quando non addirittura un po’ ammuffito, ma qualcosa di estremamente vivo e vitale che ci incanta e ci fa riflettere.
Silvia Lanzi
Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).
Mi sembrava spocchioso l’autore, con quel “rev.” che ne precedeva il nome in copertina. Ho pensato che fosse l’ennesima persona famosa che si cimenta in “letteratura” di bassa lega. Sì, perché Richard Coles, oltre ad essere un sacerdote della Chiesa anglicana, è anche l’altra metà dei Communards, un gruppo musicale che, chi ha la mia età, non può non conoscere. Mi sono dovuta ricredere. In effetti, “Omicidio in parrocchia”, il secondo libro che vede protagonista il reverendo Daniel Clement, è una vera chicca.
Nonostante quello che sembra un sacrificio rituale e cruento, vittima un sedicenne un po’ ribelle, ci si affeziona all’atmosfera provinciale, un po’ consunta e a volte occhiuta dell’angolo di Sussex in cui si svolge la vicenda. È uno di quei libri perfetti per questo inizio autunno: un divano comodo, una coperta, una tazza di tè caldo e le pagine che scorrono una dopo l’altra, senza soluzione di continuità. Daniel è la perfetta controparte anglicana di padre Brown. L’editore, in quarta di copertina definisce la storia “delicata, ironica e molto british” e, in effetti, la scrittura risulta arguta e molto piacevole e i personaggi e le situazioni sono tratteggiati in maniera molto convincente. Piccole beghe di paese, persone che si tagliano i panni addosso, come si trattasse di uno sport nazionale, con solo una punta di acrimonia che si stempera nella prossimità affettiva ancora prima che spaziale, sono frequenti come lo sono anche riflessioni profonde sul senso della fede, sulla vita e sul significato di appartenere ad una congregazione. L’autore, poi, gioca con maestria e leggerezza con i luoghi comuni facendoli diventare occasioni di sorriso e riflessione. Altra protagonista del libro è la Chiesa anglicana, raccontata con bonaria indulgenza: le sue vicende storiche, il suo modo di concepire il cristianesimo i suoi riti, gli insegnamenti, sono descritti con puntualità ma senza pedanteria: ne risulta un’ottima occasione per imparare qualcosa di nuovo e allargare gli orizzonti – il che non fa male. Il libro, ambientato negli anni ’80, racconta le vicende di Daniel Clement, canonico di una piccola cittadina di provincia che si improvvisa investigatore a seguito della morte del giovane Josh, figlio del suo nuovo collaboratore, il pastore Chris Biddle, con cui ha un rapporto difficile, quando non apertamente conflittuale. Due sacerdoti. Due modi di vedere la vita. E la fede. Daniel dovrà darsi da fare per trovare il colpevole, anche perché parecchi abitanti del villaggio sembrano nascondere dei segreti e le loro vicende distrarranno non poco il nostro improvvisato detective – una di queste è la morte della signora Hawkins, molto ricca e già malata da tempo, cui il nostro, oltre a dare l’ultimo conforto, dovrà diventare esecutore testamentario proteggendo i suoi beni da persone che, a vario titolo, millantano di esserne i principali eredi… Una lettura che è un piacere ad ogni pagina, un cosy crime delizioso. Il secondo caso del reverendo Clement, che fa venire voglia, per chi non l’abbia ancora fatto, di procurarsi il primo libro della serie, “Delitto all’ora del vespro” – per ora gli unici due tradotti in italiano. Non c’è che da sperare che arrivino presto anche gli altri.
Silvia Lanzi
Silvia Lanzi: Ho conseguito la maturità magistrale, e mi sono laureata in materie letterarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con tesi riguardante l’alto medioevo. Ho collaborato per anni con il settimanale “Nuovo Torrazzo” di Crema occupandomi della stesura articoli di vario genere (soprattutto critica letteraria e teatrale e cronaca di eventi quali vernissage et similia). Collaboro con il sito gionata.org in qualità di traduttrice dall’inglese e scrivendo articoli. Sono autrice di due libri: “Libera di volare” (Kimerik, 2006) e “Coincidenze” (Boopen, 2010). Lettrice onnivora – alterno saggi (psicologia, storia, filosofia e arte) e narrativa (soprattutto anglo-americana e scandinava).