Luca Tosi: “Oppure il diavolo” (TerraRossa, 2025), di Rita Mele

Come se fosse possibile scegliere, come se ci fosse dato di opzionare una volta per tutte da che parte stare e con chi: Dio o il diavolo. Dalla parte delle pentole o dei coperchi. Se questo è un interrogativo che ci attraversa, se il dilemma che ci attanaglia è da che parte stiamo e a chi apparteniamo, beh questo secondo libro di Luca Tosi in uscita a novembre potrebbe farci buona compagnia nel trovare le risposte che fanno al caso nostro. Nelle ottantotto pagine di densa e dinamica narrazione di Oppure il Diavolo, Luca Tosi ci accompagna nel percorso di scoperta, sorprendente quanto possibile, che nella vita arriva il momento di fare pace con Dio e con Diavolo. Che non giochiamo la partita della vita nella squadra di chi fa le pentole oppure in quella di chi fa i coperchi, ma che l’uno e l’altro giocano dentro ognuno di noi sino al momento in cui ci autorizziamo a giocare la vera e unica partita che è la Nostra approvando, accettando, tollerando di essere noi stessi il campo da gioco in cui si muovono i vari giocatori che appartengono al nostro sistema familiare e sociale.

Luca Tosi, promettente autore trentacinquenne cesenate oggi naturalizzato bolognese, dopo tre anni dal suo fortunato esordio da romanziere con Ragazza senza prefazione, selezionato dalla Giuria dei Letterati del Premio Campiello 2022 e finalista al Premio POP 2023, ci propone la seconda prova della sua scrittura jazz raccontando di Natale, di Poggio Berni, del Diavolo e del molto di più a cui lui riesce a dare un ritmo non convenzionale con variazioni su alcuni temi ricorrenti, nella modalità e nell’urgenza espressiva tipica di una composizione jazz. A noi de Il Randagio, Luca Tosi, piace perché più lo leggi e più ne ascolti la voce narrante, più ti lasci portare nei suoi attraversamenti di Poggio Berni e della coscienza di Natale: quello che diremmo un randagio di eccellenza, nel posto giusto al momento giusto, almeno sino a quando rompe gli schemi e si autorizza all’opzione del Diavolo. Saremmo tentati di dirvi di più, ma come si fa a raccontare l’improvvisazione narrativa di un brano jazz, se non lasciandosi portare attraverso la storia in cui si alternano struttura, rottura e ricomposizione? Anche a noi piace rompere gli schemi della recensione letteraria e per questo vi proponiamo una intervista immaginaria a Luca Tosi, ispirata dalla scrittura sincopata di Oppure il Diavolo che creando un senso di slancio o di sorpresa, rende la lettura meno prevedibile e più dinamica. Ecco le tre domande randagie della nostra intervista ipotetica a Luca Tosi, focalizzate sui temi che abbiamo riconosciuto come cruciali per la storia del protagonista, Natale e del Sistema Poggio Berni: 

1. Simbolismo e Nichilismo 

Il nome del protagonista, Natale, è in netto e amaro contrasto con le sue disgrazie e la miseria morale di Poggio Berni. Il titolo stesso, Oppure il diavolo, sembra suggerire una visione nichilista o profondamente pessimistica della condizione umana. Qual è il peso specifico del male e del pregiudizio in questa storia? Natale è davvero una figura “demoniaca” per Poggio Berni, o è piuttosto un anti-eroe che usa la vendetta per denunciare l’ipocrisia della comunità, costringendola a guardare il suo stesso diavolo interiore? 

2. Scelta dell’Ambientazione 

Ha scelto Poggio Berni, una frazione romagnola, come scenario per una storia di isolamento e condanna sociale, un luogo che lei definisce “di molte dicerie e pochi abitanti”. Perché ha scelto la provincia, e in particolare questo microcosmo geografico specifico, per ambientare una storia universale di vendetta e pregiudizio? C’è qualcosa nel dialetto o nella cultura romagnola che amplifica questa particolare miseria umana rispetto ad altri contesti? 

3. Voce Narrativa e Ironia 

La sua scrittura è nota per l’uso di una voce “ironica che sa mostrarci il mondo e i sentimenti come non abbiamo mai pensato possano essere”. In Oppure il diavolo, questa voce appartiene direttamente a Natale. Fino a che punto possiamo fidarci dell’ironia del narratore in prima persona? L’umorismo crudo di Natale è un meccanismo di difesa per seppellire il dolore o è l’unica lente lucida e onesta per osservare una realtà altrimenti insopportabile? 

Luca Tosi risponderà mai alle nostre domande, oppure i nostri lettori randagi correranno a leggere il suo secondo romanzo per mettersi nei suoi panni e dare il proprio senso a questi interrogativi? Chi lo scopre e lo conosce sa che l’originale, sorprendente e non convenzionale Luca Tosi fa sia le pentole che i coperchi e ‘sfratta subito le tracce diaboliche lasciando in sospeso’ giudizi e pregiudizi alla maniera di Rossana… (non possiamo dirvi di più!). 

A proposito di lasciare in sospeso, non vorremmo farlo rinunciando a una domanda che per questo rivolgiamo a Giovanni Turi, lo spietato mentore di Luca Tosi, direttore editoriale di TerraRossa e della Collana Sperimentali ‘dedicata agli scrittori in grado di coniugare solidità narrativa e originalità stilistica’: citare Céline di Viaggio al termine della notte nell’esergo di Oppure il diavolo è una strizzatina d’occhio ai lettori di Tosi per sottintendere che ‘il francese’ è tra i suoi autori di culto, insieme agli americani Carver e Bukowski, al russo Dostoevskij e agli emiliani Bassani e Pedretti? Noi de Il Randagio non facciamo fatica a crederlo, tanto abbiamo riconosciuto in filigrana delle affinità stilistiche nella gestione della lingua parlata e nell’uso della punteggiatura che segna il ritmo emotivo del romanzo. Sintassi frantumata e punteggiatura non convenzionale in entrambi gli autori, ci hanno parlato di una radicale manipolazione delle frasi volta a far coincidere il ritmo della prosa con il ritmo del pensiero e della voce interiore e parlata del protagonista, conferendo al romanzo l’oralità iper-realistica e colloquiale, gergale, diretta sino a suonare scurrile. Lasciando a ciascuno dei due autori la propria unicità di temi e registro. Chi dei due è Dio e chi il Diavolo? Oppure… 

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare

Fernando Battista: “Pedagogia del confine – Storie di corpi in movimento per una geografia delle relazioni”, di Rita Mele

La danza nell’educazione non esiste solo per il piacere di ballare, ma attraverso lo sforzo creativo nel dare forme estetiche all’esperienza significativa si spera che gli studenti sviluppino il loro potere creativo e, a loro volta, migliorino se stessi come persone.”

Margareth H’Doubler

C’è bisogno di coltivare lo “sguardo interiore” degli studenti, e ciò implica un’istruzione particolarmente attenta alle discipline umanistiche e alle arti […] che metta gli allievi in contatto con le problematiche di genere, razza, etnia e li conduca all’esperienza e alla comprensione interculturale. Questa educazione artistica può e deve essere il fulcro dell’istruzione del “cittadino del mondo”, perché spesso le opere d’arte sono un modo insostituibile mediante il quale iniziare a comprendere le conquiste e le pene di una cultura diversa dalla propria.” 

Martha Nussbaum 

E se la scuola fosse una danza? Non una danza qualsiasi, ma proprio la danza che ci insegna a trasformare i confini in incipit delle relazioni?

Pedagogia del confine è il libro dell’eclettico Fernando Battista che apre il sipario sulla scena della Danzamovimentoterapia DMT a scuola. E, volteggiando tra teorie, tecniche e esperienze laboratoriali, rivela palcoscenico, scenografia e attori dell’educazione e delle sfide-opportunità contemporanee: migrazioni, intercultura, pregiudizi, ragione e sentimento, corpi, lingue e linguaggi a scuola. Fernando Battista, ricercatore in pedagogia, professore al Dams, coreografo e performers, danzamovimentoterapeuta e insegnante nelle scuole superiori, con la sua ricerca-intervento politico-pedagogica, ha trasformato esperienza e tesi di dottorato nel libro pubblicato a febbraio 2024 dalle edizioni Junior Spaggiari. Battista ci fa entrare sulla scena educativa con il suo approccio art-based e la prospettiva della conoscenza incarnata, per dimostrare il ruolo del corpo e dell’esperienza sensoriale nella formazione della conoscenza. Nel suo libro ‘racconta’ la sua ricerca partita dalle periferie orientali romane dove il degrado urbano mette in sofferenza il vivere sociale e impronta di sé gli individui e la comunità. Eppure, leggendo il suo libro, ci accorgiamo di percorrere il suo stesso cammino sperimentale iniziato nel 2015 in un istituto tecnico per il turismo di Roma con il progetto Anime Migranti che si proponeva l’obiettivo di accorciare le distanze tra studenti, comunità e giovani migranti utilizzando come strumento pedagogico i linguaggi della danza, della Danzamovimentoterapia e le arti. Sperimentazione che, come si legge nel libro, ha consentito ai partecipanti, studenti, insegnanti, mediatori, psicologi di incontrare persone migranti provenienti da vari centri di accoglienza, disvelare e superare barriere e pregiudizi. Ma il libro è tanto altro ancora, è poliedrico come il suo autore, è ricco di speculazioni teoriche e accademiche ed è allo stesso tempo percorso e animato dalle esperienze incarnate in prima persona da Battista con studenti e insegnanti. Il lettore può lasciarsi portare attraverso le ‘geografie relazionali’ dove la mente e il corpo sono strettamente interconnessi e si influenzano reciprocamente sulla scena scolastica-educativa.

Chiave di accesso al teatro educativo in cui accompagna i lettori con la sua narrazione è il metodo della DMT, la danzamovimentoterapia, la danza educativa che, prima ancora di avvalersi di teorie e tecniche trae origine dai linguaggi artistici e dal bisogno umano originario di migrare nella pluridimensionalità dell’esperienza umana. A scuola, come nel mondo, ci vuole dimostrare Battista, è possibile e utile attraversare i confini della propria cultura per spostarsi ed entrare in territori di altre culture e imparare a conoscere, a interpretare o reinterpretare la realtà secondo schemi simbolici diversificati e molteplici. Tutti gli attori della scuola sono innanzitutto individui antropologicamente predeterminati a muoversi in cammini evolutivi e a tracciare rotte e geografie relazionali, sempre nuove eppure sempre originarie e originali. Come autentici danzatori, studenti, insegnanti, dirigenti e operatori scolastici si stagliano e si muovono sulla scena calcata insieme a Battista durante le esperienze romane, dimostrando che è possibile fare scuola, insegnare e imparare, conservando e ritrovando l’amore del gioco, il senso infantile della disponibilità, il lusso di non disperdere l’innocenza e di riannodare i fili che sembravano spezzati delle vite migranti, delle differenze linguistiche, delle culture altre. Oggi è vitale, oltre che prezioso, leggere le affermazioni incarnate di un esperto che ci aiuta a ritrovare la fiducia nella scuola come scena madre che accoglie, contiene e riannoda giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, conoscenza dopo conoscenza, le relazioni che insegnano a vivere con pienezza, senza confini, oltre i confini. 

Pedagogia del confine è un libro-laboratorio immersivo che riflette e ci aiuta a riflettere su come e con quali strumenti un’esperienza sui generis di pedagogia, del confine appunto, possa irrompere sulla scena educativa, teorica e pratica, e agire in modo trasformativo per farne emancipare ed evolvere il paradigma passando per la conoscenza diretta e la crescita responsabile degli individui di tutte le età e culture, oltre ogni confine. Generosa e ricca la bibliografia che correda il libro, rendendolo un vero e proprio strumento di lavoro e di approfondimento non solo per gli addetti ai lavori. Imbarazza scegliere i nomi e le opere da citare. Lasciamo ai nostri lettori randagi il gusto della scoperta, delle connessioni e dei rimandi. Tutta l’opera è pervasa da una domanda: le arti, il corpo, la danza possono creare contesti inclusivi e interculturali? La risposta ce la dà l’autore stesso quando svela che l’esperienza educativa della Pedagogia di confine può essere un rito di passaggio capace di trasformare la domanda “da dove vieni?” in “dove vuoi andare?” e di farci “vedere una nuova geografia delle relazioni dove si creano i legami tra le diverse culture…dove i confini vengono ricollocati” e dove le rigidità identitarie cedono il posto alla certezza e alla speranza di appartenere all’unico genere, quello umano.

A noi de Il Randagio viene naturale dire che “Pedagogia del Confine” è un libro al confine dei generi letterari perché diversamente da altri saggi che trattano temi complessi come l’identità, la cultura, i limiti umani, questo di Battista, senza sconfinare nell’accademico puro o nel filosofico, mantiene una struttura argomentativa che conserva e trasmette lo stupore di chi ha fatto una scoperta a forte impatto emotivo e vuole condividerla rendendola accessibile e coinvolgente per sviluppare appartenenza all’idea che la scuola incarni la chance per l’esplorazione e l’incontro con il mondo dell’Altro, dove il confine, superate resistenze e limiti, diventi una soglia di rivelazione da attraversare ‘Con l’anima sulle labbra’ (frammento dell’Antologia di Spoon River) perché si manifesti una nuova comprensione degli Io e dei Noi.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare

Cristina Peri Rossi: “Il museo degli sforzi inutili” (Edizioni SUR, 2025), di Rita Mele

“La vita è un puzzle di tanti pezzi, sparsi. E noi, gli ingegneri, cerchiamo di selezionarne alcuni, di configurare un significato, una struttura, una forma di senso. Con gli indizi che propongo, se il lettore è interessato, si può mettere insieme una presunta biografia. Sono nata a Montevideo, in Uruguay, il 12 novembre 1941 (La città di Luzbel). Ero una bambina curiosa, che credeva che la conoscenza fosse potere, e decise di indagare, da sola, tutto ciò che è umano e divino (La ribellione dei bambini, Il pomeriggio del dinosauro). In seno alla mia famiglia (emigranti italiani arrivati nella Terra Promessa, oltre il Sud) ho imparato molto sulle passioni e sulle delusioni: una famiglia è un microcosmo (Il libro dei miei cugini). Ho studiato musica e biologia, ma mi sono laureata in Letterature comparate: la fantasia mi sembrava un territorio più affascinante di quello delle leggi fisiche. Ero romantica prima di sapere cosa fosse il Romanticismo; amavo le rovine, i giorni di pioggia, le passioni morbose, l’intensità. Quando ero piccola, i miei zii mi portavano al porto a vedere le navi salpare. Mi innamorai di quelle balene bianche, senza sapere che un giorno, all’età di ventinove anni, una nave italiana (perfetta geometria di origine e di esito) mi avrebbe portato in esilio, in Spagna. L’esilio è stata un’esperienza lunga, dolorosa, totalizzante, che non cambierei con nessun’altra… Il mio paesaggio preferito: l’Europa dopo la pioggia…I prossimi paesaggi saranno nuovi.” (tratto dal catalogo della mostra Cristina Peri Rossi: La nave dei desideri e delle parole. Omaggio al  Premio Cervantes 2021,  organizzata dal Ministero della Cultura e dello Sport spagnolo e dall’Università di Alcalá).

Come poter rinunciare a questo panoramico puzzle della vita di Cristina Peri Rossi? Perché cercare altre parole se già da queste si sprigionano gli umori poetici e letterari di una scrittrice che, per nostra fortuna, viene riportata in Italia dalla casa editrice SUR, dopo 28 anni dalla prima traduzione italiana, curata già da Vittoria Spada per Einaudi. Nel 1983, a 42 anni, Cristina Peri Rossi ha scritto El museo de los sfuerzos inutiles pubblicato in Spagna, a Barcellona, la città da lei scelta nel 1972 per il suo esilio volontario, dove ancora oggi, a 84 anni, vive continuando a considerare la letteratura, la sua patria. Bisnonni genovesi emigrati a Montevideo, è figlia di Ambrosio Peri, operaio in una azienda tessile, che muore quando lei è bambina e Julieta Rossi, maestra. Da gennaio 2025, Il museo degli sforzi inutili, edito nella Collezione SUR, per chi non lo avesse letto in lingua originale o tradotto, ci dà una seconda chance di visitarlo e immergersi nelle atmosfere sospese scolpite da parole taglienti come una lametta Gillette e lenite dal balsamo di altrettante parole umoristiche, oniriche, ironiche, allegoriche, malinconiche e passionali. Trenta racconti in centosessantanove pagine, rappresentano una preziosa occasione per i lettori randagi che invitiamo a scoprire o ritrovare la spiazzante contemporaneità di una scrittrice più che mai in risonanza con le ambiguità, le paure, le insidie, i sogni, i troppo vuoti e i troppo pieni delle nostre esistenze. Non tutto è come sembra ci dicono i personaggi dei racconti di Peri Rossi, ognuno di loro mostra e allo stesso tempo nasconde e ci sollecita, per questo, a scoprirlo, indagarlo, osservarlo, proprio come quando, visitando un museo, tra gli strati e la giustapposizione di oggetti, scorgiamo il senso o il non senso delle storie che sembrano raccontare e che, a ben guardare, sono forse le nostre. Storie pennellate e delicate al limite del metafisico o surreale, giochi di trasparenze che sembrano offuscarsi bruscamente in epiloghi che ci interrogano. Osando chiedere un prestito letterario e cinematografico, con i dovuti distinguo, è alla raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti del napoletano Gianbattista Basile e al film Il Racconto dei racconti del regista Matteo Garrone che accosterei la tensione costante, fantastica e irrisolta dei racconti di Caterina Peri Rossi. Anche lei, come loro, ne fa una questione puntuale di stile, di lingua, di sguardo, di immaginario avvicinandosi alla struttura della fiaba senza per questo arrivare a toccare tutte le parti, e non sempre in sequenza ordinata, della Morfologia della fiaba del linguista russo Propp (Equilibrio introduttivo, Rottura dell’equilibrio iniziale, Azioni dell’eroe, Ristabilimento dell’equilibrio). Peri Rossi ci offre la sua versione del meraviglioso anche quando arriva allo scacco finale delle storie o da quello parte per sorprendenti ribaltamenti. Il racconto è stato sin dall’inizio della sua esperienza giovanile di scrittrice, uno dei suoi generi preferiti, pur tornando spesso al romanzo senza scadere, come afferma in alcune interviste, all’eccesso di romanticismo, da cui si ritiene indenne per la sapiente alchimia di ironia, umorismo e tenerezza. Pragmatica e sognatrice allo stesso tempo, proprio come l’autrice stessa descrive Barcellona, la sua città adottiva; ossessiva quanto basta per preservare la pulsione e non l’oggetto della passione, come ha dichiarato a proposito della sua passione per l’esilio, scelto a ventidue anni per sfuggire alla dittatura uruguaiana, sostituito con un’altra dittatura, quella dell’amore.

Prima di partire per l’autoesilio, a Montevideo, aveva pubblicato due racconti, un romanzo e una raccolta di poesie erotiche, Evohé, che aveva scandalizzato la pudica società uruguaiana al punto che la dittatura la proibì. Da allora Montevideo è stata cancellata dalle sue geografie. Oggi, superati gli ottanta, Caterina Peri Rossi sta vivendo una rinascita nella sua carriera e non solo da noi in Italia: nel 2014, Estuario Editora ha iniziato a recuperare le sue opere in Uruguay e a pubblicare anche le sue nuove opere, come il romanzo Todo lo que no te pude decir (Tutto quello che non potrei dirti) e la sua autobiografia romanzata La Insumisa (L’Insumisa). Persino Evohé, proibito e praticamente introvabile, è stato ripubblicato nel 2021 sempre da Estuario, e la copertina è stata riprodotta con il nome dell’autrice sulle t-shirt. Il culmine della rinascita sulla scena letteraria internazionale è stato il Premio Cervantes ricevuto da Peri Rossi a 80 anni nel 2021, diventando la terza scrittrice uruguaiana onorata di tale riconoscimento. A causa di un broncospasmo, non ha partecipato alla cerimonia di premiazione, ma ha inviato un discorso scritto letto dall’attrice argentina Cecilia Roth. La giuria del Premio Cervantes ha riconosciuto “la carriera di una delle grandi figure letterarie del nostro tempo e la statura di una scrittrice capace di esprimere il suo talento in una varietà di generi”. Il Cervantes non è bastato a farla tornare fisicamente in Uruguay, ma in compenso Cita en Montevideo, un bellissimo libro-oggetto recentemente pubblicato, che raccoglie testi, foto e altri documenti esclusivi in una prima versione dattiloscritta e annotata, simboleggia il ritorno della scrittrice sulla scena letteraria e, guarda caso, in concomitanza con le celebrazioni del 300° anniversario della capitale del Paese. Perché scegliere di leggere oggi Peri Rossi? E perché cominciare dalla sua raccolta dei 30 racconti brevi e brevissimi che prende il titolo dal primo, appunto, Il museo degli sforzi inutili, parodia di glorie passate dedicato ai perdenti che hanno seguito invano piccole e grandi passioni e sberleffo ai codici di condotta e alla disapprovazione sociale dell’ozio e dei fallimenti? 

Proviamo ad elencare alcuni dei buoni motivi per avvicinare una delle scrittrici dallo stile e dalla storia più personali della letteratura ispanoamericana: originalità, stile narrativo e poetico inconfondibile e anticonvenzionale, scrittura acuta, ritmica e profonda che scolpisce i suoi personaggi, sensibilità fine per i temi universali come la solitudine, l’amore e il desiderio, il potere e la repressione culturale della libertà individuale, onestà e sguardo critico sulla realtà, prosa intrigante, profonda e anche inquietante, amore per le parole al di là delle lingue. Non ultimo, fare ricadere la scelta su una raccolta di racconti così densa, sorprendente, stimolante e breve allo stesso tempo come questa, può rappresentare un modello letterario e un formato di libro adatto a farci disintossicare dalla dipendenza da post e a rieducarci agli stimoli e all’attenzione verso storie di vita che sono anche le nostre e che possono ancora farci meravigliare. Scrollare quotidianamente migliaia di contenuti sui social media sovraccaricando il nostro cervello e anestetizzandolo causa perdita di attenzione e desensibilizzazione agli stimoli e fa saltare i circuiti della dopamina sino ad avere bisogno di stimoli sempre più forti. L’antidoto all’era della distrazione può essere proprio un libro come questo e la scrittrice ne sarebbe fiera, dal momento che qualche anno fa, quando la sua attività pubblicistica era più pressante, si è espressa con forte vena critica nei confronti della nostra dipendenza dalla tecnologia, in particolare dal telefono cellulare. Cristina Peri Rossi, con il suo stile tagliente e la sua capacità di osservazione acuta, ha così fotografato una realtà contemporanea in cui la connessione virtuale sembra spesso prevalere su quella umana e reale: “Il telefonino è come l’orecchio del sordo: lo inserisci nell’orecchio e non lo togli più, a volte neanche quando dormi (conosco persone che non spengono il cellulare neanche quando fanno l’amore – i pochi, rapidissimi momenti in cui riescono a farlo). 

L’abbiamo visto in un laccato film americano: il protagonista lavora per una multinazionale molto importante, giace con una bellissima donna in un hotel naturalmente lussuoso, e al momento di scoccare un bacio sulla bocca della diva, il cellulare squilla, l’affare è urgente, la donna aspetta con pazienza, l’amore dura una manciata di minuti, poi il ragazzo si allaccia i pantaloni, perché c’è sempre qualcosa di meglio da fare, soldi, ad esempio.”

Accogliamo dunque il monito della Peri Rossi e leggiamo Il museo degli sforzi inutili per contrastare la perdita di contatto con le emozioni autentiche e le relazioni umane significative, affinché non tutti gli sforzi diventino inutili e, leggendo oltre i social, si torni a prendersi cura ‘della fugace memoria dei vivi’

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare

Gunther Maria Carrasco: “Il verso di Ade” (Déclic edizioni Perugia), di Rita Mele

“AAA Editrice multidirezionale cerca opere ibride, sperimentali, devianti, inclassificabili; nuove forme, nuovi usi di forme date, costruzioni decostruzioni distruzioni, assenze di forma.”

All’annuncio non poteva che rispondere Gunther Maria Carrasco con Il verso di Ade. La sua opera multipersa risponde a pieno titolo e a mo’ di calco alla ricerca dell’editore déclic, Carlo Sperduti, romano naturalizzato perugino, già scrittore e libraio che alla fine del 2023, appena in tempo per lo scoccare dei suoi 40 anni, ha sentito un déclic nella sua mente e ha trovato una improvvisa soluzione per rispettare il patto fatto con sé stesso qualche anno prima: fondare la sua casa editrice.

Per scoprire chi è Gunther Maria Carrasco, uno degli autori ideali di Sperduti, abbiamo cominciato dalla sua presentazione sull’aletta e a pagina 99 del libro: è stato come cercare l’ago nel pagliaio o, peggio, cercare nel pagliaio non si sa che, scoprendo quanto più interessante è il pagliaio stesso. Gli interrogativi su chi sia veramente Gunther Maria Carrasco crescono nel numero e nella portata ad ogni parola che vorrebbe descriverlo e già lì, tra quelle righe, abbiamo scoperto che è proprio tutto avverato quello che al debutto di déclic a Perugia, Carlo Sperduti ha affermato e promesso “A me interessano libri che abbiano a che fare con il mezzo del linguaggio, prima di tutto con la scrittura solo dopo le tematiche. Le scritture ibride sono per me quelle più interessanti e privilegerò le opere che devieranno dai solchi già tracciati”. Quale inimmaginabile aderenza dal ritmo giambico tra Chi scrive (chi scrì-ve) e Chi edita (chi e-dì-ta). Gunther Maria Carrasco, per noi lettori randagi confidenzialmente GMC, si svela, pur custodendo il mistero, in una presentazione ufficiale ironica, surreale e metalinguistica, attraverso cui in filigrana ci fa scorgere che sta giocando con la sua identità e la sua relazione con il mondo letterario. Il ritratto che ci arriva è di un autore giovanissimo già influente nel panorama letterario “multiperso”, sperimentatore con un approccio al limite del convenzionale alla scrittura e all’editoria, dedicato e ambizioso nel suo lavoro artistico, che alle convenzioni e alla “normalità”, preferisce il fare esperienza del flusso di perpetua creatività e metamorfosi, e che la sua stessa identità abita nella sua opera al confine tra autore e personaggio. E sopra tutto ha deciso programmaticamente di non voler correre il rischio di “diventare un bambino vero” e che, per riuscire nell’intento, non desidera conformarsi alle aspettative o alle fasi “naturali” della crescita, vuole preservare la capacità di stupirsi, di giocare con le idee e di vedere il mondo con occhi nuovi, per rimanere in uno stato di continua sperimentazione e metamorfosi, evitando di cristallizzarsi in un’identità artistica che finirebbe, suo malgrado, col diventare adulta.

Il suo gioco con l’identità e l’autorialità a noi de Il Randagio è piaciuto e dopo un leggero senso di smarrimento e spaesamento letterario iniziale ci siamo messi in cammino fianco a fianco con l’autore e i suoi personaggi, attraversando metriche poetiche e stili di prosa per multiperderci, affidati come bambini alla nostra guida delle meraviglie e degli inciampi linguistici, come in una odissea interiore, la sua e dei suoi personaggi, ma anche la nostra. Ci siamo avventurati nel suo labirinto e ne siamo usciti godendo e soffrendo, percorrendone le volute linguistiche del mistero e della frammentazione. Fidarsi senza mai del tutto poter escludere cambi di registro e di scena, senza neanche poter contare sulle ancore di un indice, di titoli e di capitoli, abbiamo sentito crescere l’attrazione per GMC e per i suoi controluce emotivi. Sembrerà oramai evidente per chi ci sta leggendo che non è dato dire di più senza rompere l’incantesimo riservato ai lettori integrali dell’opera. Motivo sacrosanto per proseguire in questa nostra recensione volatile che evaporando lasci intatta l’esperienza a chi sceglierà di non perderla. Vogliamo dirvelo ancora che si tratta di un’esperienza letteraria radicale, un viaggio in un territorio in cui le mappe narrative convenzionali si polverizzano in favore di un’audacia linguistica al limite del perturbante. Racconto, poesia, saggio, l’opera di GMC si manifesta come un prosimetro ibrido e metamorfico, un organismo testuale uno e trino che respira tra la rarefazione di una prosa in cui riecheggiano silenzi, sussurri di sincopi di versi, spezzati come relitti di un naufragio semantico, e una terza forma, sfuggente e inafferrabile, che gioca con i confini tra i generi, quasi una lingua aliena in cui familiare e ignoto si fondono.

L’Ade di Carrasco ci avvolge e ci richiama come un Ade interiore, un regno di ombre psichiche e frammenti di coscienza dove le voci si sovrappongono in uno smarrimento polifonico e i significati di versi e prosa si increspano sulla superficie opaca di un inconscio collettivo e individuale. Usciti dall’Ade e grazie alla storia di Ade possiamo dire a cuore aperto che gli inciampi ricorrenti nella frantumazione deliberata del verso e della prosa in cui ci siamo imbattuti è tutt’altro che una sequenza di nichilismo stilistico, ma piuttosto la dissezione meticolosa della realtà percepita come una storia intrinsecamente discontinua, un tentativo di cartografare la schizotipia del pensiero contemporaneo e la precaria consistenza del reale.

Tra le pieghe del testo si insinua un’irriverenza corrosiva mista a scetticismo che stordisce le fondamenta delle narrazioni lineari e delle granitiche certezze. Dalla scrittura emergono biografie senza soggetto, fantasmi verbali che in poche righe costringono all’esperienza del vedo e non vedo l’esistenza di personaggi che potrebbero essere oltre il nome assegnato e viceversa e che lasciando dietro di sé non una storia come ci aspetteremmo, ma l’eco dolente di una solitudine di specie e di genere e di un’incomunicabilità radicale. Il linguaggio si fa viscerale e straniante, plasmando immagini di un grottesco surreale, come l’indimenticabile dettaglio dei “baffetti lisci lisci, che potrebbero anche essere acciughe dipinte”, che ci proietta in un universo dove il confine tra l’umano e l’oggetto, tra il familiare e l’aberrante, si fa pericolosamente labile. E dove ci è sembrato di essere cascati nel Rabbit Hole delle meraviglie con Alice.

La metrica de “Il verso di Ade” è una voluta assenza di sistema, un ritmo sotterraneo e imprevedibile sintonizzato con le fibrillazioni di una mente che sembra interrogare i propri stessi processi. È una meta-metrica o, se preferiamo, una anti-metrica funzionale a una poetica del frammento e della discontinuità, dove il silenzio tra le parole acquista un peso semantico pari a quello espresso.

Il titolo stesso, Il verso di Ade, si stratifica di significati: un’eco proveniente dalle profondità dell’inconscio, un frammento di un linguaggio perduto, forse una neanche tanto sottile pretesa di dominare il mistero attraverso la parola. E in questo regno liminale, Carrasco sembra condurre una vivisezione del linguaggio, smontandone le convenzioni per rivelarne le fragilità e le potenzialità inesplorate, con un intellettualismo acuto e disincantato.

L’irruzione di dinamiche relazionali intime, attraverso il legame di Pardo e la complessità emotiva di No, oscillante tra il desiderio di connessione e un richiamo selvaggio alla solitudine, potrebbero suggerire un altro motivo di spiazzamento per i lettori: una sensibilità femminile o una prospettiva di genere peculiare. La scelta del nome No, con la sua assertività e il suo potenziale rifiuto di convenzioni, letto in controluce, potrebbe risuonare con un percorso di ridefinizione identitaria femminile. Anche la dinamica di accettazione e affetto tra figure femminili, come il rapporto tra No e Alto, pur non essendo esclusiva, potrebbe arricchire questa ipotesi.

Se Gunther Maria Carrasco fosse una donna – ci siamo autorizzati a pensare in più momenti, Il verso di Ade acquisterebbe ulteriori strati di lettura. L’esplorazione di un linguaggio frammentato e di identità fluide potrebbe dialogare in modo ancora più profondo con le questioni di genere e con la decostruzione di categorie binarie. 

La rarefazione del senso e la difficoltà comunicativa, filtrate attraverso una sensibilità femminile, potrebbero assumere sfumature inedite, legate a esperienze storicamente marginalizzate o silenziate. Purtuttavia, stordimento e spaesamento a parte, non dimentichiamo che la bravura di uno scrittore trascende il genere, e l’opera di GMC ce lo conferma primariamente per la sua forza intrinseca e la sua capacità di risuonare con il lettore, indipendentemente dalla sua identità. 

La possibilità che Gunther Maria Carrasco sia una donna aggiunge innegabilmente un ulteriore elemento di mistero e di potenziale ricchezza interpretativa che, per la sua audace singolarità, vi invitiamo a scoprire e sperimentare.

Il doppio finale, con il dialogo crepuscolare tra Ade e babbo Pardo e la loro progressiva consunzione nel vuoto dello spazio bianco e delle interpunzioni, risuona come un requiem sussurrato per la finitezza dell’essere e per l’illusione della permanenza. È un addio che si fa eco nel silenzio, un invito a contemplare i vuoti esistenziali con una quieta accettazione.

Il verso di Ade non è un’opera per cuori pigri o menti in cerca di facili consolazioni. È una sfida intellettuale ed emotiva, un’immersione in un flusso di coscienza destrutturato che richiede al lettore una partecipazione attiva e una disponibilità a navigare nell’ambiguità. Unica e coraggiosa, è una sperimentazione letteraria che si sottrae alle facili etichette e che, proprio nella sua frammentazione e nel suo mistero, rivela una potente e inquietante coerenza interiore. Un libro che non si legge, ma che si esperisce come un’eco lontana proveniente dalle profondità del linguaggio e dell’anima.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare

Intervista a Fabio Stassi per “Bebelplatz. La notte dei libri bruciati” (Sellerio), di Rita Mele

Scrittore apprezzato dalla critica e dal pubblico, legato da dodici anni a Sellerio; bibliotecario di professione come Borges o Alberto Manguel, Fabio Stassi, classe 1962, una vita letteralmente vissuta tra i libri, con “Bebelplatz” non solo racconta uno dei momenti più bui della Storia del Novecento (il titolo fa riferimento alla piazza di Berlino in cui il 10 maggio 1933 vennero dati alle fiamme migliaia di libri), ma anche il dolore personale per il rogo di migliaia di volumi di autori cari, considerati “degenerati” dai nazisti. Bebelplatz è un libro composito e stimolante che si interroga sul senso della Letteratura, dei Libri e della Cultura; un libro necessario che è piaciuto tantissimo a noi del Randagio e alla nostra Rita Mele che ha avuto la fortuna di poter fare qualche domanda all’autore.

‘Bebelplatz’ è un romanzo che ci riporta a un capitolo oscuro della storia, la notte in cui i nazisti bruciarono i libri. Cosa l’ha spinta a rievocare questo evento, e perché proprio ora?

Grazie per questa domanda e grazie anche per l’uso della parola “romanzo”. Io credo che sia anche questo Bebelplatz. E’ un romanzo ed è anche altre cose per me. È un “libro ornitorinco”, fatto di parti diverse. È un libro di viaggio, un reportage, è un saggio storico, è una resa dei conti, è un romanzo, appunto, è un memoir. Per scriverlo ho usato tutto quello che potevo e che negli anni ho cercato di imparare a fare. Nasce da una crisi di identità. Durante la pandemia, come molti, come forse tutti noi, ero caduto in uno stato di smarrimento. Per la prima volta mi sono sentito, forse più che mai, ho capito di essere un orfano del ‘900, di un altro secolo, di altri valori anche, di un’altra letteratura. La pandemia aveva squarciato il fondale, aveva squarciato il teatro. La realtà era tornata con tutta la sua drammatica pressione. E le conseguenze le vediamo ancora oggi: il ritorno della guerra in Europa, l’instabilità politica, il ritorno dei populismi, certe parole d’ordine, i fantasmi del passato. Ecco, per uscire da questa crisi d’identità, mi sono chiesto: “A quale letteratura appartengo? A quale letteratura marchiata da un marchio d’infamia come dicevano i nazisti? A quale idea di mondo?” E così ho cominciato questo che è stato un vero e proprio viaggio reale in molte città della Germania, ma anche un viaggio interiore.

Quali differenze ha trovato tra le città italiane e quelle tedesche? E come si inserisce il tema della memoria in questo contesto?

Io vivo in una città, Viterbo, a cento chilometri da Roma, che durante la guerra è stata in gran parte bombardata. Le città italiane hanno memoria di quello che è successo anche nel loro tessuto urbano, nei monumenti, nella ricomposizione di certi quartieri. Ma sono state soprattutto le città tedesche che ho visitato a impressionarmi. Conoscevo un po’ la Germania, ma in questo viaggio l’ho guardata con occhi diversi e mi sono reso conto che sono città vicarie, sostituite ad altre città. A Colonia ho visitato un museo che nelle fondamenta riporta la distruzione che quel luogo aveva subito e ti danno delle foto su come era quel quartiere. Poi esci per strada e provi a fare un confronto e non c’è più niente, è impossibile orientarsi. C’è un sito in cui alcune persone sono andate a fotografare le piazze in cui sono stati bruciati i libri e, se confronti le vecchie foto con quelle di adesso, i luoghi sono irriconoscibili, sono stati completamente ricostruiti. La domanda è forse sulla memoria, anche sulla memoria urbana. Viviamo un momento delicato perché la memoria umana, ossia la memoria diretta dei testimoni, è praticamente sparita. Qualche anno fa uscì un libro di storia, si intitolava “L’era del testimone” ed era un libro importante. Noi viviamo nell’epoca in cui sono ormai scomparsi i testimoni diretti della guerra e di tutte le tragedie di quel periodo storico, ma ne resta memoria nei luoghi. Ed è una memoria che va interrogata, che va indagata. E anche per questo ho intrapreso il mio viaggio.

Nel romanzo, lei dà voce a scrittori e intellettuali che hanno subito la censura e la persecuzione. Qual è il ruolo della letteratura in tempi di crisi, e come può aiutarci a preservare la memoria?

Io credo che il lettore sia il vero detective. In fondo il romanzo moderno nasce raccontando le avventure di un lettore che è Don Chisciotte. Tra l’altro questo è il primo libro in cui uso la prima persona, non avevo mai detto “io”. Per questo, forse, è anche un romanzo. Io sono un lettore che segue le tracce, che segue la pista, che va alla ricerca dei segni che hanno lasciato questi scrittori perseguitati dal fascismo. E cerco di riassumere e di unire i fili che li legano. E c’è una coerenza, c’è un comune discorso sulla libertà, da Pietro Aretino a Maria Volpi; c’è in Giuseppe Antonio Borgese un discorso sull’utopia, sul fatto che l’umanità è a un bivio: o si dà una Costituzione mondiale o non sopravvive; c’è un discorso sull’antimperialismo, sull’anticolonialismo portato avanti soprattutto da Salgari; c’è un antifascismo radicale in Ignazio Silone; e c’è una denuncia del patriarcato, un’affermazione della libertà della donna in Maria Volpi. Ecco, questi cinque scrittori hanno composto per me un’idea di mondo che è quella a cui appartengo. Oggi vedo che, come dicevo prima, le stesse parole d’ordine risuonano, con i medesimi vocaboli tali e quali. Quando Goebbels diceva degli intellettuali che sono infestanti parassiti che occupano le strade della città, sembra di risentire certe interviste. Il ruolo della letteratura è di preservare la memoria e di usare la memoria per criticare il presente. Un Cancelliere cinese di 2000 anni fa aveva detto: “chiunque usi la memoria per criticare il presente sarà giustiziato insieme alla sua famiglia”. Ecco, la letteratura usa la memoria, l’immaginazione, la fantasia, la ragione, soprattutto per criticare il presente e per impedire, come diceva Elsa Morante, la disintegrazione della coscienza umana.

‘Bebelplatz’ è un romanzo storico, ma anche una riflessione sul potere delle parole e sulla loro capacità di sopravvivere al tempo. Qual è il messaggio che vuole trasmettere ai lettori di oggi, in un’epoca in cui la disinformazione e la manipolazione sono all’ordine del giorno?

C’è un proverbio spagnolo che dice: “la ribellione si impara leggendo”. Ecco, io penso che leggere è sempre un atto d’amore ed è anche sempre un atto di disagio e d’imbarazzo per il presente, per il mondo in cui viviamo e per le tante ingiustizie a cui spesso in maniera impotente assistiamo. Credo che sia un modo per ragionare con la propria testa, per cercare di essere liberi e di educare, magari anche sbagliando, il proprio spirito critico di fronte a questa invasione di informazioni spesso manipolate. Di fronte a questa imposizione da parte di un potere di un pensiero unico, la letteratura sarà sempre dalla parte del pensiero divergente e impura. Ed è dal lato della devianza.

Nei prossimi giorni lei sarà a Bolzano, la città in cui vivo, che, come tutto il Sudtirolo, ha vissuto periodi storici complessi, segnati da cambiamenti politici e culturali. Che cosa rappresenta questa terra per lei e quali legami ha con la sua cultura e la sua storia?

Sono venuto diverse volte a Bolzano, sempre per incontri letterari. Attraverso mia moglie ho conosciuto la montagna. E ricordo ancora la prima volta che andai in Trentino-Alto Adige, la grande, stupefacente impressione che ne ricavai. E da allora cerco di ritornarci quasi ogni estate. E ogni volta che vengo da quelle parti mi sento bene. Il paesaggio, la vicinanza delle montagne, le montagne mi hanno sempre comunicato un enorme senso di dignità. E un’idea di relazione tra le persone corretta, misurata, rispettosa. Ecco, pur essendo siciliano (ma venendo da un sud… ma anche il Sud Tirolo porta questa piccola parola nel nome, che per me più che un’indicazione geografica, è un’idea di mondo)… pur essendo siciliano, dicevo, preferisco la montagna al mare. E quindi ogni volta torno molto volentieri dalle vostre parti, che oltretutto sono luoghi carichi di storia che mi piace indagare.

Qual è secondo lei, oggi, l’obiettivo politico culturale delle biblioteche? E quale il mandato professionale del bibliotecario?

A stilare le liste nere durante il nazionalsocialismo dei libri che sarebbero dovuti andare al rogo fu proprio un bibliotecario. E questa cosa naturalmente mi ha colpito e mi ha coinvolto perché questo è il mio mestiere. E il Bibliotecario nazista aveva tradito il mandato del nostro mestiere, che è appunto quello di difendere la memoria, di esserne custodi e, in qualche modo, ambasciatori. Ricordo un racconto di Gesualdo Bufalino che si intitola “Le visioni di Basilio ovvero la battaglia dei tarli e degli eroi” in cui si racconta la storia di un bibliotecario messo a salvaguardia degli ultimi libri sopravvissuti al cataclisma atomico dell’umanità in cima al Monte Athos. I libri vengono attaccati da una specie di tarli che si erano sviluppati dopo le ultime guerre. E direi che, in ogni epoca dell’umanità, c’è sempre un re dei tarli che vuole incenerire le biblioteche. I bibliotecari sono, appunto, i soldati semplici che cercano di difendere il patrimonio della nostra memoria. In questo caso Basilio è un monaco e quando i tarli arrivano sino in cima al Monte Athos, attaccano i libri e lui si rende conto che non avrebbe potuto più difenderli in alcun modo. Studiando però aveva scoperto che questi tarli sono golosi di miele. Allora si denuda, si cosparge il corpo di miele, aspetta che tutti i tarli entrati nella fortezza si depositino sul suo corpo e si getta da una rupe sul mare Egeo. Ecco, non dico che i bibliotecari devono arrivare a questi estremi, ma sicuramente la loro funzione è fondamentale. In più devono cercare di favorire la creazione di una comunità intorno alle biblioteche, che, per me, sono luoghi vivi come dei porti, luoghi pieni di voci, che sono anche le voci dei libri, le voci dei lettori, le voci dei bibliotecari.

Quale sarà il suo prossimo viaggio letterario?

Il mio prossimo viaggio letterario sarà un altro viaggio nella memoria, ma questa volta nella memoria personale. Avevo detto prima che in Bebelplatz ho usato per la prima volta nei miei libri l’ “io” ed è stato un processo di avvicinamento alla realtà e un togliersi le maschere, e un provare a dire le cose in prima persona, a chiamarle col loro nome. Ecco, mantengo molto pudore, ma il mio prossimo viaggio letterario sarà un viaggio nella mia infanzia, nei miei primi dieci anni, nella memoria di una famiglia di migranti da cui provengo, nelle sue lingue, nel suo destino ramingo per il mondo. E non sarà in prima, ma in seconda persona, in quanto penso che forse solo alla fine riuscirò a tornare alla prima persona, perché davvero credo che ci voglia tutta una vita prima di poter dire, di poter balbettare sottovoce un “io”.

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Fabio Stassi sarà a Bolzano martedì 15 aprile ospite della Biblioteca Provinciale Italiana.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare