Intervista a Michele Ruol per “Inventario di quel che resta dopo che la finestra brucia” (Terrarossa, 2024) – Capitolo Zero: Ep.3 del videopodcast a cura di Loredana Cefalo

Ep.3 Michele Ruol, autore di “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” (Terrarossa, 2024).

Ci si può davvero anestetizzare a vita dopo un grande dolore? È possibile raggiungere un distacco tale da osservare la sofferenza senza esserne travolti? Questi interrogativi esistenziali risuonano come un’eco persistente nella narrazione di “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia”, il caso editoriale che ha saputo conquistare critica e lettori.

L’opera di Michele Ruol, un oggetto letterario sperimentale e sfuggente, sfida le convenzioni del romanzo tradizionale. Qui non troverete la canonica struttura del “viaggio dell’eroe”, né dialoghi espliciti o l’applicazione pedissequa del “show, don’t tell”. Ruol ci guida in un’esplorazione che nega il lieto fine, pur lasciando uno spiraglio di speranza, immergendoci in un’atmosfera di profonda riflessione sulla natura della perdita.

Il libro è un lento stillicidio di sofferenza, veicolata non attraverso l’azione, ma tramite gli oggetti, i relitti di una normalità perduta.

La storia di una famiglia borghese, con le sue ordinarie frizioni coniugali e le banali ribellioni adolescenziali, viene improvvisamente oscurata da un evento traumatico. Un’ombra cala su tutto, annientando ogni apparenza di serenità e lasciando dietro di sé solo frammenti, che il tempo, pur lenendo le ferite, non può che trasformare in una cicatrice indelebile.
È proprio attraverso questi resti che l’autore intesse il suo inventario della memoria, dimostrando che la normalità è, in fondo, un’illusione precaria.

Nella nostra recente intervista per Capitolo Zero, Ruol, un professionista diviso tra la medicina, la scrittura teatrale e la narrativa, offre uno sguardo intimo sul suo processo creativo.

Egli ci svela come le sue esperienze professionali e artistiche si siano contaminate per dare vita a questo libro, celebrato dalla critica e onorato dal Premio Strega, con l’ingresso in cinquina.

Un delicato passaparola ha investito questo esordio letterario, portando alla luce un libro in cui la lungimirante casa editrice, Terra Rossa Edizioni, ha fortemente creduto.

Durante la nostra chiacchierata, l’autore riflette sul suo stupore e la sua gratitudine per il successo inatteso, accennando anche alla “magia” del centesimo capitolo, un elemento che ha coinvolto molti lettori in una partecipazione attiva.

L’intervista lascia in sospeso una domanda cruciale: dove si trovano la foresta e le fiamme menzionate nel titolo? Questo mistero, che noi Randagi vi sfidiamo a svelare come un viaggio di scoperta tra le pagine del libro, promette non solo un piccolo giallo, ma un’opportunità per scrivere il proprio finale.

Loredana Cefalo*

* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Adoro le colline, il profumo della pioggia, l’odore di castagne e camino, che mi porto dentro come parte del mio DNA.

Ho una grande curiosità per la tecnologia, infatti da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato.

Paolo Nori, Nadia Terranova, Andrea Bajani e Fabio Canino allo Strega Tour con Loredana Cefalo e il Randagio (video)


E la guerra? È sparita, proprio come il povero bruco (Quartu, 18 giugno 2025)

Una piccola cosa, stasera, ha attratto la mia attenzione, fortemente.
Fra le scarpe delle tante persone, i tacchi delle signore, quelle eleganti da uomo e le sneakers dei ragazzi presenti alla tappa isolana del Premio Strega Tour, si aggirava timidamente un bruco.
Un bruco marroncino, un po’ brutto, in verità, che c’entrava poco col clima di festa e l’aria di bellezza intellettuale che si respirava fra le sedie, bagnate dalla pioggia torrenziale, che ha preceduto la kermesse presentata da Fabio Canino, volto noto ed irriverente della TV e della radio italiane. 

Mentre il piccolo insetto si faceva spazio fra sedie e piedi, sono saliti sul palco i giovani, di un noto liceo cagliaritano a leggere le loro riflessioni sui cinque libri candidati al prestigioso premio. 

E sempre mentre l’esserino strisciante si aggirava intorno al palco, sulle quattro sedie messe una accanto all’altra, tre dei cinque finalisti hanno preso posto per parlare dei loro bellissimi libri. 

Una serata coi fiocchi, con la giusta dose di pacatezza e puntualità che solo i sardi sanno avere, nonostante due dei nostri supereroi (li chiamo così perché il tour è una bella prova di resistenza per chiunque) non siano riusciti a presenziare in questa unica tappa in Sardegna di Quartu Sant’Elena. 

Ed ecco arrivare le parole che si intrecciano nell’aria che, dopo la pioggia, è diventata fresca.
Si parla di memoria, del potere del ricordo, si ascoltano i video messaggi dei due assenti e si fa qualche battuta. 

Dov’è finito il bruco? 

Eccolo lì, proprio accanto alla mia scarpa, in una posizione defilata, stavolta, rispetto al palco. Sembra cercare finalmente riparo, lontano da piedi indiscreti. 

Mentre riposiziono l’attenzione sul gruppo di scrittori in gara, noto che il fil rouge dei  libri presentati è un grande super potere: quello delle donne. Me ne compiaccio, ma tengo sempre un occhio vigile al bruco e al suo percorrere lento e mi metto in asascolto.

Ascolto la potenza del racconto della protagonista del libro di Elisabetta Rasy, “Perduto è questo mare” che durante varie fasi della vita, sperimenta la ferita per la perdita, dolore che si placherà solo attraverso la memoria letteraria. 

Sempre di memoria e dolore si parla nella famiglia di Madre e Padre, in “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” di Michele Ruol e anche lì, il ruolo femminile gioca una chiave fondamentale per il recupero dei 99 ricordi. 

Andrea Bajani, vincitore già dello Strega Giovani, nel suo romanzo “L’anniversario” compie un piccolo miracolo: fa restituire il ricordo di una madre a suo figlio, una donna che nonostante fosse resa invisibile da un uomo tiranno, riesce anche ad essere felice ed è proprio attraverso la memoria di quella felicità che suo figlio la sente presente nel ricordo e la trova “scalpellando” fra gli scritti.


Ed ecco che arriva il superpotere della bisnonna di Nadia Terranova, nel suo romanzo autobiografico “Quello che so di te”: un emblema delle donne rese isteriche perché anticonvenzionali, marchiate per sempre come pazze, solo perché fuori dagli schemi. Con tenerezza la scrittrice ci ricorda che, sebbene tanti passi si siano fatti nell’emancipazione femminile, siamo ancora molto indietro nella parità di genere. E ci presenta un’immagine fortissima, accomunando le sedie di design delle nostre case a quelle dei manicomi di inizio Novecento, a causa del peso dei legacci e fibbie che il ruolo femminile nella società ancora impone. 


E sul finire del suo discorso sulla realtà attuale, mentre ero distratta dalla scia del mio piccolo amico strisciante, ecco che sento volare nell’aria una parola che sembra uno squarcio.
“Guerra”.
È piccola, bruttina anzichenò rispetto a questa magica serata. Non c’entra nulla, proprio come il mio amico. Ed esattamente come lui, dopo aver generato un silenzio glaciale, nonostante l’afa serale, si attorciglia intorno alla sua autrice, fa un giro timido fra le prime file e sembra dissolversi. 

Paolo Nori, con la simpatia parmense che lo contraddistingue, cita un verso del poeta Raffaello Baldini, “In due” dedicato alla morte di sua moglie. Nel suo libro “Chiudo la porta e urlo” è evidente come la perdita della donna segna per il Baldini un profondo mutamento. Il finale della serata, dunque, ritorna sul potere femminile.

E la guerra? 
È sparita, proprio come il povero bruco. 

Loredana Cefalo*

* Mi chiamo Loredana Cefalo, classe 1975, vivo a Cagliari, ma sono Irpina di origine e per metà ho il sangue della Costiera Amalfitana. Adoro le colline, il profumo della pioggia, l’odore di castagne e camino, che mi porto dentro come parte del mio DNA.

Ho una grande curiosità per la tecnologia, infatti da cinque anni tengo una rubrica di chiacchiere a tema vario su Instagram, in cui intervisto persone che hanno voglia di raccontare la loro storia. 

Sono stata una professionista della comunicazione, dell’organizzazione di eventi e della produzione televisiva, settori in  cui ho un solido background. Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho un Master in Pubbliche Relazioni.

Ho accumulato una lunga esperienza lavorando per aziende come Radio Capital, FOX International Channels, ANSA e Gruppo IP, ricoprendo ruoli significativi nel settore della comunicazione e dei media, fino a quando non ho scelto di fare la madre a tempo pieno dei miei tre figli Edoardo, Elisabetta e Margaret.

In un passato recente ho anche giocato a fare la  foodblogger e content creator, con un blog personale dedicato alla cucina, una delle mie grandi passioni, insieme all’arte pittorica e la musica rock.

L’amore per la scrittura, nato in adolescenza, mi ha portata a scrivere il mio primo romanzo, “Il mio spicchio di cielo” pubblicato il 16 gennaio 2025 da Bookabook Editore e distribuito da Messaggerie Libri. Il romanzo è frutto di un momento di trasformazione e di crescita. La storia è presa da una esperienza reale vissuta indirettamente e ricollocata nel passato per fini narrativi e per gusto personale. Ho abitato in molti luoghi e visitato con passione l’Europa e le ambientazioni del romanzo sono frutto dell’amore che provo nei confronti delle città in cui è collocato.

Wanda Marasco: “Di spalle a questo mondo” (Neri Pozza), di Valeria Jacobacci

 Non esiste un solo Ottocento, come sa bene chi è appassionato di un’epoca così significativa per i presupposti tutt’altro che scontati dei tempi futuri. Di quel periodo la Marasco mette in luce lo spaccato degli intelletti nostri tipicamente meridionali, volontariamente rinunciatari della propria individualità in favore di un bene più alto, nazionalista, che porta all’Unità d’Italia e a gran parte degli eventi che si affacciano al Novecento.

  

Non c’è da meravigliarsi se accanto alla tisi, che faceva strage di eroine romantiche nelle opere liriche, si manifestassero almeno due mali estremi per gli animi sensibili, la follia che si accompagna alle allucinazioni degli artisti, e il male di vivere, un’anticipazione dell’esistenzialismo del secolo successivo. Oppure si tratta di un rinvio al taedium vitae di Lucrezio, che lo associa alla malattia dello spirito, e forse alla noia di cui parla Seneca, l’assenza di senso, che fa dire a Cicerone di tornare indietro, al barcaiolo che lo sta portando lontano dalla lama del sicario venuto a tagliargli la gola. Questa ricerca della morte si camuffa da malattia mentale, nient’altro che uno stato di lucidità estrema, l’orrore della verità senza veli.

Ma cominciamo dall’inizio, come si diceva, appunto, nei romanzi dell’Ottocento. Il male di vivere nel Sud dell’Italia ottocentesca risiede nei due momenti fondamentali dell’esistenza, il tempo racchiuso fra il primo vagito e l’ultimo respiro e la dimensione estesa di un tempo  fermo sempre uguale a se stesso. Quest’ultimo è il dramma del Gattopardo,  inorridito ma impassibile di fronte al “tutto cambia affinché tutto resti uguale”, dall’altra parte c’è la percezione di un movimento che comunque esiste e al quale bisogna dare un contributo personale. Almeno per alcuni decenni, questo  sembra possibile, la volontà trova intoppi ma poi si libera, segue il percorso a tratti faticoso e a tratti in picchiata verso qualcosa.  

Il medico Ferdinando Palasciano è  un personaggio storico, di straordinario talento ma non possiede il cinismo necessario alla sopravvivenza. Chissà, forse se avesse conosciuto Giuseppe Moscati, il medico santo che sarebbe nato a Napoli poco dopo, avrebbero collaborato, invece le cose andarono diversamente. Come altri personaggi eccellenti che appaiono nel romanzo, il pittore Vincenzo Gemito e il meno famoso ma celebre Eduardo Dalbono, autore di paesaggi indimenticabili di Napoli e del Vesuvio, il giovane Ferdinando Palasciano riceve riconoscimenti internazionali per il suo pregevole lavoro di medico e si fa notare per i suoi incrollabili princìpi.

Sarà l’ispiratore per la creazione della Croce Rossa. Durante la spedizione di Garibaldi in Sicilia  era stato arruolato fra le file borboniche, sul campo di battaglia, dov’era ufficiale medico, non esitò a curare i feriti di entrambi gli schieramenti. Chiamato a giustificare il suo operato dal generale Carlo Filangieri, spiega che il soldato va onorato e rispettato qualunque sia la sua appartenenza. Viene condannato lo stesso per tradimento e solo in seguito assolto dopo un anno di carcere grazie all’intercessione di re Ferdinando II. Il Risorgimento napoletano è doloroso, complicato. Questo spiega quella sorta di inguaribile frattura subita da tanti personaggi divisi fra onori e disillusioni.

 

Fatta l’Italia, Palasciano guadagna stima e onori, sposa un’affascinante contessa russa, Olga di Vavilov, che ama appassionatamente e che guarisce da una zoppìa considerata incurabile. Insieme costruiscono e abitano una bella villa dominata da una torre. La Torre è simbolo di spiritualità eccelsa ma prefigura la morte come in un romanzo gotico. L’eccesso di sensibilità racchiude una consunzione morale alla quale i due non possono sottrarsi, quasi che lo sforzo fosse di troppo superiore alle reali capacità umane.

Lo spirito romantico racchiude una radice esoterica che a Napoli è particolarmente sentita. Tutti i personaggi vivono almeno due dimensioni, parlano più lingue, a quella della scienza si affianca il dialetto dei servi ma anche dei napoletani tutti, un linguaggio nobile, forbito, pieno di significati. Il cimento politico del dottor Palasciano diventa frenetico, nella bella villa si svolgono serate e concerti, Olga canta i più difficili lieder, non rimpiange la Russia, ha nugoli di ammiratori, nulla di fronte al legame indissolubile che la lega a colui che l’ha salvata dalla zoppìa. Si tratta di una zoppìa reale o psicologica? Entrambe le cose, la femminilità di Olga è di per sé zoppa.                                                                                                                                       

Il colpo di grazia alla salute mentale del dottor Palasciano lo dà la perdita della sala operatoria, fiore all’occhiello del suo ospedale. Così è la pazzia a fare da padrona, il medico è rinchiuso in una casa di cura, Villa Fleurant, dove a fargli compagnia è il fantasma di Vincenzo Gemito, anch’egli fuori di sé per l’incomprensione della sua arte, o, forse, per il sospetto di averne persa la reale ispirazione. Un altro artista attende al varco il dottore all’uscita dal manicomio, quando sembra ormai guarito. E’ Eduardo Dalbono, al quale il medico commissiona una serie di vedute del Vesuvio, da eseguire in una “camera della poesia” che si trova all’interno della Torre. E’ nella Torre che l’amore di Olga cambia obiettivo, il pittore è irresistibile, ma i princìpi morali e la fedeltà al marito lo sono di più. Ferdinando lo sa, capisce, ama parimenti l’amico pittore e la meravigliosa contessa che è sua moglie. Il ménage a trois non è possibile, non ci siamo arrivati, ammesso che si possa considerare una via di fuga. La Torre resta simbolo esoterico di un’immortalità  messa costantemente in dubbio, l’amore è sacrificato, la felicità è una poetica zoppìa.

“Di spalle a questo mondo” di Wanda Marasco è nella dozzina dei candidati al Premio Strega 2025.

Valeria Jacobacci

Valeria Jacobacci, scrittrice e pubblicista, è appassionata conoscitrice di storia partenopea e di biografie, spesso femminili, di donne che hanno caratterizzato i loro tempi. Si è interessata alla Rivoluzione Napoletana, al passaggio dal Regno borbonico all’Unità, al secolo “breve”, racchiuso fra due guerre. Ha pubblicato numerosi articoli, saggi e romanzi.