Intervista a Ritanna Armeni per “A Roma non ci sono le montagne” (Ponte alle Grazie, 2025), di Gabriele Torchetti

Siamo davvero contenti di festeggiare il 25 aprile, ovvero la liberazione dell’Italia dalla tirannia nazifascista, con un libro appassionante di un’autrice autorevole, già impegnata in precedenti pubblicazioni nel racconto della Storia del ‘900 italiano. Stiamo parlando dell’ultimo romanzo di Ritanna ArmeniA Roma non ci sono le montagne“, edito da Ponte alle Grazie, che ci porta nella Roma occupata del 1944, dando voce ai partigiani protagonisti dell’azione di via Rasella, episodio cruciale e controverso della Resistenza. Il nostro Gabriele Torchetti ha avuto la fortuna di porle alcune domande.

Ciao Ritanna e benvenuta a Il randagio. “Una donna può tutto – 1941: volano le Streghe della notte”, “Mara. Una donna del Novecento”, “Il secondo piano”, “A Roma non ci sono le montagne. Il romanzo di via Rasella: lotta, amore e libertà”, sono gli ultimi quattro romanzi pubblicati per Ponte alle Grazie. Storie diverse ma accumunate da due elementi specifici, il contesto storico e la Resistenza (più o meno esplicitata), è una casualità o una scelta consapevole?

E’ una casualità, ma, come spesso accade, dietro quelli che appaiono casi ci sono motivazioni più profonde che riaffiorano magari qualche tempo dopo. Viviamo tempi incerti, in cui anche i valori più profondi della nostra identità vengono messi in discussione, in cui è difficile persino definire se stessi. E allora ripercorrere il contesto storico delle nostre origini democratiche, rifletterci, capirle, raccontarle è stato per me istintivo. Sono nata e cresciuta in una democrazia: come si è formata? con quali vincoli? quali debolezze? C’è stato un periodo della nostra storia nel quale tutto era “in nuce”. Ripercorrerlo, capire di nuovo e attraverso le storie e i sentimenti delle persone , come avviene  nei miei romanzi, è un modo per capire che cosa dobbiamo fare oggi quando siamo più incerti e ci pare che gran parte di quei valori si siano oscurati.

“A Roma non ci sono le montagne. Il romanzo di via Rasella: lotta, amore e libertà”è l’ultimo appassionato romanzo fresco di stampa, con un titolo lungo ma incisivo, che si scopre durante la lettura.  Che cosa vuol dire che “A Roma non ci sono le montagne”?

Vuol dire che la resistenza romana non va raccontata e giudicata come la Resistenza in altre parti del paese, come quella sulle montagne. A Roma non c’erano gli operai in sciopero, non c’era un esercito di liberazione con le sue gerarchie, il suo ordine,  non c’era un ambiente naturale che riparasse dal nemico. A Roma i partigiani erano più soli, per ripararsi avevano solo i portoni, le case degli amici, a volte le chiese. Potevano contare su una resistenza “sociale” ma spontanea, disorganizzata.   E il tradimento la delazione erano all’ordine del giorno. In questo contesto nascono i Gap e nascono i Gap centrali quelli che agiscono nel centro della città e organizzano l’azione di via Rasella.

Il 23 marzo 1944 ha segnato la storia, un’azione armata antifascista che ha ucciso 33 tedeschi e che ha avuto come conseguenza la condanna a morte di 335 civili italiani. Il romanzo fa un passo indietro e ci conduce alla preparazione dell’attentato messo in atto dai giovani partigiani dei Gruppi di azione patriottica? Qual è la motivazione che spinge questi giovani a combattere in prima persona? Hanno in qualche modo scontato l’ardore della lotta armata?

I giovani di cui parlo sono borghesi, colti, spesso studenti o professori universitari. Avrebbero potuto avere una vita sicuramente più facile di tanti loro coetanei, invece scelgono di vivere nella clandestinità, di mangiare quattro volte alla settimana, di dormire dove è possibile, spesso in luoghi malsani. Per capire i motivi di questa scelta bisogna ricordare che cosa era Roma occupata dai nazisti. Altro che “città aperta”! Il nemico era dappertutto, dominava. Era stato rastrellato il ghetto, trasferiti i carabinieri, le prigioni erano luoghi di tortura , c’era la fame e l’oppressione più spietata. I giovani dei Gap volevano dare un segnale ai romani. Ribellarsi era possibile. Era possibile , come fecero loro in decine di azioni nel centro della città, colpire il nemico. Via Rasella fu una di queste azioni. La più importante nell’Europa occupata dai nazisti. 

Donne e Resistenza è un binomio di cui si parla sempre troppo poco, eppure nelle tue pagine c’è una figura che inconsapevolmente ruba la scena con ardore e coraggio, chi è Carla Capponi? Qual è stato il suo ruolo all’interno di questa vicenda? E quali sono state le altre donne della Resistenza romana?

Mi è sembrato di capire leggendo e studiando le donne dei Gap, ascoltando le loro voci che sono differenti dalle donne partigiane del nord. Queste ultime, come è stato da più parti sostenuto, avevano un ruolo subalterno che nulla toglie al loro coraggio e al loro eroismo, ma che fa capire quali fosse il rapporto uomo -donna anche in un periodo così fecondo di cambiamenti. Le gappiste romane  erano donne colte, agivano in piccoli gruppi – due tre persone – o da sole. Di fatto erano più autonome, più libere. Non si limitavano ad accompagnare gli uomini, organizzavano le loro azioni  anche se spesso gli uomini non approvavano pienamente. Questo mi ha molto colpito.

Un romanzo corale, i protagonisti sono i ragazzi dei Gruppi di azione patriottica, c’è qualcuno tra questi che hai amato particolarmente?

Scrivendo questo libro ho avuto molti innamoramenti. Ho trovato splendide le donne, Carla, Maria Teresa, Lucia. Sono rimasta affascinata da una figura come quella di Carlo Salinari, letterato illustre che diventa capo dei Gap, dalla tormentata figura intellettuale di Franco Calamandrei. Potrei continuare… ognuno di loro aveva qualcosa da dirmi. E io ho cercato di ascoltarli fino in fondo.

6) Nel libro appare per poche pagine, eppure la sua aura ha lasciato il segno anche nel libro. Da pugliese, da terlizzese adottivo devo chiederlo necessariamente. Vuoi dirci qualcosa su Gioacchino Gesmundo?

Mi è dispiaciuto non potere raccontare nel mio romanzo  più diffusamente di Gioacchino Gesmundo, vittima delle Ardeatine e figura di riferimento morale e intellettuale per i giovani di cui parlo. Era per loro un maestro, nel senso più nobile di questa parola. L’uomo il cui esempio era da seguire sempre, nella lotta, ma anche nella riflessione, nella critica. Di cui tutti si fidavano. Fiducia ben riposta. Quando Gesmundo fu preso dai nazisti subì atroci torture ma non tradì nessuno dei suoi compagni. È una figura su cui c’è ancora tanto da indagare e da scrivere.

Gabriele Torchetti

Gabriele Torchetti: gattaro per vocazione e libraio per caso. Appassionato di cinema, musica e teatro, divoratore seriale di libri e grande bevitore di Spritz. Vive a Terlizzi (BA) e gestisce insieme al suo compagno l’associazione culturale libreria indipendente ‘Un panda sulla luna‘.

Il canto di Penelope: una rivisitazione del mito di Margaret Atwood, di Cristiana Buccarelli

Margaret Atwood, autrice di culto, con Il canto di Penelope, il mito del ritorno di Odisseo (Ponte alle Grazie), il cui titolo originario è The Penelopiad, propone una rielaborazione del mito classico in una forma originale e anticonvenzionale. 

La Atwood utilizza un particolare espediente letterario per cui Penelope ci racconta la sua storia dall’Ade, cioè dall’Aldilà, e con questa figura femminile l’autrice dà vita a un personaggio ironico, intelligente, irriverente e sferzante, riferendosi al maschilismo e alla misoginia presenti nella società antica così come, in forme differenti, nel nostro mondo contemporaneo. 

Quella moglie fedele e passiva che ci viene tramandata dal mito classico e dall’Odissea, diventa dunque un personaggio con una voce forte e determinata, una donna leggendaria che non vuole più essere semplicemente narrata dagli altri, nel suo essere stata data in sposa ad Odisseo e poi nella lunga, nella lunghissima attesa del suo ritorno e nel suo essere assediata da pretendenti che l’hanno considerata solo un oggetto attraverso il quale ottenere potere e ricchezza, ma per le prima volta parla di sé e di ciò che accade dal suo punto di vista. 

Quindi l’autrice riesce a farci riflettere su quale sia la rappresentazione dei personaggi femminili nella mitologia e anche in molta letteratura successiva in quanto spesso essi non hanno una voce propria. Invece ne Il canto la voce di Penelope diventa potente e forte nel raccontarci la sua vita e le sue scelte personali (nella narrazione della Atwood non si esclude nemmeno l’ipotesi che Penelope sia stata infedele ad Odisseo e abbia avuto come amante Anfinomo, il migliore dei Proci, l’unico fra loro dotato di kalokagathìa). 

‘’Ora che tutti gli altri hanno parlato a perdifiato è giunto il mio turno. Lo devo a me stessa.  Ci sono arrivata per gradi: narrare è un’arte minore, la esercitano donne anziane, mendicanti girovaghi, cantanti ciechi, ancelle, bambini- gente che ha tempo a disposizione. Una volta si sarebbe riso di me se mi fossi atteggiata a menestrello (…) ma adesso che valore ha l’opinione degli altri? Qui ci sono solo ombre, echi. Tesserò dunque la mia tela’’

Nella nota finale del romanzo l’autrice specifica che deve a The Greek Myths di Robert Graves l’ipotesi per cui Penelope – con le sue dodici ancelle, che verranno in seguito impiccate da Odisseo per essersi concesse ai Proci – potrebbe considerarsi anche la sacerdotessa del culto di una divinità femminile.

Infatti la Atwood, che intervalla ogni capitolo con il coro delle ancelle -un tributo alla presenza del coro greco e da sempre una versione burlesca dell’azione principale-,  ad un tratto fa dire al coro ‘’le dodici fanciulle lunari, compagne di Artemide, la dea della luna, vergine e implacabile…’’. Le dodici ancelle di Penelope sono considerate colpevoli quando in realtà hanno subito una violenza dai Proci, e anche durante il processo immaginario che la Atwood imbastisce verso la fine del romanzo, la loro voce di vittime di Odisseo verrà abbastanza ignorata fino a quando non ricorreranno alle Erinni per farsi ascoltare. È interessante la scelta letteraria dell’omicidio per impiccagione delle ancelle di Penelope, infatti qui l’autrice si riferisce a uno dei mezzi con cui in seguito verranno assassinate dopo molti secoli le donne accusate di stregoneria. 

In tutta l’opera della Atwood, attraverso uno stile fluido e ironico che cattura e diverte, c’è in realtà la denuncia di una serie di violenze subite dalla donna nella società patriarcale. 

Esilarante e al tempo stesso amaro il capitolo Vita domestica nell’Ade, in cui lo spirito di Penelope racconta le sue brevi visite attraverso una medium nel nostro mondo contemporaneo.

’Chi è questa <<Marylin>> che piace tanto a tutti? E <<Adolf>> chi è? Parlare con certa gente non è altro che un esasperante spreco di energie. Ma è solo scrutando attraverso questi piccoli buchi della serratura che riesco a seguire le tracce di Odisseo, quando non è quaggiù, nel suo aspetto che mi è familiare’’

Infatti Odisseo, nella fantasia della Atwood, si abbevera di frequente nell’Ade alle Acque dell’Oblio  per tornare nel mondo dei vivi, a differenza di Penelope che preferisce restarsene nel regno dei morti piuttosto che vivere nuove vite. E che sempre rimane in una perenne attesa del suo ritorno.

‘’Ho capito che i pericoli sono pari a quelli dei miei tempi, ma la miseria e la sofferenza sono molto più estese. Quanto alla natura umana è, come sempre, infame…Nessuno di questi argomenti può frenare Odisseo. Capita qui per un po’, si mostra felice di vedermi, afferma che stare a casa con me è l’unica cosa che abbia mai desiderato (….) e mi pare di riuscire a perdonargli tutto quello che mi ha fatto passare e di poterlo accettare così com’è, con i suoi difetti, ma quando inizio a credere che questa volta non stia mentendo, eccolo correre di nuovo verso la Fonte del Lete pe poter nascere un’altra volta.’’

Il canto di Penelope è una narrazione coinvolgente che l’autrice realizza con maestria e creatività e che ha vari punti di connessione con il suo più famoso romanzo Il racconto dell’ancella, (The Handmaid’s Tale), perché in quest’ultimo, come ne Il canto di Penelope’, è centrale e originale il modo in cui viene affrontato il tema del potere e della subordinazione femminile nelle società di ogni tempo.

Cristiana Buccarelli  

Cristiana Buccarelli è una scrittrice di Vibo Valentia e vive a Napoli. È dottore di ricerca in Storia del diritto romano. Ha vinto nel 2012 la XXXVIII edizione del Premio internazionale di Poesia e letteratura ‘Nuove lettere’ presso l’Istituto italiano di cultura di Napoli. Conduce annualmente laboratori e stage di scrittura narrativa. Ha pubblicato la raccolta di racconti Gli spazi invisibili (La Quercia editore) nel 2015, il romanzo Il punto Zenit (La Quercia editore) nel 2017 ed Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) nel 2019, presentati tutti in edizioni diverse al Festival di letteratura italiana Leggere&Scrivere. Con il libro Eco del Mediterraneo (IOD Edizioni) ha vinto per la narrativa la V edizione del Premio Melissa Cultura 2020 e la IV edizione Premio Internazionale Castrovillari Città Cultura 2020. Nel 2020 è stata pubblicata a sua cura la raccolta Sguardo parola e mito (IOD Edizioni).

Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo storico I falò nel bosco (IOD Edizioni), presentato all’interno di Vibo Valentia Capitale italiana del libro 2021 al Festival di letteratura italiana Leggere&Scrivere e nel Festival Alchimie e linguaggi di donne 2022 a Narni. Nel 2022 ha ricevuto menzione d’onore con un racconto alla III edizione del Premio Carlo Gesualdo e alla II edizione del Premio I Ponti dell’Arte, inoltre è stata pubblicata a sua cura la raccolta In viaggio (Cervino Editore 2022). Nel 2023 ha pubblicato il romanzo Un tempo di mezzo secolo (IOD Edizioni).