Suad Amiry: ‘’Golda ha dormito qui’’ (Feltrinelli, trad. M. Nadotti), di Giovanna Senatore

Chi abita qui?

“se solo queste case potessero raccontare la storia, quello che hanno visto e vissuto, quello di cui sono state testimoni”.

Case protette dal e nel tempo; case piene di luce, filtranti da porte e finestre, spalancate alla vita; case violate, sventrate, saccheggiate, ridotte in polvere; case spettrali, sbilenche, labirintiche. 

Case dense di oggetti che hanno battuto il tempo restando immobili a preservare ricordi: divani segnati dalle impronte dei corpi a lungo sdraiati in cerca di pause, vestiti riposti in armadi densi di odori di chi li ha indossati, caraffe, tazze, bicchieri, gelosamente tramandati.

Case svuotate di oggetti e di memoria, case nude, porose, ridotte a buchi da cui nulla trapela, neanche la luce.

Case, luoghi della memoria reali e non, luoghi di spazi ma anche di sogni, luoghi gomitolo che aprono/serrano il confine tra un dentro e un fuori. 

Case su cui ruotano parole: raccontano amori o solitudini, dolori o gioie, frammenti di vita che chiedono di essere letti e riletti, creando un’isola di senso, lungo i percorsi delle narrazioni, tramandate oralmente o impresse in libri, a garantire memoria.

Libri preziosi perché aprono connessioni impreviste e imprevedibili da scoprire e narrare, dando vita a un puzzle dove il disordine si fa ordine, pronto ad essere scompaginato sotto la spinta del tempo incalzante.

Suad Amiry, scrittrice per caso, architetta di professione, scrive nel 2013 un testo struggente e carico al contempo di uno humor dissacrante e feroce, Golda ha dormito qui

Perché Suad Amiry?

Perché la storia di Suad Amiry, nata a Damasco da madre siriana e padre originario di Jaffa è la storia della Palestina, della perdita dei suoi territori, della violenza colonialista esercitata implacabilmente dallo stato israeliano, volto allo sradicamento del popolo palestinese dalla sua terra. 

Suad Amiry sceglie di raccontarla da una angolatura particolare: l’espropriazione immobiliare praticata da Israele nel silenzio assordante del mondo, all’indomani della cosiddetta, dagli israeliani, prima guerra di indipendenza, tradottasi, drammaticamente, per i palestinesi come l’inizio dell’esilio (la catastrofe, la Nakba,) e l’avvio della lotta per il diritto al ritorno. 

Il 4 maggio del 1948

 avendo onorato la parola data,

 uno stato ebraico sulla Palestina,

  gli inglesi fecero fagotto e se ne tornarono a casa.

  Dissero che sentivano la mancanza della cucina di casa

  roast beef e budino dello Yorkshire

  con contorno di cavolo lesso.

  Salirono a bordo delle loro navi e salparono

  senza una parola di scusa

 o di addio. 

La Sposa non fu mai consultata

non il dicembre del 1917 quando sbarcarono

né tantomeno il 2 novembre del 1917 quando Lord Balfour

fece la sua dichiarazione

quel che Dio non aveva fatto per secoli

Lord Balfour lo portò a termine in sessantadue parole.

Quando arrivarono si chiamava Palestina

quando se ne andarono, era diventata Israele…

Il 4 maggio del 1948

si lasciarono alle spalle due popoli in lotta 

uno più forte, l’altro più debole

il nuovo e potente giubilò e volle di più

“Quel che è mio è mio e quel che è tuo è mio anche quello

mentre il vecchio e fragile, spossessato e disumanizzato,

fu lasciato a piangere e a lamentarsi.      

Suad Amiry scrive partendo dall’inizio del tutto e, subito, colpisce la decisione di alternare alla prosa il verso, lì, dove il dolore della ferita si fa più forte, lì, dove è necessario resistere al pianto e alla recriminazione per poter testimoniare.

La scrittura, quindi, come ultimo baluardo “contro le pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia dell’umanità”, come testimoniava Edward Said.

La Palestina viene raccontata nel momento in cui tutto precipita e ciò che si palesa sono massacri, esecuzioni, bombardamenti senza fine sulle città della costa. Interi villaggi dati alle fiamme, cancellati in modo chirurgico giornali, teatri, caffè, i luoghi identitari di una vita comunitaria.

850 mila palestinesi, metà della popolazione araba della Palestina dell’epoca, furono costretti a darsi alla fuga, o, a emigrare. Quelli obbligati a sgomberare, caricati a forza su camion e navi; chi restava si ritrovava chiuso in ghetti militarizzati, in un paese nuovo di cui non parlavano la lingua, visti e vissuti come nemici.  

Agli esuli restava solo il pianto: 

“Avevano perso la casa, il giardino, il frutteto, il campo, la terra dove erano nati. Persi erano mare e montagne, colli, valli e pianure, laghi e sorgenti e il letto dei fiumi, siti archeologici e campi beduini, villaggi, paesi e città.”

Ma, il cuore pulsante del dolore si materializzava per tutti nella sottrazione di “ciò su cui si regge una vita equilibrata: le fondamenta profonde chiamate casa”.

Il racconto di Suad apre sulle case abbandonate, con gli armadi pieni di vestiti, le fotografie, le tavole apparecchiate, i fiori nei cortili, le piante nel soggiorno, le tazze di caffè e i bricchi ancora caldi di una bevanda lasciata lì in attesa di un ritorno mai avvenuto, e, torte d’arancia pronte ad esser divorate dalle mani ingorde dei piccoli.

I muri rubati impunemente trascinano via anche le anime, la memoria, i gesti, gli affetti in loro racchiusi. Stanze smarrite verso cui si muovono le azioni di chi, appellandosi alla giustizia, cercava di riabitarle, strappandole agli israeliani che le avevano occupate.       

Lotta destinata a infrangersi contro il muro di una legge scandalosa promulgata da Israele nel 1950; con lo scopo di gestire i beni – compresi contanti, azioni, mobili, libri, società, banche e altri beni mobili – di cui erano entrati in possesso in seguito alla fuga disperata dei palestinesi, gli israeliani dichiaravano i legittimi proprietari arabi assenti presenti: esistenti per lo Stato di Israele ma inesistenti quanto a diritti di proprietà. La comunità palestinese fu così costretta a vivere, quotidianamente, l’assurdità di avere qualcuno che viveva nella casa della propria famiglia senza poterci più mettere piede. 

È di questi present absentees, Suad Amiry, lei stessa present absentees, si fa voce parlante, in cerca di storie e appartenenza, da narrare, raccogliendo frantumi di ricordi, fotografie sopravvissute ai pochi album recuperati e salvati dalla distruzione e, storie raccontate da chi cercava, anche nell’angoscia e nel timore, di ricordare per non spegnere la memoria di quanto accaduto.

Suad Amiry sa che è necessario ascoltare con estrema attenzione per poter dar voce a un dolore che non si cancella; e così scorrono uomini e donne con il loro fardello di racconti. Di casa in casa il libro disegna una città scomparsa, giardini tranciati via con i loro profumi, finestre piombate, mura crivellate di proiettili. Eppure, la città scomparsa riappare viva e palpitante, densa di emozioni mai cancellate, quando le storie procedono catturandoci nel labirinto dei loro abitanti, dove riaffiorano libri giocattoli, dipinti, libri di musica, tappetti e foto di famiglia mai più restituiti.

Tra le narrazioni in cui mi sono persa, seguendo il viaggio della scrittrice tra i vicoli di una Gerusalemme a noi sconosciuta, mi fermerò sui ritratti di Andoni, Gabi e Huda Al-Imam.

Andoni, il più celebrato tra gli architetti palestinesi, aveva negli anni ‘30 progettato e realizzato la casa per la sua famiglia, che era solito chiamare Nour Hayati (luce della mia vita). Dopo le espropriazioni del 1948, cercò ogni via legale per riottenere il permesso di tornare ad abitarci. Aveva tutti i documenti legali, tutte le carte e le fotografie che attestavano la sua proprietà, gelosamente custoditi in una cartella rossa. Con questi, nel 1968, si presentò alla corte israeliana che riconobbe senza alcun dubbio la proprietà della casa. La gioia di aver vinto la causa si spense immediatamente perché la corte gli fece notare che non risiedendo nella propria casa era una absentee landlord. 

A nulla valsero le proteste: nell’atrio del tribunale lì dove si raccoglievano le persone per avere giustizia da Israele, Andoni, con il suo corpo immenso che lo faceva svettare sugli altri, comunicò il suo sdegno e la sua impotenza. Non più con parole, ormai, bruciate, inascoltate perché private di senso da una legge insensata ma con la potenza e la violenza annichilente della risata e del silenzio:

Prima si rotolò dalle risate

poi si piegò su se stesso

tenendosi lo stomaco, poi l’addome

quindi cadde a terra, disteso sulla schiena, i piedi in su a  

scalciare l’aria,

quell’aria che traboccava dalle sue risate.

Continuò a ridere, a ridere, a ridere, e ancora a ridere

finché la risata si spense

poi ci fu silenzio

e ancora silenzio 

un silenzio totale

un’immobilità totale

un silenzio di tomba.

12 giugno 1983: inaugurazione del “Tourjeman Post Museum”, il Museo della riconciliazione. In fila per entrare il figlio di Andoni, Gabi: da quando aveva avuto notizia dell’apertura del museo, aveva cominciato a raccogliere ritagli di giornali e di riviste arabe, ebraiche, inglesi, francesi e tedesche che documentavano l’importanza dell’evento, sottolineando che la sede un tempo era stata avamposto israeliano e che le modificazioni apportate all’edificio come le strette finestre blindate, erano state lasciate a testimonianza  della violenza del conflitto e della lotta israeliana contro la prepotenza dei cecchini giordani che, per diciannove anni, avevano fatto fuoco contro le case israeliane dall’altra parte del confine.” per decisione israeliana il danno è stato conservato a testimonianza”. A testimonianza di cosa? Era la domanda che Gabi si poneva mentre lentamente procedeva seguendo la lunga coda. 

Giunto nell’atrio, lo vediamo lanciare, distratto, uno sguardo al salone sulla destra, cancellare i rumori e il chiasso che lo circondava per rimuovere il tavolo di vetro rotondo e risistemare al suo posto un paio di divani Chippendale bianchi e beige, due sedie Art déco in cuoio rosso e un tavolino da caffè in mogano. 

Ma il suo comporre lo spazio veniva interrotto dalla voce della signorina alla cassa che gli chiedeva il pagamento del biglietto.

Pagare per entrare? E mentre la folla protestava per la perdita di tempo provocata dalla sua insistenza a non sottostare all’acquisto del biglietto, i polmoni di Gabi iniziarono a dare fiato a una risata sempre più nevrotica che salendo dall’atrio “raggiunse la foresteria, la sala da pranzo, quindi l’ampia cucina. Si fece strada verso le stanze della famiglia al piano di sopra, infilandosi nella camera da letto dei genitori, nella camera da letto rosa di sua sorella, nella camera da letto blu di suo fratello George e infine nella sua. La risata penetrò in ogni cassetto e in ogni angolo degli armadi della sua stanza, ma gli album di fotografie non si vedevano da nessuna parte”.

Quegli album che testimoniavano il suo passato, la sua infanzia, i suoi ricordi di adolescente erano scomparsi e con essi era stata cancellata ogni prova che avesse mai avuto una vita a Gerusalemme, che avesse abitato in quella casa.

Sì, il museo, dedicato al dialogo, alla coesistenza, era la casa meravigliosa sottratta ad Andoni: nella brochure, nessuna traccia di chi l’aveva progettata, amata, abitata.

Il museo della coesistenza aveva saputo bene insabbiare la verità. 

Huda Al-Imam è l’altra grande voce a cui dà corpo Samir Amyn: 

Quando Huda, il 7 giugno 1967, vide il volto di suo padre inondato di lacrime perché gli era stato impedito di entrare nella sua casa di famiglia a Gerusalemme giurò a se stessa che non avrebbe dato il permesso a nessun israeliano di vivere in pace nella casa di suo padre. Ogni sabato, da quarantacinque anni, teneva fede al voto fatto. Si presentava davanti la sua abitazione, entrava nel giardino, e, immancabilmente, si lasciava arrestare dalla polizia chiamata dai nuovi occupanti. Ormai la polizia conosceva bene Huda, i giudici la conoscevano, e lei conosceva bene tutti i giudici. Ma continuava ad insistere: moderna Giovanna D’Arco, così la chiama Samir Amyn, guidata dalla sua ossessione, era pronta ad organizzare, bastava contattarla, ogni sabato dei tour in cui portava le persone, a volte interi pullman di turisti alternativi, a vedere le antiche case palestinesi. Tra quelle anche quella in cui aveva alloggiato Golda Meir, la madre per il popolo israeliano, l’Israele prepotente e bugiardo che aveva occupato una terra non sua. Huda non lasciava scorrere via, nei racconti con cui accompagnava le visite, che la Meir nel prendere possesso della “sua villa, si assicurò che la scritta araba fosse sabbiata per occultare il fatto che il Primo ministro di Israele abitasse in una casa araba”.

In Huda risuona tragicamente l’ossessione di non potersi fermare, perché, come precisa Samir Amyn, la maggior parte dei palestinesi, perseguitata dal passato e torturata dall’iniquità del presentenon può essere libera, perché è la Palestina ad occupare ogni pensiero:

Mi lascerai mai andare?

Per una vita

Un anno

Un mese

Un’ora

Un minuto

Anche solo un secondo

No”.

Giovanna Senatore

Giovanna Senatore: laureata in Filosofia, ha insegnato Storia e Filosofia nei licei classici; formatrice in corsi di aggiornamento per i docenti lungo due tematiche: la letteratura attraverso lo sguardo del pensiero femminista, l’uso dello spazio e del linguaggio teatrale. Ha guidato laboratori teatrali in qualità di esperta in vari istituti scolastici. Fonda l’associazione culturale “Le macchine desideranti” curando la regia di tredici spettacoli dove corpi e parole possano colpire nella loro nuda e secca forza. Ha curato laboratori di scrittura a partire da testi incrociati di scrittrici che hanno ricamato tessiture preziose. Venerdì 23 maggio, al teatro Bolivar di Napoli, va in scena il suo ultimo spettacolo “mai SUPPLICI”.

“Quando il mondo dorme”: Francesca Albanese a Sant’Andrea di Conza, di Amedeo Borzillo

“C’è un mondo che dorme un sonno di pietra davanti al genocidio di un popolo intero. Ma questa Piazza conferma il messaggio che porto, che c’è anche un mondo che si sta svegliando, che libera le parole dalla lingua del potere, e si oppone al genocidio in Palestina che viene compiuto anche in nostro nome.”

Francesca Albanese così ha esordito nell’incontro tenuto lo scorso 5 agosto a Sant’Andrea di Conza, in alta Irpinia (la sua terra di origine) davanti ad oltre seicento persone.

Più che alla presentazione del suo libro “Quando il mondo dorme” ci è sembrato assistere ad una sorta di appuntamento che si sono dati i relatori, per parlare di Gaza e svegliare le coscienze di noi tutti.

Ha iniziato proprio la Albanese: “Ci stanno togliendo l diritto alla parola, silenziando le voci, inclusa la mia, nonostante il Mandato ricevuto dalle Nazioni Unite a documentare le violazioni di Diritto Internazionale che Israele commette nei Territori Palestinesi occupati. 

Sono la prima persona all’interno delle Nazioni Unite, in 80 anni, ad essere stata sanzionata da uno Stato Membro ed a ritrovarsi in una lista nera insieme a terroristi e criminali internazionali.

Nel mio ultimo Report ho fatto i nomi di decine di aziende che traggono profitti dall’industria della guerra, a cominciare dall’Italiana Leonardo che fornisce componenti per gli aerei F35 usati per bombardare Gaza. Per fortuna proprio dai giovani universitari è nato il Movimento BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni per i diritti del Popolo Palestinese, ndr) che a partire dai contratti di Ricerca delle Università sviluppa ed estende la sua azione da 20 anni aggregando Associazioni, sindacati, Chiese e Movimenti di base in tutto il mondo per fare pressione su Israele affinché rispetti il Diritto Internazionale.“

Poi Moni Ovadia: “Francesca ha restituito il senso civico del linguaggio, rivelando le menzogne e raccontando il vero: a Gaza è in atto un genocidio e l’Occidente ha perso il diritto di parola, può solo tacere e calare la testa davanti alla Resistenza palestinese

Ha preso poi la parola Omar Suleiman, leggendo una struggente poesia e aggiungendo: “la Palestina deve essere decolonizzata, Israele ha smantellato la società palestinese distruggendo scuole, università, ospedali, radendo al suolo interi centri abitati per cancellarne perfino la memoria.

E poi è Luisa Morgantini, arrestata lo scorso gennaio nei pressi di Hebron in un insediamento israeliano illegale, a raccontarci cosa è oggi vivere in Palestina, e  i genitori di Mario Paciolla, che attendono verità e giustizia: “noi siamo qui con voi dove sarebbe nostro figlio se fosse ancora vivo”.

Il libro ci riporta storie su persone che hanno aiutato Francesca Albanese a comprendere, studiare, conoscere e informare su quanto succede in Palestina.

Lo fa raccontandoci di Hind (morta a 6 anni,  il cui corpo esanime verrà trovato dopo 12 giorni in una macchina su cui qualcuno ha sparato oltre 300 proiettili) e di tutti i bambini ai quali la segregazione razziale e le restrizioni imposte dall’occupazione impediscono di accedere a istruzione e cure mediche adeguate, tanto a Gaza (anche prima dell’attuale attacco) che in Cisgiordania. Scrive l’Albanese: “la protezione dell’infanzia dovrebbe essere al centro di qualsiasi dibattito sulla cosiddetta “questione palestinese” nello sforzo di garantire ad ogni bambino il diritto a crescere protetto, in una cornice di sicurezza, dignità e libertà”

Lo fa raccontandoci di Malak Mattar, pittrice palestinese (cui si deve il ritratto in copertina)  autrice peraltro del dipinto “Ultimo Respiro”, un olio su tela in bianco e nero  che è stato paragonato per la sua intensità al “Guernica” di Picasso, un capolavoro che raffigura gli orrori della guerra. La Albanese la conobbe 15 anni fa a Gaza, quando era una bambina di 11 anni e dipingeva a scuola.  Vinse una borsa di studio in Inghilterra lasciando Gaza proprio il giorno prima del 7 ottobre.

Efficaci ed esplicative sono le pagine dedicate a Ghassan, medico chirurgo che ha operato a Gaza fin quando è stato possibile, che racconta “quando sono uscito da Gaza ho capito che il progetto genocida è come un iceberg, Israele è solo la punta visibile, ma il resto dell’iceberg, che da Gaza non si vede, è l’intero apparato che rende possibile il genocidio: BBC, CNN, Wall Street Journal e le organizzazioni che lo sostengono. La distruzione si abbatte su tutto: presente, futuro e passato. Tutto quello che il popolo di Gaza è stato viene raso al suolo, cancellato.”

C’è poi la storia di Ingrid Gassner, la prima a parlare di apartheid in Palestina sin dal 2017, cofondatrice nel 2005 del movimento BDS, o ancora Eyal Weizman, autore di Hollow Land (la terra vuota) che racconta come “la colonizzazione crea una frammentazione territoriale capace di ostacolare la continuità del territorio, la gestione delle infrastrutture e della mobilità”

Altre storie ci raccontano degli incontri che hanno “formato” l’Albanese in questi anni e come negli ultimi tempi la situazione sia notevolmente peggiorata.

Nelle sue conclusioni, la scrittrice sottolinea che “tutti noi siamo in pericolo: stanno erodendo la libertà di espressione e la libertà di azione. Devono scattare in noi gli anticorpi in difesa dei diritti. Siamo chiamati a chiederci se vogliamo far parte della schiera di chi se ne lava le mani, cioè di quelli che, parafrasando Pessoa, saranno condannati a soffrire per le ferite delle battaglie che non hanno combattuto, o se vogliamo prendere una posizione giustamente divisiva, che distingua tra chi ha ragione e chi ha torto, e difenda Gaza, che è l’ultimo pezzo di Palestina che resta e che per questo gli abitanti non vogliono lasciare: la terra è esistere.” 

Amedeo Borzillo 

Anna Foa: “Il suicidio di Israele” (Editori Laterza), di Vincenzo Vacca

Anche con questo libro, “Il suicidio di Israele“, Anna Foa dimostra di essere una efficace divulgatrice della storia. Teniamo conto che questa importante intellettuale è stata docente di Storia moderna all’ Università di Roma “La Sapienza”. Inoltre, tiene frequentemente incontri pubblici su tematiche storiche.

A scanso di equivoci,  Foa nel libro citato tiene subito a precisare che “queste pagine contengono le riflessioni di un’ ebrea della diaspora di fronte a quanto sta succedendo in Israele e in Palestina. Esse nascono dal dolore per l’ eccidio del 7 ottobre e per quello per i morti e le distruzioni della guerra di Gaza. È lo stesso dolore per gli uni e per gli altri“.

L’ autrice ripercorre sinteticamente, ma proficuamente, la storia del sionismo, anzi, come lei tiene a precisare, la storia dei sionismi. 

Infatti, è  necessario esaminare l’ ideologia sionista e le sue trasformazioni dalla seconda metà dell’ Ottocento alla nascita dello Stato di Israele. 

Il sionismo, da non confondere con la politica di Israele, ha una lunga storia che nasce nel diciannovesimo secolo, e ritiene gli ebrei un popolo avente diritto al ritorno nella loro terra originaria, la Palestina. Un movimento di rinascita nazionale paragonabile al Risorgimento italiano. 

Foa tiene a sottolineare che il sionismo si pone non solo l’ obiettivo del “ritorno” in quella che allora era ancora una terra sotto il dominio ottomano, per poi divenire Palestina sotto protettorato inglese, ma anche quello di creare un ebraismo nuovo che cancelli i venti secoli di diaspora, mettendo fine, quindi, al fenomeno di minoranze di ebrei sparse tra le nazioni.

Nel libro si illustrano le varie correnti del sionismo e le diverse, per alcuni aspetti, sorprendenti tappe storiche che hanno originato l’ attuale situazione. 

A questo proposito voglio citare due fatti che possono stupire.

Il primo si svolge nel 1918 quando l’ emiro Faysal, capo della dinastia hashemita, e il presidente dell’ organizzazione sionista mondiale, Chaim Weizmann, stringevano un accordo che prevedeva una sostanziale accettazione da parte di Faysal della dichiarazione Balfour, appena emanata dagli inglesi.

La conferenza di pace di Parigi, stabilendo che la Siria diventasse un protettorato francese, contravvenendo alle promesse fatte allo stesso Faysal in cambio dell’ appoggio nella guerra, determinava una rottura tra i sionisti e il mondo arabo. Faysal diveniva re dell’ Iraq e il nazionalismo arabo, che aveva al suo centro la Siria, si spostava alla Palestina.

Il secondo si svolge, invece, nel 1925 ovvero quando veniva fondato un gruppo di duecento intellettuali, tra cui spiccava quello di Martin Buber, che auspicava la creazione di uno stato binazionale ebraico ed arabo dove ebrei e arabi godessero degli stessi diritti.

Anche la sinistra del movimento sionista era a favore di uno Stato binazionale e di una pacifica convivenza con gli arabi.

Ma nel 1936, il Gran Muftì organizzava una grande rivolta sia contro gli ebrei che contro gli inglesi mettendo fine a ogni ipotesi di accordo. Infatti, gli inglesi  reagivano con un piano che veniva accettato solo dagli ebrei, nella persona di Ben Gurion.

Questi due fatti storici, tra i tanti che vengono raccontati nel libro, dimostrano che la convivenza tra arabi ed ebrei era possibile e lo può essere ancora, nonostante che la strada per raggiungere ciò diventi sempre più stretta. 

Come già accennato in precedenza,  Foa ci racconta dei sionismi per arrivare agli incontri e agli scontri con gli arabi. 

Nell’ ambito di questa ricognizione storica, l’ autrice menziona la minaccia tedesca del 1942 che incombeva sulla Palestina, venuta meno grazie alla sconfitta ad El Alamein dei tedeschi e degli italiani. Se questo non fosse avvenuto, gli ebrei presenti in Palestina sarebbero stati sterminati. Occorre ricordarlo a chi esalta sistematicamente il valore dei combattenti italiani di El Alamein, pur facendo grandi affermazioni di amicizia nei confronti di Israele.

Ma l’ aspetto fondamentale del libro di cui stiamo parlando sta soprattutto nel focalizzare gli estremismi che guidano attualmente gli opposti schieramenti. 

Da parte israeliana abbiamo Netanyahu che è a capo di un governo di estrema destra sostenuto dal partito “Potere ebraico”, rappresentato dal ministro Itamar Ben Gvir.

Questo partito è erede del partito Kach, di cui Ben Gvir è stato dirigente, un partito messo fuorilegge negli anni Ottanta. Il leader del partito Kach è stato espulso dalla Knesset in base ad una legge contro il razzismo.

Inoltre, lo stesso Ben Gvir è stato condannato nel 2007 per istigazione al razzismo. Egli sostiene la necessità di creare la grande Israele e di espellerne tutti i palestinesi.

Un altro ministro convintamente estremista è quello delle Finanze, Bezalel Smotrich, del partito sionista religioso Truma. Smotrich risulta coinvolto in atti illegali ed arresti. È un razzista ed è sostenitore dell’ espulsione degli arabi.

I citati ministri determinano la politica di Netanyahu. Infatti, se si dimettessero il governo cadrebbe. 

Secondo Foa, quando il 7 ottobre i terroristi di Hamas hanno attaccato i Kibbutzim posti vicino al confine con Gaza, la maggior parte delle divisioni dell’ esercito israeliano erano state spostate sul confine con la West Bank (così è chiamata la Cisgiordania), lasciando sguarnito quello con Gaza. 

L’ esercito doveva servire a proteggere gli insediamenti illegali e le aggressioni dei coloni ai palestinesi su quel confine, in previsione di un ulteriore avanzamento di quello che dovrebbe diventare lo Stato palestinese, non a proteggere i kibbutz sulla Striscia: tutti formati da israeliani laici e di sinistra, impegnati nel mantenere rapporti di amicizia e aiuto con i palestinesi. 

Da parte palestinese abbiamo Hamas che nel 2006 ha vinto le elezioni a Gaza. Ne è seguita una guerra civile tra l’ OLP e Hamas vinta da quel’ ultima che attuava una dura repressione e una intensa opera di islamizzazione, aumentando il peso della legge islamica, uccidendo gli oppositori dell’ OLP e/o costringendoli all’ esilio.

Come noto, Hamas non riconosce il diritto di esistere allo Stato di Israele.

Di fronte a tutto ciò, Anna Foa auspica la costruzione in Israele di una società civile democratica, di cittadini liberi e uguali nelle loro diversità e questo fa a pugni con uno Stato ebraico incentrato sulla supremazia degli ebrei. In fondo, occorre una ulteriore trasformazione del pensiero sionista volto a evitare il “suicidio” di Israele. 

Leggere “Il suicidio di Israele” offre l’ opportunità di evitare banalizzazioni, luoghi comuni, di approfondire la conoscenza di quanto effettivamente è avvenuto in quella martoriata terra, ponendo le basi teoriche per un tentativo di riavvicinamento tra i due popoli, pur coscienti che non sarà facile rimarginare le ferite profonde e superare gli odî reciproci.

Vincenzo Vacca

Eventi Randagi: Mario Capanna a Napoli con Luigi de Magistris, Omar Suleiman e Amedeo Borzillo, foto di Ciro Orlandini e servizio del tg3 Campania

La “soluzione imprescindibile” per la pace nel libro Palestina-Israele

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