Antonio Corvino: “L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni” (Rubbettino), di Salvatore Sacco

Già solo il titolo di questo volume attira inevitabilmente l’interesse del lettore: infatti non c’è città al pari di Napoli che accentri attenzione da parte di chi, italiano o straniero, ha avuto in qualche modo occasione di visitarla o di avere a che fare con i suoi abitanti:  come in un nucleo magnetico con opposti poli-  negativo e positivo- si generano sensazioni, pareri, giudizi, contrastanti spesso anche in modo radicale.

Il testo intriga già dal suo titolo che fa riferimento alla  figura mitologica di Partenope, sirena, vergine, incantatrice, suicida, dalle cui polveri sarebbe sorta la città originaria su cui si insediò  la Neapolis (la città nuova) così chiamata dai greci e tramandata alla geografia nazionale.

L’autore parte dunque dalla enigmaticità delle origini per fare immergere il lettore nelle enigmaticità attuali che Napoli ripropone costantemente e che, in un turbinio di colori, suoni, odori, sensazioni ne rendono sempre misteriosa ed affabulante la percezione soggettiva.

Quale strumento migliore per sprofondarsi nella complessità assoluta di questa città e della sua gente, della testimonianza diretta – quasi una cronaca- di un cammino, o meglio di una peregrinazione riportata da un autore eclettico (scrittore, giornalista , economista): una registrazione impulsiva, diretta, collegata con le sensazioni e con le impressioni più immediate  e spontanee, spesso non inficiate dalle fantasime del “politicamente corretto”. 

L’immersione avviene di colpo, senza preparativi che in effetti stonerebbero con il fascino conturbante ma, per molti versi, anche  asfissiante della città e del suo hinterland. Inizia così un tour vorticoso: da  San  Giovanni a Teduccio a  Pietrarsa, alla reggia di Portici, Ercolano, Oplontis, Afragola, le splendide ville  patrizie; ancora il colle dei Camaldoli, il lago di Averno, l’antro della Sibilla, per poi rituffarsi nel cuore di Napoli, il Vomero, S.Maria La Nova e S.Anna dei Lombardi,  San Lorenzo e il magma primordiale; finalmente il rione Sanità, la certosa San Martino, poi Mergellina e Piedigrotta, Posillipo. Ed infine l’omaggio al gigante semibuono e semidormiente: il Vesuvio ed i fiabeschi Cognoli, con l’irrinunciabile atterraggio sul cratere fatato.

La narrazione procede incalzante tra racconti, descrizioni, scoperte stranianti e coinvolgenti, talvolta al limite del sogno. E’ un incedere che appassiona anche perché le descrizioni e le relative connotazioni sono  dirette, talvolta anche folgoranti; non è un caso che sono formulate da chi ha un vissuto idoneo per catturare le matrici più iconiche della realtà che osserva,  nonostante l’estrema complessità delle stesse: l’autore è, infatti, un meridionale doc proveniente da un’altra capitale “intricata” del nostro Sud – la Bari della Puglia sedicente avanguardia del Mezzogiorno-  ma buon conoscitore di Napoli, dove si è recato in gioventù per completare gli studi specialistici, in quella città che in quei tempi  (l’ Università di Portici, i grandi Manlio Rossi Doria, Augusto Graziani etc.) rappresentava la fata morgana del rilancio di queste disgraziate regioni. E’ un dettaglio non irrilevante che, appropriatamente, l’autore riporta con sintetici cenni nel testo .

E le note del cronista di oggi rappresentano una felice fusione fra la visione entusiastica e quasi ingenua del giovane che giunge a Partenope col treno e viene affascinato dalla irripetibile originalità (nel bene e nel male) di questo grumo di civiltà, con la matura consapevolezza scaturente da un percorso professionale che dell’ analisi critica fa il suo nucleo centrale. Non solo, ma, proprio questa saggezza porta l’autore a farsi supportare da sostegni esterni importantissimi, dal grande geografo umanista all’ acuto socio economista, ma con l’orecchio sempre teso al contributo che può dare alla sua ansia di comprensione anche il tassista o la guida locale improvvisata. Il tutto non trascurando mai di innescare gli opportuni  circuiti di interattività con il tessuto più interessante del contesto locale ed in particolare coi giovani.

Ma si badi bene: l’intensità del testo non si esaurisce solo nella già di per sé  coinvolgente descrizione dei luoghi e delle storie, sempre vivida ed arricchita dagli essenziali ed arguti approfondimenti storico-culturali, ma si completa con alcune osservazioni, mai giudizi, sulle più rilevanti dinamiche sociali – e , quindi, sulle loro proiezioni qualitative e temporali – della città. 

Ad esempio  (come rimarcato nella interessante postfazione al testo)  l’autore sembra assecondare l’idea  che  Napoli, pur con tutti i suoi limiti, possa ancora rappresentare in qualche modo una guida verso un futuro urbano socialmente inclusivo ed emancipante, sfidando i rischi insiti nell’uniformazione imposta dalla globalizzazione, superando i limiti delle vetuste tradizioni para-rurali che comportano forme di vessazione  e solitudine, spesso camuffate sotto il sipario di una esuberante estroversione.  

Tracce di questa vocazione -e delle sottostanti eclatanti contradizioni- possono essere individuate, ad esempio, nell’evidenza posta dall’autore sulla “perfetta simbiosi che tiene insieme Napoli, al riparo da ogni remora o cruccio”, il tutto proiettando al lettore le immagini delle  “verandine e dei balconcini realizzati estroflettendo lo spazio casalingo dei bassi lungo i vicoli o, ancora, le nicchie ed i tempietti votivi che, sugli angoli delle vie o sulle facciate dei palazzi, fanno bella mostra di sé “in omaggio a Dio, alla Madonna ed ai santi; al proposito,  acutamente si fa osservare come a Napoli i santi siano chiamati per nome e siano trattati come gente di famiglia.  Ma forse non si tratta solo di un vezzo popolare, laddove si consideri che i napoletani vivono alle falde del Vesuvio, una presenza  in qualche modo trascendente che veglia su di loro: ebbene tanto l’uno (il Vesuvio) che  gli altri  (i napoletani abituati a camminare sui Campi Flegrei) finiscono col porsi in una situazione di relativa superiorità, o solo disinteresse,  rispetto alle bagattelle ed alle quisquilie quotidiane. 

Si tratta di semplice “filosofia del tirare a campare” o di  una maschera da indossare per essere protagonisti sul palcoscenico della vita? Questi ed altri interrogativi superficiali o profondi, ma sempre interessantissimi, vengono gettati lì, fra le tante frizzanti descrizioni dei panorami o dei monumenti, per una eventuale riflessione del lettore. E’ forse questo intreccio di semplicità e complessità che, assieme agli scorci paesaggistici irripetibili, ha affascinato e continua ad affascinare dal semplice visitatore ai grandi frequentatori della città, primo fra tutti il grandissimo poeta Giacomo Leopardi.

Così come leggeri, ma intriganti appaiono i fugaci ma lungimiranti confronti con altre realtà cittadine di cui l’autore ha approfondita conoscenza, non solo altre città meridionali quali Bari o Palermo, ma anche Roma e Milano a livello nazionale ed, a livello internazionale Bruxelles, Londra, Lodz, Philadelphia. 

Una lettura piacevole per l’aspetto descrittivo e narrativo scintillante e brioso, ma al tempo stesso per le profonde riflessioni che propone sempre in modo pacato e rilassato .

La sensazione, dopo la lettura, è di aver acquisito un importante frammento di conoscenza che riguarda una delle città più iconografica del nostro Paese, una città come Napoli, su cui probabilmente tutti noi abbiamo, forse anche solo  inconsciamente, prefigurato qualche  giudizio positivo o negativo e comunque , troppo spesso condizionato da preconcetti , forse, mai adeguatamente vagliati!

Salvatore Sacco 

Già Direttore della Fondazione Curella di Palermo e docente presso la Facoltà di Economia dell’Università di Palermo

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Venerdì 31 gennaio alle 18, il Randagio incontra Antonio Corvino e il suo “L’altra faccia di Partenope” alla libreria Raffaello di Napoli. Dialogano con l’autore Valeria Iacobacci e Francesco Saverio Coppola.

“Prigionieri del tempo”, un racconto di Letizia Vicidomini per il Giorno della Memoria

Un mese di vacanza al mare è lungo, molto lungo. Specialmente se sei una donna giovane e sola, dal lunedì al venerdì sera, e con due bambine da accudire. Certo, nel week end diventa tutto più bello, la famigliola si ricompone e io sono felice. Lo sono anche le piccole pesti, che si arrampicano sul povero papà, distrutto da una settimana di lavoro e due ore di viaggio per raggiungerci. Abbiamo ragionato molto sulla necessità di questa separazione forzata, arrivando alla conclusione che fosse necessaria per il benessere delle nostre figlie, Martina soprattutto, affetta da una perniciosa asma bronchiale che le toglie il fiato. Fatti i dovuti conti, che non tornano mai, abbiamo preso in affitto questa bella casetta sulla spiaggia, una villetta unifamiliare che mi consente di non dover usare la macchina per portarle al mare. La zona non è di quelle turistiche per giovani leoni, e non ha molte attrattive neppure per gli stranieri, però il mare è pulito e l’aria è tanto tersa e salmastra da pizzicare il naso, la mattina presto. Quella è l’ora giusta per portare le bambine a salutare il mare, come le ho insegnato, spiegando che ci si va quando non c’è molta gente perché lui, il mare, ama il silenzio. 

 

Anch’io lo amo, ma è decisamente molto più divertente quando in spiaggia c’è almeno qualche bagnante con cui scambiarsi un sorriso e un buongiorno. A volte siamo talmente sole che le bambine si riaddormentano, stese sulle stuoie all’ombra, cullate dal respiro del mare, ed io mi ritrovo a non sapere cosa fare del mio tempo. Leggo, tantissimo. Ascolto musica in cuffia per ore. Penso tanto, all’importanza del tempo e alla sua duttilità, che lo fa adattare ai nostri stati d’animo, alle stagioni della vita, all’intensità dei sentimenti. Rifletto sul fatto che siamo un po’ suoi prigionieri, del tempo, intendo, che diventa padrone dei nostri spazi, delle esistenze stesse.    

Mi guardo intorno, mettendo a fuoco mille dettagli, per impegnare i lunghi intervalli tra la colazione e il pranzo, tra la merenda e la cena. Proprio di fronte all’ombrellone che pianto sempre nello stesso punto, in linea d’aria con la nostra casa ma leggermente più a destra, c’è un’altra costruzione bassa, a due piani. E’ certamente una casa molto più vecchia di quella che abitiamo, anche se tenuta bene, e proprio per questo motivo c’è un particolare che ha colpito la mia attenzione dal primo momento. La terrazza del piano superiore, quasi interamente circondata da piante belle e rigogliose che ne assicurano la riservatezza, è letteralmente dominata da un grande orologio che si vede persino dalla spiaggia. Il quadrante è rotondo e bianco, mentre la cornice e le lancette grosse e puntute sono nere. Somiglia ad un classico orologio da stazione e molte volte al giorno, in modo automatico lo sguardo corre a consultarlo, rimanendo invariabilmente delusa. Sì perché, ed è questa l’anomalia, l’orologio è fermo ad un’ora che è sempre la stessa, le 10 e 25, di mattina o di sera non è dato sapere. In una casa bella e curata come quella è un dettaglio stonato, un pugno in un occhio, e tante  volte ho pensato di dirlo ai proprietari, appena ne incontro qualcuno. In effetti c’è un bel po’ di gente che anima la casa sulla spiaggia, durante il giorno e la sera, ma nessuno di loro esce mai a fare la spesa in paese o una passeggiata sul bagnasciuga. Probabilmente lo fanno in orari diversi dai miei, comunque sulla terrazza c’è sempre movimento.

Durante le mie minuziose osservazioni ho notato anche un curioso alternarsi degli occupanti, una sorta di turnistica che ho scoperto essere sempre uguale. Dopo tre settimane di permanenza sono certa di aver individuato una rotazione fissa: di mattina giovani, di sera anziani, mai tutti insieme. Al principio pensavo fosse un caso, dopotutto non è che stavo a guardare il terrazzino di continuo. Ne ho parlato anche con Paolo, mio marito, ma lui si è messo a ridere, poi ha detto che era un fatto normalissimo. I giovani vanno al mare, hanno voglia di sole e di fare casino in spiaggia, le persone anziane se ne stanno in casa e la sera cenano al fresco. Mi è sembrato tutto sommato realistico, anche se ricordando le mie estati da ragazzina mi viene in mente qualcosa di diverso. Noi la mattina volevamo dormire, dopo aver fatto le ore piccole, e quindi scendevamo al mare a mezzogiorno, mentre i miei genitori erano in spiaggia alle sette del mattino, per prendere il sole migliore. Allora mi sono messa d’impegno ad osservare la strana famiglia “dell’orologio”, così come l’ho battezzata. Ho contato, di mattina, sette giovani occupanti del terrazzino, quattro maschi e tre femmine, tutti sui diciotto/vent’anni. Al riparo del mio ombrellone, li ho visti ogni giorno apparire e sparire tra le piante messe a protezione della loro privacy. Belli, biondi e castani, ben vestiti, forse solo un po’ classici per i nostri giorni, mai in costume da bagno. Stanno lì forse un’oretta, poi rientrano in casa e non li vedo più sino alla mattina successiva. Per scorgere altro movimento mi tocca aspettare la sera, dopo le dieci, quando sul terrazzo bagnato dalla luce morbida di alcune lampade, arrivano gli adulti. Sarebbe meglio dire i vecchi, se mi si passa il termine rude. Sono anche loro sette, a pensarci bene. Quattro uomini e tre donne, anziani. Raffinati, discreti, sempre perfettamente abbigliati, come dovessero andare ad una cena importante.  Invece stanno lì, parlando a bassa voce e cenando. Si sentono solo i rumori lievi dei piatti che si toccano, il tintinnio dei bicchieri e qualche sommessa risata, ogni tanto. Stanno insieme poco: un’ora, un’ora e mezza al massimo, poi si ritirano in casa. Li rivedo la sera successiva e tutto si ripete. Il mese di villeggiatura è quasi passato, e questo è l’ultimo fine settimana nel quale Paolo ci raggiungerà per poi riportarci a casa. Finalmente, penso io. E’ stato un mese lunghissimo, buono solo per preparare la piccola ad un inverno meno complicato e regalarci un colorito uniforme e sano. Io ho sofferto enormemente la solitudine, e ho già deciso che, da oggi in poi, le vacanze si fanno tutti insieme e basta.

L’unico diversivo è stata l’osservazione della famiglia “dell’orologio”, che però non sono riuscita a conoscere. Allora mi prende un puntiglio che stenta a lasciarmi, una fissazione che non passa. Non posso andarmene senza aver chiesto ai vicini di casa perché non rimettono in funzione il grande orologio del terrazzo. Magari è un reperto storico, magari non sanno chi possa andare ad aggiustarlo, magari è un oggetto d’arredamento ed è proprio così che dev’essere, fermo alla stessa ora per sempre. Ho deciso, vado a bussare alla casa. Prendo le bambine, una per mano e l’altra nel passeggino, e mi dirigo verso la villetta. Suono al campanello, già quasi pentita dell’impulso irrazionale che mi ha preso, ma non mi risponde nessuno. Sono le sei del pomeriggio e forse sono tutti fuori. Faccio una passeggiata, come tutte le sere, e mi dirigo verso il centro del piccolo paesino che ha ospitato la mia solitaria vacanza, per passare nell’unico bar dell’unica microscopica piazza e prendere un caffè. La signora Rosa, la proprietaria con la quale scambio volentieri qualche chiacchiera gentile non c’è, stranamente. Mi accoglie una signora grassoccia, con i capelli biondo platino, che dice di essere la cognata. Racconta di una sciatica violenta che costringe la signora Rosa a letto, e si lancia in una filippica infinita sulla presunta incoscienza dell’assente, rea di non avere troppa cura di sé. Tra elenchi di medicinali e digressioni sui suoi, di dolori, riesco finalmente ad incuneare una domanda. “Mi sa dire qualcosa della famiglia che abita nella casa vicino alla nostra?” –  “Perché?” mi chiede con gli occhi sgranati.       

Io rimango un po’ spiazzata, non mi sembra di aver chiesto qualcosa di tanto strano.  “Volevo salutare qualcuno dei ragazzi, oppure le signore che vedo la sera sul terrazzo, ma ho bussato e non mi ha risposto nessuno …” dico un po’ imbarazzata dalla sua espressione che continua ad essere attonita. Finalmente, dopo un minuto che mi sembra eterno, la vedo riaversi e guardarmi ancora, stavolta dubbiosa.  Forse riflette sul mio stato mentale, considerato quello che mi racconta subito dopo. Al rientro sono ripassata davanti alla casa, ho provato a bussare il campanello ripetutamente e senza speranza, ancora incredula per le parole della signora del bar, che si chiama Iole ed è molto chiacchierona. Quello che mi ha detto, con un sorriso complice, sembra inventato, ma ormai sono sicura che sia la verità. Non credo che lo racconterò a nessuno, ecco perché lo scrivo, mentre cerco una spiegazione che non c’è. Io, però, sento di essere stata spettatrice di qualcosa di speciale. Forse l’unica, e chissà per quale scopo. Ripenso alla storia che mi è stata raccontata con un brivido.

La famiglia che abitava la casa dell’orologio era composta, sessant’anni prima, da tre sorelle e quattro fratelli, oltre ai genitori. Erano stati proprio loro a chiudere in cantina i figli, dopo averli storditi con del sonnifero, per nasconderli ai tedeschi che stavano rastrellando ebrei. Non avrebbero mai permesso che portassero via i ragazzi, piuttosto prendessero loro, avevano pensato. Così era stato, erano stati fatti prigionieri e portati via, con uno dei treni ormai tristemente famosi. 

I figli si erano risvegliati nella cantina buia e ancora piena di scaffali sui quali, un tempo, venivano conservate le bottiglie di vino pregiato che il padre teneva come reliquie. Avevano cercato di uscire, scoprendo con orrore che la porta non si apriva dall’interno. Forse avevano gridato sino allo sfinimento, chiedendosi perché, mille volte perché, fino a quando la morte li aveva presi, uno dopo l’altro. Li avevano trovati molto tempo dopo, al termine della guerra, e la spiegazione dell’accaduto era stata offerta da un bigliettino lasciato dai genitori sulla credenza. Poche righe nelle quali dicevano ai figli che al loro risveglio non li avrebbero trovati, ma che preferivano morire, piuttosto che vederli nelle mani dei nazisti. Loro dovevano vivere e divertirsi, perché erano giovani e avevano una vita da vivere. Mai avrebbero pensato che il destino fosse tanto beffardo, e che se li prendesse tutti, con una zampata sola.

Mi giro e rigiro nel letto, e non riesco a prendere sonno, in questa ultima notte al mare. Paolo russa piano, non ha intuito nulla del mio stato d’animo, forse è troppo stanco per guardarmi con attenzione.  Allora esco fuori, e mi dirigo sulla spiaggia silenziosa e buia. Prima esito, ma poi mi giro e guardo in su, verso la terrazza e verso l’orologio fermo sempre alla stessa ora, quella che ha determinato la fine di sette giovani vite che avevano tutto il futuro davanti. Avrebbero vissuto fino a diventare vecchi e saggi, così come li vedevo la sera, nelle infinite e pacate cene, dopo essere stati giovani e spensierati, come mi si presentavano alla luce del sole. Il tempo li ha fatti prigionieri, e li tiene legati da qualche parte. Sempre uniti, eternamente insieme. Volevano che qualcuno lo sapesse e hanno scelto me. Forse dovrei sentirmi orgogliosa, penso, mentre dietro le piante sul terrazzo vedo una mano agitarsi, in un saluto. Ricambio, commossa, e me ne ritorno a letto. 

Letizia Vicidomini

Letizia Vicidomini è nata a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, ma raggiunge Napoli da vent’anni per lavoro, e ne ha fatto lo scenario privilegiato delle sue storie.

E’ stata speaker per le maggiori emittenti nazionali e regionali (RTL 102.5, Kiss Kiss, Radio Marte, Radio Punto Nuovo), attrice e e voce pubblicitaria. Alcuni suoi scritti sono diventati pièce teatrali ad opera dell’attrice e regista Ramona Tripodi.

La prima pubblicazione è del 2006, il romanzo “Nella memoria del cuore” edito da Akkuaria, così come “Angel”, del 2007. Nel 2012 è la volta della storia ambientata tra la Puglia e l’Argentina, “Il segreto di Lazzaro”, edito da CentoAutori e impreziosito dalla prefazione di Maurizio de Giovanni.

Nel 2014 per Homo Scrivens pubblica “La poltrona di seta rossa”e l’anno successivo, sempre con la stessa casa editrice, passa al noir con “Nero. Diario di una ballerina”. Il romanzo è nella sestina dei finalisti del premio “Garfagnana in giallo 2015” e Menzione speciale al Festival Giallo Garda. La “trilogia dei colori” si completa con “Notte in bianco” (2017), di nuovo finalista in Garfagnana. Nel 2019 pubblica, sempre per Homo Scrivens, “Lei era nessuno”. Ad aprile 2021 Homo Scrivens ripubblica “Il segreto di Lazzaro” in una versione aggiornata e rivista, che vince il Premio Internazionale Giallo Garda, VII Edizione.

Suoi racconti sono inclusi in numerose antologie. Tra le principali “Una mano sul volto” e “Diversamente amici” , curate da Maurizio de Giovanni (Ed. A est dell’Equatore), “Napoli in cento parole” e “Napoli a tavola in cento parole” (Perrone Editore), “Free Zone” (Echos) e “Il bivio” (Oakmond Publishing), “Attesa. Frammenti di pensiero“, “Un giorno per la memoria” (Homo Scrivens). Pubblica nella collana di Mursia Giungla Gialla curata da Fabrizio Carcano, “La ragazzina ragno” che trionfa nell’edizione 2021 del Garfagnana in giallo, in finale anche al Premio Misstery legato al Festival del Giallo a Napoli. A novembre 2022 esce “Dammi la vita” con la stessa casa editrice, che entra nuovamente nella cinquina votata dai lettori del Premio Misteri.

A marzo 2023 pubblica per SetteChiavi il thriller “Salvami“, racconto lungo che apre la collana Passepartout curata da Diego Di Dio, che si piazza sul podio della X edizione di Giallo Garda. Viene menzionata da Ciro Sabatino nella “Storia del giallo a Napoli” (Homo Scrivens 2024) tra le rappresentanti di spicco della “scuola napoletana” capeggiata da Maurizio de Giovanni.

A ottobre 2024 pubblica “Non si uccide il passato. Il male sporca Napoli” (Mursia Editore), che riceve immediatamente riscontri positivi da blog e lettori.

“Paura sotto la pelle: perché scrivo noir”, di Letizia Vicidomini

Mi chiedo, e mi chiedono molto spesso, quali siano le cause che mi spingono a raccontare e a scrivere storie noir, perciò ho deciso di provare a chiarirlo a chi il nero lo legge, di sicuro animato dalle stesse motivazioni. 

Non tutte le spiegazioni sono semplici e immediate, alcune hanno radici profondamente interrate nel subconscio che non ho neppure voglia di dissotterrare, anche se posso certamente affermare che molte abbiano a che fare con la paura.

Sebbene io sia una persona estremamente luminosa, solare, si direbbe più spesso (è un termine molto frequentato) posso affermare con sicurezza che sia tutto merito e riflesso della parte più oscura e profonda che tutti custodiamo, e a volte nascondiamo.

Mi piace aver paura, tutto sommato, ed è per questo che ho avvicinato sin da molto giovane la letteratura di genere, amando moltissimo il giallo e le sue derivazioni.  Nelle migliaia di pagine lette sino a notte fonda trovavo brividi, emozioni e paura, anche. Ma il vero incontro importante fu con il Maestro assoluto, Alfred Hitchcock, curatore di una raccolta di racconti brevi assolutamente magnifica. 

In realtà poi scoprii che Hitch appariva come nome di richiamo, ma non prendeva parte personalmente alla scelta dei racconti, lasciando il compito a fidati collaboratori come Robert Arthur, ma poco importa.

Da queste pagine era stata tratta una serie tv andata in onda negli anni cinquanta (ma io ancora non ero nata), poi riproposta nell’ 85 (allora sì, che ero nata) intitolata in Italia “Alfred Hitchcock presenta”, che seguivo con interesse totale e dedizione quasi religiosa. 

La trasformazione in immagini delle storie lette su carta mi forniva l’opportunità di comparare e fondere le emozioni, di verificare la potenza di un mezzo piuttosto che l’altro, alternativamente più potenti.

Detto questo, ribadisco la passione per il brivido, per quel soffio d’aria che sento a volte sul collo in una stanza perfettamente chiusa, mentre leggo un buon libro, oppure il rizzarsi dei peli sulle braccia alle note di una colonna sonora appropriata.

Inevitabile che nella mia narrazione entrasse la paura, anche se i miei colori sono sfumati, e la tensione si trova essenzialmente nei sentimenti e nella loro corruzione o alterazione. La paura che corre sotto la pelle dei miei romanzi è essenzialmente quella del rovescio della medaglia delle relazioni: familiari, amorose, amicali, tutte possono diventare incubi quotidiani e terribili.  I personaggi che descrivo sono persone semplicemente vive, avvolte in un tessuto di rapporti belli, forti, “normali”, che diventano d’improvviso trappole mortali. 

Analizzando queste dinamiche racconto le storie di legami importanti, essenziali come quelli con la madre, i figli, radici e rami del proprio albero di vita. Legami che possono costringere e soffocare, oppure germogliare e diffondere ciò che la pianta produce, a seconda di mille variabili.

Mi colpisce a fondo la trasformazione degli amori, della passione che sconvolge e travolge e poi diventa possesso, prigione, e non solo per chi ne è vittima, ma anche per gli stessi carnefici. 

È così che nascono le paure più profonde, quelle che si imbevono della sicurezza che parrebbe scontata nel proprio piccolo mondo emotivo. Là dove ognuno crede di essere protetto e tutelato, in casa propria o tra le braccia della persona amata, è più forte la paura di perdere ciò che ci appartiene per diritto.

In sostanza mentre amo la paura che posso far sparire accendendo le luci o spalancando le finestre alla luce del sole, scrivo di quella che si annida tra le pieghe delle anime e dei sentimenti.

Scrivo noir perché mi consente di analizzare un mondo interiore, un universo parallelo e nascosto che riserva continuamente sorprese, allenando a gestire il dolore.

E sono le medesime ragioni per le quali voi leggete me e quelli come me.

Paura, eh?

p.s. Giacché, come dicevo, mi piace aver paura, consiglio tre libri che mi hanno terrorizzata e che vanno assolutamente letti (anche se avete visto la trasposizione cinematografica): “Misery” di Stephen King, “Il silenzio degli innocenti” di Thomas Harris e “Almost Blue” di Carlo Lucarelli.

Letizia Vicidomini

Letizia Vicidomini è nata a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, ma raggiunge Napoli da vent’anni per lavoro, e ne ha fatto lo scenario privilegiato delle sue storie.

E’ stata speaker per le maggiori emittenti nazionali e regionali (RTL 102.5, Kiss Kiss, Radio Marte, Radio Punto Nuovo), attrice e e voce pubblicitaria. Alcuni suoi scritti sono diventati pièce teatrali ad opera dell’attrice e regista Ramona Tripodi.

La prima pubblicazione è del 2006, il romanzo “Nella memoria del cuore” edito da Akkuaria, così come “Angel”, del 2007. Nel 2012 è la volta della storia ambientata tra la Puglia e l’Argentina, “Il segreto di Lazzaro”, edito da CentoAutori e impreziosito dalla prefazione di Maurizio de Giovanni.

Nel 2014 per Homo Scrivens pubblica “La poltrona di seta rossa”e l’anno successivo, sempre con la stessa casa editrice, passa al noir con “Nero. Diario di una ballerina”. Il romanzo è nella sestina dei finalisti del premio “Garfagnana in giallo 2015” e Menzione speciale al Festival Giallo Garda. La “trilogia dei colori” si completa con “Notte in bianco” (2017), di nuovo finalista in Garfagnana. Nel 2019 pubblica, sempre per Homo Scrivens, “Lei era nessuno”. Ad aprile 2021 Homo Scrivens ripubblica “Il segreto di Lazzaro” in una versione aggiornata e rivista, che vince il Premio Internazionale Giallo Garda, VII Edizione.

Suoi racconti sono inclusi in numerose antologie. Tra le principali “Una mano sul volto” e “Diversamente amici” , curate da Maurizio de Giovanni (Ed. A est dell’Equatore), “Napoli in cento parole” e “Napoli a tavola in cento parole” (Perrone Editore), “Free Zone” (Echos) e “Il bivio” (Oakmond Publishing), “Attesa. Frammenti di pensiero“, “Un giorno per la memoria” (Homo Scrivens). Pubblica nella collana di Mursia Giungla Gialla curata da Fabrizio Carcano, “La ragazzina ragno” che trionfa nell’edizione 2021 del Garfagnana in giallo, in finale anche al Premio Misstery legato al Festival del Giallo a Napoli. A novembre 2022 esce “Dammi la vita” con la stessa casa editrice, che entra nuovamente nella cinquina votata dai lettori del Premio Misteri.

A marzo 2023 pubblica per SetteChiavi il thriller “Salvami“, racconto lungo che apre la collana Passepartout curata da Diego Di Dio, che si piazza sul podio della X edizione di Giallo Garda. Viene menzionata da Ciro Sabatino nella “Storia del giallo a Napoli” (Homo Scrivens 2024) tra le rappresentanti di spicco della “scuola napoletana” capeggiata da Maurizio de Giovanni.

A ottobre 2024 pubblica “Non si uccide il passato. Il male sporca Napoli” (Mursia Editore), che riceve immediatamente riscontri positivi da blog e lettori.

Letizia Vicidomini, “Non si uccide il passato” (Mursia Giungla Gialla), di Annamaria Petolicchio

Letizia Vicidomini consegna ai lettori un noir che definirei filosofico, che travalica i confini del genere, in cui l’indagine criminale diventa metafora di un viaggio esistenziale attraverso i segmenti del tempo.

Il romanzo ruota intorno ad un concetto centrale, mirabilmente riassunto in una delle citazioni più emblematiche: “Il futuro chiama, il presente corre, ma il passato non può morire” (p.19). Questa frase condensa l’essenza del libro, dove la memoria non è un archivio statico, ma un organismo vivo che “emerge dal terreno, spunta alla maniera di scheletri che spaccano lapidi per tornare in superficie” (p.38).

La riflessione sulla memoria diventa un vero e proprio percorso conoscitivo. Come l’autrice stessa scrive, la memoria è “un magma composito di materia reale e autoprodotta, immagini, odori, sapori, emozioni e dolori” (p.42), un universo liquido dove realtà e percezione si intersecano continuamente.

Il protagonista, l’ex commissario Andrea Martino, incarna questa complessa relazione con il passato. Temporaneamente menomato in seguito ad un intervento per distacco di retina, egli rappresenta metaforicamente un uomo costretto a rallentare, a guardare dentro se stesso. La sua condizione di “guerriero a riposo” (p.36) diventa l’occasione per esplorare strati profondi della memoria familiare.

L’intreccio investigativo si arricchisce così di una dimensione quasi esistenziale. Le indagini sull’omicidio di un usuraio pedofilo si intersecano con la riscoperta di una storia familiare sepolta, conducendo il lettore in un territorio dove “una vita in cambio di una vita” solleva domande cruciali: “È giustizia o vendetta?” (p.246). Anche in questa sua opera la Vicidomini con garbo e sensibilità ci porta a riflettere sulle tante barbarie che si nascondono tra le mura domestiche, sui soprusi e le violenze troppo spesso taciute.

Accanto al protagonista Andrea Martino, ruotano figure che donano profondità e calore umano al romanzo. Luisa, sua moglie, emerge come un personaggio cruciale: non più solo comprimaria, in questo romanzo diventa una vera e propria co-protagonista. Il suo supporto va oltre l’affetto coniugale, configurandosi come un sostegno intellettuale e emotivo fondamentale per Andrea. È lei che lo accompagna nella ricostruzione dei frammenti del passato familiare, diventando quasi un’investigatrice sentimentale accanto al marito.

I nipoti Chiara e Carmine rappresentano la vitalità e la leggerezza. Chiara, descritta come un “tornado” di energia, con i suoi “saltelli, piroette, abbracci e parole a raffica” (p.159), contrasta con il fratello Carmine, già più riflessivo. Questi piccoli personaggi introducono nel romanzo un elemento di pura vitalità, interrompendo la tensione investigativa con la loro spontaneità infantile.

Non meno importante è Cleo, la gatta di casa, che l’autrice tratteggia con ironia: “silenziosa come le piante di Andrea ma decisamente più affettuosa”. Quasi un ulteriore membro della famiglia, Cleo diventa metafora di una presenza discreta ma partecipe. 

Sarebbe lungo soffermarsi su tutti i personaggi che animano le pagine del romanzo, tratteggiati sapientemente dalla penna di Letizia Vicidomini, ma sui fratelli Zilli non posso sorvolare, perché Tommaso e Carmen Zilli rappresentano un tassello importante nella ricostruzione storica e familiare del commissario Martino, diventano gli strumenti narrativi attraverso cui l’autrice sviluppa uno dei filoni più profondi del romanzo: la riabilitazione della memoria.

Originari di Trieste, Tommaso e Carmen sono portatori di una memoria storica che va oltre i confini familiari. Il loro gesto di inviare i diari della nonna Melina al commissario Martino non è solo un atto di giustizia privata, ma diventa un vero e proprio atto di ricostruzione storica. Attraverso questi documenti, permettono ad Andrea di ricomporre i frammenti di una storia familiare frammentata, rivelando dettagli sepolti che gettano nuova luce sul passato del nonno.

La loro scelta di consegnare questi documenti rappresenta un atto di coraggio civile: non si limitano a conservare una memoria personale, ma scelgono di condividerla, permettendo che la verità emerga. Sono loro a fornire le chiavi per scardinare le narrazioni ufficiali, offrendo al commissario Martino l’opportunità di ricostruire non solo la storia del proprio nonno, ma anche un pezzo di storia collettiva.

Trieste, città di confine, di stratificazioni storiche complesse, diventa attraverso Tommaso e Carmen un ulteriore personaggio del romanzo. La loro provenienza non è casuale: rappresentano quella parte d’Italia che ha vissuto sulla propria pelle le complessità dei confini, delle appartenenze multiple, delle storie che spesso restano nascoste tra le pieghe degli archivi ufficiali.

Il loro intervento nel romanzo sottolinea un tema centrale: la memoria non è un dato statico, ma un processo dinamico di ricostruzione e comprensione. Attraverso Tommaso e Carmen, l’autrice sembra voler dire che la verità può emergere solo quando qualcuno è disposto a cercarla, a mettersi in gioco, a consegnare alle generazioni successive i frammenti di storie dimenticate

Letizia Vicidomini utilizza una scrittura sensoriale straordinaria. I suoi personaggi non vivono solo, ma respirano, toccano, sentono. L’amore stesso viene descritto come un linguaggio multisfaccettato che “suona con le note, pizzica il naso, risveglia gli odori, disegna sulla pelle” (p.248).

Particolarmente toccante è la dimensione del legame familiare, sempre presente e viva nelle opere della Vicidomini, sintetizzata nella frase “Ogni graffio risparmiato alla sua giovane anima era prezioso per chi lo aveva messo al mondo” (p.30), che rivela una profonda sensibilità verso la genitorialità come atto di protezione e cura.

Il romanzo si nutre anche di una napoletanità autentica, che rivive nelle pagine del romanzo, tra i vicoli di Materdei e la Pigna Secca, tra la villa Floridiana e Vico Purgatorio ad Arco, citando Pino Daniele, Erri De Luca e il suo modo di intendere il linguaggio: “Da noi non si pronuncia l’ultima vocale, le parole restano sospese. Prima e dopo sono primm’ e dopp’, hanno più carne e ossa del presente, che è solamente: mo’” (p.183). “. Una città che diventa essa stessa personaggio, sfondo vivo e pulsante delle vicende.

E se dopo la lettura di “Dammi la vita” la visita al Conservatorio di San Pietro a Maiella è stata per me tappa obbligata, il programma della mia prossima tappa napoletana prevederà sicuramente il “Teatro Instabile di Napoli, piccolissimo e suggestivo” (p.74) e poggerò anch’io la mano sul naso a becco della “statua di Pulcinella, dono di Lello Esposito alla sua città” (p.74), sperando di attirarmi la buona sorte! E ritornerò volentieri anche a Trieste, “punto d’incontro fra due mondi, terra di confine” (p.255).

Un monito attraversa il libro: “Mi è diventato sempre più chiaro che se siamo al mondo dobbiamo provare a farne veramente parte, senza restare sullo sfondo. Sentirsi vittime non serve a niente. È solo uno spreco” (p.125). Un invito all’azione, alla consapevolezza, a trasformare anche i frammenti più dolorosi dell’esistenza in opportunità di crescita.

Non si uccide il passato” è molto più di un noir: è un viaggio dentro la memoria, le relazioni familiari, i meccanismi della giustizia e del perdono. Un’opera che scava nelle pieghe dell’animo umano con la delicatezza di un bisturi e la profondità di una riflessione filosofica.

Annamaria Petolicchio

Annamaria Petolicchio, è docente universitaria e presidente del Settembre Culturale di Agropoli, nonché tra i protagonisti del reality RAI “Il Collegio”.

Antonio Corvino: “L’altra faccia di Partenope. In cammino tra Napoli e altre peregrinazioni” (Rubbettino), di Gigi Agnano

Antonio Corvino, per me, prima ancora che un professore, un economista, un saggista, un meridionalista, un romanziere e un poeta, è uno splendido compagno di viaggio. Abbiamo attraversato insieme a piedi molti luoghi degli Appennini, tra Campania, Basilicata e Puglia. Quelli che per lui erano poco più che passeggiate, per me erano cammini faticosi, che mi lasciavano vesciche enormi e dolorose sui piedi. In questi percorsi abbiamo condiviso esperienze indimenticabili, tra i panorami mozzafiato e le difficoltà del Cammino degli Anarchici, dei Briganti, o della lunga Benevento-Matera. Mentre io arrancavo con la vista annebbiata dalla fatica, pensando al letto e alla cena — alla pasta e fagioli e all’aglianico — lui, con la sua insaziabile curiosità, si addentrava in ogni chiesa o cappella che incontravamo lungo il sentiero. Non si limitava a un’occhiata veloce: si fermava estasiato davanti a ogni pala d’altare, a ogni statua, come se osservasse un capolavoro unico e irripetibile.

Durante queste camminate, Antonio mi indicava quelli che per me erano genericamente “alberi” o “piante,” chiamandoli con la competenza di un botanico o, più semplicemente, di chi torna sempre, dopo tanto girovagare, alla sua campagna in Salento. Questo suo modo di immergersi nel viaggio “con l’insaziabile avidità dello spirito che lo spingeva a conoscere, scoprire, sperimentare” – dice quando parla di Ulisse -, di cogliere la bellezza di ogni pietra, di ogni filo d’erba e di ogni opera, umana o del Padreterno, è lo stesso che emerge nelle pagine del suo ultimo libro.

In “L’altra faccia di Partenope”, Antonio Corvino offre al lettore un’acuta e affascinante  indagine su Napoli, tracciando un percorso sociologico e culturale che si evolve pagina dopo pagina in un’esperienza dello spirito. Con un’attenzione meticolosa ai dettagli, l’autore scava sotto la superficie della città per rivelare un mondo nascosto, fatto di storia, mito e cultura popolare. Corvino non si accontenta di raccontare una Napoli patinata, da cartolina, ma, lontano dagli stereotipi, si addentra tra i suoi strati più segreti e intimi, portando alla luce una bellezza ombrosa che ama nascondersi. “È da quando ero studente che mi appassiona l’altra faccia di Partenope,” spiega, “quella nascosta sotto gli intonaci scrostati, i cornicioni e i marmi incastonati qua e là nei basamenti di palazzi… quella velata di devozione nelle edicole votive dei vicoli.”

Questa citazione rivela subito la cifra narrativa del suo lavoro. Napoli è vista come un’entità che ha nella stratificazione e nella verticalità uno dei suoi misteri, “una città che ama nascondersi dietro a più di uno strato di veli. “Napoli è velata come nel film del turco-salentino Ozpetek, come il Cristo di Sammartino. Corvino intraprende, come nei nostri cammini, una sorta di pellegrinaggio. Non è un caso che i primi capitoli siano dedicati a San Giovanni a Teduccio, Pietrarsa, Portici, Ercolano, tutti luoghi che vedono il passaggio dei pellegrini diretti a Pompei. Ne segue uno scavo nell’anima nascosta della città, una full immersion nella Napoli cristiana, quella delle chiese, dell’arte e dei miracoli. E il lettore lo segue, lasciando percorsi turistici e luoghi comuni, addentrandosi nei quartieri storici ma anche in quelli meno noti, ascoltando i miti e i racconti, la musica e la letteratura che si intrecciano alle sue strade.

Napoli emerge come una città di contrasti. Nel giro di trecento metri e di un quarto d’ora, capita di rendersi conto di aver attraversato una città al tempo stesso aristocratica, borghese, popolare e multiculturale. Qui il bello e il brutto, lo splendore e il degrado, il sacro e il profano, l’antico e il moderno convivono, sovrapponendosi e mescolandosi in un’armonia all’apparenza caotica ma perfetta. È una città che non si offre al primo sguardo, ma che va decifrata con lentezza. L’autore ne racconta la bellezza sfuggente, che si rivela strato dopo strato, che richiede al visitatore l’impegno di oltrepassare la superficie per comprenderne l’essenza. La bellezza di Napoli, infatti, è “sfumata, confusa, mischiata, sovrapposta” e si rivela solo a chi ha la pazienza di immergersi davvero nella città, a chi, come Ulisse con le Sirene, si dispone all’ascolto.

Uno degli aspetti più interessanti del libro è la riflessione di Corvino sui contrasti della Napoli moderna, incarnati dal Centro Direzionale. Simbolo di un’aspirazione alla modernità incompiuta, il Centro Direzionale nasce per essere Manhattan e invece diventa un “Bronx in giacca e cravatta,” un tentativo di slancio verso il futuro che però non riesce mai a dispiegare “le ali” per intero: “percepivo lo sguardo ambizioso di un’aquila le cui ali tuttavia non riescono a dispiegarsi liberando tutta la propria potenza.” Questo luogo di grattacieli e acciaio diventa simbolo di una Napoli che cerca di stare al passo coi tempi, ma che finisce per perdere il suo carattere autentico, “uno spazio nato da una bella idea… ma trasformatosi ben presto in un caravanserraglio.”

Nei capitoli dedicati ai quartieri della Sanità, di Forcella e del Vomero, Corvino coglie le mille sfumature di una Napoli popolare e autentica, confrontandola con quella borghese e moderna. Nella Sanità, ad esempio, osserva come storia e miseria convivano a stretto contatto, tra palazzi nobiliari decadenti e botteghe di quartiere, simboli di una resistenza culturale. A Forcella, un rione segnato da una fama drammatica, Corvino percepisce l’eco delle lotte quotidiane di un’umanità schietta che resiste ai pregiudizi. Nel Vomero, con i suoi eleganti palazzi e i panorami mozzafiato, trova il respiro più borghese della città, capace di offrire, nonostante la cementificazione selvaggia, angoli di contemplazione.

Corvino dedica ampio spazio anche alle chiese di Napoli, rivelando l’importanza di questi luoghi sacri non solo come siti artistici, ma come centri di una devozione popolare commovente per la sua inossidabile genuinità. Chiese come San Domenico Maggiore, il Duomo e Santa Chiara diventano nelle sue pagine simboli di un’anima cittadina che non può essere scissa dalla fede, dal sacro, che qui si fonde con la vita quotidiana. Attraverso questi capitoli, il lettore viene invitato a scoprire una città ancora profondamente cristiana, dove la bellezza delle architetture e delle opere d’arte sacra si intreccia con le leggende e le storie di fede dei napoletani.

Con un linguaggio lirico e coinvolgente, Corvino crea un’opera intensa che invita il lettore a scoprire Napoli in tutta la sua complessità, senza fermarsi alla superficie. Napoli, dice, “non ammette distrazioni.” L’altra faccia di Partenope, che esce casualmente in contemporanea col celebrato film di Sorrentino, è un omaggio appassionato a una città dalla bellezza nascosta e complessa, una celebrazione del suo fascino ambiguo, un libro che solleva domande sul valore della tradizione, sul senso di appartenenza (“Terra mia” cantava Pino Daniele), sul rapporto tra antico e moderno, ma anche sul futuro dei centri storici invasi dal turismo e sul degrado delle periferie urbane. Un libro che non è solo una guida spirituale a Napoli, ma un inno alle sue eterne, irresistibili, turbolente, ammalianti contraddizioni.

Gigi Agnano