Nel borgo toscano in cui tutti sanno tutto di tutti – o credono di saperlo – c’è chi porta il mistero in cucina e chi, invece, lo trova nascosto fra le note di una melodia interrotta. Serena Martini è una donna qualunque. O meglio, lo sembrerebbe: casalinga, chimica, madre e moglie. Ma guai a sottovalutarla. Perché Serena, quando fiuta qualcosa che non torna, non si ferma. E soprattutto, non è perduta.
Nel romanzo firmato dalla vincente coppia Malvaldi-Bruzzone, ci immergiamo in una storia dal tono brillante e mai banale, un giallo che cammina sui tacchi della commedia e inciampa volutamente nel paradosso. Una lotta contro le stereotipie di genere, condita da un’ironia pungente e per niente sottile, che pone il lettore in un’immediata condizione di spensieratezza e leggiadria. Ma solo in apparenza.
Tutto comincia con un cadavere: il professor Caroselli, insegnante di musica in una scuola religiosa, viene trovato morto. Non è solo un caso da archiviare. C’è odore di veleno, e non solo in senso chimico. A fiutare il crimine è Serena, dotata di un olfatto straordinario e di un’ironia ancora più affilata. Accanto a lei, la sovrintendente Corinna, poliziotta concreta, altissima e con una pazienza vacillante. Per sua fortuna orgoglio e tenacia hanno sempre la meglio.
Insieme, le due danno vita a un’indagine che è anche un percorso nella quotidianità più farsesca del nostro paese: conventi schiacciati dai segreti, paesani impiccioni, vizi nascosti e una provincia che osserva, commenta, giudica.
La forza del romanzo sta nell’intreccio che diverte ma non distrugge la tensione, e in una scrittura che si affida al dialogo per definire il ritmo e i personaggi. C’è qualcosa di leggero, ma non superficiale. Di irriverente, ma non cinico.
“Chi si ferma è perduto” non è solo un giallo. È un invito a osservare più da vicino, a ridere anche quando si indaga sul serio, a prendere sul serio anche ciò che sembra ridicolo. Un libro che ci ricorda che l’intelligenza femminile – non urlata, non imposta, ma esercitata con metodo e intuito – può fare la differenza. Anche, e soprattutto, nelle pieghe della normalità. E in una realtà così fatiscente, la Dottoressa Serena Martini è la protagonista di cui non sapevamo di avere bisogno.
Carlotta Lini
Carlotta Lini è laureata in Lingue e Letterature Straniere e si occupa di contenuti editoriali, lettura professionale e comunicazione culturale. Dopo un’esperienza significativa nel mondo della moda e dell’imprenditoria creativa, si è dedicata alla scrittura e alla consulenza editoriale. Cura il blog I Need a Book – The Thrill of Literature, in cui approfondisce la letteratura classica e contemporanea attraverso recensioni, rubriche e interviste d’autore. Collabora con progetti editoriali e culturali, con uno sguardo attento alla parola e alla qualità dei contenuti. Per lei, leggere è una fortuna, non un semplice passatempo. È una ricchezza intima, personale, inalienabile. Un piccolo miracolo che possiamo compiere ogni giorno, sfogliando una pagina dopo l’altra, e scoprendo — ogni volta — che le parole sanno ancora sorprenderci.
Esco, anzi non so se ne sono uscita, da una full immersion ne “Il maestro e Margherita”. Ho provato le stesse sensazioni della lettura di Celine “Viaggio al termine della notte”, le stesse sensazioni di quando vedo un film di Tarantino o un cartone animato della nuova serie Walt Disney, inaugurata dalla famosa fiaba tratta dalle “Mille e una notte” Aladin, e i film di HarryPotter.
Diavoli e streghe, anime buone ed anime cattive, streghe che volano sulle scope lanciandosi dalle finestre, maghi orribili e dagli occhi infuocati che provano ogni tipo di sortilegio: realismo magico, funzione e simbolo di qualcosa per un riferimento al reale nella Russia confusa tra borghesia e comunismo degli anni di Stalin.
E’ una riflessione sul potere politico per dimostrare che mai nulla cambia e che si può governare in modo giusto solo conservandone una tale consapevolezza. “L’uomo nella sua tensione oscura è sempre cosciente della retta via” canteranno gli angeli quando Mefisto, nel Faust di Goethe, penserà di aver conquistato la sua anima. E’ una riflessione sull’arte e sugli artisti, sull’Arte in un regime non certo libertario ma anche sugli artisti che guardano spesso solo ai propri vantaggi economici e per i quali, spesso, l’Arte non è un fine ma un mezzo. Il tutto descritto quasi come in un cartoon: biglietti da 10 rubli che volano e che diventano carta straccia, il gatto Behemot che parla e che acquista un biglietto sul tram confondendo tutti e, così facendo, abbattendo i limiti tra razionale e irrazionale, il tutto in una Russia della rivoluzione realista e materialista.
La cosa più strana di questo libro è stata che pur avendolo avuto davanti agli occhi non pensavo che avesse come riferimento la Gretchen e il Mefisto di Goethe. Erano due figure che conoscevo e non era la Margarethe abbandonata da Faust ma una Gretchen che farà un patto col diavolo pur di riavere Faust. E’ lei che cerca di salvare l’opera del Maestro, “Ponzio Pilato”, dal critico Latunskij, una critica becera che non coglie il vero messaggio dell’opera perché si ferma alla superficie delle cose senza comprenderla nel profondo.
L’opera di Bulgakov è una polifonia a cui fa da sottofondo l’amore tra il Maestro e Margherita: “Fui colpito non tanto dalla sua bellezza, quanto dalla straordinaria, mai vista solitudine nei suoi occhi! Ubbidendo a quel richiamo giallo, anch’io svoltai nel vicolo e la seguii. Camminavamo in silenzio lungo il vicolo triste e storto, io da un lato, lei dall’altro. E si figuri che non c’era anima viva. Mi tormentavo perché mi sembrava che fosse necessario parlarle, e temevo che non sarei riuscito a pronunciare neppure una parola, e lei se ne sarebbe andata, e non l’avrei mai più rivista. E s’immagini, a un tratto fu lei a parlare: – Le piacciono i miei fiori? Mi ricordo chiaramente il suono della sua voce, alquanto bassa, ma con brusche variazioni di tono, e – è sciocco, lo so – parve che un’eco risuonasse nel vicolo e si ripercuotesse nel muro giallo e sporco. Passai in fretta sull’altro marciapiede e, avvicinandomi a lei, risposi:- No. Mi guardò sorpresa, e, di colpo, in modo del tutto inatteso, sentii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh? Lei dirà, naturalmente, che sono pazzo.” E’ andata proprio così, fu lei a parlare. Una storia bellissima e di un amore incondizionato che si staglia con irruenza e dolcezza nella Mosca di Stalin, nella Russia che aborre Dio e che nulla aveva capito di ciò che Jeshua predicava.
Maurizia Maiano
Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.
Madame Rosa aveva fatto la vita, era ebrea e per poco non era stata sterminata ad Auschwitz. Ora si prendeva cura dei bimbi delle amiche prostitute, li accudiva in cambio di un assegno che ogni tanto qualcuno le mandava. Nella sua casa viveva Momò, Mohanmmed, un ragazzino d’origine musulmana, col quale Madame Rose aveva un rapporto particolare, lei ebrea e lui arabo. Momò una volta aveva buttato 500 franchi in un tombino e Madame Rosa lo aveva portato dal Dottor Katz che, noto agli arabi e agli ebrei per la sua pietà cristiana, curava tutti dalla mattina alla sera ed anche più tardi. Momò andava volentieri dal Dottor Katz, perché era l’unico posto dove veniva esaminato come se si trattasse di qualcosa di importante. Gli raccontavano che forse il padre era stato ucciso durante la guerra d’Algeria ed era una cosa bella e importante, ma Momò aggiungeva che avrebbe preferito avere un padre invece che un eroe.
Non riusciva a capire perché non l’avessero voluto a scuola. Madame Rosa così gli raccontava che era troppo vecchio per la sua età e poi ancora che forse era troppo giovane per la sua età e infine perché non aveva l’età giusta e così anche per questo lo aveva portato dal Dottor Katz che gli fu presentato come molto diverso, come un grande poeta. Tutto questo si svolgeva nella periferia di Parigi, la Banlieu, nome che in francese suona proprio elegante e distinto, quasi un po’ snob. Eppure qui vivevano neri che non avevano identità perché non sono francesi come i neri americani e la polizia non si occupa di loro perché non hanno un’esistenza. Madame Rosa gli raccontava spesso dei nazisti e delle SS, aveva sempre paura quando qualcuno scampanellava alla porta, Momò era molto dispiaciuto di essere nato troppo tardi per poterli conoscere, almeno allora si sapeva perché bussavano alla porta. Gli ebrei sono delle persone come le altre ma non bisogna avercela con loro. Madame Rosa stava invecchiando e diceva sempre che gli incubi sono i sogni di quando si è giovani, mescolava tutte le lingue della sua vita e parlava spesso in polacco, che era la lingua più remota, perché nei vecchi la cosa che resiste di più è la loro giovinezza.
Momò pensava che il Signor Hamil, che vendeva tappeti, avrebbe potuto sposare Madame Rosa, si sarebbero potuti deteriorare insieme che è una cosa che fa sempre piacere. A frequentare la casa di Madame Rosa c’era anche Madame Lola, batteva al bois de Boulogne come travestito. Aveva solo 35 anni e ancora molto successo davanti a sé, portava sempre cioccolata e salmone affumicato. Madame Rosa iniziava a stare male e la gente diventava sempre più gentile con lei, ma non è mai un buon segno. Così alcuni amici le fecero fare un giro alle Halles, le faceva piacere rivedere i ponti ed i marciapiedi dove aveva battuto, sentiva di aver fatto il suo dovere e questo le risollevava il morale. Il signor Woloumba diceva che i vecchi e le vecchie non servono più a niente, non sono di pubblica utilità, così si lasciano vivere. In Africa sono agglomerati per tribù e sono molto ricercati per quello che possono fare da morti. In Francia non ci sono tribù a causa dell’egoismo, la Francia, dice, è stata detribalizzata ed è per questo che ci sono delle bande armate che si sostengono a vicenda per fare qualcosa.
Madame Rosa non voleva andare in ospedale. Lì, diceva, avrebbe subito solo delle sevizie per impedirle di morire, hanno una faccenda che si chiama Ordine dei medici che è fatto apposta per questo, non vogliono concedere il diritto di morire per non creare dei privilegiati. Un giorno si presentò un certo Kadir Youssef, era venuto a cercare suo figlio Mohammed. Kadir raccontava che una volta era ben noto alla polizia ed era scritto perfino nel giornale, aveva ucciso la moglie, l’amava alla follia e non poteva vivere senza di lei. Kadir non era responsabile, ed aveva anche dimenticato, lo avevano riconosciuto i migliori medici francesi. Ora voleva, almeno, riabbracciare suo figlio. Madame Rosa non gli indicò Momò ma l’altro ragazzino Moise; Kadir, allora, si alzò furioso: “E’ un nome ebreo”, la salute non gli permetteva di avere un figlio ebreo. Madame Rosa voleva sapere da Kadir se fosse sicuro di non essere ebreo e Kadir la rassicurava di essere perseguitato senza essere ebreo, gli ebrei non hanno certo il monopolio.
Madame Rosa aveva cresciuto Moise, il bimbo ebreo, come un musulmano e Momò come ebreo ed aggiungeva che quando non si vede un figlio per 11 anni si deve accettare di correre il rischio che possa diventare ebreo… Intanto Madame Rosa peggiorava e Momò chiese al dottor Katz cosa si potesse fare per abortirla, ma il Dottor Katz si prese la testa tra le mani aggiungendo che in un paese civile l’eutanasia è punita dalla legge. Madame Rosa sarà accompagnata nel suo cantuccio ebreo e Momò le starà sempre accanto fino a quando non si guasterà ed userà tutti soldi che Madame Lola gli aveva regalato per comprare tutti i colori per pitturarla e per nascondere le leggi della natura anche se lei continuava a guastarsi maledettamente perché non c’è pietà e quando sfondarono la porta, per vedere da dove veniva il fetore, lo trovarono accanto a lei, non si può vivere senza nessuno da amare.
Finisce così la storia d’amore tra Madame Rosa e Momò e non poteva essere raccontata in modo migliore. Un amore tra una mamma ebrea ed un bambino arabo. Un bambino che guarda il mondo con gli occhi di un “nouvel” Emile dalla Banlieu di Parigi. In quel mondo, dove tutto è apparentemente promiscuo e senza alcun rispetto delle regole, Momò cresce libero da ogni convenzione sociale perbenista di cui proprio non sa. E’ Romain Gary, anima sofferta, che attraverso l’uso ingenuo e per niente manipolato o pensato di espressioni e modi di dire correnti, usati distrattamente in contesti inusuali, e nei modi inappropriati di come solo un bambino sa fare, ne rivela ogni contraddizione e assurdità. L’immagine di Madame Rosa, che non era stata sterminata per sbaglio, solleva un sorriso amaro, metafora di un destino che mai possiamo cambiare a piacimento. Madame Rosa, la donna di vita, quasi una Madre Teresa che si prende cura dei bambini non necessari, rivela le contraddizioni di una vita in cui il male e il bene, il morale e l’immorale convivono e sempre se sia giusto esprimere un giudizio su ciò che riteniamo bene e male perché anche sulla “pietà cristiana” del Dottor Katz musulmani e ebrei possono trovarsi d’accordo. Così come l’incubo e il sogno sono solo un cambio di prospettiva, dipende dall’età. E nessuno può arrogarsi il diritto di avere il “monopolio” di qualunque cosa, fosse anche l’essere perseguitato, esso appartiene a tutti gli uomini in quanto genere umano. Se uno non vede un figlio per undici anni non può che correre il rischio che diventi ebreo, l’ebreo simbolo dell’escluso, abitante moderno del ghetto della Banlieu parigina. Infine Gary sferra l’ultimo assalto ad una società che riconosce l’aborto ma non l’eutanasia, perché si fonda sui principi di una società civile e alla natura matrigna il piccolo Momò non potrà impedire di continuare l’opera di disfacimento sul volto di Madame Rosa. E’ una storia raccontata in modo poeticamente disarmante, è la descrizione di un mondo dove il bello sembra non esserci più ed attraverso ciò che è apparentemente brutto si affaccia la bellezza e la verità dell’esistenza. Mi è piaciuto tanto.
Romain Gary di famiglia ebrea, nasce a Vilnius in Lituania nel 1914 e morirà a Parigi nel 1980, è un figlio straniero della Francia. Così egli definisce se stesso e la sua scrittura: “Le mie radici letterarie sono un incrocio di razze, io sono un bastardo e tiro fuori la sostanza nutritiva della mia ‘bastardaggine’ nella speranza di fare qualcosa di nuovo, di originale. D’altra parte ciò non mi richiede molto: mi è naturale, è naturale, è la mia natura di bastardo, che per me è una vera benedizione sul piano culturale e letterario. Ecco perché alcuni critici tradizionalisti vedono nella mia opera qualcosa di estraneo”. Gary riproduce nella lingua scritta un modo di raccontare che è quello della lingua informale parlata, di cui ne segue le pause che accompagna all’ingenuità del raccontare di un bambino, come Momò, che niente sa del mondo ed è per questo che ne coglie le contraddizioni. “Gary è un prestigiatore, un illusionista del francese parlato e scritto, un clown lirico che mischia ogni linguaggio e ne inventa continuamente di nuovi”. Tanti i personaggi dei suoi libri che dovremmo conoscere e leggere: il Luc de “Le grand vestiaire”, il Momo de “La vita davanti a sé” (un capolavoro che ci ha fatto piangere), il Jean de “L’angoscia del re Salomone”. La lingua si mescola ai sentimenti rendendoli vivi attraverso quella tipica forma brechtiana di “straniamento” che raccontando osserva i personaggi facendo diventare il lettore consapevole di un mondo che non funziona tanto bene. Il narratore diventa un narratore ‘onnisciente’ a cui nulla sfugge in ciò che si nasconde nelle pieghe insidiose della realtà. Gary è contro le “Nouveau Roman”, che respingeva il personaggio e la storia, ma anche contro il romanzo classico, contro Kafka, Céline, Sartre e persino l’amato Camus. Un romanzo che gli appare costringere il lettore ad una visione totalitaria e claustrofobica del mondo, incapace di riflettere, di mettersi in discussione per scioglierne le contraddizioni.
Maurizia Maiano
Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.