Robert Musil: “L’uomo senza qualità” (Einaudi), di Maurizia Maiano

Incontro L’uomo senza qualità all’inizio del mio primo anno all’Università La Sapienza di Roma. Avevo diciannove anni e, con l’educazione ricevuta, era difficile capire – o forse accettare – perché qualcuno avrebbe dovuto scrivere di un uomo senza qualità. Ne fui subito colpita, era qualcosa che mi riguardava più profondamente di quanto allora potessi riconoscere.

Ulrich, il protagonista, viveva a Vienna, capitale della Cacaniala kaiserliche und königliche Monarchie – imperiale e regia, iperbole e sineddoche di un ordine fondato sull’immobilismo e sulle contraddizioni, sospesa tra sogno e declino. Era, almeno nelle intenzioni, un modello di convivenza; e qualcuno, come Hermann Bahr, scrittore ed interprete della fin de siècle viennese, vi aveva visto il primo tentativo di dare unità alla molteplicità dei  popoli che l’abitavano.  

Musil, con la sua lucidità quasi dolorosa, lo descrive come un organismo contraddittorio: il governo era clericale, ma lo spirito liberale regnava nel Paese. Davanti alla legge tutti i cittadini erano uguali, ma non tutti erano cittadini. C’era un parlamento, che faceva un uso così eccessivo della propria libertà da essere quasi sempre chiuso; e ogni volta che ci si rallegrava per il ritorno dell’assolutismo, la corona ordinava che si ricominciasse a governare democraticamente. Un luogo in cui la libertà veniva celebrata e allo stesso tempo soffocata. Bastava intuirne la fragilità per sentire che tutto stava per spezzarsi.

Ulrich mi sembrò subito un visionario, uno che guarda oltre la superficie delle cose. Restavo stupita dalla sua capacità  di raccontare la realtà nelle sue minime vibrazioni, nei suoi nodi invisibili, nelle sue possibilità latenti. Più lo leggevo e più sentivo che quel secolo che lui descriveva, con una scrittura precisa e rigorosa, diventava anche il mio: un luogo mentale, un modo di guardare. Per questo avevo denominato il romanzo la Bibbia dell’uomo del XX secolo, e lo sento ancora indispensabile anche per quello del XXI. Il primo volume era stato pubblicato nel 1930 e nel 1933 il secondo. Il terzo volume fu pubblicato postumo nel 1943. Casa Editrice P. Zsolnay Verlag.

Ulrich era un matematico che aveva scelto la letteratura. Questa scelta, in gioventù, mi confortava: anch’io non amavo i numeri. Il romanzo, I turbamenti del giovane Törless, mi aveva già insegnato quanto la matematica chiedesse un atto di fede: accettare gli assiomi, mai metterli in dubbio. Durante le interrogazioni a scuola non avevo altra via: se avessi rifiutato un postulato, non sarei potuta andare avanti nel  procedimento della descrizione di un teorema. A vent’anni avevo l’impressione che molte cose mi sfuggissero, e che alcune forse non le avrei mai pienamente comprese. Noi giovani della fine della seconda metà del XX sec. avevamo ancora punti di riferimento?

Chi è davvero questo uomo senza qualità?

Possedere delle qualità significa, in qualche modo, poterle riconoscere come reali, misurabili, quasi tangibili. Ulrich, invece, sembra privo di quel Wirklichkeitssinn, il senso della realtà che permette a ciascuno di noi di avere un’identità stabile,  un ruolo definito,  una traiettoria coerente. È naturale allora che un uomo incapace di trovare un punto fermo persino in sé stesso finisca un giorno per scoprire di non possedere alcuna qualità — o almeno nessuna che possa essere fissata una volta per tutte.

Musil sembra suggerire che le qualità non siano proprietà interne, ma emergano solo nella relazione: nel confronto continuo tra l’io e il mondo, tra chi guarda e ciò che viene guardato. Ulrich vive esattamente in questo spazio intermedio. Matematico per formazione, scienziato dell’animo per vocazione, osserva il reale come un insieme di fenomeni che si ricompongono ogni volta da capo, senza mai offrire una figura univoca o definitiva.

In questa prospettiva, il romanzo di Musil si intreccia con le intuizioni della filosofia di Popper. Contro l’ottimismo razionalista del Circolo di Vienna che sognava un universo completamente verificabile e separato dalla metafisica. Popper oppone l’idea di un sapere costruito sul dubbio: non è la verifica che fonda la scienza, ma la possibilità della falsificazione. È solo mettendo alla prova una teoria, esponendola al rischio di cadere, che si può parlare di vera conoscenza. Scrive Ulrich: nella scienza accade che ogni due o tre anni una cosa considerata un errore rovesci improvvisamente tutti i concetti o che una idea umile e disprezzata diventi regina di un nuovo mondo di idee, e tali avvenimenti non sono soltanto rivoluzioni ma conducono in alto come una scala celeste. … Ci si chiederà se davvero in questo mondo tutto proceda così alla rovescia da dover essere continuamente capovolto.

Il mondo — suggerisce Wittgenstein — è la totalità dei casi, un mosaico di possibilità che non si lascia mai chiudere in una formula definitiva. E Schnitzler, con la sua ferocia limpida, lo aveva già detto: Sicherheit ist nirgends, la sicurezza non esiste da nessuna parte.

Ulrich diventa il simbolo di questa modernità inquieta: un uomo che si muove tra le possibilità, privo di qualità fisse perché ogni qualità è sempre relativa, contingente, in divenire. Un uomo che non può aggrapparsi a nessuna certezza, e proprio per questo riesce a vedere ciò che gli altri non vedono? C’era qualcosa nella nostra fede nei valori e nella vita  che stava scricchiolando?

Ulrich si muove tra i casi, consapevole che l’uomo, fino ad oggi, si è affidato al principio di causa ed effetto per illudersi di essere al riparo dal caos. Ma egli ha compreso che il mondo non si lascia imbrigliare da questa logica lineare: pulsa invece secondo un principio di indeterminazione, fatto di variabili, deviazioni, possibilità. Ulrich è il Möglichkeitsmensch, l’uomo delle possibilità, colui che sa che la realtà non contiene soltanto ciò che è già accaduto ma anche ciò che non è ancora, ciò che potrebbe essere.

È questa rivelazione a rendere L’uomo senza qualità un romanzo vertiginoso: la consapevolezza che il possibile non è un territorio esterno, un altrove astratto, ma vive già dentro le cose, come una tensione silenziosa. E tuttavia, il possibile della Monarchia danubiana — quel groviglio di popoli, lingue, illusioni politiche — si dissolverà come un sogno non realizzato, lasciando dietro di sé solo frammenti e nostalgie.

Musil racconta la fine di un Impero e, forse, anche la fine di un’Europa. Una Hilflose Europa, inerme, come la definì lui stesso in un saggio del 1922: smarrita, senza consiglio, priva di una politica estera comune, incapace di tradurre in realtà le proprie possibilità. Un’Europa che avrebbe potuto essere diversa e che ancora oggi, guardandola retrospettivamente, ci costringe a riflettere sul suo destino incompiuto.

La vicenda si apre a Vienna, nel 1913, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, quando l’Impero austro-ungarico, ormai un gigante stanco sull’orlo del collasso, tenta ancora di preservare l’illusione della propria stabilità. Ulrich, il protagonista, un uomo sulla trentina, non possiede un’identità sociale definita né un ruolo cui aderire pienamente: esiste in una sorta di sospensione, estraneo tanto a sé stesso quanto al mondo che lo circonda.

Coinvolto quasi per caso, Ulrich viene nominato segretario dell’Azione parallela, iniziativa promossa per celebrare il settantesimo anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore Francesco Giuseppe, prevista per il 1918. Celebrazioni che non avranno mai luogo: lo scoppio della guerra travolgerà tutto, e la battaglia di Vittorio Veneto del 4 novembre segnerà la fine definitiva di quell’Impero che voleva eternizzarsi nei fasti delle commemorazioni.

Ma perché chiamarla Azione parallela? L’idea nasce come risposta alle celebrazioni dell’Impero tedesco di Guglielmo II, che di anni ne avrebbe celebrati soltanto trenta. È l’occasione perfetta, per Musil, per mettere in scena una satira pungente della burocrazia, della società e dell’intellighenzia austro-ungarica: un mondo che discute, pianifica, prolunga riunioni interminabili senza concludere nulla, mentre tutt’intorno gli equilibri politici stanno già crollando.

Su questo sfondo si intravede anche una nostalgia sotterranea, quasi un dissidio interiore: da un lato i Grandi tedeschi, che sognano un vasto spazio  esteso dalla Germania alla Mitteleuropa attraversata dal Danubio fino al Mar Nero; dall’altro i Piccoli tedeschi, che desiderano solo una piccola patria  fondata  sulla identità linguistica. Avrebbe potuto mai la Cacania – questo impero variopinto, fragile e contraddittorio – rinunciare a sé stessa, al suo mosaico di popoli, culture e contraddizioni?

È in questa tensione, tra grandezza sognata e fine imminente, che Musil fa vibrare tutto il romanzo: l’ultimo respiro di un mondo destinato a scomparire, mentre ancora finge di poter durare per sempre.

Ulrich –  anche se non è elegante chiamare qualcuno soltanto per nome – è ancora un ragazzo, sospeso tra infanzia e adolescenza, quando, in un compito scolastico dedicato al patriottismo, scrive che in Austria questa materia è particolarmente difficile da trattare. In Germania, osserva, ai bambini si insegna semplicemente a disprezzare le guerre dei piccoli austriaci, e si ripete loro che i francesi discendono da libertini privi di coraggio, pronti a fuggire come lepri alla vista di un soldato tedesco con una grande barba. E, invertendo i ruoli, con qualche opportuno ritocco, le stesse caricature vengono impartite ai bambini francesi, russi e inglesi, tutti fieri delle proprie vittorie nazionali. È noto che i bambini sono fanfaroni, e dunque il patriottismo, nelle sue forme più grossolane, si può inculcare con una facilità disarmante.

In Austria, però, la questione è diversa. Pur avendo vinto tutte le guerre della sua storia, l’Impero ha quasi sempre dovuto cedere territori subito dopo: un paradosso che svuota il trionfo del suo stesso significato. Da qui la conclusione di Ulrich: un vero patriota non deve necessariamente considerare la propria patria come la migliore. E a questa riflessione ne aggiunge un’altra, ancora più audace. Secondo lui, persino Dio, quando parla del mondo, lo fa usando il congiuntivo potenziale, perché mentre lo crea pensa che avrebbe potuto già farlo diverso.

È questa frase, brillante ma ambigua, a scatenare lo scandalo. Ulrich rischia l’espulsione dalla severa Accademia Teresiana e si salva soltanto perché gli insegnanti non sanno decidere se le sue parole siano offensive verso la patria o verso Dio. L’episodio rivela già allora ciò che Ulrich diventerà da adulto: uno spirito critico, insofferente alle formule vuote, pronto a smascherare le contraddizioni dei discorsi ufficiali. La sua intelligenza curiosa, non conformista, mette in crisi un sistema educativo che pretende obbedienza più che comprensione.

Il piccolo scandalo non è dunque un semplice incidente scolastico, ma il primo segnale di un pensiero che rifiuta verità assolute e preferisce muoversi nel territorio del possibile, dove anche Dio — come suggerisce Ulrich — potrebbe immaginare un mondo diverso. In questa vicenda si intravede già l’uomo senza qualità che sarà: un individuo che non si adatta al già dato, ma continua a interrogare ciò che gli altri accettano senza dubitare.

Nelle città del primo Novecento vediamo così aggirarsi gli Schwärmer, i fanatici, gli entusiasti del dover essere e mai dell’essere, privi di qualsiasi realismo. Sono convinti di poter salvare il mondo e credono nella Erlösungla salvezza. Colgono le debolezze della loro epoca, ma ignorano quella fondamentale: la fragilità dell’essere umano stesso. Per questo falliscono, pur trascinando con sé i giovani, che infiammano e illudono con i loro entusiasmi. Dall’altro lato ci sono i reazionari e i conservatori, convinti che la salvezza consista nel proteggere ciò che esiste, nel custodire l’ordine. Ma a entrambi — fanatici e conservatori — sfugge la stessa cosa: la necessità dell’analisi, del pensiero critico. Accanto a loro compare un’altra categoria: quella degli stupidi, specchio deformante ma rivelatore della stupidità degli intelligenti. Per Musil, infatti, l’intelligenza deve sapersi legare alla realtà e alla possibilità; quando non lo fa, rivela la propria fragilità.

Arnheim, trasparente ritratto di Rathenau – l’industriale e politico tedesco assassinato dai fascisti -, incarna il tentativo di conciliare capitale e cultura. Rappresenta quella borghesia colta, da Goethe ai Buddenbrook, che ormai non esiste più. Thomas Mann aveva sognato un capitalismo illuminato, ma questa borghesia fallisce proprio perché non comprende la realtà e non sa analizzarla. 

Musil-Ulrich non descrive Il mondo di ieri di Zweig, ma il mondo di oggi: un mondo che non ha capito se stesso, che parla molto ma non analizza, che usa parole alte senza il sostegno di un pensiero scientifico e lucido. È un mondo che vorrebbe armonizzare tutto, ma non possiede la consapevolezza necessaria per governare le differenze. In Musil non c’è nostalgia: c’è la certezza del crollo. È il mondo del fraintendimento, quello che porterà alla Prima Guerra Mondiale e, più tardi, agli anni Quaranta e alla Seconda. Ciò che era appena abbozzato nella figura dei fanatici finirà per prendere il potere.

Nel confronto incessante tra vecchio e nuovo si aprono dispute interminabili, chiacchiere che si travestono da dibattiti. Voci sedicenti innovative si contrappongono a posizioni conservatrici, quando non apertamente reazionarie. Chiacchiere che danno  corpo a idee inconsistenti, illusorie e persino pericolose.

Si discute di Pace all’interno di un impero che si vuole multiculturale, ma che in realtà è già una polveriera di nazionalismi pronti a esplodere. Si sogna un capitalismo capace di incorporare in sé lo spirito, anzi di assorbire la cultura nello spirito del denaro, nel tentativo disperato di tenere insieme Kultur e Zivilisation: la cultura autentica, che sono le nostre tradizioni, e cultura come modo di essere: quella modernità senz’anima che avanza inesorabile. E’ l’America? L’Amerikanertum di Heidegger? Edonismo, economicismo, way of life, il sogno americano che ci travolgerà? Saremo dopo ancora capaci di riconoscerci?

E oggi, nel pieno degli anni Venti del XXI secolo, quella complessità filosofica e quella visionarietà storico-politica risuonano ancora, come un monito rivolto al presente?

In questa Cacania che fatica a morire e continua a vivere per inerzia, si intrecciano molte storie. Vorrei soffermarmi su quelle che più mi hanno colpito: il caso Moosbruggerla storia di Walter e Clarissa e, naturalmente, l’enigmatico rapporto fra Ulrich e sua sorella Agathe.

Clarissa, moglie di  Walter e Walter amico di Ulrich fin dall’adolescenza, è una presenza inquieta, vulnerabile e insieme intensa, capace di illuminare  e complicare la dinamica tra i due. Clarissa è per Walter fonte di inquietudine. E’ per lui dovere affettivo e morale, un modo per sentirsi ancorato a terra. La osserva riversare un’energia quasi mistica nella cura dei malati di mente, fino a consumarsi in quella stessa follia che vorrebbe comprendere.

Nel legame tra i due uomini, Clarissa non è un semplice contorno: è una forza che introduce tensione, fragilità e domande senza risposta. Per Walter rappresenta una sorta di dovere affettivo e morale, un legame che lo richiama a terra, alla vita concreta.  Per Ulrich Clarissa è un enigma, gli appare di una sensibilità troppo acuta. Ulrich  osserva,  attratto e turbato a un tempo, quel suo modo di consumarsi nel sentimento e nell’idealità. In lei riconosce qualcosa che sfugge alla sua razionalità: un eccesso di vita, di dolore, di ardore. Così Clarissa diventa lo spartiacque tra i due. Walter, incapace di vivere il reale, la sua tiepidità lo fa sentire smarrito e inetto di fronte alla forza con cui Clarissa dona la sua disponibilità agli altri, mentre Ulrich ne coglie l’aspetto tragico e simbolico. 

Walter si perde nella sua passione per la musica dalla quale pretende qualcosa che nel quotidiano non può trovare, perché rimane confuso. Il suo legame profondissimo con Nietzsche ne fa avvertire tutta la tensione tra apollineo, perfezione della forma, e dionisiaco, slancio emotivo e irrazionale. La sua è una frustrazione creativa, sente di non essere abbastanza grande. Tutto questo lo porta a vivere l’impulso artistico come una ferita, un profondo senso di inadeguatezza, mentre Clarissa rappresenta il dionisiaco, la vita.

Non è un triangolo amoroso ma qualcosa di più sottile. Clarissa svela nel suo comportamento il limite umano del sogno estetico di Ulrich e del tentativo di concretezza di Walter.

Tra i tanti fatti che accadono a Vienna, in quel mondo in cui tutto sembrava avere una sicurezza ed una misura precisa, si staglia in modo quasi sorprendente la figura di Moosbrugger, un operaio ambulante, con un passato di operaio e di vita vagabonda. Egli viene accusato dell’omicidio brutale di una prostituta, ha una psiche instabile, allucinazioni e deliri.

Moosbrugger, antesignano delle tristi notizie di cronaca che affollano i nostri giornali e della nostra difficoltà di giudizio,  sembrava vivere in uno stato intermedio, come se non appartenesse del tutto né al mondo dei sani né a quello dei folli. L’incapacità di trovare un equilibrio tra psicologia, legge e morale là dove è venuta meno la responsabilità individuale. Ognuno vedeva in lui ciò che la propria scienza pensava di vedere Il giudizio si incrina non per una mancanza di prove ma per mancanza di un soggetto definito. Se un comportamento violento deriva da traumi neurologici, da disturbi borderline, scompensi chimici, psicosi episodiche non esiste più una netta distinzione tra malattia e normalità. Può una persona non padrona di sé essere colpevole. C’è in Moosbrugger un nocciolo oscuro dell’umano che nessuno, nessuna disciplina e nessun sistema riescono a decifrare del tutto. Profeta inquieto del nostro presente. 

Potremmo provare un confronto azzardato con la Beatrice di Dante?

Ulrich si reca al funerale del padre e, in quell’occasione, ritrova la sorella Agathe.  Agathe gli stava di fronte come un pensiero che egli non aveva ancora formulato.  Da questo incontro nasce un dialogo ininterrotto che accompagna entrambi fino alla morte di Ulrich, senza mai trovare una conclusione. È precisamente in questo colloquio sospeso che affiora una domanda decisiva: se la scienza probabilistica può offrire una rappresentazione attendibile del mondo, può estendere la propria validità anche all’anima? Può esistere una misura del sentimento, una formula capace di coglierne l’essenza? 

Accostare Agathe alla Beatrice di Dante è un gesto temerario, è come avvicinare due stelle lontane che illuminano due mondi diversi. Eppure, nel loro modo diverso di farsi luce, qualcosa risuona: entrambe sono figure attraverso cui un uomo tenta di varcare il limite del mondo visibile. Ritorna l’attrazione per quell’eterno femminino, das ewige weiblicheche è in noi.

Beatrice  appare a Dante come un soffio divino incarnato, creatura che porta in volto il riflesso del Paradiso. In lei lo sguardo non è domanda, ma certezza; non ricerca, ma rivelazione. Accoglie e conduce, e la sua parola non vacilla mai. È l’asse verticale su cui Dante si innalza fino alla visione ultima, là dove ogni desiderio si placa nella luce di Dio.

Agathe non rivela. Non guida. Non salva. È la sorella gemella dell’inquietudine, l’altra metà di un pensiero che non trova requie. Accanto a lei, Ulrich avanza in una regione dove il linguaggio è solo simbolo di un significato che non potrà mai essere detto, dove la ragione non aiuta, e il sentimento non si può più misurare. Agathe è l’altro stato, la compagna di un’ascesi rovesciata, non verso l’alto, bensì verso un nucleo senza forma: il punto in cui il mistico va a toccare l’indicibile. Sono la stessa cosa, ricerca e tensione sono le stesse, ma il linguaggio cambia.

Beatrice accompagna Dante e gli apre le porte del Paradiso, Agathe accompagna Ulrich fino alla soglia — e lo lascia lì, davanti a un Paradiso che non si lascia rappresentare. Non luce, ma bagliore; non compimento, ma desiderio di compimento. Una tensione romantica che si ripete nel XX secolo?

Agathe è una Beatrice secolarizzata di un mondo senza Dio, di cui ne conserva la nostalgia ed è così che si ferma là dove la parola manca e il silenzio comincia: è la mistica.

Il linguaggio della scienza non riuscirà a restituire la vibrazione dell’anima: Non tutto ciò che conta può essere detto. La mistica, il silenzio si fanno carico di ciò che sfugge al calcolo. E tuttavia l’uomo continua a violare quel silenzio: si sente costretto a parlare proprio dove le parole mancano, perché vi sono luoghi dell’esperienza in cui non è lecito tacere.

Il rapporto tra Ulrich e Agathe costituisce il cuore più enigmatico dell’Uomo senza qualità ed è la via attraverso cui Musil esplora l’altro stato cioè una forma di esperienza che sospende le categorie razionali e morali dello stato del giorno. Nel ritrovarsi, i due fratelli riconoscono una somiglianza originaria che li spinge verso una comunità a due, una sorta di mistica laica che dissolve i confini individuali. Tra loro si stabiliva un’intesa che non aveva bisogno di giustificarsi: era come se pensassero nello stesso luogo. L’inclinazione erotica che attraversa il loro legame non è semplice trasgressione, ma simbolo della volontà di oltrepassare le strutture istituzionali e psicologiche dell’esistenza moderna: nell’unione incestuosa si cela il tentativo di raggiungere un’unità radicale, analoga alle esperienze di annullamento del sé della tradizione mistica. Agathe diventa così la controparte speculare di Ulrich, la figura che ne risveglia la sensibilità verso un modo di essere più intenso e possibile. Tuttavia questa utopia rimane incompiuta: l’altro stato appare come un’esperienza-limite, un lampo di possibilità che non può essere stabilizzato nella vita quotidiana.

L’uomo senza qualità è, in fondo, un romanzo che avrebbe voluto avere una trama definita; ma il modo stesso in cui Musil racconta la realtà, urtando contro i fatti e contro i personaggi che li incarnano, lo conduce verso un’analisi sociale e filosofica così ampia che una narrazione lineare diventa impossibile. Ed è proprio da questa impossibilità che nasce la forza vertiginosa del romanzo

Bibliografia:

Progetto Musil – L’utopia della vita esatta

Aldo Venturelli

Edizioni Bulzoni 1980

Paradiso e naufragio

Massimo Cacciari

Einaudi 2022

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

TODESFUGE – fuga di morte: Paul Celan e Adania Shibli, di Maurizia Maiano

Due popoli travolti da uno stesso destino di morte, di violenza e di orrore. A distanza di poco più di mezzo secolo, il poeta Paul Celan (1920 – 1970) e la narratrice Adania Shibli (nata in Palestina nel 1974), ci raccontano la stessa storia.

Nel 1949 Adorno si pose la domanda: può esistere una poesia dopo Auschwitz? Celan, che con ogni probabilità è stato il più grande poeta dell’Olocausto e il più grande poeta lirico di lingua tedesca dopo Rilke, nel 1945 aveva scritto Todesfuge (fuga di morte) tra Czernowitz e Bucarest.

Apparteneva a quell’ “Europa centrale che non è uno Stato ma una cultura e un destino. I suoi confini sono immaginari e, a ogni nuova situazione storica, devono essere tracciati daccapo”. Così scrive Kundera nel suo saggio Un Occidente prigioniero. Una riflessione che richiama Merleau-Ponty: è attraverso la percezione che esperiamo il mondo. “Non sono i confini politici, inautentici e imposti da invasioni e conquiste, a delineare l’aggregazione centro-europea, ma le grandi situazioni comuni che riuniscono i popoli entro confini immaginari e mutevoli, dove permangono la medesima memoria, la medesima esperienza, le medesime tradizioni comuni”. Il problema, per Celan, non era solo quello di scrivere poesie, ma quello di doverle scrivere nella sua lingua madre, che era però la lingua degli assassini.

Poeta rumeno di origini ebraiche, naturalizzato francese, ma di lingua tedesca, Celan nasce a Czernowitz, capoluogo della Bucovina settentrionale, provincia orientale dell’ex impero austro-ungarico, nel 1920. Czernowitz diventa rumena nel 1919. Con la fine della Seconda guerra mondiale la Bucovina settentrionale sarà annessa all’Ucraina. “La Storia ha divorato la Geografia”, scriverà Celan. La scrittura poetica, in alcuni autori, diventa l’unico mezzo per individuare e creare un paesaggio nella lingua, un luogo dove trovino spazio i luoghi perduti, quelli dell’esilio, la memoria dei morti insepolti e una possibilità di futuro per i sopravvissuti.

Todesfuge – Fuga di morte

Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera

noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte

noi beviamo e beviamo

noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto

Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive

che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarethe

egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano

egli aduna i mastini con un fischio

con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra

ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera

noi beviamo e beviamo

Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive

che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarethe

i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto

Egli grida puntate più fondo nel cuor della terra e voialtri cantate e suonate

egli estrae dalla cintola il ferro lo brandisce i suoi occhi sono azzurri

voi puntate più fondo le zappe e voi ancora suonate perché si deve ballare

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera

noi beviamo e beviamo

nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarethe

i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca colle serpi

Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Maestro di Germania

grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete come fumo nell’aria

cosi avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al meriggio la morte è un Maestro di Germania

noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo

la morte è un Maestro di Germania il suo occhio è azzurro

egli ti coglie col piombo ti coglie con mira precisa

nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarethe

egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tomba nell’aria

egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Maestro di Germania

i tuoi capelli d’oro Margarethe

i tuoi capelli di cenere Sulamith

Una scrittura che si serve di molte figure retoriche, forse per aggirare l’orrore di descrizioni troppo cruente e vere per aprire quello spazio poetico che contraddice il common sense. In ogni segno è nascosto un doppio significato.

In Fuga di morte, musica, poesia e tragicità si combinano: fuga musicale e fuga dalla morte, colpa per essere sopravvissuti. In musica la fuga è una figura polifonica di una tematica ripetitiva, un dolore ininterrotto che mai si acquieta. Arriva a noi evocando il pianto delle prèfiche del mondo arcaico, richiamandoci al dolore della separazione.

Il nero latte del mattino è una figura ossimorica che, associando il nero al latte, trasmette il tormento di chi, fin dal mattino, lo beve con la consapevolezza di un condannato a morte.

Il chiasmo dei versi di – I tuoi capelli d’oro, Margarethe / i tuoi capelli di cenere, Sulamith –  concentra l’attenzione su due immagini mitiche: Faust e il Cantico dei Cantici. Una figura è tedesca, l’altra ebraica. Il colore dei capelli ne determina l’appartenenza e il destino, quasi che per un ingiusto capriccio del fato sia proprio il colore dei capelli a decidere la felicità o la tragedia. I capelli, simbolo di bellezza e insieme di disumanizzazione, sono la prima cosa di cui venivano private le donne all’ingresso nei campi di concentramento; la cenere, invece, anticipa ciò che sarà il dopo.

Celan continua a servirsi delle antinomie per accrescere la tensione espressiva del testo: suonate più dolce la morte, la morte è un maestro in Germania. Il contrasto di luci e ombre, l’accostamento del violino a suoni cupi, l’imperativo “salite come fumo nell’aria – poi avrete una fossa nelle nuvolelì non si sta stretti”: il linguaggio deve essere distorto attraverso paradossi espressivi, solo così l’orrore può abitare la poesia. La sineddoche domina: ogni cosa sta per un’altra, nella sua veste più impensabile; il chiasmo, attribuendo qualità diverse allo stesso nome, ne sottolinea l’ingiustizia e il male.

Un’eco che ritorna

Non potevo non pensare a Celan leggendo la narrazione di Adania Shibli Un dettaglio minore (pubblicato nel 2021 – La nave di Teseo), dedicata alla guerra che i palestinesi chiamano Nakba, la “catastrofe”, e gli israeliani la “giornata dell’indipendenza”. Celan e Shibli: due memorie allo specchio.

I soldati guardavano i capelli della ragazza cadere silenziosamente sulla sabbia attorno a lei. L’infermiere portò a termine il taglio dei capelli in breve tempo, quindi sterilizzò le forbici, il pettine e lo sgabello. Un altro soldato raccolse i capelli sparsi sulla sabbia, li arrotolò in un fagotto… e bruciò ogni cosa. A terra, sulla sabbia, lontani dalle fiamme che consumavano i vestiti, giacevano alcuni riccioli neri.

Il gesto del taglio, la sabbia che trattiene i riccioli bruciati, rimanda in un flashback a Fuga di morte. Due immagini, lontane nel tempo e nello spazio, che si richiamano a vicenda.

La sincronicità tra la poesia di Celan, la domanda di Adorno e la Nakba rivelano un legame sotterraneo, un filo rosso che li attraversa. A questa si aggiunge l’altra coincidenza: la protagonista del romanzo, una donna di Ramallah, venticinque anni dopo, cerca di ricomporre i dettagli del crimine avvenuto il giorno esatto della sua nascita. La sua ricerca si snoda tra luoghi che hanno cambiato nome, confini ridisegnati, mappe inghiottite dalla storia. Chi un tempo abitava quei territori non sa più se riconoscerli come propri o sentirsi straniero nella propria terra.

Nel romanzo di Shibli ci muoviamo in un’atmosfera cupa: è notte fonda. Le nubi, che sembrano elevarsi sopra Auschwitz, Dachau, Sachsenhausen…., scivolano idealmente verso Sud, oltre il Mediterraneo. E ci ritroviamo nel deserto del Negev.

È qui che, nella notte di Yom Kippur del 1946, viene posta la prima pietra del kibbutz Nirim, nei pressi di Rafah, sul terreno di Dangom. Trenta camion di giovani ebrei europei, protetti dall’ Haganah, organizzazione militare di difesa a cui si fa risalire il  terrorismo sionista, attraversarono il deserto senza che le autorità britanniche, né la stessa Agenzia ebraica, ne fossero informate. Un gesto clandestino che anticipava la frattura che si sarebbe compiuta tra il 1947 e il 1949.

Alla fine del mandato britannico e dopo la Risoluzione ONU sulla partizione della Palestina, la guerra arabo-israeliana del 1948 portò alla distruzione di centinaia di villaggi palestinesi e all’esodo forzato di oltre settecentomila persone. Una frattura originaria: luoghi cancellati, memorie sospese, un popolo in cammino verso un altrove non scelto—un altrove che quelli che stavano arrivando avevano già abitato.

Questo è il significato della Nakba: la catastrofe di un’identità sradicata.

Come un’ombra olografica che ritorna, ritroviamo l’uomo sulla soglia, che riflette quello celaniana dell’aguzzino: aizza i mastini – estrae dalla cintola il ferro – il suo occhio è azzurro – ti coglie col piombo

L’uomo non si voltò: lo sguardo fisso oltre gli alberi, il latrato del cane, il bramito dei dromedari. Poi la sparatoria, i gemiti della ragazza avvolta nel suo abito nero, schiacciata al suolo da una mano che la zittisce.

Un’eco che ritorna.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Haruki Murakami: “L’assassinio del commendatore” (Einaudi, trad. Antonietta Pastore), di Maurizia Maiano

Sono qui davanti a una pagina bianca di un file di Word. Scriverò? E con un click il mio messaggio raggiungerà alcuni amici. Il problema è che non riesco a scrivere, e penso… forse così si sarà sentito Lord Chandos quando cercava di descrivere il suo stato d’animo a Francis Bacon: non riuscire a trovare le parole giuste per raccontare il mondo. Tutto sembra essere diventato banale e inutile; non abbiamo il diritto di esprimere giudizi su di esso. Ci siamo persi in una intricatissima matassa di causa ed effetto e il bandolo che ci serviva per vivere in modo razionale si è spezzato.

Sono immobile, incapace di pensare e di raccontare ciò che ho “vissuto” nelle lunghe ore trascorse con L’assassinio del commendatore: un ometto di appena sessanta centimetri dipinto da Amada Tomohiko, seguace della pittura Nihonga e vissuto a Vienna durante il nazismo, una città non paragonabile a nessun’altra. Suo figlio Masahico darà in affitto la casa di suo padre al narratore senza nome, appena divorziato da Yuzu. Il narratore conoscerà Menshiki, che ha acquistato casa nelle vicinanze per osservare da lontano Akikawa Marie, la ragazza che vive con Akikawa Yoshimoto: il padre naturale o quello putativo? Akikawa Sokho, sorella di Yoshimoto, si prende cura di Marie e diventerà l’amante di Menshiki.

Tutti incontri casuali, apparentemente slegati, e tutti riconducibili al narratore che osserva con attenzione e minuzia. È lui che, in ogni situazione, in ogni piccolo accadimento, non si ferma alla superficie delle cose e ne cerca relazioni e connessioni: niente gli sfugge. La meraviglia — quel caso eccezionale per cui un pittore trova alloggio nella casa del grande Amada Tomohiko — e il rievocare la Vienna degli anni bui del nazismo e la pittura Nihonga, realizzata con la tecnica e i materiali della tradizione giapponese, sembrano farci cogliere, senza troppi giri di parole, che il nazismo non aveva nulla a che fare con Vienna, unica nella sua bellezza ed eleganza; e che la pittura Nihonga era espressione autentica delle proprie radici, lontanissima dal nazionalismo più becero.

L’artista-narratore è, come tutti gli artisti, attento a percepire ogni segno, ogni strano suono che gli giunge nel silenzio notturno della casa. Una campanella tintinna, ma non si sa da dove provenga, fino a quando si scopre una buca nel bosco: era poggiata lì, in fondo. Una grande buca e una campanella. Una campanella che ha fatto scoperchiare una buca. Ma quella buca era giusto scoperchiarla? Non sarebbe stato meglio rivivere tutto in modo nuovo?

Cosa potrebbe essere questo richiamo che viene da così lontano? Una campanella in una buca, e il suo suono che deve ricordarci qualcosa. Quasi due secoli fa, all’inizio dell’era Meiji (1868-1912), fu imposta l’occidentalizzazione del Giappone come politica governativa. Il Paese doveva allinearsi all’Occidente in tutti i campi: scientifico, letterario, filosofico, artistico. Doveva dimenticare se stesso? La pittura a olio occidentale, yōga, sostituì quella millenaria del Nihonga, che tende alla semplificazione e alla stilizzazione, elimina il superfluo e riduce gli elementi naturali alla loro essenza, usando pigmenti minerali applicati su carta washi o su seta, sempre materie naturali. Era come se tutto  il passato andasse perduto invece di aprire a nuove strade e a nuove interpretazioni.

Per caso i miei occhi si posano su una pagina del romanzo:

“No, signore, è troppo rischioso prendere per lei una strada riservata alle metafore. Se una persona vivente vi si addentra, basta sbagliare percorso una volta e rischia di finire in un mondo assurdo. Ci sono doppie metafore nascoste ovunque… si acquattano nelle tenebre, creature pericolosissime. Lei dovrebbe portare con sé qualcosa per farsi luce… incontrerà un fiume. È un fiume metaforico, ma l’acqua è reale. E al di là del fiume c’è un mondo che fluttua al vento della correlazione, un mondo che si estende all’infinito.”

È il nuovo mondo, il mondo delle possibilità: ha perso il suo centro di gravità permanente, è fluido e interconnesso, e si apre a direzioni imprevedibili. Cultura occidentale e cultura orientale si incontrano, come già Goethe, nel suo Divano Occidentale-Orientale, aveva intuito: un’immagine capace di ridurre ogni molteplicità a un principio unificatore.

La scrittura di Murakami è come una musica: si dissolve e si ricompone in una nuova armonia, in un andamento lento, costante e pieno di tensione. Libera la fantasia, le associazioni. È come un dipinto: lo leggi e lo interpreti ogni volta in modo diverso. È il doppio senso dell’arte: aiuta a conoscere la realtà, a riflettere, a capirsi — e rende ancora più labili i confini tra ciò che è reale e ciò che non lo è.

Breve biografia

Mi chiedevo come leggere la vita di Murakami. L’opera artistica riflette sempre l’essenza di ciò che si è. Se penso ai suoi romanzi immagino vite parallele, melodie di sax mentre un gatto cammina come un equilibrista sul cornicione di una casa al confine tra realtà e irrealtà. Il mondo in cui entrò — e che fece suo — gli apparteneva già: i suoi genitori erano insegnanti di letteratura giapponese. Artista lo era da sempre; pensava solo di amare di più la musica jazz. L’unica musica che poté poi trasferire nella sua scrittura, così creativa ed estemporanea, capace di inventare nuove melodie.

Prima di diventare scrittore, Murakami gestì con la moglie, dal 1974 al 1981, un jazz bar, il Peter Cat, nella città di Kokubunji, alla periferia occidentale di Tokyo. Restava in piedi fino a tarda notte e, dopo la musica raccoglieva bicchieri vuoti come fossero tracce di vite, note musicali rimaste in sospeso. Alle due del mattino la dimensione del tempo cambia: siamo immersi nel cuore buio della notte e non percepiamo nel sonno l’alba che verrà.

Murakami non si muove negli spazi letterari che crea: sembra piuttosto aggirarsi tra essi, scrutando ogni angolo, varcando silenzi, leggendo negli oggetti sparsi, nei mondi specchiati, nelle lune doppie e negli animali che osservano l’uomo come se sapessero qualcosa che lui ha dimenticato. Dai suoi romanzi si esce come da un sogno che ci lascia storditi e incapaci di spiegare.

Visse a lungo all’estero; ritornò in Giappone dopo il terremoto di Kobee l’attentato alla metropolitana. Era il 1995. Parve che un’altra porta si fosse aperta. Da lì nacquero libri che ascoltano il dolore invece di descriverlo.

Murakami, nato a Kobe nel 1949, vive oggi in un luogo che sembra una stanza sospesa tra le epoche. Corre ogni mattina, traduce Fitzgerald e Carver — autori a lui consoni —, colleziona vinili che sembrano avere un proprio respiro. Qualche volta, dicono, un gatto appare, lo guarda e se ne va. Forse è lo stesso di quando era bambino. Forse no.

Murakami non ha mai avuto bisogno di una risposta per continuare a scrivere. Nei suoi libri si entra come in un crepuscolo: non ci sono trame e, se ci sono, rimangono sospese. Non cercano limiti. Viviamo il suo racconto senza imboccare la strada della metafora.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Eduardo Savarese: “Una piccola luce” (Alter Ego, 2025), di Maurizia Maiano

C’è sempre, in ogni parola scritta, una piccola luce che tenta di fendere il buio. Il libro è un luogo dove il pensiero diventa casa, dove realtà e simbolo si confondono. Nel romanzo, che ci accompagna, il Castello e le Città dei Sensi Ottusi sono più che luoghi: sono metafore dell’animo umano e del nostro presente, un invito a ritrovare i sensi perduti a cui il mondo digitale sembra condannarci e a “abitare la distanza” che separa l’uomo dal mondo.

C’era una volta un bimbo orfano e senza memoria chiamato Bibo. Doveva intraprendere un viaggio con la sua gatta nera Susan, il suo violino e una piccola lampada di bronzo. Era stato dato loro il compito di  attraversare le Cinque Città dei Sensi Ottusi, dove ciascuna città aveva proibito l’uso di uno dei sensi, costringendo i cittadini a vivere nell’oblio della bellezza. Col violino Bibo avrebbe risvegliato il coraggio di città in città, con la lampada illuminato il mondo che giaceva nelle tenebre dell’incoscienza e della paura. Erano tempi  drammatici quelli che seguirono la Seconda venuta del Cristo. Cristo, constatando condizioni così disperate, aveva deciso di rimandare l’Apocalisse, e le città, per la paura della morte, si chiusero in se stesse.

Gli stili di vita si capovolsero e luoghi ricchi furono ridotti in miseria. La chiara distinzione tra realtà e irrealtà sbiadì. Centri di potere nuovi emersero, imponendo regole rigide e soffocando ogni libera espressione del sentimenti. Drammatici avvenimenti avevano lasciato Bibo orfano di entrambi i genitori. Ora egli appartiene ai figli della Grande Adozione, un’istituzione che si era insediata in un’isola antichissima fatta di terra rossa, altissime montagne e mari burrascosi, ora caldi ora gelidi. Agli occhi delle città, l’isola della Grande Adozione era un luogo perverso e inaccessibile. Il Consiglio dei Maestri e delle Maestre era considerato il male, e gli orfani venivano reputati portatori di disgrazia e sventura. A Bibo toccò come maestra una donna severa chiamata Pazienza, una donna minuta dai riccioli neri e guizzanti. La pazienza aiuta a comprendere gli altri, diceva. Soccorre nelle prove difficili, nelle privazioni, quando al corpo e ai sensi manca qualcosa d’essenziale. La realtà stessa era falsificata, diffondendo ovunque informazioni le cui origini restavano sconosciute.  

Gli esseri umani, presi dall’angoscia della fine, reagirono con un rigore che mascherava un odio profondo per la libertà di coscienza.

Giunse così il giorno precedente la partenza per le Città dei Sensi OttusiPazienza aveva preparato il piccolo bagaglio: la custodia col violino, due ricambi, la lampada e tre vasetti d’olio. Bibo e Susanna sarebbero stati invulnerabili, purché avessero mantenuto integri il violino e la lampada. Il violino è la Musica e la luce la coscienza e la speranza? Pazienza chiese: Vuoi portare le tue perle?

Bibo e Susanna viaggiano attraverso le cinque città, il cui nome richiama un senso:

Nontoccarmi: qui gli abitanti rinunciano al tatto a causa di una malattia della pelle sconosciuta e letale che li ha resi incapaci di sfiorare chiunque. si allontanano cosi l’uno dall’altro.

 Naricispente: l’aria è costantemente sanificata. L’unico odore è quello di alcol e sostanze chimiche, un vuoto olfattivo che domina ogni angolo.

Scontrosa: è una città che ha rinunciato all’udito perché sconvolta da gente chiassosa. Tale mancanza isola gli abitanti l’uno dall’altro e tutti hanno un’aria sdegnata, furtiva e supponente.  

Salsi: è la città dove il senso del gusto è stato annientato, è governata da un gruppo di fanatici, gli Apostoli dell’Igiene Alimentare.

Ombrina: qui una bruma  avvolge cose e persone e la luce non ha potere, nessun meccanismo di percezione. Gli abitanti quando si incontrano avvertono solo una presenza sfuggente l’uno dell’altro e affrettando il passo ripetono: Umbra et pulvis sumus. Ottenebrato I è il governatore che ha commissionato un sistema di filtraggio della luce. 

Ci muoviamo guardinghi tra queste città in cui anche i nostri sensi si sono come addormentati, mentre Bibo e Susanna hanno l’arduo compito di risvegliarli e indurre gli abitanti a immergersi nelle sensazioni perdute. Bibo non sempre ci riesce. Egli cerca di riportare attraverso le note del violino frammenti di memoria. Ricrea situazioni felici, ma a questi segue la sofferenza. Il bene e il male sono nettamente distinti o inestricabilmente intrecciati? Forse l’uno non esiste senza l’altro e per usare un riferimento a me caro, richiamo alla memoria Il contadino della Boemia di Johannes von Tepl,  a cui la morte strappandogli in giovane età la moglie lo spinse a concludere che non avrebbe potuto conoscere il bene senza conoscere il male. Dovremmo essere grati alla morte, è lei che riveste i momenti lieti della vita di una veste preziosa intessuta di sole e luna, valli e stelle. E parte subito un’eco verso le Intermittenze della morte di José Saramago. Senza la morte tutto avrebbe avuto un gusto insipido, ci saremmo schiantati contro la monotonia di giorni tutti uguali. 

Il romanzo funziona come un ipertesto, riporta ad altre storie, solleva interrogativi vecchi e nuovi. Riflessioni e combinazioni che richiamano ad un altrove nell’arte che già conosciamo.  Ripenso alla Leggenda del Grande Inquisitore, gli esseri umani sanno godere della libertà, la vogliono veramente? O di fronte all’angoscia della  fine reagiscono creando un rigore che maschera l’odio per la libertà di coscienza? Immagini letterarie, pittoriche e musicali si mescolano al raccontare. L’Isola  dei morti di Böcklin appare davanti ai suoi occhi confondendosi con il paesaggio nella città di Ombrina. Non c’era più quella immagine ma sapeva di averla vista quell’immagine in tempi passati in un museo. Ed ancora musiche di Beethoven e i Gurre Lieder di  Schönberg. Si incontrano  i personaggi delle fiabe e Barbablù racconta la sua ultima storia. E’ quello che succede nelle città dei sensi ottusi, un romanzo definito allegorico e onirico in un mondo postumo. Lo leggo invece come allegorico e reale del nostro presente. Il sogno, l’andamento fiabesco, che il raccontare assume, li colgo come elemento di straniamento che ci aiuta nella presa di consapevolezza del nostro esistere.  Una umanità che cambia prospettiva in cui le tecnologie ampliano i nostri spazi, ma riducono l’uso dei nostri sensi, romanzo che imita la tecnologia usando immagini di arte che abbiamo ammirato e interferiscono nel nostro vissuto sfumando il limes tra realtà ed illusione, artificio artistico che apre alle molteplici possibilità del reale che possiamo concepire.

Il compito di Bibo, qui temuto come portatore di disordine e morte, era  quello di portare una nuova piccola luce nel mondo dopo la Parusia. Tante sono le difficoltà! Al lettore la scoperta della complessità dell’essere umano spesso incapace di crearsi rapporti e situazioni semplici fondate su sentimenti di fiducia, rispetto, comprensione ed interagire ascoltando l’altra parte, audi alteram partem.

Eduardo Savarese è scrittore ed è stato magistrato dal 2004 al 2024. Dal 2025 è Professore ordinario di Diritto intenazionale presso l’Università Federico II di Napoli. Accompagna il suo intenso lavoro curando quelle che sono le sue passioni, amore per la Musica lirica e la scrittura e non trascura il suo impegno sociale: tiene corsi di scrittura creativa per persone con disabilità presso l’associazione A ruota libera. Un percorso che ne evidenzia la formazione culturale ecclettica, tutta la ricchezza interiore e sensibilità. Ogni aspetto della sua grande umanità, del suo amore per la scrittura e la Musica è racchiusa in questo romanzo. Nasce a Napoli nel 1979 e tiene a sollineare di essere per un quarto greco da parte di nonna paterna.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Calvino ci ha regalato la consapevolezza della scrittura, di Maurizia Maiano

Come siamo quando leggiamo? Chiedo ai miei figli cosa sia stato leggere per loro da adolescenti. Per me i ricordi sono più lontani, riesco a focalizzarli sulla copertina rigida  delle Fiabe dei fratelli Grimm. Un libro che ho fatto accuratamente rilegare, una operazione di maquillage per un eccesso di tempo vissuto e per tutte le volte che l’ho aperto e ne ho sfogliato le pagine. Sulla  copertina una Biancaneve con i capelli color dell’ebano e la pelle bianca come la neve, seduta nel bosco ai piedi di un albero secolare e nerboruto, circondata dai sette nanetti che, incantati, la osservano mentre racconta la sua storia, l’essere sfuggita alle grinfie della matrigna, alla sua crudeltà che l’aveva mandata nel bosco affinché il cacciatore la uccidesse riportandole il suo cuore ed il suo fegato come prova del misfatto compiuto. Un racconto cruento eppure non mi stupiva, non riesco a trovarne motivazione nella mia mente di bambina. Era il libro che mia madre mi leggeva prima di addormentarmi o quando avevo la febbre e mi accucciavo nel suo lettone. Gli oggetti ci rimandano a momenti che si fissano indelebili nella memoria. Quelle poche figure, accompagnate dalla leggerezza delle parole del racconto, innescavano la nostra  fantasia. Ripenso al Calvino delle Lezioni americane: “ci aggrappiamo alla leggerezza” e dov’è la leggerezza se non nelle parole? Esse non devono seguire la pesantezza degli oggetti, esse nascondono il mistero del linguaggio la cui origine non riusciamo a definire. Forse nascondono quel mistero per cui, come scrive Federico Faggin, la coscienza, il soffio vitale vengono prima della materia e sono al contrario generatori di materia, dei fatti che ci accadono. 

La leggenda di Perseo e Medusa, che sottende la riflessione sulla leggerezza di Calvino, vede Perseo che deve sfuggire allo sguardo di Medusa, deve guardarla nella sua immagine riflessa. Medusa pietrifica ogni cosa, ma Perseo librandosi in alto vince Medusa, la decapita ma deve continuare a tenere la sua testa in un sacco per occultarla al suo stesso sguardo. Le nuvole sostengono Perseo, la loro volatilità trasforma la negatività di Medusa nel proprio contrario, il miracolo della leggerezza delle parole. La Leggerezza è un elogio della letteratura che ci permette di uscire dall’opacità del mondo e di guardarlo attraverso la lente delle bellissime immagini che essa stessa crea. Ho chiesto ancora ai miei ragazzi cosa fosse per loro la lettura, non c’è altra risposta se non la fuga dal mondo, un posto in cui rifugiarsi e sentirsi sicuri e dimenticare i disagi, il non sentirsi adeguati, accettati, non avere lo sguardo dell’altro; tutto questo accadeva anche a noi. 

Scrittura e letteratura come antesignana del mondo virtuale? Come la leggerezza delle parole è necessaria per sfuggire al peso che è dell’esistere delle cose, così la rapidità non è essere frenetici o ancor peggio frettolosi ma godere dell’indugio e donare alla scrittura quella velocità di pensiero che da sempre le appartiene, così l‘esattezza, simboleggiata da una piuma, che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime, significa evocazione di immagini visuali nitide, icastiche, per usare un aggettivo caro a Calvino. La letteratura è esattezza ma  vede il suo contrario nel vago, il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago e impreciso. Il cristallo e la fiamma sono i due simboli in cui si condensa il valore della letteratura che cristallizza nella forma la bellezza della realtà e vivacizza con la fiamma il sentire che essa ci trasmette. 

Eravamo abituati a generare le immagini con le parole. Esse erano l’input per sfuggire al mondo esteriore e lasciarsi rapire da quello interiore. Ci riusciamo ancora, ci riescono i nostri ragazzi, in una società dominata e bombardata dalle immagini? Le immagini attraverso il tempo hanno origini diverse: Dante ne proclama la diretta ispirazione divina, scrittori vicini a noi  ne stabiliscono contatti con emittenti terrene: l’inconscio individuale o collettivo, il tempo ritrovato nelle sensazioni che riaffiorano dal tempo perduto. E’ come se l’inconsistenza, la leggerezza della parola ci trasmettesse la sensazione che qualcosa esorbita dal nostro controllo, facendo riaffiorare, in un mondo senza Dio, uno strano sentimento di trascendenza. 

Da dove provengono le immagini che l’artista armonizza nella sua mente? Hofstadter risponde: è tutto sommerso sott’acqua come un iceberg, non visibile e l’artista lo sa. Ed ecco che ci risiamo con una cosa ed il suo contrario. Riemerge il compito dell’Arte: rendere visibile l’invisibile, aprire una ferita, come i tagli sulla tela di Fontana. Le teorie dell’immaginazione possono, dunque, andare d’accordo o sono incompatibili con la conoscenza scientifica? Qui mi si aprono dei dubbi. La mente del poeta e dello scienziato funzionano secondo una associazione di immagini che è il modo più veloce di collegare e scegliere tra le infinite forme del possibile e dell’impossibile e a questo punto si tratta di riflettere se il sistema agisce secondo il libero arbitrio o secondo un destino.

La fantasia funziona come una macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili scegliendo quelle che corrispondono ad un fine, possono essere divertenti, piacevoli ed interessanti, tristi o malinconiche. Un raccontare che diventa sempre più intrigante. Calvino riconosce l’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è, né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere. Diventa in questo modo possibilità una molteplicità potenziale e indispensabile per conoscere. Potenza della fantasia, dell’invisibile ed allora spazio alla scrittura dove il tutto del mondo e dell’io si condensa in materia verbale, caratteri maiuscoli e minuscoli, punti, virgole, segni allineati e fitti rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo, uguale e sempre diverso, come le dune spinte dal vento del deserto.

A noi, abitanti di questo tempo, di una società bombardata dalle immagini rimane il dubbio: da dove attingerà la fantasia, sarà possibile una letteratura fantastica in una crescente inflazione d’immagini prefabbricate?

 Quando chiedo ai miei figli cosa è leggere rispondono “fuga, trasferirsi in un  altrove o, aggiungono, quando leggevo pensavo che fosse tutto vero e fino ai 25 anni ho pensato che potessi imparare a vivere leggendo, poi mi sono accorto che forse sarebbe stato peggio, le contraddizioni in quello spazio virtuale potevano sopravvivere, la realtà mi imponeva di distinguere e scegliere ed operare secondo canoni non sempre fantastici anche se questi rimanevano a portata di mano, mi aiutavano in una operazione di straniamento di percezione della realtà per poter in essa agire e così ho aperto la Partita Iva”. Leggere è in ogni caso viaggiare ed è così ad ogni età. E’ riconoscere funzioni terapeutiche alla scrittura, riconoscere al nostro sistema neurale che si attiva attraverso l’uso delle parole, abitare altri spazi per prendere le distanze dalle dissonanze che permeano le nostre vite. 

 Il processo fantastico era un tempo induzione, era intuizione e fantasia, oggi la scienza riconosce alla scrittura questa funzione che l’uomo in modo inconsapevole ha sempre cercato. I nostri neuroni sono una sorta di generatori di mondi, qualcuno l’ha chiamata produttività dello spirito, in contrapposizione ad un mondo degli antichi considerato naif dove si viveva in un tutt’uno con la natura, perché se ne accettava il bene e il male come parte imprescindibile dell’essere e della realtà. La distinzione tra bene e male ci pone però di fronte ad un problema etico, ad un desiderio: realizzare ciò che pensiamo.  Nell’adolescenza non ne abbiamo consapevolezza, abbiamo il tempo per raggiungere la meta e realizzare il desiderio. Pian piano con gli anni diventa una necessità, uno spazio indispensabile al nostro presente: e quando l’abbiamo capita ecco che è quasi finita (da una poesia di Barbara Gramegna).

Non saprei definire perché ci piace la parola, ascoltare o leggere mentre siamo fermi. Sulle ginocchia di un genitore e su una poltrona illuminata da una lampada, ascolto  Robinson Crusoe di De Foe, che non poté viaggiare ma visse nel libro il suo viaggio nel nuovo mondo. “Le mille e una notte”, “Alice nel paese delle meraviglie”,  i racconti dal libro Cuore, “Dagli Appennini alle Ande” o “La piccola vedetta lombarda”, coraggio civile dei bambini, quante lacrime. Il bambino lì sull’albero, coraggioso, fiero, scruta lontano e nonostante le preghiere dell’ufficiale non scende giù, finché una pallottola non lo colpirà. Una bandiera tricolore sarà il suo drappo funebre. 

E non più adolescenti permettiamo che i ricordi ci vengano incontro leggeri e visibili, molteplici e rapidi sì, pensando a Calvino, osservo il loro leggero movimento verso di noi. E a chi  potrei pensare? Mi viene in mente Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte. Potenza della fantasia che ci fa immaginare di avere vicino chi non avremo più e essere dove mai più potremo essere o vederlo scorrere davanti alle nostre palpebre abbassate come in un film di Quentin Tarantino

Lo spazio letterario è l’unico che ci consente di porci domande e a lasciarci la libertà di interpretazione  e fuga. Visibilità nella società dell’apparire più che dell’essere sembra quasi allontanarci dalla riflessione di Calvino. 

E’ nella letteratura che accettiamo l’infinita molteplicità del reale, nella letteratura viviamo le contraddizioni, ne diventiamo consapevoli. Il mondo è un sistema di sistemi singoli che vicendevolmente si condizionano. Strane immagini cerebrali ci fanno decollare in uno spazio curvo e vuoto o immergere in un fluido addensato dove i quanti impazziti si muovono come sulla pista di un autoscontro. Già, atterrare più in alto, la prima contraddizione: atterrare in alto perché lì sono le nostre radici, le radici della nostra fantasia e della nostra complessità. L’unica cosa che mai non sapremo è ciò che determina la scelta nel mare infinito della molteplicità. Anche il tempo è plurimo ed ogni presente si biforca in due o più futuri e così si forma una rete di tempi divergenti, convergenti e paralleli, non funziona così la vita? 

E, forse, Il castello dei destini incrociati ne è l’esempio più bello ed eclatante. I tarocchi sono un insieme di ipotesi possibili, interpretabili a piacimento e a seconda della connessione tra loro e che si siano incontrati prima o dopo.Vorremmo racchiudere il mondo in una mano ma ci sfugge e resta incompiuto, ma essere incompiuti è essere infiniti, si lascia spazio a nuove possibilità e nuovi inizi. Sono queste le grandi opere, quelle che sfuggono al self di chi scrive e diventano luoghi di identificazioni di mondi per tutti e fanno parlare ciò che non ha parola

Lu cuntu non metti tempu, mi piace questa espressione dialettale del Sud. Non smetteremmo mai di parlare e di raccontare. Quanto al tempo, che si passava nelle piazze, nelle agorà a discutere e a guardarsi negli occhi, ad accusarsi, a rimproverarsi o a scoprire unità di intenti, è agli sgoccioli: le piattaforme social hanno sostituito le piazze, stesse cose e forme diverse

Ascoltarsi, raccontare procedono come un incantesimo: contraggono e dilatano il tempo di chi ascolta e di chi legge. Conosciamo una  cosa e il suo contrario. E’ un insegnamento antico.

E così come la leggerezza ha bisogno della pesantezza, perché è ciò che deve tradurre, nel senso di trans, portare dall’altra parte e rendere leggero, così la rapidità deve conoscere l’indugio e l’attesa. E quale immagine più bella se non nel rappresentarla in una sorta di alleanza tra Vulcano e Mercurio? Il primo, rintanato nella sua fucina, fabbrica scudi, armi, gioielli e ornamenti per gli dei e le dee. Vulcano   contrappone al volo aereo di Mercurio il suo passo  claudicante e il battere cadenzato del suo martello. Entrambi sono complementari e inseparabili. Il lavoro dello scrittore ha bisogno di tempi diversi: della immediatezza di Mercurio e degli aggiustamenti pazienti di Vulcano che, nascosto agli occhi del mondo tra le gole degli anfratti della sua officina, rimugina la vita e il suo vissuto con melanconia saturnina senza la quale non ci sarebbe arte. 

Calvino ci ha regalato la consapevolezza della scrittura.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.