Gore Vidal: “La statua di sale” (Fazi, trad. Alessandra Osti), di Claudio Musso

La via di Tebe: la sfida di Gore Vidal

Ci sono romanzi che nascono come scandalo e col tempo si rivelano necessità. La statua di sale (The City and the Pillar, 1948), l’opera con cui un giovanissimo Gore Vidal infrange il silenzio dell’America puritana, appartiene a quella ristretta genealogia di libri scritti nella febbre della giovinezza ma pensati per durare: per lucidità, coraggio e visione morale. A ventitré anni Vidal non si limita a raccontare una vicenda; introduce nel paesaggio letterario americano la possibilità di un desiderio maschile che non si vergogna, non si occulta e non si espia. È un gesto di insubordinazione etica e, insieme, un atto di verità.

Jim Willard, il protagonista, è l’emblema di quell’inquietudine che percorre l’intera opera dell’autore: bello, atletico, riservato, figlio di un’America che celebra il successo e teme la differenza. In una notte d’estate, in un capanno sul lago, egli vive con l’amico di sempre, Bob, la rivelazione di un amore senza nome, un momento di compiutezza che diventa origine e condanna. Bob prende poi la via del mare, convinto che sia stato soltanto un gioco goliardico tra adolescenti soli. Jim, nutrito invece da quella complicità che non è solo epidermide ma un pentagramma di note che finalmente risuonano una musica soffocata, resta e da quel punto la sua esistenza si trasforma nell’attesa di un ritorno. Ogni viaggio, ogni incontro, ogni città diventa un tentativo di ritrovare quell’immagine perduta. Come la moglie di Lot nella Genesi, Jim si volta indietro e, nel gesto del ricordo, si pietrifica: la “statua di sale”, titolo scelto con acume da Fazi nella traduzione italiana di Alessandria Osti, diventa figura del tempo immobile e del desiderio che si fa memoria e identità.

Questa parabola individuale riflette una condizione collettiva. L’America degli Anni ’40, tra l’impegno bellico e il rigore domestico, non ha spazio per la solitudine di un ragazzo che sa nominare la propria verità anche se le parole per dirla rimangono a fior di labbra. Vidal descrive quel mondo con precisione fotografica: club, spiagge, spogliatoi, bar, scenari di mascolinità rituale che si fanno gabbie dorate. Jim non protesta: osserva. La sua ribellione è silenziosa, fatta di rifiuti e di distacco, di una malinconia trattenuta. E tale compostezza, più che l’ostentazione, ad abitare questo testo sismografo. La lingua è tersa, controllata; rifiuta il sentimentalismo, la curiosità voyeuristica, la tragedia sibila sotto la superficie, in un minimalismo morale dove ogni gesto pesa e ogni parola trattiene un grido.

Nel suo randagismo consapevole, Jim incrocia figure che gli restituiscono, deformandola, la propria immagine. Shaw, attore hollywoodiano, rappresenta l’erotismo come spettacolo: visibilità, narcisismo, l’idea che il corpo e il desiderio possano farsi performance. Sullivan, scrittore più maturo e disilluso, offre invece la lente della coscienza: la lucidità che conosce la perdita, la carica morale che trasforma l’affetto in rimorso o in rassegnazione. Beverly Hills e New Orleans, città della luce e città dell’umidità, diventano due teatri possibile del vivere quando un uomo è attratto da un altro uomo: la maschera di Shaw e la verità dolorosa di Sullivan sono due risposte storiche all’omosessualità, due modi di abitare la vita che Jim sperimenta senza mai trovare una casa. Vidal non costruisce tanto una trama quanto un’ossessione che riaffiora puntuale anche quando corpo e mente sono lontani: inseguire un sé attraverso il corpo dell’altro, la fedeltà a un ricordo che immobilizza.

La tradizione a cui Vidal si richiama non è semplicemente quella del romanzo psicologico europeo, ma di una modernità più asciutta e analitica. C’è l’eco di Hemingway nella misura della frase e, sotterranea, una malinconia che rimanda a Thomas Mann. Vidal, nella prefazione, dichiara di aver preso a modello Hans Castorp di La montagna incantata, e nei diari Mann accenna alla figura di Jim accostandola alla stesura del Felix Krull. Qui conviene ascoltare il dialogo: Hans e Jim sono giovani sospesi nel tempo, figure di un’educazione sentimentale interrotta, sanatorio e «city» sono spazi dove il tempo si dilata e l’esistenza si osserva più che non si viva. Ma la differenza è decisiva. Mann con Hans esplora la contemplazione come possibile crescita interiore; Vidal con Jim mostra la contemplazione che diventa destino e prigione. Altro è Felix Krull, artista della finzione: egli trasforma la vita in maschera, costruisce identità come opere d’arte; dove Felix si salva mediante il travestimento e il saltare la fila, Jim si perde nella sincerità che la società non sopporta. Mann mette in scena la vertigine del non vero come strumento di conoscenza; Vidal spoglia la finzione fino alla nuda evidenza del desiderio. Il confronto aiuta a comprendere la singolarità morale di questo testo: la scelta dell’autenticità e il prezzo che impone.

Forse è proprio nella nudità di quella presa di posizione che La statua di sale appare sorprendentemente moderna. La scena del capanno sul lago, tra innocenza e rivelazione, anticipa un’immagine che il cinema restituirà quasi a riconoscimento postumo: la tenda isolata sulle montagne di Brokeback Mountain. Stesso silenzio dopo l’atto, stessa paura che l’amore sia più reale del mondo che lo circonda. Non si tratta di un’eco occasionale ma di un prestito iconografico: il romanzo di Vidal consegna alla memoria collettiva un archetipo di tenerezza proibita che la pellicola riporta in immagini con crudeltà e dolcezza.

In questo senso Vidal anticipa e affianca la narrativa di Baldwin e Isherwood, che negli anni seguenti continueranno a dare voce allo stesso bisogno di verità. Ma a differenza di molte opere coeve, Vidal non chiede né compassione né espiazione: mostra, con pietà glaciale, la condizione umana come isolamento. Riletto oggi, il libro sorprende per la sua attualità. In un’epoca che celebra fluidità e libertà, Jim rammenta quanto precaria sia la conquista dell’identità, quanto in fretta la libertà possa ridursi a posa o a dimenticanza. Il suo voltarsi indietro non è mera nostalgia, ma fedeltà a un’esperienza che il mondo non sa nominare: gesto consapevole, irrimediabile, sacrale, che gli apre le porte del suo mondo.

Gore Vidal, che la vita avrebbe poi trasformato in intellettuale caustico, polemista e moralista negli USA, esordisce come moralista del desiderio: narratore di un’innocenza negata, di una purezza che agli occhi altrui si converte in colpa. Oggi, nel centenario della sua nascita, La statua di sale non è più un libro “scandaloso” ma un classico segreto della modernità, un romanzo che continua a parlare della solitudine e del coraggio di dire «io» quando nessuno lo permette. Come Edipo, lo scrittore sceglie la via di Tebe e non quella del santuario oracolare di Delfi: vuole conoscere fino in fondo e accetta la maledizione che ne segue. Ma questa conoscenza, allora condannata come contro natura, oggi suona come il gesto più umano di tutti: guardare in faccia la propria verità perché, in fondo, nulla è giusto, solo la negazione dell’istinto è sbagliata. Anche a costo di diventare sale.

Claudio Musso

Claudio Musso: Vive e respira Torino e condivide un paio di geni con la dea Partenope. Formazione umanistica, grande appassionato di germanistica, di storia e di identità. Di giorno si occupa di risorse umane e la sera, o quando leggere e leggersi chiama, di quelle librose. Onnivoro per natura, ma intollerante al glutine e alle mode del momento, raminga con umorismo tra un lavoro che ama e altre passioni quali il teatro, l’opera lirica, e ovviamente la lettura, collaborando anche con riviste letterarie. Papà di Nadir, il suo gatto, non riesce per più di 5 minuti a prendersi troppo sul serio ma prova a fare tutto con dedizione, di quelle che danno senso e colore alla vita.

Confini fisici e mentali nell’opera di Esmé Weijun Wang di Viviana Calabria

Una prigione diventa casa se possiedi la chiave.
 George Sterling

Non volevo farla finita vicino a casa, dove avrebbe potuto trovarmi mia moglie, oppure, ed è ancora più terribile pensarci, i miei figli. […]. Non ho fatto altro che causare problemi a tutti e tre, e la cosa peggiore è che mi amavano lo stesso; e quindi non so proprio come questo possa essere altro che un tradimento e un’ingiustizia.

Siamo di fronte a una certezza, quella che caratterizza tutti noi: la morte. Il confine del paradiso di Esmé Weijung Wang comincia dagli ultimi attimi di vita di David, dal suo biglietto d’addio, a dimostrazione di come quell’evento sia un punto fondamentale della storia, di quanto lui sia uno spartiacque tra due vite.
Primo romanzo della scrittrice statunitense nata da genitori taiwanesi, consta di quattro parti e segue la cronologia degli avvenimenti ma alterna i punti di vista: tranne per la prima in cui a raccontare è David, nelle altre i capitoli vengono alternati tra i diversi personaggi principali di quel lasso di tempo e questo permette di indagare a fondo pensieri e azioni.
Tutto ha inizio con i Novak, una famiglia di ebrei polacchi emigrati in America in cerca di fortuna. La fortuna la trovano, il sogno americano si avvera: fondano la Novak Piano Company che prima della guerra conosce una grande fortuna, pari ai celebri pianoforti Steinway. Con la guerra e la conseguente instabilità la musica cambia per gli affari, ma la loro apparente tranquillità non muta. Presto David inizia a dare sfogo a quelle che si rivelano nevrosi: attribuiva ai suoi pupazzi un’anima e quando uno di questi subiva deterioramento, lui arrivava ad avere attacchi di panico.

Racconta che il suo primo incontro con il suicidio risale alla lettura di L’uomo che amava i lupi di William P. Harding, gesto che “non riusciva proprio a capire”; fatto sta che la lettura avrà effetti sulla sua formazione. Sopraggiungeranno nel frattempo altre nevrosi come la dismorfofobia e quella che l’autrice ha definito, inventandola, vitafobia. Le voci sul suo conto iniziano a circolare, il peso di questa situazione e del nome, della reputazione della famiglia diventano un fardello troppo grande per due spalle gracili: essendo lui l’erede, verrà presto catapultato nel mondo dei pianoforti per imparare il mestiere e si ritroverà ancora molto giovane a capo dell’azienda di famiglia, alla morte del padre. Una parentesi felice di questa adolescenza travagliata è l’incontro con Marianne, figlia di alcuni vicini: entrambi innamorati l’uno dell’altro, nonostante Marianne si riveli molto devota ed esprima il desiderio di entrare in convento, saranno costretti a separarsi quando David deciderà di vendere l’azienda al braccio destro del padre: che vita può offrire a una giovane donna un uomo che non è capace di reggere le redini di un’azienda?
L’ultima cosa a cui volevo pensare era quanto fosse difficile essere una persona ed essere vivi.

Compiuti i diciotto anni David vola a Taiwan, e qui comincia un’altra storia. L’incontro con una cultura diversa dalla nostra avviene con la comparsa di Jia-Hui, figlia di una mama-san (capo di un bordello) e di un boss della criminalità organizzata, che si occupa di trovare ragazze da far lavorare nel locale della madre. Ha potere Jia-Hui nel suo mondo, ha il potere di far cambiare vita a giovani donne che spesso, molto spesso, scappavano da situazioni peggiori. I due si innamorano e tornano in America. Lei diventa Daisy, il suo agnellino orientale. Ma è amore? Proprio David scrive di essere stato ammaliato dall’esoticità di colei che diventa presto sua moglie; quell’attrazione per l’esotico, il lontano. La porta con sé come si fa con un souvenir. L’impatto con la Grande Mela viene reso perfettamente attraverso il rifiuto del cibo tipico americano di hamburger e patatine per esempio, che l’autrice non riesce a mandar giù tanto da cibarsi per alcuni giorni di solo latte anche per nutrire il bambino che porta in grembo; ancora, notiamo un grande cambiamento di una ragazza nata e vissuta con due tagliagole trasformarsi in una donna bisognosa quasi d’amore, di attenzioni. C’è però un altro tema molto importante che caratterizza questa parte e il rapporto tra i due ed è la lingua: nel capitolo in cui Daisy incontra la madre di David ci sono alcune linee al posto delle parole, un po’ come si usa fare nel gioco dell’impiccato; qui la differenza sta nella linea continua e non nei trattini. Non è un gioco a indovinare. Si svela in tutta la sua forza una mancanza difficile da colmare, quella dell’impossibilità di dialogo e quindi di comprensione che non è solo comprensione tra due persone, ma della realtà in cui vivi. I due non comunicano, fondano il loro rapporto su sensazioni, su vuoti da riempire, sulla fisicità. Come comprendere i bisogni dell’altro, come incontrarsi negli intenti, come scontrarsi nelle idee! Come può un luogo indecifrabile diventare casa! I pensieri si attorcigliano su se stessi e rimangono tali.
L’amore terreno non è un baluardo contro la solitudine.

Le nevrosi di David non sono mai sparite ma Daisy, di fronte alle ferite auto inferte e alla confusione, non abbandona suo marito. Dopo aver vissuto in albergo si trasferiscono a Polk Valley, California. Il desiderio di solitudine di David, lontano da bisbigli, sguardi di compassione e da altri addii, non è mai scomparso. Il trasferimento in una casa nel bosco sarà una scelta naturale, ma anche la casa e la famiglia non riescono a placarlo, salvo alcuni rari momenti. Nasce William e dopo poco tempo arriva Gillian, figlia di David ma non di Daisy, così simile al padre. La vita prosegue nell’isolamento del loro covo, nella paura che il peggio possa accadere e così chiede al marito di insegnarle a guidare nel caso dovesse servire.

Mi distruggeva dover stare sempre all’erta, non dire mai una parola che potesse essere interpretata come scortese, fare tutto quello che voleva lui, che mi andasse o meno, incoraggiarlo, proteggere i nostri bambini dalla sua follia eppure non riuscire nei miei patetici tentativi, sentirmi inutile, vivere con lui, amarlo, essere una moglie coscienziosa e sapere che non faceva alcuna differenza.

Fino a che. Ritorniamo così al principio ma questa volta non è David a raccontarsi. Daisy si ritrova da sola, a ripensare alle volte in cui avrebbe potuto andare via, tornare a Taiwan e lasciarsi la malattia alle spalle, la solitudine che l’amore non può cancellare, una vita che ha avuto solo pochi sprazzi di felicità, ma a senso unico. Lasciare quella famiglia allargata che non è più sua. Eppure era stata avvisata: David è pazzo. Ora è lei a dover prendere le redini, a dover andare in paese per comprare il cibo. Ricomincia a parlare la sua lingua con i bambini, cosa che David non voleva perché sono bambini americani e lui il mandarino non lo capisce. Qualcosa scatta in lei: Gillian deve diventare la tongyangxi di William. Questa pratica, tipica della Cina, è stata dichiarata fuori legge nel 1949 ma ha resistito a Taiwan più a lungo e può esser vista come un matrimonio combinato in cui una famiglia con un figlio maschio preadolescente adotta una figlia femmina di pari età o un po’ più piccola, allo scopo di farli crescere insieme, con la stessa disciplina e gli stessi ideali. Una volta pronti, i due si uniscono sessualmente e convolano a nozze per garantire la prosecuzione della stirpe. La giovane donna è destinata inoltre alla cura dei genitori adottivi. È il ruolo che di solito spetta alle figlie femmine, con l’aggravante di essere costretta a una vita non voluta, ma spesso l’unica possibile. Trasuda egoismo dal romanzo, possesso per paura di rimanere soli. Rinchiusi in un paradiso che diventa inferno, costruito su misura, da cui è impossibile fuggire per l’incapacità di vivere in un mondo che non si conosce, con regole e spazi e persone e. Il confine della loro casa non è solo fisico ma è diventato mentale, l’unico esistente e possibile. Ma non per Gillian, a cui vengono imposte regole molto dure. William accetta invece questo destino, desideroso di amarla. Che la follia sia ereditaria? Io credo che, come dice Marianne, ogni azione ha delle ripercussioni e quelle di David, volute o meno, hanno avuto delle conseguenze sulle scelte della famiglia, anche indirettamente vista la sua scomparsa quando i figli erano piccoli. L’isolamento, la costrizione entro certi confini mentali e fisici, le regole, la privazione di libertà che in Gillian si trasforma in sofferenza perché certa che ci siano altre realtà, il sentirsi lei destinata a un compito scelto da altri ne hanno minato la psiche. Si vuol parlare di follia? Nel confine di una casa che è diventata una prigione, la chiave è soltanto una.

Viviana Calabria