Calvino ci ha regalato la consapevolezza della scrittura, di Maurizia Maiano

Come siamo quando leggiamo? Chiedo ai miei figli cosa sia stato leggere per loro da adolescenti. Per me i ricordi sono più lontani, riesco a focalizzarli sulla copertina rigida  delle Fiabe dei fratelli Grimm. Un libro che ho fatto accuratamente rilegare, una operazione di maquillage per un eccesso di tempo vissuto e per tutte le volte che l’ho aperto e ne ho sfogliato le pagine. Sulla  copertina una Biancaneve con i capelli color dell’ebano e la pelle bianca come la neve, seduta nel bosco ai piedi di un albero secolare e nerboruto, circondata dai sette nanetti che, incantati, la osservano mentre racconta la sua storia, l’essere sfuggita alle grinfie della matrigna, alla sua crudeltà che l’aveva mandata nel bosco affinché il cacciatore la uccidesse riportandole il suo cuore ed il suo fegato come prova del misfatto compiuto. Un racconto cruento eppure non mi stupiva, non riesco a trovarne motivazione nella mia mente di bambina. Era il libro che mia madre mi leggeva prima di addormentarmi o quando avevo la febbre e mi accucciavo nel suo lettone. Gli oggetti ci rimandano a momenti che si fissano indelebili nella memoria. Quelle poche figure, accompagnate dalla leggerezza delle parole del racconto, innescavano la nostra  fantasia. Ripenso al Calvino delle Lezioni americane: “ci aggrappiamo alla leggerezza” e dov’è la leggerezza se non nelle parole? Esse non devono seguire la pesantezza degli oggetti, esse nascondono il mistero del linguaggio la cui origine non riusciamo a definire. Forse nascondono quel mistero per cui, come scrive Federico Faggin, la coscienza, il soffio vitale vengono prima della materia e sono al contrario generatori di materia, dei fatti che ci accadono. 

La leggenda di Perseo e Medusa, che sottende la riflessione sulla leggerezza di Calvino, vede Perseo che deve sfuggire allo sguardo di Medusa, deve guardarla nella sua immagine riflessa. Medusa pietrifica ogni cosa, ma Perseo librandosi in alto vince Medusa, la decapita ma deve continuare a tenere la sua testa in un sacco per occultarla al suo stesso sguardo. Le nuvole sostengono Perseo, la loro volatilità trasforma la negatività di Medusa nel proprio contrario, il miracolo della leggerezza delle parole. La Leggerezza è un elogio della letteratura che ci permette di uscire dall’opacità del mondo e di guardarlo attraverso la lente delle bellissime immagini che essa stessa crea. Ho chiesto ancora ai miei ragazzi cosa fosse per loro la lettura, non c’è altra risposta se non la fuga dal mondo, un posto in cui rifugiarsi e sentirsi sicuri e dimenticare i disagi, il non sentirsi adeguati, accettati, non avere lo sguardo dell’altro; tutto questo accadeva anche a noi. 

Scrittura e letteratura come antesignana del mondo virtuale? Come la leggerezza delle parole è necessaria per sfuggire al peso che è dell’esistere delle cose, così la rapidità non è essere frenetici o ancor peggio frettolosi ma godere dell’indugio e donare alla scrittura quella velocità di pensiero che da sempre le appartiene, così l‘esattezza, simboleggiata da una piuma, che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime, significa evocazione di immagini visuali nitide, icastiche, per usare un aggettivo caro a Calvino. La letteratura è esattezza ma  vede il suo contrario nel vago, il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago e impreciso. Il cristallo e la fiamma sono i due simboli in cui si condensa il valore della letteratura che cristallizza nella forma la bellezza della realtà e vivacizza con la fiamma il sentire che essa ci trasmette. 

Eravamo abituati a generare le immagini con le parole. Esse erano l’input per sfuggire al mondo esteriore e lasciarsi rapire da quello interiore. Ci riusciamo ancora, ci riescono i nostri ragazzi, in una società dominata e bombardata dalle immagini? Le immagini attraverso il tempo hanno origini diverse: Dante ne proclama la diretta ispirazione divina, scrittori vicini a noi  ne stabiliscono contatti con emittenti terrene: l’inconscio individuale o collettivo, il tempo ritrovato nelle sensazioni che riaffiorano dal tempo perduto. E’ come se l’inconsistenza, la leggerezza della parola ci trasmettesse la sensazione che qualcosa esorbita dal nostro controllo, facendo riaffiorare, in un mondo senza Dio, uno strano sentimento di trascendenza. 

Da dove provengono le immagini che l’artista armonizza nella sua mente? Hofstadter risponde: è tutto sommerso sott’acqua come un iceberg, non visibile e l’artista lo sa. Ed ecco che ci risiamo con una cosa ed il suo contrario. Riemerge il compito dell’Arte: rendere visibile l’invisibile, aprire una ferita, come i tagli sulla tela di Fontana. Le teorie dell’immaginazione possono, dunque, andare d’accordo o sono incompatibili con la conoscenza scientifica? Qui mi si aprono dei dubbi. La mente del poeta e dello scienziato funzionano secondo una associazione di immagini che è il modo più veloce di collegare e scegliere tra le infinite forme del possibile e dell’impossibile e a questo punto si tratta di riflettere se il sistema agisce secondo il libero arbitrio o secondo un destino.

La fantasia funziona come una macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili scegliendo quelle che corrispondono ad un fine, possono essere divertenti, piacevoli ed interessanti, tristi o malinconiche. Un raccontare che diventa sempre più intrigante. Calvino riconosce l’immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è, né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere. Diventa in questo modo possibilità una molteplicità potenziale e indispensabile per conoscere. Potenza della fantasia, dell’invisibile ed allora spazio alla scrittura dove il tutto del mondo e dell’io si condensa in materia verbale, caratteri maiuscoli e minuscoli, punti, virgole, segni allineati e fitti rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo, uguale e sempre diverso, come le dune spinte dal vento del deserto.

A noi, abitanti di questo tempo, di una società bombardata dalle immagini rimane il dubbio: da dove attingerà la fantasia, sarà possibile una letteratura fantastica in una crescente inflazione d’immagini prefabbricate?

 Quando chiedo ai miei figli cosa è leggere rispondono “fuga, trasferirsi in un  altrove o, aggiungono, quando leggevo pensavo che fosse tutto vero e fino ai 25 anni ho pensato che potessi imparare a vivere leggendo, poi mi sono accorto che forse sarebbe stato peggio, le contraddizioni in quello spazio virtuale potevano sopravvivere, la realtà mi imponeva di distinguere e scegliere ed operare secondo canoni non sempre fantastici anche se questi rimanevano a portata di mano, mi aiutavano in una operazione di straniamento di percezione della realtà per poter in essa agire e così ho aperto la Partita Iva”. Leggere è in ogni caso viaggiare ed è così ad ogni età. E’ riconoscere funzioni terapeutiche alla scrittura, riconoscere al nostro sistema neurale che si attiva attraverso l’uso delle parole, abitare altri spazi per prendere le distanze dalle dissonanze che permeano le nostre vite. 

 Il processo fantastico era un tempo induzione, era intuizione e fantasia, oggi la scienza riconosce alla scrittura questa funzione che l’uomo in modo inconsapevole ha sempre cercato. I nostri neuroni sono una sorta di generatori di mondi, qualcuno l’ha chiamata produttività dello spirito, in contrapposizione ad un mondo degli antichi considerato naif dove si viveva in un tutt’uno con la natura, perché se ne accettava il bene e il male come parte imprescindibile dell’essere e della realtà. La distinzione tra bene e male ci pone però di fronte ad un problema etico, ad un desiderio: realizzare ciò che pensiamo.  Nell’adolescenza non ne abbiamo consapevolezza, abbiamo il tempo per raggiungere la meta e realizzare il desiderio. Pian piano con gli anni diventa una necessità, uno spazio indispensabile al nostro presente: e quando l’abbiamo capita ecco che è quasi finita (da una poesia di Barbara Gramegna).

Non saprei definire perché ci piace la parola, ascoltare o leggere mentre siamo fermi. Sulle ginocchia di un genitore e su una poltrona illuminata da una lampada, ascolto  Robinson Crusoe di De Foe, che non poté viaggiare ma visse nel libro il suo viaggio nel nuovo mondo. “Le mille e una notte”, “Alice nel paese delle meraviglie”,  i racconti dal libro Cuore, “Dagli Appennini alle Ande” o “La piccola vedetta lombarda”, coraggio civile dei bambini, quante lacrime. Il bambino lì sull’albero, coraggioso, fiero, scruta lontano e nonostante le preghiere dell’ufficiale non scende giù, finché una pallottola non lo colpirà. Una bandiera tricolore sarà il suo drappo funebre. 

E non più adolescenti permettiamo che i ricordi ci vengano incontro leggeri e visibili, molteplici e rapidi sì, pensando a Calvino, osservo il loro leggero movimento verso di noi. E a chi  potrei pensare? Mi viene in mente Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte. Potenza della fantasia che ci fa immaginare di avere vicino chi non avremo più e essere dove mai più potremo essere o vederlo scorrere davanti alle nostre palpebre abbassate come in un film di Quentin Tarantino

Lo spazio letterario è l’unico che ci consente di porci domande e a lasciarci la libertà di interpretazione  e fuga. Visibilità nella società dell’apparire più che dell’essere sembra quasi allontanarci dalla riflessione di Calvino. 

E’ nella letteratura che accettiamo l’infinita molteplicità del reale, nella letteratura viviamo le contraddizioni, ne diventiamo consapevoli. Il mondo è un sistema di sistemi singoli che vicendevolmente si condizionano. Strane immagini cerebrali ci fanno decollare in uno spazio curvo e vuoto o immergere in un fluido addensato dove i quanti impazziti si muovono come sulla pista di un autoscontro. Già, atterrare più in alto, la prima contraddizione: atterrare in alto perché lì sono le nostre radici, le radici della nostra fantasia e della nostra complessità. L’unica cosa che mai non sapremo è ciò che determina la scelta nel mare infinito della molteplicità. Anche il tempo è plurimo ed ogni presente si biforca in due o più futuri e così si forma una rete di tempi divergenti, convergenti e paralleli, non funziona così la vita? 

E, forse, Il castello dei destini incrociati ne è l’esempio più bello ed eclatante. I tarocchi sono un insieme di ipotesi possibili, interpretabili a piacimento e a seconda della connessione tra loro e che si siano incontrati prima o dopo.Vorremmo racchiudere il mondo in una mano ma ci sfugge e resta incompiuto, ma essere incompiuti è essere infiniti, si lascia spazio a nuove possibilità e nuovi inizi. Sono queste le grandi opere, quelle che sfuggono al self di chi scrive e diventano luoghi di identificazioni di mondi per tutti e fanno parlare ciò che non ha parola

Lu cuntu non metti tempu, mi piace questa espressione dialettale del Sud. Non smetteremmo mai di parlare e di raccontare. Quanto al tempo, che si passava nelle piazze, nelle agorà a discutere e a guardarsi negli occhi, ad accusarsi, a rimproverarsi o a scoprire unità di intenti, è agli sgoccioli: le piattaforme social hanno sostituito le piazze, stesse cose e forme diverse

Ascoltarsi, raccontare procedono come un incantesimo: contraggono e dilatano il tempo di chi ascolta e di chi legge. Conosciamo una  cosa e il suo contrario. E’ un insegnamento antico.

E così come la leggerezza ha bisogno della pesantezza, perché è ciò che deve tradurre, nel senso di trans, portare dall’altra parte e rendere leggero, così la rapidità deve conoscere l’indugio e l’attesa. E quale immagine più bella se non nel rappresentarla in una sorta di alleanza tra Vulcano e Mercurio? Il primo, rintanato nella sua fucina, fabbrica scudi, armi, gioielli e ornamenti per gli dei e le dee. Vulcano   contrappone al volo aereo di Mercurio il suo passo  claudicante e il battere cadenzato del suo martello. Entrambi sono complementari e inseparabili. Il lavoro dello scrittore ha bisogno di tempi diversi: della immediatezza di Mercurio e degli aggiustamenti pazienti di Vulcano che, nascosto agli occhi del mondo tra le gole degli anfratti della sua officina, rimugina la vita e il suo vissuto con melanconia saturnina senza la quale non ci sarebbe arte. 

Calvino ci ha regalato la consapevolezza della scrittura.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

In cammino tra le città invisibili, di Maurizia Maiano

“Le città invisibili“, pubblicato nel 1972, rappresenta un momento centrale nella produzione letteraria di Calvino, che ha abbandonato da tempo il neorealismo de “Il sentiero dei nidi di ragno” (1947), si è per aperto ad una dimensione fantastica già a partire dalla trilogia de I nostri antenati (Il visconte dimezzato è del 1952, Il barone rampante del ’57, Il cavaliere inesistente del ’59), ed entra definitivamente nel novero degli autori postmoderni. Il libro, che, com’è noto, è una raccolta di racconti e ha per protagonista Marco Polo che descrive a Kublai Khan, imperatore dei Tartari, alcune città del suo impero, consente all’autore di rinunciare ad una trama lineare, ad una narrativa tradizionale, per sostituirla con una raffinata serie di immagini poetiche e metaforiche.

Ogni città è un simbolo, uno stato dell’animo ed un’esperienza vissuta intensamente, un modo di essere, un peccato, una gioia, una conquista e una sconfitta, un amore corrisposto e una disillusione, un sogno e un’illusione, la pace e la guerra. “Invidia per chi è stato una volta felice, desideri che diventano ricordi“, è la città di Isidora; “strade deserte che si popolano di carovane, vie che portano al mercato ad incontrare gente che ti guarda dritta negli occhi” è Dorotea, la città e il desiderio; poi c’è Anastasia, “la città ingannatrice”, dove “si lavora sodo per otto ore al giorno e la fatica dà forma al desiderio e a sua volta prende forma da quella“; o Cloe “la più casta delle città, se gli uomini cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia di inseguimenti, di finzioni, di malintesi e la giostra delle fantasie si fermerebbe” e Armilla fatta di soli impianti idraulici, Leonia, dove si accumulano i rifiuti. Sono cinquantacinque le città descritte, immaginate come sogni, visioni, labirinti di simboli.

Il cammino raccoglie e contiene in sé le tre dimensioni del tempo: il presente, il passato e il futuro. Marco ha deciso di viaggiare e, alla domanda del Khan: “Viaggi per rivivere il tuo passato?” e che avrebbe anche potuto essere. “Viaggi per ritrovare il tuo futuro?”, risponde: “l’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.” 

Si può essere più bravi di così a raccontare il cammino dell’uomo? Ma chi è l’imperatore?Siamo noi nel momento della nostra vita che “segue all’orgoglio per l’ampiezza dei territori che abbiamo conquistato“, nel momento disperato “in cui si scopre che quest’impero, che era stato la somma di tutte le meraviglie, è uno sfacelo senza fine né forma e che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo e che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.”

Il destino a cui nessuna città sfugge è il nostro destino: ha la forma di uno scettro, ma non è altro che il testimone che aspettiamo con ansia per riprendere la corsa, diventando eredi della stessa rovina dei nostri predecessori. Continuità sempre uguale a se stessa dell’esistenza a cui nessuna interpretazione epistemologica, storica può sfuggire. Simboli, immagini concrete per rappresentare concetti astratti. Leggerezza ed esattezza della scrittura che traduce il significato in simbolo e diventa visibile.

Vanità e inconsistenza dell’esistenza: “tutto è inutile se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo, in una spirale sempre più stretta, che ci risucchia la corrente.”

A questa affermazione del Khan, Polo risponde: “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui e ci sono due modi per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo esige attenzione e apprendimento continui, cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.”

Un libro che avevo letto da ragazza, ma se non si hanno gli anni per leggere, dopo essere passati per la vita, non sarei mai riuscita a coglierne l’estrema bellezza ed inquietudine.

Maurizia Maiano*

*Maurizia Maiano: Sono nata nella seconda metà del secolo scorso e appartengo al Sud di questa bellissima Italia, ad una cittadina sul Golfo di Squillace, Catanzaro Lido. Ho frequentato una scuola cattolica e poi il Liceo Classico Galluppi che ha ospitato Luigi Settembrini, che aveva vinto la cattedra di eloquenza, fu poeta e scrittore, liberale e patriota. Ho studiato alla Sapienza di Roma Lingua e letteratura tedesca. Ho soggiornato per due anni in Austria dove abitavo tra Krems sul Danubio e Vienna, grazie a una borsa di studio del Ministero degli Esteri per lo svolgimento della mia tesi di laurea su Hermann Bahr e la fin de siècle a Vienna. Dopo la laurea ritorno in Calabria ed inizio ad insegnare nei licei linguistici, prima quello privato a Vibo Valentia e poi quelli statali. La Scuola è stato il mio luogo ideale, ho realizzato progetti Socrates, Comenius e partecipato ad Erasmus. Ho seguito nel 2023 il corso di Geopolitica della scuola di Limes diretta da Lucio Caracciolo. Leggo e, se mi sento ispirata e il libro mi parla, cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontarli.

Italo Calvino: “Il sentiero dei nidi di ragno”, di Sonia Di Furia

Non è questa la sede per delineare una storia del secondo dopoguerra (né lo spazio lo consentirebbe), mi limiterò pertanto a richiamare alcune linee essenziali del quadro politico, economico e sociale italiano, quelle che possono risultare indispensabili per comprendere i fenomeni culturali e letterari in cui si inserisce il libro preso in esame “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino e di cui si prende in considerazione l’edizione Mondadori.

Il referendum del 2 giugno 1946 proponeva ai cittadini italiani la scelta tra la monarchia e la repubblica: l’esito delle urne sancì per l’Italia, uscita da vent’anni di dittatura fascista e dall’esperienza traumatica della guerra, l’assetto repubblicano. La Costituzione, elaborata da un’assemblea costituente ed entrata in vigore nel 1948, delineava gli ordinamenti di una repubblica democratica di tipo parlamentare.  La legge elettorale con cui le camere erano elette era di tipo proporzionale, cioè ogni lista otteneva i seggi in proporzione ai voti ricevuti. La Costituzione nasceva dall’incontro delle forze politiche che avevano combattuto il fascismo durante la Resistenza e che avevano trovato espressione nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).

Il paese era uscito prostrato dalla guerra. I primi anni post bellici erano stati quindi segnati dal faticoso processo della ricostruzione: si trattava di ricostruire il tessuto urbano distrutto dai bombardamenti, ripristinare strade, ponti, ferrovie, riavviare la produzione industriale ed agricola, rimettere in piedi i servizi essenziali, l’amministrazione pubblica, gli ospedali, le scuole, il sistema finanziario e creditizio. Furono anni duri, di sacrifici e di miseria, soprattutto per i ceti più deboli, ma il paese, pur ferito profondamente dalla guerra, aveva ancora grandi risorse al suo interno, capacità di iniziativa e di lavoro. In quegli anni si verificò quindi un’accumulazione che fu la premessa di un vero e proprio decollo economico successivo.

In questo dopoguerra proseguono la loro attività le più importati case editrici nate fra le due guerre, alcune di grandi dimensioni e dall’organizzazione industriale, come Mondadori e Rizzoli, altre di dimensioni più artigianali, come Bompiani, Garzanti, Einaudi. Le case maggiori diventano dei veri e propri colossi dalla produzione estremamente differenziata, che va dalla narrativa italiana e straniera ai classici, alla saggistica, ai manuali, alla letteratura di massa, ai rotocalchi di informazione e popolari, ai quotidiani, ai fumetti. 

Il presentarsi di una serie di fattori, nel periodo che si sta esaminando, ha creato le premesse per un sensibile allargamento del pubblico rispetto al periodo fra le due guerre: la scolarizzazione di massa e l’alfabetizzazione quasi totale della popolazione; la maggiore disponibilità economica all’acquisto di libri da parte dei ceti medio-bassi, grazie al cresciuto tenore di vita; il maggior tempo libero, per la riduzione dell’orario di lavoro e la diffusone del fine settimana lungo; l’estendersi e la maggior penetrazione dei canali di promozione (basti pensare alla forza di persuasione della televisione).

Il clima dell’immediato dopoguerra, caratterizzato dall’entusiasmo per la riconquista delle libertà civili e della fiducia in un rinnovamento profondo del paese, si riflette sugli indirizzi letterari. Si diffonde un senso di insofferenza per la letteratura del ventennio precedente: gli aspetti che soprattutto vengono criticati e rifiutati sono la concezione elitaria e aristocratica della scrittura, il culto della pura forma, il soggettivismo e il lirismo evasivo, l’astrattezza metafisica, la chiusura del letterato nella torre d’avorio e la sua mancanza di contatto con la realtà sociale. Oggetto di tale critica sono essenzialmente il Decadentismo e l’Ermetismo. Ora invece si sente fortemente la responsabilità civile e sociale dell’intellettuale. Il compito che gli viene assegnato è proprio quello di prendere contatto con i problemi reali del paese (le devastazioni materiali e morali della guerra, la miseria, la durezza del lavoro, i conflitti di classe, le lotte operaie, gli scioperi, le occupazioni di terre da parte dei contadini), di raggiungere mediante il suo lavoro letterario una più precisa conoscenza di essi e di contribuire fattivamente alla loro soluzione. La letteratura da compiaciuta auto contemplazione, deve trasformarsi, secondo la nuova mentalità che diviene dominante, in uno strumento di lotta politica, in un mezzo per incidere direttamente sulla realtà per cambiarla. Ma, se si escludono alcune personalità maggiori come Vittorini, Pavese, Moravia, Calvino, Fenoglio, la letteratura neorealista, nonostante il fervore civile e le buone intenzioni che l’animavano, non ha lasciato risultati di grande valore. Oggi appaiono anzi evidenti i limiti che la inficiavano: la mitologia populista, cioè l’idealizzazione del popolo come forza sana e incontaminata. Come portatore di tutti i valori morali e sociali positivi; lo schematismo ideologico elementare, che tende a contrapporre rigidamente bene e male, buoni e cattivi, senza alcuna complessità problematica; la riproduzione mimetica della semplice superficie del reale, l’incapacità di penetrare a fondo nelle sue contraddizioni; il bozzettismo provinciale e dialettale; l’usare tecniche narrative antiquate (ad esempio il narratore eterodiegetico onnisciente, che guarda dall’alto la materia giudicandola e commentandola) non più adatte a rendere la percezione contemporanea del reale, ignorando così le più avanzate soluzioni novecentesche, ma anche la lezione stessa dei tanto ammirati americani come Hemingway, Faulkner, Dos Passos, che impiegavano spesso tecniche d’avanguardia.

Il romanzo d’esordio di Calvino “Il sentiero dei nidi di ragno” si colloca nell’ambito del Neorealismo, anche se poi l’autore prosegue in tutt’altre direzioni. Affrontando l’argomento della lotta partigiana, sulla base di un’esperienza vissuta in prima persona, lo scrittore trasferisce sulla pagina il clima di fervore degli anni post bellici, il bisogno di dare voce ad una vicenda collettiva che viene sentita come decisiva e che alimenta speranze in un cambiamento profondo della vita nazionale e della costruzione di un’Italia più civile e più giusta. Tuttavia Calvino non vuole offrire un quadro celebrativo ed agiografico della Resistenza, come egli stesso precisa in un’illuminante prefazione aggiunta al libro nel 1964: la banda partigiana che egli rappresenta è costituita dagli scarti di tutte le altre formazioni, da una serie di emarginati, di balordi, di “pìcari”. Con questo però, in polemica con i detrattori della Resistenza, egli intende dimostrare che anche chi si era impegnato nella lotta senza chiare motivazioni ideali sentiva <<un’elementare spinta di riscatto umano>> e si trasformava così in forza storica attiva. Si manifesta in tal modo quell’indipendenza intellettuale che contraddistingue poi sempre la posizione di Calvino, il suo rifiuto di sottostare ad una direzione politica della cultura, di ridurre la letteratura a celebrazione, a propaganda o a pedagogia, secondo normative imposte dall’esterno. 

Ciò che allontana Calvino dagli standard neorealistici è ancora il fatto che, pur rappresentando figure e ambienti proletari e sottoproletari, il suo libro non rivela alcun intento documentario di tipo naturalistico. Anzi, la vicenda della lotta partigiana è trasferita in un clima fantastico, di fiaba. L’effetto è ottenuto presentando tutti gli eventi attraverso il punto di vista di un bambino. Il protagonista, Pin, è un ragazzino cresciuto nei vicoli della città vecchia di Sanremo, precocemente smaliziato, ma che conserva l’ingenuità e lo stupore tipici dell’infanzia: ai suoi occhi il mondo adulto, i rapporti umani, la politica, la guerra appaiono estranei, incomprensibili, assumendo una fisionomia incantata e magica, di favola. Lo scrittore, nella prefazione del 1964, ha modo di precisare che nell’estraneità dello sguardo del bambino si metaforizza il suo stesso rapporto con la guerra partigiana, l’inferiorità da lui sentita <<come borghese>> rispetto a quel mondo. Nel Sentiero appaiono così in germe le due direzioni che Calvino seguirà nel suo percorso letterario degli anni successivi: il realismo e la dimensione fantastica. Proprio nel clima realistico, ancora una volta, si inserisce il tema della lotta partigiana nei racconti di “Ultimo viene il corvo”, sia pur scritto in chiave fiabesca.  La guerra partigiana vi conserva un posto importante, tuttavia rispetto al Sentiero la fiducia nella storia appare incrinata e affiorano inquietudini nuove: progressivamente si fa strada il timore che il sacrificio della lotta sia stato inutile e la vittoria possa essere vanificata.

Fin dall’inizio del romanzo è riconoscibile una situazione tipica della fiaba, il bambino solo e smarrito nella notte, in un luogo deserto. Fiabesco è anche il motivo dei noccioli di ciliegia lasciati da Pin come traccia per l’amico Lupo Rosso (ricorda Pollicino). La pistola nascosta dovrebbe rappresentare il mondo degli adulti, la guerra, ma nell’ottica del bambino diviene nient’altro che un giocattolo, o meglio l’oggetto magico delle fiabe: maneggiandola, Pin si immerge in avventurose fantasie, in cui assume il senso di onnipotenza tipico dell’infanzia. Fiabesco è ancora l’incontro con lo sconosciuto, proprio nel momento di massimo sconforto: il partigiano è il gigante buono, che nella fiaba è la proiezione della figura paterna, protettiva e rassicurante (funzione che si compendia nel particolare della mano <<grandissima, calda e soffice>>, che <<sembra fatta di pane>>. Nella banda partigiana Pin, sia pure a fatica, troverà la solidarietà umana e il calore che possono salvarlo dalla durezza della storia. Questo clima favoloso è ottenuto dallo scrittore attraverso la focalizzazione interna a Pin, filtrando tutto il racconto attraverso il suo sguardo infantile. 

Proseguendo nella lettura, emerge come Calvino, nel raffigurare la lotta partigiana, voglia evitare la retorica celebrativa; c’è l’accozzaglia di emarginati e di sbandati, che non ha ben chiaro il motivo per cui combatte. Ma lo scrittore vuol dimostrare che ciò che non sminuisce il valore della loro lotta è che in essi c’è un’oscura, elementare esigenza di riscatto umano, che li trasforma in forze storiche positive. La Resistenza è poi ulteriormente straniata perché è vista attraverso una prospettiva del tutto estranea, dal basso, quella del bambino che vive come in un racconto avventuroso, a cui il mondo adulto appare lontano e incomprensibile.

Nel corso degli anni Cinquanta si manifestano già i segni dell’esaurimento del Neorealismo. All’inevitabile logoramento interno delle forme letterarie si aggiungono fattori esterni: la fine degli entusiasmi e delle speranze di rinnovamento civile propri dell’immediato dopoguerra, a causa della restaurazione conservatrice in atto; la crisi delle sinistre, determinata dalla destalinizzazione dell’Unione Sovietica e dell’invasione dell’Ungheria; il proporsi, con lo sviluppo industriale in Italia, di problemi che esigono nuovi strumenti conoscitivi ed espressivi. Appare nel 1959 <<Il Menabò>>, fondata a Torino da Elio Vittorini e lo stesso Calvino, alla cui base vi è l’intento di aprire gli orizzonti culturali, ma soprattutto di cercare gli strumenti per orientarsi nel <<labirinto>> della nuova realtà industriale avanzata, come precisa il fondamentale intervento di Calvino nel 1962 “La sfida del labirinto”.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Italo Calvino: “Il castello dei destini incrociati”, di Sonia Di Furia

In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti. Passai per un ponte levatoio sconnesso, smontai di sella in una corte buia, stallieri silenziosi presero in consegna il mio cavallo. Salii una scalinata; mi trovai in una sala alta e spaziosa: molte persone- certamente anch’essi ospiti di passaggio, che mi avevano preceduto per le vie della foresta- sedevano a cena attorno a un desco illuminato da candelieri”.

Inizia così il racconto di Calvino, edito da Mondadori nella collana Oscar, con la presentazione dell’autore stesso e la postfazione di Giorgio Manganelli.

Il volume è composto di due testi: Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati. Nel primo le figurine che accompagnano il racconto riproducono il mazzo di tarocchi miniati da Bonifacio Bembo per i duchi di Milano verso la metà del XV secolo, che ora si trovano parte all’Accademia Carrara di Bergamo, parte alla Morgan Library di New York. Alcune carte del mazzo Bembo sono andate perdute, tra cui due molto importanti: Il Diavolo e La Torre.

Il secondo testo è costruito con lo stesso metodo mediante il mazzo dei tarocchi oggi internazionalmente più diffuso: L’Ancien Tarot de Marseille della casa B. P. Grimaud, che riproduce un mazzo stampato nel 1761 dall’incisore Nicolas Conver, maître cartier a Marsiglia e che, sbiadito e alterato dal tempo, è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Il mazzo marsigliese non è molto diverso dai tarocchi ancora in uso in gran parte d’Italia come carte da gioco; ma mentre in ogni carta dei mazzi italiani la figura è tagliata per metà e si ripete capovolta, qui ogni figura conserva la sua compiutezza di quadretto insieme rozzo e misterioso che la rende particolarmente adatta all’operazione di raccontare attraverso figure variamente interpretabili.

L’idea di adoperare i tarocchi come una macchina narrativa combinatoria venne a Calvino da Paolo Fabbri che, in un seminario internazionale sulle strutture del racconto del luglio 1968 a Urbino, tenne una relazione su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi. Di quell’apporto metodologico di ricerca, l’autore ha inteso prendere l’idea per cui il significato di ogni singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono; partendo da questa idea, si è mosso in maniera autonoma, secondo le esigenze interne del suo testo.

Il riferimento letterario naturale è l’Orlando furioso; anche se le miniature di Bonifacio Bembo precedevano di quasi un secolo il poema di Ludovico Ariosto, esse potevano ben rappresentare il mondo visuale nel quale la fantasia ariostesca s’era formata.

Ogni carta è uno stemma e di carta in carta i narratori confessano le loro vicende tra incaute avventure e frettolosi amori. A uno a uno i taciturni ospiti seduti al tavolo diventano i protagonisti dei racconti e il lettore ne scopre vite e drammi, gioie e angosce infinite, in un gioco narrativo che coinvolge e sconvolge. A un certo punto nelle intenzioni dell’autore questo volume avrebbe dovuto contenere non due ma tre testi. Calvino avrebbe dovuto cercare un terzo mazzo di tarocchi abbastanza diverso dagli altri due. Ma quale avrebbe potuto essere l’equivalente contemporaneo dei tarocchi come rappresentazione dell’inconscio collettivo? Pensò ai fumetti, non a quelli comici, ma a quelli drammatici, avventurosi, paurosi: gangsters, donne terrorizzate, astronavi, vamp, guerra aerea, scienziati pazzi. Pensò di affiancare al Castello e alla Taverna, Il motel dei destini incrociati. Non andò oltre la formulazione dell’idea. Il suo interesse teorico ed espressivo per quel tipo di esperimento si era esaurito. Era tempo di passare ad altro.

Nel raccontare le storie altrui, quella dell’alchimista, della sposa dannata, del ladro di sepolcri, dell’Orlando pazzo per amore di Angelica, di Astolfo che sale sulla luna per recuperare il senno dell’amico racchiuso in un’ampolla (insieme a lacrime e sospiri d’amore, ozio, tempo perso nel gioco, desideri irrealizzati, doni fatti con speranza di ricompensa, tranne la pazzia, quella sta tutta sulla Terra), Calvino racconta la sua storia e la sua personale concezione della vita. Dissemina di qua e di là pensieri, riflessioni, opinioni, come quando scrive che: “Due diverse vie s’aprono a chi ha ancora da trovare se stesso: la via della passioni, che è sempre una via di fatto, aggressiva, a tagli netti, e la via della sapienza, che richiede di pensarci su e imparare a poco a poco“; oppure: “Il buffone ogni volta che apre la bocca, tra uno sberleffo e un lezzo, semina sospetti, dicerie denigratorie, angosce, allarmi“; o ancora riflette sul tempo che passa: “Per sentieri d’inchiostro s’allontana al galoppo lo slancio guerriero della giovinezza, l’ansia esistenziale, l’energia dell’avventura spesi in una carneficina di cancellature e fogli appallottolati“. E forse tutti ci riconosciamo in questo teatro della vita a cui Calvino ha tentato di dare ordine.

Sonia Di Furia

Sonia Di Furia: laureata in lettere ad indirizzo dei beni culturali, docente di ruolo di Lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria di secondo grado. Scrittrice di gialli e favolista. Sposata con due figli.

Fotografare fotografie. Italo Calvino e la nevrosi dell’uomo fotografico, di Dino Montanino

Il protagonista del racconto L’avventura di un fotografo, scritto da Italo Calvino nel 1955 e poi inserito nel volume Gli amori difficili del 1958, è Antonino Paraggi, un impiegato che esplica “mansioni esecutive nei servizi distributivi d’un’impresa produttiva”. A ridosso dei trent’anni, Antonino avverte un forte senso di isolamento perché tutti i suoi amici, uno dopo l’altro, si sono sposati e hanno cominciato a fare figli mentre lui è ancora scapolo e non sembra intenzionato a trovare una moglie. Ma c’è dell’altro. Gli amici sposati, come molti a quel tempo, sono stati contagiati da un morbo inguaribile: la sindrome della fotografia. Fanno parte di un vero e proprio esercito di dilettanti dell’obiettivo che condividono la passione fotografica, si scambiano opinioni sulle foto realizzate e non perdono occasione di vantarsi dei progressi raggiunti da attribuire soprattutto alle loro abilità tecniche e artistiche o, in qualche caso, alla bontà dell’apparecchio che hanno acquistato. Dopo aver fotografato tutto quello che c’è da fotografare, attendono con ansia di vedere le loro foto sviluppate e solo quando le hanno davanti prendono possesso della realtà fotografata e, ai loro occhi, le immagini catturate acquistano “l’irrevocabilità di ciò che è stato e non può più essere messo in dubbio. Il resto anneghi pure nell’ombra insicura del ricordo”. 

Antonino Paraggi ha la vocazione del filosofo. Vuole capire, sdipanare “il filo delle ragioni generali dai garbugli particolari” e si interroga continuamente sull’essenza dell’uomo fotografico. Molto presto si convince che l’ossessione per la fotografia è un “fisiologico effetto secondario della paternità”. Come già detto, i suoi amici sono genitori novelli e uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un figlio, è quello di fotografarlo. Ma c’è un problema: i bambini crescono in fretta e, di conseguenza, bisogna fotografarli continuamente, non ci si può fermare perché “nulla è più labile e irricordabile d’un infante di sei mesi, presto cancellato e sostituito da quello di otto mesi e poi d’un anno” e poi…  Seguire la crescita dei propri figli continuando a scattare fotografie diventa, per i genitori, un’ossessione pericolosa che, sostiene Antonino, li porterà inevitabilmente e inesorabilmente, alla follia. Riflessioni profetiche quelle di Paraggi: il “filosofo”, mentre si diverte con le sue elucubrazioni, non può immaginare che, come vedremo presto, chi corre il pericolo maggiore è proprio lui, lo scapolo”.

Nonostante le sue perplessità sui suoi amici fotografi, Antonino continua a frequentarli e partecipa alle gite fuori porta che vengono organizzate nei fine settimana. È un modo per vincere il senso di isolamento che lo pervade ma anche per continuare a esercitare il ruolo di osservatore critico che il protagonista del racconto si è attribuito. Nel corso di quelle escursioni, come possiamo facilmente immaginare, si scattano fotografie. Vengono immortalati i paesaggi naturali, montani o marini, ma, presto o tardi, arriva il momento della foto di gruppo, familiare o interfamiliare che sia. Chi viene chiamato a scattare queste foto? Antonino Paraggi, naturalmente, che, suo malgrado, si trova a svolgere il ruolo di fotografo. Come è facile immaginare, uno come Antonino non può essere un fotografo come tutti gli altri. Quando si trova tra le mani l’apparecchio fotografico, quasi istintivamente, invece di eseguire il compito assegnato, punta l’obiettivo per “catturare alberature d’imbarcazioni o guglie di campanili, o decapitare nonni e zii”. Gli amici, infastiditi, lo accusano di farlo apposta, di volere essere a tutti i costi originale. Ma non è così. Antonino si difende dalle accuse che gli vengono rivolte dicendo che lui vuole soltanto “servirsi della sua momentanea posizione di privilegio per ammonire fotografi e fotografati sul significato dei loro atti” perché, da quando ha cominciato a utilizzare la macchina fotografica, le sue acute riflessioni si arricchiscono di nuovi elementi e di nuove domande. Decidiamo di fotografare qualcosa perché ci sembra bello o la realtà ci appare bella perché è stata fotografata? E, rivolto ai suoi amici sempre più perplessi, afferma: “Basta che cominciate a dire di qualcosa: «Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!» e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografatile ogni momento della propria via. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia”. Anche quando gli amici non lo ascoltano più e lo considerano solo un rompiscatole, Antonino non demorde e continua con i suoi sermoni. Arriva a sostenere che chi decide di fotografare non può e non deve esercitare nessuna scelta. Dice che se lui si mettesse a fare fotografie, catturerebbe tutto, ogni attimo del soggetto fotografato, che il vero fotografo è colui che scatta almeno una foto al minuto. In caso contrario si cade inevitabilmente nella mediocrità perché la vera arte fotografica non può escludere i contrasti drammatici. Se si sceglie l’idillio, la consolazione, l’assenza di drammaticità, come fanno la maggior parte dei fotografi dilettanti, si evita la follia ma si piomba nell’ebetudine.

Nonostante la sua ostilità nei confronti della fotografia, Antonino Paraggi ha acquisito una certa dimestichezza con mirini ed esposimetri e, nel corso di una gita al mare, Bice e Lydia, due ragazze aggregate alla comitiva, gli chiedono di scattare delle istantanee che le ritraggano mentre giocano a palla sulla riva del mare. Accetta di fare le foto ma non può rinunciare alla sua vocazione di filosofo. Spiega alle ragazze la sua teoria sulle istantanee affermando che la foto spontanea, contrariamente a quello che tutti pensano, allontana il presente e assume subito un carattere nostalgico, “di gioia fuggita sull’ala del tempo”. Quando le foto verranno sviluppate, le ragazze restano colpite dal risultato. Antonino Paraggi, che gli piaccia o no, è diventato un bravo fotografo e, quando Bice gli chiede se ha voglia di scattare altre foto per loro due, accetta a una condizione: non devono essere istantanee ma foto in posa, come si facevano una volta quando le fotografie ufficiali, matrimoniali, scolastiche davano “il senso di quanto ogni ruolo o istituzione aveva in sé di serio e d’importante ma anche di falso e di forzato, d’autoritario, di gerarchico”. Insomma, secondo Antonino, ogni fotografia deve rendere espliciti i rapporti sociali invece di rimuoverli come avviene molto spesso nella pratica fotografica comune. Il “filosofo” scettico e critico sulla fotografia, accettando la sollecitazione di Bice, ha preso una decisione importante: la sua polemica antifotografica può “essere condotta solo dall’interno della scatola nera, contrapponendo fotografia a fotografia”. In Antonino è avvenuto un cambiamento irreversibile di cui egli stesso non è consapevole fino in fondo. Per adesso ha una sola certezza: per scattare foto in posa alla vecchia maniera, le uniche che lo interessano, è necessario dotarsi degli strumenti adeguati. Dopo lunghe ricerche tra i rigattieri della città, accompagnato da Bice e Lydia sempre più incuriosite, riesce a procurarsi una vecchia macchina a cassetta con scatto a pera completa di lastre. In una stanza del suo appartamento allestisce il suo laboratorio fotografico e invita le due ragazze a posare per lui, per fare delle foto coerenti con la sua “filosofia”. Lydia è diffidente e declina l’invito. Bice, al contrario, aderisce con entusiasmo. Si presenta il giorno dopo a casa di Antonino e diventa la sua modella. Con una docilità inattesa, si presta a tutte le richieste del fotografo che, dopo i primi scatti, non è convinto. Prima ancora di sviluppare le lastre sente che non potrà essere soddisfatto del risultato e presto capisce il motivo della sua frustrazione. “C’erano molte fotografie di Bice possibili e molte Bice impossibili a fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre”. La invita ad assumere le pose più st, la obbliga a travestirsi, a indossare i costumi più strani ma, nonostante Bice assecondi gli ordini di Antonino, lui continua a ripetere: “Non ti prendo, non riesco a prenderti”. L’atteggiamento autoritario del fotografo filosofo, gli ordini perentori che impartisce alla ragazza, mi fanno pensare quello che Susan Sontag, molti anni dopo la scrittura del racconto di Calvino, dirà a proposito del carattere predatorio dell’atto fotografico. “Fotografare significa appropiarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere. […] L’atto di fare fotografia ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere: equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto” (Susan Sontag, Sulla fotografia). Antonino Paraggi vuole “prendere” Bice, desidera possederla attraverso l’apparecchio fotografico. Il suo desiderio di possesso è un’evidente sublimazione del desiderio sessuale. Riesce a possedere la ragazza solo attraverso il filtro della macchina evidenziando, con il suo comportamento pateticamente autoritario, il carattere patologico della relazione instaurata con la donna. Riuscirà a farla sua, a prenderla solo quando lei, stanca di travestirsi e di eseguire gli ordini di Antonino, si mostrerà nuda davanti all’obiettivo. “Ecco, ora sì, così va bene, ecco, ancora, così ti prendo bene, ancora” dice lui. Poi, finalmente pago, esce dal drappo nero che guarnisce il vecchio apparecchio e, quando si trova Bice senza abiti che aspetta, le ordina di rivestirsi. Lei è delusa e piange. Lui è euforico, ha fatto l’amore con lei fermando la sua immagine dopo aver schiacciato la piccola pera che apre l’otturatore e non ha nessun bisogno che il suo corpo si unisca a quello della ragazza. La macchina fotografica gli permette di vincere la paura che prova per il sesso, di amare Bice rimuovendo definitivamente il timore del contatto fisico. Scopre di essere innamorato di lei e, ora che “l’ha presa” una volta, il suo amore non può avere limiti. Il suo diventa un desiderio sfrenato, incontrollabile, deve “prenderla” a ogni ora del giorno e con il vecchio apparecchio fotografico non è possibile. Compra macchine più moderne, dispositivi per poterla fotografare anche di notte mentre dorme. Lei lo ama e si ostina a scambiare come atti d’amore le violenze fotografiche di Antonino. Nel suo laboratorio “pavesato di pellicole e provini Bice s’affacciava da tutti i fotogrammi, in tutti gli atteggiamenti gli scorci le fogge, messa in posa o colta a sua insaputa”. Antonino ha messo in discussione la sua teoria secondo la quale solo le foto in posa hanno un senso. È ritornato all’idea che solo fotografando ogni attimo della vita di Bice, solo esaurendo tutte le immagini possibili di lei, sarà possibile possederla completamente. E allora la segue di nascosto, la fotografa per strada, vuole “prenderla” quando lei non sa che c’è lui a fotografarla. Vuole immortalare l’inconsapevolezza di essere fotografata.

Quando Bice, esasperata da questa passione ossessiva, lo lascia, Antonino cade in una crisi depressiva. Ma non smette di fare fotografie. “Con la macchina appesa al collo, chiuso in casa, sprofondato in una poltrona, scattava compulsivamente con lo sguardo nel vuoto. Fotografava l’assenza di Bice: […] portaceneri pieni di mozziconi, un letto sfatto, una macchia d’umidità sul muro”. Decide di comporre un catalogo di tutto ciò che, normalmente, è refrattario alla fotografia. Poi osserva i giornali vecchi disseminati sul pavimento del suo appartamento che ormai è in uno stato di abbandono. Si mette a fotografare anche quelli e osserva le immagini di “cariche della polizia, auto carbonizzate, atleti in corsa, ministri, imputati”. Prova invidia per i fotoreporter impegnati a seguire quello che accade nel mondo e si chiede se sia il fotoreporter il vero antagonista del fotografo domenicale. Prigioniero della sua ossessione, comincia fare a pezzi tutte le foto presenti nella sua casa, con Bice o senza Bice, “a tagliuzzare la celluloide delle negative, a sfondare le diapositive”. Ammassa tutti i frammenti ricavati sui giornali stesi a terra. “La vera fotografia totale è un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni”. Questo è quello che pensa. Piega i lembi dei giornali e crea un enorme involto da buttare nella pattumiera. Ma, prima di farlo, decide di fotografarlo. Lascia il pacco un po’ aperto in modo che nella foto che avrebbe scattato sarebbero state riconoscibili “le immagini mezzo appallottolate e stracciate e nello stesso tempo si sentisse la loro irrealtà d’ombre di inchiostro casuali”. Mentre prepara il riflettore capisce che “fotografare fotografie” è l’unica via che gli resta, “la vera via che lui aveva oscuramente cercato fino allora”. Non c’è più antagonismo tra fotografo dilettante e fotografo professionista, tra la quotidianità delle foto di Bice e l’eccezionalità dei grandi eventi politici, tra ciò che è fotografabile e le immagini dell’assenza. Il fotografo dilettante e quello professionista producono entrambi materiali destinati a fondersi in un patchwork pronto a finire nell’immondizia. 

Quando le immagini catturate dall’occhio fotografico si moltiplicano a dismisura, invadono la nostra esistenza, si mescolano e si sovrappongono come succede a ognuno di noi nella nostra vita quotidiana, ricordiamoci di Antonino Paraggi e della sua nevrosi paranoica perché, anche noi che viviamo nell’era della foto digitale, quando non avremo più nulla da fotografare, potremmo ridurci a “fotografare fotografie”. 

Dino Montanino

Dino Montanino, laureato in Lettere moderne presso l’università Federico II di Napoli, ha insegnato Italiano e Latino nei licei. È stato formatore in corsi di aggiornamento per docenti. Si occupa di teatro della scuola e ha condotto laboratori teatrali in qualità di esperto esterno presso molti istituti scolastici. È tra i fondatori dell’associazione culturale “Le macchine desideranti” nata con l’intento di diffondere la cultura teatrale e letteraria tra i giovani curando la drammaturgia di tredici spettacoli. Conduce laboratori di scrittura creativa e incontri letterari tematici presso associazioni culturali.