La deriva letteraria di Milan Kundera e Bohumil Hrabal, di Antonio Corvino

Perché Milan Kundera se ne andò da Praga?
E perché Bohumil Hrabal invece restò?

Quale fu il discrimine, l’elemento scatenante?
E qual è il rapporto di Praga e dei Praghesi con Kundera e con Hrabal oggi?
Indifferenza? Amore? Rancore? Rabbia?
E la letteratura, la poesia di Kundera e di Hrabal dove nascevano e dove si
alimentavano?
Ho girato in lungo ed in largo Praga nel mio ultimo soggiorno. Sono andato in cerca dei
luoghi di Kundera e dei luoghi di Hrabal.
Cercavo la magia, questa volta la magia della poesia, della letteratura e con essa anche
qualche risposta a tutti quei quesiti.
E vi era ancora, latente dentro di me, un altro quesito che finalmente lasciai salire in
superficie: perché tutto questo mio interesse per le storie contrapposte dei due scrittori?
Non potevo fermarmi alla loro poetica? Al confronto dei loro paradigmi letterari e poetici?
O meglio ancora non potevo accontentarmi di leggere le loro opere e gustarle fino in fondo
come si fa quando ti trovi davanti ad un’opera d’arte? Goderla per il suo contenuto
estetico, emozionale e amen?

Il murales di Hrabal


Il fatto é che Praga dissemina la sua magia ovunque: nell’aria che respiri, nelle guglie
delle sue chiese, nelle Sinagoghe, nei vicoli di Staré Mesto, la vecchia città, quella raccolta
tra il Ponte Carlo e la piazza dell’Orologio, in Mala Strana, la piccola città con il Castello e
la Cattedrale, il vicolo degli alchimisti, nel muro dipinto dell’isola di Campa (Lennon Wall) e nella vena creativa dei suoi poeti e scrittori. Mi son fatto l’idea che questi ultimi traggano da quella
magia la loro forza, la loro immaginazione.
Perché alla fine il mistero che ti avvolge a Praga e che respiri a pieni polmoni è la magia
della dimensione primordiale dell’Umanità, i suoi valori ancestrali. Niente altro.
Certo ogni poeta, ogni scrittore possiede una cifra letteraria, creativa, immaginifica che lo
differenzia da tutti gli altri ma qui a Praga ciascuno alimenta quella cifra direttamente nella
magia che rende unica questa città. E se te ne allontani quella magia la perdi e diventi
qualcun altro.
É quello che successe a Milan Kundera allorché se ne andò o fuggì da Praga.
Cessò di essere un poeta ed uno scrittore legato alla magia, alla dimensione primordiale
ed ancestrale di questa terra. Cessò di essere un poeta e scrittore praghese.
Semplicemente.
Bohumil Hrabal si rifiutò di andarsene o di fuggire e restò immerso sino alla fine in quella
magia.
Perché tu puoi essere diverso da chiunque altro ma la magia in cui ti muovi é la stessa per
tutti.
Tereze, la protagonista de “L’insostenibile leggerezza dell’essere” a cui Milan Kundera
affidò i sentimenti per la sua ormai ex città, la sente ancora, prepotentemente, la magia di
Praga. Ella si sarebbe voltata una , due, dieci, cento volte a guardare Praga mentre si
allontanava salendo lungo i viottoli della collina di Pettrin.
La città le si mostrava, la chiamava, la inondava di tristezza e di nostalgia, avrebbe voluto
trattenerla, ma sapeva che lei non si sarebbe fermata nonostante la guardasse e la
invocasse come la più bella di tutte le città del mondo.
Quel Romanzo scritto nel 1984 a nove anni dalla partenza o fuga da Praga è ancora
intriso di bellezza primordiale, di emozioni e sentimenti che scavano nei valori ancestrali
più profondi. Gli stessi che aleggiano, seppur violati, traditi e oscurati dal regime che nega
persino, anzi prima di tutto, la libertà individuale, ne “ Lo scherzo” il primo romanzo
praghese di Kundera del 1967 per nulla apprezzato dall’onnipresente regime.
Poi via via la scrittura di Kundera si stacca dalla dimensione primordiale che dà vita alla
magia della più bella città del mondo e diventa altra cosa. Diventa pensiero raffinato,
diventa ricerca intima e razionale del proprio essere e divenire sino a sfociare nel pensiero
disincantato seppure pervaso di quella stessa tristezza e malinconia di Tereze sulla collina
di Pettrin.

Molte scelte, potendo disporre del sapere necessario o magari delle conoscenze,
sensibilità acquisite strada facendo, forse non le avremmo fatte, comunque sarebbero
state diverse, sembra confessare Kundera nel suo ultimo scritto francese “La festa
dell’insignificanza
”.
Ma è qui che si erge, in tutta la sua forza, la scelta di Bohumil Hrabal.
Perché Hrabal non fuggì, non scappò e preferì tenersi stretta la magia della sua terra, una
magia che a sua volta si alimentava della volontà della gente letteralmente decisa a
vivere nonostante tutto.
Certo Il panorama urbano che poteva osservare Bohumil era diverso rispetto a quello in
cui era immerso Milan.
Il quartiere Liben in cui abitava Hrabal era un quartiere popolare dove giravano operai e
contadini, uomini e donne alle prese con una quotidianità dura. Le case erano povere
case, le piazze erano spiazzi invasi da erbacce, le trattorie erano poca cosa e a pranzo la
gente andava in una specie di grande mensa allestita dal regime da cui si portava via
qualcosa da mangiare frettolosamente. Il quartiere era in piano e nessuna guglia
disegnava l’orizzonte e nemmeno il Castello vi compariva. Solo case basse e le ciminiere
di qualche birrificio, i depositi dei rifiuti da mandare al macero compresi i libri non graditi al
regime. E ovunque, in ogni istante, la necessità di strappare la vita lavorando in una
fabbrica o un’altra, su un cantiere o un altro, cercando di coltivare alla meglio un pezzo di
terra, qualche patata, qualche ciliegio o pero o melo. Praga non passava di meglio a
Bohumil Hrabal quanto a condizioni di benessere materiale, ma gli consentiva di vivere in
una dimensione comunitaria piena e totale fatta di solidarietà e compassione, di amicizia e
sentimenti dove l’amore, quando scoppiava, era amore vero e durava una vita intera come
il suo amore per la moglie Pipsi. E non è che Bohumil non se ne rendesse conto. Certo la
fatica al termine della giornata lo sfiancava, come tutti. Certo trovava nelle birrerie il
conforto a giornate piene di fatica. Ma egli si muoveva consapevole della sua condizione
e di quella di tutta la gente che viveva lì. E sapeva che in quella gente vi era la fonte della
sua poesia e della sua magica creatività ironica e sarcastica, malinconica e pugnace.
E scelse di non andarsene.
Perché egli sapeva di potersi e doversi specchiare in quella gente così come quella gente
si specchiava in lui.
Era un intellettuale Hrabal, aveva fatto l’università, la facoltà di giurisprudenza.
Non era nato da una famiglia borghese o aristocratica né tanto meno la sua famiglia si era
riciclata nei quadri della nomenclatura del partito comunista.
Era nato per caso, frutto dei tentativi di una madre che provava a raddrizzare la vita che
andava per conto suo, ossia male.
E aveva fatto un sacco di lavori, e tutti manuali, per raddrizzare anche la sua vita, ma
sempre guardandola dritto negli occhi che poi erano gli occhi di quanti gli vivevano intorno
e che dovevano andare avanti nel bene e nel male, lavorando, in un contesto difficile
come poteva essere difficile il dopo guerra che aveva segnato la fine dell’impero
austroungarico in quella che allora era la Cecoslovacchia e che egli brillantemente
descrisse con sarcasmo ed ironia impareggiabili nel romanzo “Ho Servito il Re
d’Inghilterra” da lui ambientato nello straordinario, elegante nelle sue fioriture liberty, ed
esclusivo Hotel de Pariz, sempre a ridosso di Staré Mesto e dove chiunque può, come ho
fatto io con la mia amica praghese Eva, estimatrice ella pure di Hrabal, andare, ancora
oggi, a fare colazione o prendere un aperitivo o pranzare a prezzi assolutamente normali.

L’Hotel de Paris a Praga

Poi era seguita l’occupazione nazista e la guerra e l’avvento del regime sovietico che per
un ventennio, dal 1948 al 1968 avrebbe stretto in una morsa di silenzio il Paese intero
concedendo privilegi a pochi e miseria intrisa di violenza a tutti gli altri. E lui decise di
rimanere dove gli altri erano costretti a stare. Anche dopo la drammatica fine della
primavera praghese del 1968 che riportò nuovamente il paese sotto il calcagno della
dittatura sovietica.

Avrebbe potuto andar via.
Certo che avrebbe potuto.
Hrabal era uno scrittore noto in patria ed all’estero.
Dal suo romanzo “Treni strettamente sorvegliati” era stato tratto un film con sceneggiatura
da lui firmata che aveva vinto l’oscar come miglior film straniero, appena qualche anno
prima, nel 1966.
In seguito capi di stato esteri, con il poeta e drammaturgo praghese Václav Havel,
presidente della Cecoslovacchia finalmente libera, e Bill Clinton presidente degli Stati
Uniti in visita a Praga lo vollero incontrare e si recarono addirittura a trovarlo nella birreria
da lui frequentata, da “U Zlatého tygra” (La Tigre d’oro).

“U Zlatého tygra” (La Tigre d’oro)

Egli era il riflesso dell’anima praghese, l’interprete della sua magia. Colui che salvava il
sapere dei libri mandati al macero dal regime e che perpetuava la dimensione primordiale
ed i valori ancestrali dell’umanità violati dalla dittatura comunista praghese teleguidata dal
Cremlino. Colui che salvava la magia di Praga e la custodiva per i tempi a venire.
A Praga tutti amano Hrabal.
Lo sentono come l’espressione del loro stesso essere.
Sono andato in giro, con la mia amica praghese Eva, per il suo quartiere, il quartiere
periferico n.8.
Della sua casa al n. 24 della via Liben é stata salvata la facciata insieme a quella di altre
casette vicine, tutte trasformate in un murale di oltre duecento metri a lui dedicato, prima
di far posto alla metropolitana.
Bohumil vi appare insieme ai suoi gatti, alla sua macchina da scrivere, con il suo viso da
adolescente caparbio ed anche un po’ ingenuo, con il viso che gli ride mentre gli occhi
scrutano tutto ciò che esiste intorno a lui.
Brani dei suoi romanzi sono riportati nelle intercapedini dei muri.
Tutto intorno non c’è più nulla, solo una enorme ed anonima piazza, ma lo spirito di
Bohumil vi aleggia integro. E lo si incontra nel Teatro Pod Palmovkou e nelle trattorie del
quartiere che spesso prendono il suo nome.
Nel vecchio mulino sulle sponde del vicino canale che confluisce nella Moldava,
trasformato di recente in centro culturale, ho visitato una mostra a lui dedicata. Un gruppo
di artisti ungheresi l’ha organizzata per lui, a Praga, nel suo quartiere a due passi dalla sua
vecchia casa.
Lo stesso amore non lo trovi per altri scrittori. Almeno a me non è capitato di intercettarlo.
Il centenario della nascita di Kafka è passato invano a Praga.
La casa natale di Kafka in Staré Mesto fu demolita per far posto ad un nuovo palazzo.
All’angolo di esso un piccolo busto ricorda il grande scrittore mentre una scultura sotto
forma di spirale attorcigliata su stessa ne ricorda l’opera sulla vicina piazza. Scriveva in
tedesco Kafka e questo lo ha escluso dalla magia praghese. Celebrato nel mondo qui é
pressoché ignorato.
È la stessa sorte toccata a Mikan Kundera.
Anch’egli, una volta partito, smise di scrivere in ceco e prese a scrivere in francese. Oggi
viene addirittura considerato uno scrittore francese.
Della magia praghese é rimasta la nostalgia ed il rimpianto forse nascosti dentro alla sua
ultima opera “La festa dell’Insignificanza”.
Kundera partì da Praga nel 1975. Sette anni dopo la fine della primavera praghese
stroncata violentemente dai carri armati sovietici.
Milan era un privilegiato, viveva nella Nuova Città, quella attaccata a Staré Mesto ed a
Mala Strana con l’isola di Campa a due passi e la collina di Pettrin a far da sfondo. Il
teatro dell’opera e la facoltà di lettere e cinema da lui frequentata in gioventù erano da
quelle parti, lungo la Moldava. Anche l’elegante caffè Slavia era sulla stessa strada. Mi ci
sono recato, con Marisa, la mia amica italiana trapiantata a Praga, grande estimatrice di
Kundera. È grande il caffè Slavia. L’arredamento retrò ti rimanda piacevolmente indietro nel tempo. Il personale è gentile, i prodotti di qualità. Qui ci venivano gli intellettuali,
durante il regime comunista. Era una specie di zona franca, sempre che qualcuno non
raccontasse alla polizia politica cosa si diceva lì dentro.
Alle pareti le foto di scrittori, musicisti, poeti, intellettuali.
È antico il caffè Slavia ed elegante. Di fronte il teatro dell’opera frequentato dalla famiglia
Kundera.
Ci andava anche Kafka in quel caffè e pure Bohumil, ogni tanto, che ci incontrava i suoi
colleghi compreso Milan.
Il regime comunista era stato lieve per la famiglia Kundera. Il padre era direttore del
Conservatorio musicale e, si sa, l’appartenenza alla nomenclatura riservava privilegi tra i
soviet ma imponeva anche obbedienza e totale allineamento.
Come Bohumil ed altri intellettuali, sarebbe potuto restare e vivere la vita di quanti erano
rimasti. Certo il prezzo che il regime gli avrebbe imposto sarebbe stato caro. Magari
avrebbe comportato anche l’impegno alla delazione per denunciare gli intellettuali ribelli.
Scelse di andarsene a Parigi.
E probabilmente il suo capolavoro “l’insostenibile leggerezza dell’essere” fu l’ultimo riflesso
della magia di Praga che, allungatasi sino a lui attraverso la tristezza di Terese, è forse
sopravvissuta in fondo al suo animo per scomparire allorquando egli tagliò definitivamente
il cordone ombelicale rinunciando alla stessa sua lingua.
Sono stato al caffè Slavia per respirare l’atmosfera raffinata ed elegante cui era abituato
Kundera e sono salito sulla collina di Pettrin in cerca di qualche segnale che evocasse il
suo spirito senza tuttavia trovarlo.

Caffè Slavia

E mentre nel quartiere Liben ancora oggi tutti amano Hrabal così non è nella Nuova Città.
Quando lessi “l’insostenibile leggerezza dell’essere” mi innamorai di quel romanzo.
La fuga dello scrittore dalla dittatura comunista mi sembrò un’epopea degna di Odisseo.
La lotta di un uomo in nome e per conto dell’umanità intera.
Mi sbagliavo, quella era solo frutto di rievocazione, eco lontana di un mondo scomparso.
Era Hrabal e tutti gli intellettuali come lui rimasti nell’inferno comunista di una Praga
tramortita ma non doma, che avevano assunto su di sé la fatica di vivere e custodire la
magia.
E tuttavia l’eco di quella magia sopravvisse nella letteratura di Kundera, almeno mi illudo,
sino a manifestarsi nella resipiscenza nostalgica de “La festa dell’insignificanza ”.
Chissà, in essa, la riflessione dello scrittore forse fa il paio con la nostalgia di Terese che
sulla collina di Pettrin proprio non riusciva a staccare gli occhi dalla più bella città del
mondo.

Antonio Corvino*

* L’articolo è stato scritto dall’autore nel corso del recente soggiorno praghese ospite dell’Istituto Italiano di Cultura dove ha presentato il suo “Cammini a Sud”.

Antonio Corvino, di origini pugliesi, napoletano di formazione è un saggista ed economista di lungo corso, di cultura classica, specializzato in scenari macro economici ed economia dei territori. 

Direttore generale dell’Osservatorio di Economia e Finanza, specializzato nell’analisi dell’economia del mezzogiorno e del Mediterraneo oltre che nella costruzione degli scenari macroeconomici in cui Mezzogiorno e Mediterraneo sono inseriti.

In tale veste ha organizzato dal 2011 al 2015 il “Sorrento Meeting” che ha affrontato, grazie al concorso di intellettuali, studiosi, rappresentanti economici e politici, controcorrente, dell’intero Mediterraneo e di altri Paesi asiatici ed americani, con largo anticipo e visioni non scontate, le questioni esplose in maniera virulenta, negli anni più recenti: dai nodi gordiani del sottosviluppo alle migrazioni, dai giovani nuovi argonauti in cerca del futuro da qualche parte, all’effetto macigno dell’Euro sull’economia  Mediterranea ed al negativo condizionamento del paradigma  nord-atlantico  su di essa,  dall’energia alla logistica, al destino del Mediterraneo che ahimè appare sempre più  compromesso.

Già Direttore nel Sistema Confindustria ha ricoperto diversi incarichi a livello nazionale, regionale e, da ultimo, anche a livello territoriale.

Appassionato delle antiche vie nelle “terre di mezzo” ha percorso numerosi  cammini nel cuore del Mezzogiorno continentale coprendo oltre 1500 chilometri e traendone una serie di appunti di viaggio che han dato vita a diversi volumi  e romanzi di cui “Cammini a Sud”  è il primo ad essere stato pubblicato.

Cultore di arte ha frequentato molti artisti, talora legandosi di profonda amicizia con essi. E’ il caso di Pino Settanni, scomparso nel 2010, artista e fotografo di straordinaria sensibilità e levatura, presente nei musei internazionali, il cui archivio è stato acquisito dall’Istituto Luce-Cinecittà.

Dedito da sempre alla scrittura, questa è divenuta da ultimo la sua principale occupazione, spaziando dal romanzo di introspezione intima e personale sino all’ osservazione lucida quanto preoccupata delle derive antropologiche destinate a scivolare verso una visione distopica che solo nella memoria può trovare l’antidoto.

Nel dicembre 2019 ha curato per Rubbettino il volume “Mezzogiorno in Progress”. Un volume-summa sulla questione del Sud cui hanno collaborato trenta tra studiosi economisti ed intellettuali e trenta imprenditori fuori dagli schemi.

Sin dalla più giovane età ha collaborato con riviste di economia, tra cui “Nord e Sud” che annoverava, essendo egli un giovane apprendista, le migliori menti del Mezzogiorno. Ha collaborato, in qualità di esperto opinionista, con diversi quotidiani meridionali.  Tuttora scrive su riviste specializzate in scenari economici e problematiche dello sviluppo. 

Da ultimo, per l’Università Partenope, il CEHAM, e l’Ordine dei biologi, ha realizzato un corso monografico video sul Mediterraneo della durata di 15 ore destinato ad un master.

Sulla rivista Bio’s, Organo dell’Ordine nazionale dei Biologi, ha pubblicato tre saggi sulle prospettive del Mediterraneo alla luce dell’implosione della globalizzazione, indicando un nuovo paradigma policentrico dello sviluppo e proponendo la suggestione del Mediterraneo come Continente; nell’ultimo saggio si è soffermato sul ruolo del Mediterraneo nella crisi alimentare ipotizzando il ritorno della agricoltura familiare e del recupero della biodiversità quali strade maestre per una nuova visione di sviluppo legata alla valorizzazione dei territori e della agricoltura meridionale. 

Sulla rivista Politica Meridionalista ha pubblicato e continua a pubblicare numerosi saggi sul Mezzogiorno indicando i Cammini e le Terre di Mezzo quali orizzonti per combattere lo spopolamento e l’abbandono dei territori interni. 

Bohumil Hrabal? L’ho conosciuto ad Altilia, di Antonio Corvino

Avevo Conosciuto Bohumil Hrabal attraverso il suo romanzo “Ho servito il re d’Inghilterra” in cui un piccolo cameriere di un famoso hotel si trova ad attraversare, nella capitale dell’allora Cecoslovacchia, da spettatore prima e da protagonista poi, tutte le stagioni sociali e politiche che la  storia del primo novecento aveva in serbo per Praga. 

Dalla caotica eredità dell’Impero Austroungarico all’infatuazione capitalista, dalla repubblica nata dopo il primo conflitto mondiale all’occupazione nazista, dalla liberazione sovietica all’avvento del  regime comunista che dileguò le attese  di ogni ritorno liberal borghese.

Fu Felice Mortillaro, un economista che non aveva rinunciato ai piaceri della letteratura, nonostante la sua fede nello sviluppo capitalistico che non poteva  che venire dal meraviglioso incedere dell’industria metalmeccanica occidentale nel mondo, a parlarmi per primo di Bohumil Hrabal e del suo “Ho servito il re d’Inghilterra”.

Eravamo a pranzo ed allora anch’io ero schierato dalla parte industriale, sia pure senza il suo entusiasmo, anzi con più di qualche riserva per un mondo capitalistico che in Italia badava a capitalizzare relazioni, politiche e sociali, lecite o meno, più che investimenti ed innovazioni. 

Rimasi assai colpito da quel riferimento letterario in un contesto assolutamente refrattario che comportava l’ostracismo per tutto quanto non fosse oggetto di proficua, se non proprio tronfia, esibizione. 

Dal disinteresse dei commensali rimasti silenti e imbarazzati era evidente che a nessuno interessava nulla del Re d’Inghilterra e di Hrabal, a parte me. 

Corsi in libreria e mi divorai quel romanzo. 

L’ironia di Hrabal nel raccontare le  vicende storiche europee filtrate dallo sguardo di un piccolo cameriere che era diventato capitalista con la repubblica post bellica ed era tornato cameriere con il regime comunista era davvero  esilarante. E mi innamorai di Bohumil Hrabal o meglio del  suo cameriere che aveva servito il re d’Inghilterra e che  proprio non gli riusciva di andare in depressione nonostante umiliazioni e rovesci ne mettessero a dura prova la resistenza. Egli trovava comunque nella vita il piacere dell’esistenza. Nel sesso, nell’amicizia, nell’amore, nella lotta, nelle sfide, nel gioco a mettere a nudo i potenti, mai cedendo alla rassegnazione, alla depressione o alla lamentazione gratuita. 

Era davvero una grande metafora dello spirito di un popolo che resta libero e padrone del suo destino a dispetto della storia, di ogni storia.

E questa metafora la ritrovai in tutti i suoi libri, nessuno escluso.

Il mio interesse per Bohumil Hrabal si rinnovò, e questa volta per non venir mai più meno, allorché ebbi modo di conoscere Eva,  un’intellettuale praghese trapiantata in Italia, comunista convinta ma con il vizio insopprimibile dell’aspirazione alla libertà, lo stesso di Bohumil.

Fu lei a far tornare in superficie il mondo di Bohumil, allorché mi parlò di uno scrittore praghese controcorrente che non aveva mai voluto lasciare Praga nonostante le limitazioni cui egli era sottoposto dal regime che mal sopportava la sua indisciplina intellettuale e che difendeva la sua libertà facendo ogni tipo di lavoro manuale cui era costretto per vivere non essendo riconosciuto come scrittore di regime. 

“Stai parlando di  Bohumil Hrabal” le dissi, travolto da un rigurgito di emozioni emerse dalla mia antica lettura del Re d’Inghilterra e sollecitate dalla più recente lettura de “L’uragano di Novembre” in cui Hrabal, con un ragionamento pacato ma inflessibile che nasceva dal suo spirito profondamente ancorato alla dimensione primordiale della vita ed ai suoi valori ancestrali, affermava per sé il dovere di restare nel luogo dove la gente, il popolo, amici e conoscenti, colleghi di lavoro e familiari, erano costretti a rimanere non potendo beneficiare dei privilegi dell’intellettuale, chiamato e addirittura invocato dall’estero e volentieri lasciato partire dal regime.

Per parte mia io avevo fatto in tempo ad avvertire i profumi di libertà che arrivavano dalla primavera di Praga ed avevo avvertito anche i brucianti riverberi del rogo cui si immolò lo studente Jan  Palak su piazza San Venceslao per urlare il suo rifiuto alla normalizzazione sovietica.  

Era logico per gli europei dell’Occidente contrapposti agli Europei dell’Est, stare dalla parte di chi fuggiva, soprattutto se chi fuggiva era un mostro sacro della letteratura praghese come Mikan Kundera.

Kundera aveva raccontato  la sua fuga in uno con la sua nostalgia e l’amore per la terra lasciata, in quel monumento letterario dal titolo “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Roba da lasciarci gli occhi ed il cervello insieme all’anima.

Poi lessi “L’uragano di Novembre” e rimasi fulminato dalla prosa, questa volta impastata di rabbia, di dolore e di fatica, di Bohumil Hrabal. 

Una prosa che poteva nascere solo da un profondo, insopprimibile, sentimento di appartenenza, che come un fiume impetuoso,  trovava origine nelle vette della dimensione primordiale e che si nutriva dei valori ancestrali radicati nelle viscere più profonde dei popoli oltre che degli individui. 

Per Hrabal partire significava ostruire quella sorgente, prosciugarne il flusso vitale e sancire il tradimento verso sé stessi, la propria terra ed il proprio popolo. 

Decidere di andare alla deriva senza alcuna possibilità di ritorno e lasciare anche che il tuo Paese vi andasse per suo conto.

Quell’intellettuale praghese che mi parlava di Praga e della sua nostalgia che teneva insieme, senza risolverle, le contraddizioni comuniste e l’amore per la libertà, mi riportò a Hrabal. 

Quelle contraddizioni andavano sciolte in casa, aveva sostenuto Hrabal, patendo l’emarginazione e la fatica di vivere se necessario e adoperando la propria vita perché ciò succedesse. 

Come dargli torto. 

Un gigante della letteratura del secondo novecento per me ed un testimone dei presupposti irrinunciabili dell’identità dell’Umanità in qualsiasi luogo del pianeta.

Bohumil Hrabal aveva lavorato come ferroviere all’epoca dell’occupazione nazista ed aveva insieme ai suoi colleghi sabotato i “Treni strettamente sorvegliati” diretti al fronte con armi e munizioni, come raccontò nel suo intenso libro da cui fu ricavata la sceneggiatura per un film che nel 1966 ad Hollywood vinse l’Oscar come miglio film straniero. In seguito aveva lavorato come addetto al macero dei libri di cui salvava  l’anima mandando a memoria dei frammenti di ciascuno volume che veniva  ridotto in inermi striscioline, come raccontò in quel piccolo capolavoro dal titolo “ Una solitudine troppo rumorosa” ed aveva lavorato nelle fabbriche di birra di Praga ed aveva bevuto quella birra presso la birreria “ Svoboda” parola che tradotta significa libertà, ed aveva continuato a coltivare patate e ogni altro ortaggio possibile nel suo orto, in un impegno etico e morale per affermare il suo essere salvaguardando, magari, anche qualche spicchio dell’anima degli altri.

E tutto questo non poteva essere barattato con l’espatrio.

Da ultimo avevo letto il suo romanzo “Le nozze in casa”. Una lunga storia dedicata all’amore della sua vita, la moglie troppo presto scomparsa, ed alla rievocazione del mondo in cui quell’amore era nato, tra la fatica e la gioia di vivere che animavano il tempo riempiendolo di allegria, di solidarietà, di gusto per l’esistenza, di appartenenza e identità che proprio nella forza della quotidianità trovava la sua ragione di essere. 

Hrabal era consapevole che quel mondo andava a morire. 

Moriva nella omologazione che sarebbe sopravvissuta al comunismo, nella fine della cultura e della civiltà della solidarietà che sopravviveva nelle campagne e nella gente di città legata al mondo del lavoro operaio e che rimaneva  strettamente legata a quanti la vita dovevano costruirsela e difenderla ogni santo giorno con l’aggravante di dover conservare in fondo al cuore anche il desiderio di essere liberi ed essere sé stessi. 

Ma Bohumil Hrabal aveva la certezza che non vi fosse salvezza al di fuori di quel mondo. Certo la deriva andava in direzione opposta. E non era questione di comunismo o capitalismo. Era la rinuncia al mondo primordiale, era la cancellazione dei valori ancestrali che stavano condannando il mondo verso il degrado ma egli era convinto che se il mondo avesse voluto salvarsi, se un giorno avesse  voluto tornare sui suoi passi era lì che doveva guardare. 

Come il suo cameriere che aveva servito il re d’Inghilterra ed aveva attraversato la storia senza mai perdere il gusto di ricominciare.

Per questo Bohumil non partì e all’indomani della fine della primavera praghese, del crollo di ogni speranza, rimase al suo posto. Perché bisognava ricominciare, aspettare il tempo per ricominciare. E questo vale per tutti i tempi e per tutti i luoghi,  per tutti gli individui  e tutti i popoli. A condizione che da qualche parte qualcuno mantenga viva la memoria da tirar su come una cima cui, seppur invisibili, sono legati, come reti copiose, i valori primordiali custoditi in fondo al mare o al cuore.

Questo pensiero mi invase allorché in un pomeriggio estivo di settembre di qualche anno fa, entrammo in Altilia, la città romana costruita sui luoghi, sui tratturi e sui ricoveri per le mandrie  e le  greggi dei Sanniti Pentri ormai sconfitti.

Eravamo partiti da Boiano, una delle antiche capitali dei Sanniti Pentri, senza fretta. Il tratto Boiano-Altilia non era particolarmente lungo e nemmeno duro. Avevamo camminato lungo i tratturi della transumanza ed avevamo attraversato un lungo falsopiano ricoperto di macchia mediterranea, di boschi e ricco di fonti. Avevamo incrociato famiglie di cinghiali ed in lontananza  qualche cerbiatto curioso. Poi il tratturo aveva preso a disegnare una curva assai ampia al termine della quale ci apparve, come un visione mitologica, una città cinta da mura rese leggiadre dall’opus reticulatum. 

In esse si  apriva una grande porta che aveva tutta l’aria  voler essere anche un arco di trionfo tanta era la grandiosa bellezza dei bassorilievi, delle iscrizioni e dei telamoni dalle fattezze di prigionieri germanici che la  ornavano. 

Era Altilia. 

La attraversammo con stupore e religioso silenzio. 

Oltre le mura si disponeva il tessuto urbano con i decumani ed i cardini, il teatro,  il foro e la   basilica, il mercato e le terme, le domus e le botteghe. 

Era una visione fuori dal tempo.

La attraversammo tutta, in preda ad un rapimento. 

Era deserta. 

In fondo al  decumano principale un’altra porta maestosa immetteva sull’antico tratturo della transumanza in direzione di Sepino, l’antico Saipinz sannitico, divenuto Saepinum con i Romani ed, oggi, rimasto un piccolo, delizioso, quanto spopolato, borgo sulle montagne del Matese, in Molise. 

A metà strada, in corrispondenza dell’incrocio con il cardine che intersecava il decumano, ci giunsero dei suoni e dei canti che arrivavano da Porta Tammaro, dal nome del fiume che segna l’intera vallata  intorno ad  Altilia.

Il 17 aprile Antonio Corvino sarà a Praga, all’Istituto Italiano di Cultura, per parlare del suo Cammini al Sud e di Bohumil Hrabal

Un organetto, di quelli che usavano i contadini intorno alle aie nei momenti di riposo o di festa, ed un tamburello, dettavano i ritmi e le melodie delle danze in cui erano impegnati uomini e donne, ragazzi e ragazze, bimbi e bimbe, lì riuniti per festeggiare un matrimonio.

Eravamo capitati nel bel mezzo di una festa popolare e familiare che magicamente era sopravvissuta alla debordante smania consumistica del villaggio globale che tutto aveva omologato ed appiattito, comprese le più intime espressioni di sé, un tempo legate alla vita stessa di uomini e donne, famiglie e comunità e gelosamente custodite proprio in quanto tali.

Per un miracolo imprevisto, ad Altilia, il tempo sembrava essersi fermato. 

La dimensione primordiale ed i valori ancestrali attraversavano l’anima di quella gente che danzava e festeggiava lì davanti a noi.

Ci sedemmo in un tavolo appartato e ci gustammo quello spicchio di  umanità sopravvissuta.

Fu in quel momento che mi venne in mente Bohumil Hrabal e presi a raccontare del suo libro “Le nozze in casa”. 

Antonio Corvino

Antonio Corvino, di origini pugliesi, napoletano di formazione è un saggista ed economista di lungo corso, di cultura classica, specializzato in scenari macro economici ed economia dei territori. 

Direttore generale dell’Osservatorio di Economia e Finanza, specializzato nell’analisi dell’economia del mezzogiorno e del Mediterraneo oltre che nella costruzione degli scenari macroeconomici in cui Mezzogiorno e Mediterraneo sono inseriti.

In tale veste ha organizzato dal 2011 al 2015 il “Sorrento Meeting” che ha affrontato, grazie al concorso di intellettuali, studiosi, rappresentanti economici e politici, controcorrente, dell’intero Mediterraneo e di altri Paesi asiatici ed americani, con largo anticipo e visioni non scontate, le questioni esplose in maniera virulenta, negli anni più recenti: dai nodi gordiani del sottosviluppo alle migrazioni, dai giovani nuovi argonauti in cerca del futuro da qualche parte, all’effetto macigno dell’Euro sull’economia  Mediterranea ed al negativo condizionamento del paradigma  nord-atlantico  su di essa,  dall’energia alla logistica, al destino del Mediterraneo che ahimè appare sempre più  compromesso.

Già Direttore nel Sistema Confindustria ha ricoperto diversi incarichi a livello nazionale, regionale e, da ultimo, anche a livello territoriale.

Appassionato delle antiche vie nelle “terre di mezzo” ha percorso numerosi  cammini nel cuore del Mezzogiorno continentale coprendo oltre 1500 chilometri e traendone una serie di appunti di viaggio che han dato vita a diversi volumi  e romanzi di cui “Cammini a Sud”  è il primo ad essere stato pubblicato.

Cultore di arte ha frequentato molti artisti, talora legandosi di profonda amicizia con essi. E’ il caso di Pino Settanni, scomparso nel 2010, artista e fotografo di straordinaria sensibilità e levatura, presente nei musei internazionali, il cui archivio è stato acquisito dall’Istituto Luce-Cinecittà.

Dedito da sempre alla scrittura, questa è divenuta da ultimo la sua principale occupazione, spaziando dal romanzo di introspezione intima e personale sino all’ osservazione lucida quanto preoccupata delle derive antropologiche destinate a scivolare verso una visione distopica che solo nella memoria può trovare l’antidoto.

Nel dicembre 2019 ha curato per Rubbettino il volume “Mezzogiorno in Progress”. Un volume-summa sulla questione del Sud cui hanno collaborato trenta tra studiosi economisti ed intellettuali e trenta imprenditori fuori dagli schemi.

Sin dalla più giovane età ha collaborato con riviste di economia, tra cui “Nord e Sud” che annoverava, essendo egli un giovane apprendista, le migliori menti del Mezzogiorno. Ha collaborato, in qualità di esperto opinionista, con diversi quotidiani meridionali.  Tuttora scrive su riviste specializzate in scenari economici e problematiche dello sviluppo. 

Da ultimo, per l’Università Partenope, il CEHAM, e l’Ordine dei biologi, ha realizzato un corso monografico video sul Mediterraneo della durata di 15 ore destinato ad un master.

Sulla rivista Bio’s, Organo dell’Ordine nazionale dei Biologi, ha pubblicato tre saggi sulle prospettive del Mediterraneo alla luce dell’implosione della globalizzazione, indicando un nuovo paradigma policentrico dello sviluppo e proponendo la suggestione del Mediterraneo come Continente; nell’ultimo saggio si è soffermato sul ruolo del Mediterraneo nella crisi alimentare ipotizzando il ritorno della agricoltura familiare e del recupero della biodiversità quali strade maestre per una nuova visione di sviluppo legata alla valorizzazione dei territori e della agricoltura meridionale. 

Sulla rivista Politica Meridionalista ha pubblicato e continua a pubblicare numerosi saggi sul Mezzogiorno indicando i Cammini e le Terre di Mezzo quali orizzonti per combattere lo spopolamento e l’abbandono dei territori interni.