Didier Eribon: “Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo” (L’orma, Roma 2024), di Francesco Ferrari

Il capitale si dice in molti modi. Non consiste soltanto di soldi – risparmiati, immobilizzati, o investiti. Non è fatto, quindi, solo di case, negozi e mura, immobili per definizione. Tutto questo è “capitale economico”, che può essere contato, e che conta moltissimo. Capitale è anche l’apprendimento, scolastico e pratico; la propria esperienza di sé e del mondo, che matura in chiarificazioni dell’esistenza, riflessioni e strategie per risolvere problemi. Questa seconda forma di capitale diventa “capitale culturale”, dove “cultura” non è un inerte deposito di nozioni, ma conoscenza che si ricava attivamente dalla vita vissuta (e con cui, non meno attivamente, le si va incontro). Capitale è infine non solo che cosa si conosce, ma chi si conosce: persone che diventano contatti, contatti che diventano reti. Questa terza forma di capitale, non meno indispensabile, costituisce il “capitale sociale”.

Al sociologo francese Pierre Bourdieu dobbiamo l’articolazione di questo “triangolo del capitale”, con cui la diade marxiana struttura (economica) – sovrastruttura (cultura, “spirito”, storicità delle forme di vita) riceve feconda linfa empirica senza per questo essere sconfessata. Tutt’altro. Il capitale economico rimane sempre e comunque la base, la struttura marxianamente intesa, su cui poggia l’intero triangolo. Il modello di Bourdieu ci offre però una risorsa formidabile per comprendere la sofferenza sociale di molti esseri umani, perlomeno del cosiddetto Nord globale. La loro esistenza può essere letta come il desiderio di rendere il triangolo il più equilatero possibile, di portare ovvero in armonia i tre lati del capitale. È questo, se vogliamo, il caso di un allievo particolarmente brillante di Bourdieu (e di Michel Foucault) come Didier Eribon.

Tanto in Ritorno a Reims quanto nel più recente Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo (trad. Annalisa Romani), Eribon dà voce al dolore che si sprigiona dall’essere nato e quindi stato socializzato in condizioni di ristretto capitale economico e di non meno esiguo capitale culturale (intendendo qui il termine nel senso più “scolastico” del medesimo) in seno alla classe operaia della provincia francese, e dal suo sentirsi altro, estraneo, diverso, rispetto a tale ambiente – il che condurrà Eribon medesimo a diventare, a discapito di ogni determinismo socio-economico, professore universitario di sociologia, e, con ciò, un vero e proprio “transfuga di classe”.

Vi è infatti una fuga, una migrazione, tanto concreta quanto interiore, che avviene tra il venire al mondo in un preciso milieu sociale, e l’anelare e spingersi verso ambienti che distano anni luce da esso. Si genera una tensione peculiare, in cui l’individuo si trova a lottare, non senza un certo eroismo tragico, contro pressioni sociali d’ogni sorta. Il succitato determinismo socio-economico sorveglia e schiaccia ogni eccezione che abbia l’ardore di sfidarlo. Quella di Eribon diventa allora una storia di successo a fronte, per usare un altro termine di Bourdieu, della “riproduzione” intergenerazionale (padre ricco-figlio ricco, padre povero-figlio povero), con cui tutto, nel campo sociale, pare dire: “Stai al tuo posto!”

La peculiarità di Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo sta nel dare voce a “storie che non fanno la Storia” (per dirla con un altro stimolante testo, appena uscito, di Carlo Greppi). Nel raccontare la vicenda biografica di una donna, la madre del sociologo, esponente del proletariato industriale novecentesco, che mai avrebbe affidato il proprio vissuto a un resoconto scritto, Eribon compie un gesto di altissimo valore ermeneutico e civile. Egli incarna il compito dell’intellettuale nel senso gramsciano del termine, come colui che dà voce ai senza voce, e, raccogliendo le loro testimonianze, cerca di comprendere gli anelli che non tengono delle nostre strutture sociali, depositando, proprio in tale sforzo interpretativo, il seme per far nascere il nuovo, ovvero, per un mondo più giusto.

Senza infingimenti, con una sensibilità millimetrica per il singolo gesto, Eribon apre per noi stanze di vita quotidiana che rimangono solitamente serrate, in quanto privatissime o irrilevanti. Ci consegna i commenti razzisti borbottati da una donna ottuagenaria della campagna francese (sua madre) davanti alla televisione, allorché vi vede delle persone nere, e quelli sessisti di un uomo cinquantenne (suo fratello), che si rifiuta categoricamente di sortire i vestiti dall’armadio della madre defunta, in quanto compito da lui reputato incongruo al suo status di maschio. Ma il libro di Eribon offre anche, al tempo stesso, una capillare denuncia delle condizioni inumane delle case di riposo, e pone il dito in una piaga di cui le nostre società non vogliono farsi carico, neanche mentale: il processo d’invecchiamento, e, per dirla con Norbert Elias, “la solitudine del morente”.

Al tempo stesso, il libro si segnala come un tentativo, accorato ma mai patetico, di riconciliazione. Laddove Ritorno a Reims poteva essere letto come un processo di riconciliazione con sé stesso, con cui un intellettuale omosessuale parigino compie un viaggio a ritroso che lo condurrà a fare i conti con la provincia operaia da cui il suo itinerario di vita e pensiero avrebbe preso le mosse, sottraendosi alla “riproduzione” socio-economica, Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo mantiene palpitante la tensione riconciliatoria del precedente volume, e la amplia, rivolgendola a quell’altro-da-sé sui generis che è colei che ci ha ospitati per nove mesi e dunque gettati nel mondo. Nei confronti della madre, Eribon vuole, in qualità di autentico uomo della conoscenza, innanzitutto capire. Capire: non sentenziare né assolvere. Capire anzitutto quali sono le condizioni di possibilità e i limiti della massima di Sartre “noi siamo quello che facciamo – di quello che ci è stato fatto”, che in casi fortunati (come il suo) si volge in agency, ma innanzitutto e perlopiù si traduce invece in forme di (per dirla invece con Adorno) “vita offesa”, in cui non si diventa affatto quel che si è, e il proprio romanzo di formazione si torce in un triste racconto di de-formazione.

Ci troviamo allora dinnanzi a due socio-biografie, in cui il testo della vita della singola persona diventa il pre-testo per comprendere un’epoca storica e i suoi dispositivi socio-economici e cultural-spirituali. L’individuale diventa il luogo di rivelazione del generale, a partire dal particolarissimo di minimi gesti quotidiani. La grande Storia universale, dicevamo prima, s’incarna di volta in volta in singole storie particolari, che non fanno la Storia. Eppure, si capisce probabilmente di più il secondo Ventesimo e il primo Ventunesimo secolo leggendo Didier Eribon che attraverso molte analisi quantitative in terza persona. La circostanza odierna, per cui “i ceti subalterni votano contro i loro interessi”, per riprendere una sentenza che viene lanciata, come vero e proprio gemito sofferente, da un altro anziano morente, interpretato da Silvio Orlando in Un altro ferragosto di Paolo Virzì, affligge sicuramente molti lettori del Randagio, e resta sovente, non meno dolorosamente, senza risposta. Dalle pagine di Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo non traiamo risposte universali e necessarie, ma scopriamo cosa porta una esponente in carne ed ossa delle classi sociali più svantaggiate a dare il proprio consenso politico a movimenti che invocano un autoritarismo di matrice fascista, alternandolo a quello assegnato a partiti più (apparentemente) rispettabili. E scopriamo come l’attuazione di policies neoliberiste e la conseguente erosione dei diritti del lavoro fondamentali attuata dai secondi (risoluta è la critica di Eribon al Presidente Macron in tal senso) costituisca la condizione fatale di possibilità dei primi.

La riflessione di Eribon innescata dalla vicenda sociobiografica di sua madre diventa allora estremamente eloquente, ancor più se la si collega ad alcuni termini chiave di un certo pensiero liberale, veri e propri miti del tardo Ventesimo secolo, che l’autore in vero non tematizza esplicitamente, ma che ci aiuta, con i suoi scritti, a mettere nella giusta prospettiva. Pensiamo a vocaboli-mantra come “autorealizzazione”, “meritocrazia”, “resilienza”. Questi termini, dall’apparenza emancipatrice, sono in realtà assai sovente nient’altro che lusinghe sottilmente mendaci. il primo suona: “Da grande potrai fare tutto ciò che vuoi!” – ma non tiene conto degli ostacoli sistemici lungo il cammino, su tutti la succitata riproduzione. Il secondo esorta: “Se uno è bravo alla fine ce la fa!” – ma in realtà appiattisce l’essere al fare, ovvero alla riuscita professionale, per cui accetta tacitamente che un essere umano è il mestiere che fa, il che è fonte di quella lancinante sofferenza descritta in Ritorno a Reims. Il terzo insiste: “Se vuoi, puoi” – ma in realtà è un ulteriore dispositivo di controllo, con cui si chiede al lavoratore, già abbastanza precarizzato e sfruttato, financo di sorridere, come un provetto ballerino, mentre cerca di fare l’impossibile affinché “tutto rimanga come esattamente è”, oppure, senza scomodare il buon vecchio Gattopardo, per rimanere a galla.

Francesco Ferrari 

Francesco Ferrari è ricercatore e docente presso l’Università Friedrich Schiller di Jena; è coordinatore dello Jena Center for Reconciliation Studies; è autore di tre monografie dedicate al pensiero di Martin Buber e di vari saggi su e traduzioni di autori della filosofia e della cultura ebraica del XX secolo (tra cui Arendt, Buber, Derrida, Landauer, Scholem, Zweig); svolge attività di ricerca sul concetto di riconciliazione dopo Auschwitz, ed è editore dell’epistolario di Martin Buber nel progetto Buber-Korrespondenzen Digital.

https://www.jcrs.uni-jena.de/about/team/dr-francesco-ferrari
https://francescoferrari.academia.edu/

James Baldwin: “La stanza di Giovanni” (Fandango, trad. Alessandro Clericuzio), di Gigi Agnano

I cento anni dalla nascita sono l’occasione per ricordare con un tocco di emozione quanto di bello e di interessante ci abbia lasciato James “Jimmy” Baldwin, lo scrittore, saggista e drammaturgo di Harlem, attivista per i diritti degli afroamericani e degli omosessuali, vissuto per diversi anni in Europa e morto in Francia, a Saint Paul de Vence nel 1987. New York in questi giorni – era nato il 2 agosto – lo sta celebrando con mostre e spettacoli e proiezioni di film e tour sulle sue orme, con partenza da Harlem fino alla sua ultima residenza americana nell’Upper West Side. La New York Public Library espone per la prima volta una serie di appunti e di documenti privati e i manoscritti di tutta la sua produzione letteraria. In Italia Fandango ne sta ripubblicando l’intera opera.

Personalmente, in un percorso estivo iniziato con Édouard Louis e Didier Eribon, “indirizzato” proprio dai due autori francesi, sono approdato con un ritardo imbarazzante a quello che è probabilmente il più famoso romanzo di Baldwin:  “La stanza di Giovanni”. Un romanzo che a metà degli anni Cinquanta nessuno voleva pubblicare, benché Baldwin fosse già uno scrittore apprezzato dalla critica e piuttosto noto per il precedente  “Go tell it to the mountain” del ‘53 (“Gridalo forte”), un lavoro teatrale e una raccolta di saggi “Notes of a native son” (“Mio padre doveva essere bellissimo”), oltre ad articoli per giornali e riviste prestigiose.

Il motivo del rifiuto è quanto mai ovvio se si considera il bigottismo della società americana degli anni Cinquanta: “La stanza di Giovanni” parla in maniera esplicita, molto prima dei movimenti di liberazione, di un amore gay e bisessuale. È in estrema sintesi la storia, per quei tempi inaccettabile, di David fidanzato con Hella, ma irrimediabilmente attratto da Giovanni. Non è più Jimmy il nero che scrive (Baldwin si era fino a quel momento occupato quasi esclusivamente di problemi razziali), ma James l’omosessuale, esiliatosi a Parigi per l’atmosfera insopportabile che si respirava nel suo Paese per le persone gay.

Il romanzo infatti, scritto nel pieno della guerra fredda e della presidenza Eisenhower, viene pubblicato nel ‘56 quando in molti Stati americani l’omosessualità è ancora illegale e l’America puritana celebra se stessa attraverso un modello di uomo forte, bianco e rigorosamente etero.

Gli esiti del racconto sono dichiarati già nelle prime pagine: David, il narratore, si trova in una casa del sud della Francia. È solo perché Hella, con la quale avrebbe dovuto sposarsi, l’ha lasciato per tornarsene in America dopo essere venuta a conoscenza della relazione dell’uomo con Giovanni, un barista italiano. Sappiamo anche fin da subito che Giovanni, abbandonato da David, ha commesso un omicidio, è stato condannato a morte e il giorno dopo verrà giustiziato.

Fin dall’inizio Baldwin si riserva la possibilità di muoversi liberamente tra presente, futuro prossimo e passato. Questi salti temporali hanno un effetto malinconico e commovente e riescono ad esprimere con più forza i rimpianti e i sensi di colpa che restano al narratore. Ecco per esempio come comincia il romanzo:

“Sono in piedi davanti alla finestra di questa grande casa nel sud della Francia mentre cala la notte, la notte che mi porterà al mattino più tremendo della mia vita. Ho un bicchiere già pieno e una bottiglia a portata di mano. Mi guardo riflesso nella luminosità che va oscurandosi sui vetri. Mi vedo alto, longilineo, dritto come una freccia, il biondo dei miei capelli si illumina. Il mio è uno di quei volti visti mille volte. I miei antenati conquistarono un continente facendosi strada attraverso pianure cariche di morti, finché non raggiunsero un oceano che si lasciava alle spalle l’Europa e guardava a un passato più oscuro.”

David lascia andare i pensieri e si proietta nel futuro immaginando il mesto ritorno in treno a Parigi; quindi si abbandona al racconto del primo incontro con Hella, per sprofondare in un ricordo remoto dell’adolescenza, quando ha il primo rapporto omosessuale con un compagno di scuola. I due passano la notte insieme e al risveglio:

Il corpo di Joey era scuro, sudato, la cosa più bella che avessi visto fino ad allora. Avrei voluto toccarlo per svegliarlo ma qualcosa me lo impedì. All’improvviso ebbi paura. Forse fu perché aveva un aspetto così innocente, sdraiato lì, così perfettamente fiducioso; forse fu perché era più piccolo di me, il mio corpo mi sembrò all’improvviso grossolano e pesante e il desiderio che mi montava dentro sembrava mostruoso. Ma, soprattutto, ebbi improvvisamente paura. Mi dissi: “Ma Joey è un ragazzo”.”

David, spaventato da quel desiderio che considera anomalo, eviterà di incontrare ancora Joey e non lo rivedrá mai più. Qualche tempo dopo, invece di andare al college, fugge dal padre e da Brooklyn e si trasferisce a Parigi “per ritrovare se stesso”. Qui, come già accennato, si fidanza con Hella, ma, mentre lei è in viaggio in Spagna, il giovane conosce Giovanni, il barman italiano:

Se ne stava, insolente, scuro e leonino, con il gomito appoggiato alla cassa, le dita che giocherellavano col mento, a guardare la mischia.”

È folgorato dalla sua bellezza e tra i due uomini inizia una relazione appassionata e intensa il cui palcoscenico è appunto la piccola, disordinata e sporca stanza di Giovanni. 

Ricordo che la vita, in quella stanza, sembrava svolgersi al di sotto della superficie del mare. Il tempo scorreva indifferente sopra di noi, le ore e i giorni non avevano significato. All’inizio la vita insieme racchiudeva una gioia e uno stupore che erano nuovi ogni giorno. Al di sotto della gioia, naturalmente, c’era angoscia, e sotto lo stupore, paura; ma non si fecero strada in noi finché l’iniziale euforia non divenne come aloe sulla lingua.”

Progressivamente la storia d’amore si riempie di ambiguità. David, che immaginava per sé una vita convenzionale con Hella,  vorrebbe reprimere i propri impulsi, ma, fin quando la donna non è a Parigi, non ci riesce. Vive una doppia vita, felice dentro la stanza, tormentata e dolorosa fuori:

Sapevo di non poter fare niente di niente per fermare la feroce eccitazione che era esplosa in me come una tempesta. Potevo solo bere, nella vaga speranza che così la tempesta passasse, senza fare ulteriori danni alla mia vita. Ma ero felice.”

Ma col ritorno di Hella tutto sembra tornare in ordine, ogni conflitto pare appianarsi: il desiderio di “normalità” e di adeguarsi alle convenzioni sociali s’impone sui sentimenti e sul desiderio. Prevale la cultura maschilista di cui il giovane americano è intriso, per cui l’omosessualità è riprovevole e disgustosa. C’è un passaggio in cui David osserva un capannello di uomini con atteggiamenti effeminati e li descrive con una serie di metafore animali, prima come pappagalli, poi come pavoni, infine come scimmie. Ma David disprezza anche e soprattutto se stesso, ciò che il corpo gli fa provare per quello dell’italiano.  È a disagio, ha paura, gli gira lo stomaco. Baldwin illumina perfettamente questo confine tra il desiderio e la repulsione, tra il piacere e la nausea. David lascia Parigi con Hella e abbandona Giovanni al suo destino catastrofico.

Con una scrittura lirica e impeccabile, una prosa chiara e incisiva, Baldwin esamina la relazione convulsa tra due uomini in cerca della felicità e la catastrofe che entrambi dovranno affrontare. Esplora con sensibilità la complessità psicologica di David, scavando e portando alla luce le sfumature del suo conflitto interiore, il desiderio, la paura, la vergogna e i sensi di colpa. Sa essere descrittivo e analitico, commovente e riflessivo come i grandi scrittori della tradizione americana che gli vengono generalmente accostati, su tutti Henry James e Ernest Hemingway.

Un’ultima annotazione: La stanza di Giovanni è il solo romanzo di Baldwin in cui tutti i personaggi sono bianchi. È l’unica volta in cui l’autore sembra disinteressarsi ai temi razziali, anche se sia Joey il ragazzino che Giovanni il barman vengono descritti come “scuri” (attenzione perché in quegli anni gli italiani venivano considerati in America, al pari degli altri europei meridionali, come “non bianchi”). Qui lo scopo preciso è di discutere finalmente di una sessualità che nessun altro autore fino a quel momento aveva affrontato nella propria narrativa. Pare ci dica che non ci sia bisogno di essere “negro” perché la società ti discrimini; in definitiva basta essere omosessuale. 

Gigi Agnano

Didier Eribon: “Ritorno a Reims” (Bompiani, trad. Annalisa Romani), di Gigi Agnano

Nei romanzi di Édouard Louis, di cui il Randagio si è occupato recentemente (leggi l’articolo), viene più volte citato come mentore e fonte d’ispirazione il sociologo Didier Eribon, in particolare per la sua opera più famosa che è “Ritorno a Reims”, uscita in Francia nel 2009 e pubblicata in Italia da Bompiani con la traduzione di Annalisa Romani. 

In un lavoro che è per metà autobiografia e per metà saggio sociologico, Eribon racconta il ritorno nella città natale a seguito della morte del padre. È l’occasione per rituffarsi con la memoria nell’ambiente d’origine da cui si era separato trent’anni prima. Sfogliando con la madre l’album fotografico, ricorda l’infanzia e l’adolescenza nel quartiere operaio della cittadina di provincia, i litigi incessanti in famiglia, l’odio per il padre, gli insulti e la vergogna per la propria omosessualità e il distacco definitivo dai parenti, da Reims e dalla sua classe sociale.

Per affermare una nuova identità, Eribon si trasferisce a Parigi, dove conosce Bourdieu e Foucault, intervista Claude Lévi-Strauss, scrive articoli per riviste e giornali, saggi tra cui “Riflessioni sulla questione gay”, intraprende la carriera accademica e comincia a godere di una discreta notorietà. Sono gli anni in cui prevale una forma di vergogna per l’umiltà delle sue origini, come fosse qualcosa da nascondere nel nuovo contesto intellettuale e borghese nel quale è ormai introdotto. Vergogna mista ad un’istintiva volontà di separarsi del tutto da un ambiente omofobo, limitato e violento e di esistere in un altro mondo, diverso da quello cui il destino sociale l’avrebbe condannato. Un mondo in cui è possibile far emergere la propria soggettività gay e affermare il gusto per l’arte e la letteratura. 

E’ un ritorno dell’autore a se stesso, una riflessione per definirsi, per ripercorrere le traiettorie e le contraddizioni del proprio percorso, le scelte spesso dolorose, gli sforzi per inventare e ricreare un sé nuovo e migliore. Siamo lontani da qualsiasi autocelebrazione o compiacimento, non c’è alcuna esibizione narcisistica – come accade in tanta autofiction così in voga negli ultimi anni con risultati spesso discutibili -, ma piuttosto la realizzazione di un’opera stimolante, fortemente “rivolta agli altri”, nata dall’esigenza impellente di mostrare che altre vite sono realizzabili e che ci possono essere prospettive alternative a quelle che una società opprimente tende ad importi (“la terribile ingiustizia di una distribuzione ineguale di opportunità e di possibilità”). 

E il ritorno alle origini, allo stesso tempo, poiché il processo di emancipazione aveva comportato un taglio netto col passato (“per inventarmi mi occorreva, prima di tutto, dissociarmi”), cicatrizza le ferite e produce una ricomposizione, una sintesi e ha un effetto terapeutico. La vergogna può trasformarsi in orgoglio:

“… questo viaggio, o piuttosto questo processo di ritorno, mi ha permesso di ritrovare questa “regione di me stesso”, come avrebbe detto Genet, da cui avevo così tanto cercato di evadere. Uno spazio sociale che avevo allontanato e uno spazio mentale in opposizione al quale mi ero ricostruito, ma che continuava ugualmente a costituire una parte essenziale di me. Così sono andato a trovare mia madre ed è stato l’inizio di una riconciliazione con lei. O, più esattamente, di una riconciliazione con me stesso, con tutta una parte di me che avevo rifiutato, respinto, rinnegato.”

Ma “Ritorno a Reims” non è solo un lavoro di autoanalisi, la testimonianza di un figlio di operai in un determinato contesto sociale e culturale. L’esperienza personale è il pretesto per proporre un’analisi più ampia sull’evoluzione della società e della politica francesi. 

Uno dei pregi del libro sta proprio in quest’intrecciarsi di storie intime e commoventi con stimolanti analisi teoriche. Uno degli obiettivi di Eribon, infatti, è quello di riportare alla ribalta una riflessione sulla classe operaia, di cui più nulla si dice nel discorso pubblico e politico, vittima di molteplici forme di violenza, tradita dal Partito Comunista e sempre più attratta dall’estrema destra. 

Egli stesso si rende conto, nel dialogo con la madre, di questa disattenzione anche nel proprio lavoro, di aver scritto molto fino a quel momento delle questioni relative all’omosessualità (del “verdetto sessuale”) e per niente dei rapporti di classe (della “vergogna sociale”); di aver cancellato ogni riferimento alle classi popolari, agli stili di vita e di pensiero della classe operaia.

E in quegli anni, i genitori, da comunisti convinti sono diventati elettori del Fronte Nazionale; i fratelli, che non hanno conosciuto alcun successo, lo sono sempre stati dal raggiungimento della maggiore età. Quella che un tempo era un’affiliazione “naturale” delle classi popolari al Partito Comunista si è tramutata negli anni ’80 in un progressivo spostamento verso l’estrema destra, a partire, sostiene Eribon, dalle elezioni del 1981 che vedono l’affermazione dei Socialisti e la partecipazione al governo del PCF. A suo parere, l’abbandono delle politiche di classe da parte dei partiti di sinistra a favore di politiche neoliberali e la disattenzione per le questioni economiche e sociali che colpiscono i lavoratori (disoccupazione, bassi salari, condizioni di lavoro precarie, minori tutele, disuguaglianze crescenti) ne hanno determinato la progressiva disaffezione. L’abbandono delle classi popolari da parte della sinistra ha avuto l’effetto di lasciare uno spazio vacante che il Fronte Nazionale è riuscito ad occupare con un inganno, ovvero valorizzando il francese (contro lo straniero) piuttosto che l’operaio (contro la classe dominante capitalista). 

L’intreccio di introspezione autobiografica e di critica sociale, di personale e di politico, non può non rimandare ad un’altra voce fondamentale della letteratura contemporanea francese, sia per tratti biografici, che per tematiche e stile, ovvero ad Annie Ernaux, con la quale Eribon condivide in primo luogo le origini operaie. Entrambi hanno scritto ampiamente della loro formazione, degli sforzi per migliorare la propria condizione sociale e, nel contempo, dello spaesamento e dei sensi di colpa per il tradimento delle proprie radici. Sia Eribon che Ernaux (in particolare ne “La vergogna”, “Il posto”, “Gli anni”) hanno analizzato il contesto storico e sociale a partire dalla propria esperienza; ambedue affrontano riflessioni teoriche e sociologiche con uno stile sobrio, essenziale, rigoroso, rendendo in tal modo i propri ragionamenti alla portata di ogni tipo di lettore.

Didier Eribon, Annie Ernaux e Édouard Louis

Un altro scrittore cui Eribon dichiara in “Ritorno a Reims” di far riferimento è James Baldwin (1924-1987), che, da nero e omosessuale, ha raccontato il razzismo e l’omofobia della società americana. Uno dei numerosi punti in comune è l’odio nei confronti del padre, incarnazione di un mondo da cui entrambi hanno preso le distanze, spiegato non tanto dal punto di vista psicologico, bensì storico e sociale. Eribon cita Baldwin più volte per rappresentare la similitudine delle loro esperienze, in questo caso a proposito della reazione al lutto:

Avevo detto a mia madre che non lo volevo vedere perché lo odiavo. Ma questo non era vero. Era solo che lo avevo odiato. Non volevo vederlo come un relitto: non era un relitto quello che avevo odiato.”

O ancora:

Credo che una delle ragioni per cui le persone rimangono aggrappate così tenacemente ai loro odi sia perché intuiscono che, una volta sparito l’odio, saranno costrette ad affrontare il dolore.

Ma “Ritorno a Reims” è un’opera estremamente ricca e complessa, che riprende – rinnovandole e attualizzandole – molte tematiche della letteratura del secolo scorso (l’identità sessuale, le dinamiche sociali, la memoria, la critica alle classi dominanti) e che ha significativi legami con la tradizione naturalista e realista dell’Ottocento (la povertà, l’ingiustizia sociale). D’altro lato, essendo anche un saggio sociologico e politico, il libro dialoga col pensiero critico in particolare di Sartre e Bourdieu.

E il lettore non potrà non rallegrarsi del valore complessivo di un libro toccante nei suoi capitoli più “intimi” e letterari alternati a riflessioni politiche e sociologiche stimolanti e profonde.

Di Didier Eribon L’Orma Editore ha recentemente pubblicato “Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo” con la traduzione sempre di Annalisa Romani.

Gigi Agnano