Un assaggio di “Mamma” di Valeria Parrella, racconto tratto da “Piccoli miracoli e altri tradimenti” (Feltrinelli)

Lo scandalo e lo sconcerto sui Social, si sa, durano un attimo come la bua dei bambini, anche quando le notizie meriterebbero un attimo di riflessione in più.

Alle Olimpiadi di Parigi martedì la squadra femminile italiana di spada vince l’oro. Repubblica nella versione online titola: “Italia oro nella spada a squadre. Francesi battute in casa. Le 4 regine: l’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa e la mamma“.

Poco dopo, avendo probabilmente ricevuto qualche lamentela, per togliersi dall’imbarazzo, Repubblica cambia il titolo. Le 4 regine diventano: “la musicista, la francese, la psicologa e la veterana“.

Una gentile signora commenta: “Ora mi aspetto di leggere: francesi battuti dall’amico di Fazio, il tedesco, il commercialista e il papà”. Loredana Lipperini, la meravigliosa voce in pensione di Radio 3, pensa “a cosa avrebbe detto Michela“, riferendosi ovviamente alla Murgia.

Noi del Randagio, che non pensavamo di dover parlare di Olimpiadi, ci siamo ricordati di un racconto a nostro parere prezioso e per certi versi premonitore di Valeria Parrella, che si intitola “Mamma“, tratto dal suo ultimo libro “Piccoli miracoli e altri tradimenti” (Feltrinelli). E abbiamo pensato di darvene un assaggio, consigliandovi di leggere il racconto ed il libro nella loro interezza.

p.s. Le “4 regine” si chiamano: Rossella Fiamingo, Alberta Santuccio, Giulia Rizzi e Mara Navarria.

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“Era successo tutto nello stesso giorno, il giorno in cui mio marito, l’artista, aveva preparato dei segnaposti per il pranzo su cui aveva scritto il nome di tutti, tranne il mio.

O meglio: il mio segnaposto c’era, ma lui ci aveva scritto “Mamma”. Ora, si capisce che se lo scrive un figlio, d’accordo, ma se lo scrive un marito. Con l’orlo svolazzante della emme. Con una foglia d’agave che la contornava, acquerellata.

Al suo solito posto, a capotavola, c’era scritto “Raffaello”.

“Ci vuoi fare pure un ex libris?”

“Perché non ti piace?”

“Perché non c’è il mio nome.”

“Ma amore.”

“Ma no.”

“È un pranzo per nostro figlio, tu sei la mamma.”

Questo era, ma in fondo cos’altro aspettarsi? Se solo avessi mai avuto la certezza che andava con altre donne, se fosse stato evidente, voglio dire, io forse il cavalletto con tutte le tempere sul cranio glielo avrei spaccato, ma ’sta cosa non era mai stata appurata. Perché io non guardo il cellulare, non apro mail, forse non me ne importa davvero se va con altre. Capivo che andava con altre perché cambiava il suo modo di fare sesso. Cambiava posizione, tecnica, mugolio, la manata sul culo, cambiava qualcosa. “Mh,” pensavo io, “’sta roba gliel’ha spiegata qualcuno.” “Mh,” pensavo io, “’sta posizione viene da un altro letto” e così via per mesi e anni.

Che poi quelli passano senza che tu stia lì a contarli, e il cineforum al martedì con le amiche, e lui a esporre mostre nelle chiese – era un artista che esponeva sempre nelle chiese, aveva una gallerista che gli faceva da agente ma alla fine i suoi dipinti stavano sempre nelle chiese –, a stare via per tre settimane, e io sempre il cineforum al martedì con le amiche, e niente: aveva scritto mamma.”

Valeria Parrella: “Mamma”, tratto da “Piccoli miracoli e altri tradimenti” (Feltrinelli)

L’incipit di “Il popolo è immortale” di Vasilij Grossman, trad. di Claudia Zonghetti (Adelphi)

AGOSTO

“Una sera d’estate del 1941 l’artiglieria pesante avanzava lungo la strada per Gomel’. I cannoni erano talmente enormi che gli addetti ai carriaggi – pur esperti e che molto avevano già visto – guardavano con curiosità ai loro imponenti fusti d’acciaio. L’aria della sera era intrisa di polvere, le facce e le uniformi degli artiglieri erano grigie, rossi gli occhi. Solo pochi procedevano a piedi, la maggior parte cavalcava gli armamenti. Un soldato beveva un po’ d’acqua dal suo elmetto d’acciaio: le gocce gli scivolavano lungo il mento e, bagnati, i denti brillavano. Si poteva pensare che quell’artigliere stesse ridendo, ma così non era: la sua faccia era assorta e stremata.

«Aeeeeerei!» cantilenò in un grido il tenente che apriva la fila.

Sul bosco di querce accanto alla strada sfilarono veloci due aeroplani. Preoccupati, gli uomini li seguirono con gli occhi commentando:

«Sono nostri! Sono I-16, gli “iii-ho”!». «No, sono tedeschi: Junkers, o forse Heinkel».

E, come sempre in quei casi, qualcuno sfoderò la solita battuta: «Sono nostri ti dico, meglio mettersi al riparo!».

Gli aerei tagliavano la strada in perpendicolare, dunque erano sovietici: di norma, se avvistavano una colonna, i tedeschi viravano e alla strada si mettevano paralleli, per sventagliarla con le mitragliatrici o scaricare qualche bomba da poco.

Potenti trattrici spostavano i pezzi di artiglieria lungo la via principale del paese. Fra le case bianche di calce e argilla e i giardinetti di campagna tempestati di dalie gialle ricciute e peonie rosse che ardevano al sole del tramonto, fra le donne e i vecchi con la barba bianca seduti sulle panche, tra i muggiti delle vacche e l’abbaiare variegato dei cani, gli enormi cannoni che scivolavano oltre nella pace della sera facevano un’impressione strana, insolita.”

Vasilij Grossman: “Il popolo è immortale”, trad. di Claudia Zonghetti (Adelphi)

L’incipit di “La solitudine del maratoneta” di Alan Sillitoe, trad. di Vincenzo Mantovani (Minimum Fax)

La solitudine del maratoneta

Appena finii al riformatorio mi misero a correre la maratona. Immagino pensassero che avevo proprio il fisico adatto perché ero lungo e magro per la mia età (e lo sono ancora) e in ogni caso non mi dispiaceva troppo, a dirvi la verità, perché nella nostra famiglia si era sempre corso molto, soprattutto per sfuggire alla polizia. Sono sempre stato un buon corridore, veloce e dotato di un’ampia falcata: l’unico guaio fu che, per quanto corressi, e vi garantisco che tenevo una buona andatura, anche se me lo dico da solo, la cosa non mi impedì di farmi prendere dai poliziotti dopo quel colpo al panificio.

Potrebbe sembrarvi piuttosto strano che al riformatorio ci siano dei maratoneti, pensando che la prima cosa che farebbe un podista una volta sguinzagliato fra quei campi e boschi sarebbe scappare fin dove lo porta la sua pancia piena della brodaglia che danno al riformatorio: ma vi sbagliate, e vi dirò il perché. Anzitutto quei bastardi che ci tengono i piedi sul collo non sono scemi come sembrano quasi sempre, e inoltre io non sono così scemo come sembrerei se cercassi di evadere durante la maratona, perché darsi alla latitanza per poi farsi acciuffare è solo un progetto da babbei, e io non mi lascio mettere nel sacco. Ciò che conta nella vita è la furbizia, e anche quella devi usarla nel modo più accorto possibile; diciamolo francamente: loro sono furbi, e io pure. Se solo «loro» e «noi» avessimo le stesse idee fileremmo d’amore e d’accordo come due innamorati, ma loro non la pensano esattamente come noi e noi non la pensiamo esattamente come loro, così stanno le cose e così staranno sempre. L’unica verità è che siamo tutti furbi, e per questo non ci possiamo soffrire. Insomma loro sanno benissimo che io non cercherò di scappare: se ne stanno come ragni là in quel maniero cadente, appollaiati sul tetto come arroganti cornacchie, a sorvegliare campi e viottoli come generali tedeschi dalla torretta dei loro carri armati. E anche quando io sparisco al piccolo trotto dietro un bosco e loro non mi vedono più sanno che in capo a un’ora la mia testa rapata riapparirà ballonzolante sopra la cima di quella siepe e io mi presenterò al tizio che sta al cancello. Perché quando in un crudo mattino di gelo io mi alzo alle cinque e poso i piedi sul pavimento di pietra, tremando verga a verga, e tutti i miei compagni hanno ancora un’altra ora di sonno prima che suoni la campana, e sgattaiolo da basso attraverso tutti quei corridoi fino al portone col mio permesso in pugno, mi sembra di essere il primo e l’ultimo uomo sulla terra, l’uno e l’altro insieme, se credete a quello che sto cercando di dire. Mi sembra di essere il primo uomo perché sono mezzo nudo e vengo scaraventato sui campi gelati in maglietta e calzoncini: anche il primo povero bastardo caduto sulla terra in pieno inverno sapeva confezionarsi un vestito di foglie o scuoiare uno pterodattilo per farsene un cappotto. Io invece sono là, paralizzato dal freddo, senza niente per scaldarmi tranne un paio d’ore di maratona prima di colazione, neppure una fetta di pane e antiparassitario. Mi stanno allenando a dovere per il gran giorno delle gare, quando tutti quei signori e signore con il muso porcino e la puzza sotto il naso – che non sanno quanto fa due più due e non saprebbero neanche allacciarsi le scarpe se non avessero gli schiavi sempre pronti ai loro ordini – vengono a farci tanti bei discorsi sullo sport che è proprio quello che ci vuole per ricondurci a una vita onesta e tenere i nostri polpastrelli impazienti lontani dai lucchetti delle botteghe e dalle maniglie delle casseforti e dalle forcine per scassinare i contatori del gas. Ci danno in premio un pezzo di nastro azzurro e una coppa dopo che ci siamo spompati a furia di correre o saltare, come cavalli da corsa, solo che noi non siamo ben curati come i cavalli da corsa, questo è il fatto.

Eccomi qua, dunque, ritto sulla soglia in maglietta e calzoncini, senza neanche una crosta di pane secco nelle budella, che guardo i fiori coperti di brina ai miei piedi.

Alan Sillitoe: “La solitudine del maratoneta”, trad. di Vincenzo Mantovani (Minimum Fax)

L’incipit di “Triste tigre” di Neige Sinno, trad. dal francese di Luciana Cisbani (Neri Pozza)

Ritratto del mio stupratore

Perché anche a me, in fondo, sembra più interessante quello che succede nella testa del carnefice. Con le vittime è facile, tutti riescono a mettersi al loro posto. Anche se non si è vissuto niente del genere, un’amnesia da trauma, la paralisi, il silenzio della vittima, tutti riusciamo a immaginare cos’è, o crediamo di poterlo immaginare.

Con il carnefice invece, è un’altra cosa. Essere solo in una stanza con una bambina di sette anni, avere un’erezione al pensiero di quello che si sta per farle. Pronunciare le parole che indurranno quella bambina ad avvicinarsi, mettere il proprio sesso in erezione nella bocca della bambina, fare in modo che la spalanchi bene. Questo sì che è davvero affascinante. Va al di là della comprensione. E poi c’è il resto, dopo aver finito, rivestirsi, tornare alla vita di famiglia come se niente fosse. E una volta che quella follia è accaduta, rifarlo, per anni e anni. Non parlarne mai con nessuno. Credere che non ti denunceranno, nonostante la progressione degli abusi sessuali. Sapere che non ti denunceranno. E quando un giorno ti denunciano, avere il fegato di mentire, o il fegato di dire la verità, di confessare addirittura. Ritenerti ingiustamente punito per aver preso degli anni di prigione. Reclamare il diritto al perdono. Dire che sei un uomo, non un mostro. Poi, dopo la prigione, uscire e rifarti una vita.”

Neige Sinno: “Triste tigre”, traduzione dal francese di Luciana Cisbani (Neri Pozza)

Libro vincitore del Premio Strega Europeo 2024

Vincitore del Prix Goncourt des lycéens 2023 e del Prix Femina 2023

L’incipit di “Cose che non voglio sapere” di Deborah Levy, traduzione di Gioia Guerzoni (NNE)

“Quella primavera, quando la vita era complicata e lottavo con il mio destino e semplicemente non riuscivo a vedere dove si potesse andare, mi resi conto che piangevo soprattutto sulle scale mobili delle stazioni. Non succedeva mentre scendevo, ma c’era qualcosa nello stare immobili ed essere trasportati verso l’alto che mi turbava.

Come dal nulla, le lacrime sgorgavano inarrestabili, e quando arrivavo in cima e sentivo le raffiche di vento dovevo sforzarmi per smettere di singhiozzare. Era come se lo slancio che mi portava in su fosse l’espressione fisica del mio dialogo interiore.”

Deborah Levy: “Cose che non voglio sapere”, traduzione Gioia Guerzoni (NNE)