Intervista a Valentina Calderone e Marica Fantauzzi per “Il carcere è un mondo di carta” (illustrazioni Ginevra Vacalepre, Momo edizioni), di Rita Mele

…ma in carcere esiste la felicità?

È la domanda che una bambina di otto anni ha rivolto a Valentina Calderone e Marica Fantauzzi, autrici di Il carcere è un mondo di carta.  Questo volume, illustrato da Ginevra Vacalebre e arricchito dai contributi di Luigi Manconi (leggi la postfazione di Manconi) e Giusi Palomba, affronta domande che spesso anche noi adulti ci poniamo sulla vita in carcere.

Noi de Il Randagio, che ci lasciamo guidare nel nostro percorso dai dubbi e dalle curiosità, abbiamo scoperto che “Il carcere è un mondo di carta”, non solo offre risposte adatte a tutti, “grandi e piccini”, ma, attraverso parole e immagini, ci fornisce una chiave anche per superare eventuali pregiudizi. Il libro suggerisce che l’alternativa al carcere può essere costruita insieme, trasformando la giustizia e promuovendo il cambiamento sociale.

Se il carcere, come recita il titolo del vostro libro, è un mondo di carta, chi sono i carcerati?

Valentina: I carcerati o – come preferiamo dire – le persone detenute sono uomini, donne, minori, che, nella maggior parte dei casi, rispondono a categorie sociali ben definite. L’immaginario collettivo pensa spesso che il carcere raccolga persone che hanno commesso atti di grandissima pericolosità sociale; quella che invece è l’evidenza, andando “dentro”, conoscendo le persone, parlando con loro, è che le persone che vivono in carcere sono, nella maggior parte dei casi, stranieri, persone con problemi di salute mentale o di dipendenze. Sono persone che la nostra società non vuole vedere “fuori”, di cui non sa prendersi cura, per le quali pensa che la soluzione sia rinchiuderle dentro un posto, un po’ per toglierle dal nostro sguardo, un po’ perché non sa bene cosa farne. Non sa bene come affrontare tutta la complessità sociale, che nelle nostre città, nel nostro Paese e nel mondo esiste. Il carcere diventa una soluzione non efficace a problemi molto più complessi e che non riguardano esclusivamente l’idea del male che abbiamo noi.

Cosa pensate si debba conoscere delle donne, degli uomini e dei minori che si ritrovano a vivere per mesi, anni o il resto della loro vita in quel “mondo di carta”?

Marika: credo che la prima cosa da conoscere sia la storia, la vita prima, durante e dopo l’ingresso in un istituto penitenziario. Le biografie personali hanno un peso decisivo per capire le traiettorie che porteranno all’istituzione carceraria. Conoscere queste vite innanzitutto permette di averne per certi versi meno paura, perché avvicinando queste persone si capisce che in molti casi quello che è successo a loro potrebbe effettivamente capitare a persone a noi vicine o a noi stessi. Allo stesso tempo, si mette in discussione una convinzione assoluta per la quale noi società civile, opinione pubblica associamo il carcere alla giustizia, laddove invece molto spesso, conoscendo quelle storie di detenuti si capisce che questa associazione tra giustizia e carcere è piena di falle e inciampa su se stessa più e più volte. La conoscenza delle storie aiuta quantomeno a sviluppare una visione critica del carcere.

A questo punto vorrei chiedervi come siete riuscite a mettere insieme la leggerezza della carta con la pesantezza della reclusione? 

Valentina: Vale la pena di dire due parole sul titolo, che per noi ha un doppio significato. Il significato più immediato è che la vita delle persone detenute passa attraverso dei fogli di carta, che vengono chiamati in gergo, le “domandine” (qui ci sarebbe da aprire una parentesi sul linguaggio penitenziario e su come anche il linguaggio contribuisca a rendere queste persone non uomini, non donne, non minori). Ogni necessità in carcere va autorizzata e ogni richiesta, ogni esigenza viaggia attraverso un foglio di carta. E le carte fanno dei giri tortuosi, devono essere firmate, devono arrivare alla persona giusta, poi tornare indietro con una risposta e possono volerci settimane o mesi. A volte le carte si perdono… La soluzione dei problemi dei detenuti dipende da quella carta. L’altro aspetto però è che la carta è molto fragile, la si può deformare, si può rompere, si può appallottolare oppure – come nella copertina di  Ginevra Vacalebre – si può fare un aeroplanino e lo si può lanciare. Ed è un po’quello che volevamo trasmettere, l’idea che l’istituzione carcere non è un’Istituzione data per sempre, che le istituzioni si possono modificare – forse prima di tutto nelle nostre teste – provando a fare un percorso per renderci conto che probabilmente non abbiamo così tanto bisogno del carcere come è oggi e come lo pensiamo. È un’istituzione come tante altre e come tutte le cose umane si possono cambiare, si può anche pensare che eventualmente possano sparire. Invitiamo a riflettere che questa pesantezza data dall’architettura carceraria, questi muri molto grandi, questi cancelli, queste chiavi, la pesantezza del ferro e del cemento, in realtà nascondano la fragilità di quell’Istituzione. E su questa fragilità si può costruire un percorso che ci porti a idee alternative.

E intanto i diritti di queste persone che fine fanno?

Marika: i diritti di queste persone, a proposito di carta, in realtà sono quelli previsti dalla Carta costituzionale, sanciti dall’articolo 27, per cui una pena non può essere lesiva della dignità dell’essere umano. A cascata ne segue tutta un’altra serie di diritti che fa capo alla persona detenuta, tra cui il diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione. Ma l’istituzione carceraria attuale è evidente che non riesca a tener fede all’articolo 27 e quindi scricchiola tutto l’impianto di diritti immaginato dai padri e dalle madri costituenti.

Qual è il percorso che avete seguito per arrivare a capire che quel mondo di carta possa essere sostituito? 

Valentina: pensiamo all’efficacia delle misure che vengono messe in campo rispetto all’individuazione di un problema. Il carcere è un posto che separa dalla società chi ha commesso un reato, e quindi una delle domande da porsi è: come è possibile insegnare, reinserire, rieducare al reingresso se separiamo nettamente le persone dalla società? Ci sono strumenti, misure alternative al carcere che provano ad avere uno sguardo diverso e a includere l’autore del reato all’interno di una situazione comunitaria, che possono essere per esempio i lavori di pubblica utilità. Ci sono poi i “tentativi” introdotti dalla riforma Cartabia che riguardano per esempio la giustizia riparativa e che provano a costruire un dialogo tra chi ha commesso il reato e chi lo subisce. Avere una prospettiva abolizionista significa provare a capire in che modo interrompere un ciclo di violenza. Noi crediamo che sia molto importante far sapere quanto le carceri siano endemicamente, costituzionalmente violente: non è costruendo il carcere migliore del mondo che questa violenza riusciamo ad eliminarla. Occorre provare ad astrarci un po’ dalla contrapposizione tra perdono e vendetta, che sono sentimenti umani, emozioni. Ma le emozioni non dovrebbero essere prese come spunto per governare questi fenomeni, per costruire politiche. Credo invece che dovremmo provare a ragionare in termini di riparazione, in termini di giustizia trasformativa, che è un concetto a noi molto caro. Dovremmo riconsiderare il reato come a qualcosa che avviene all’interno di una comunità, che la ferisce e di cui però la comunità stessa si deve prendere la responsabilità. E siamo molto grate a Giusy Palomba, che ha scritto un bellissimo libro su questo e che abbia deciso di scrivere anche la nostra prefazione.

Quindi, se capisco bene, guardate a un sistema della giustizia che si possa risanare proprio attraverso la riconciliazione tra vittime e colpevoli. 

Valentina: nel libro che ha la forma di un abbecedario la “V” si sdoppia in “vittime” e “vendetta”. Quando si parla di questi temi il rischio è sempre quello di sentirsi dire “sì, però a voi non ve ne frega niente della vittima”. Io penso che la vittima – sarebbe meglio dire “il sopravvissuto” o il sopravvivente -, chi sopravvive al reato abbia tutto il diritto di sentirsi ferito, di non avere alcuna intenzione di avere un contatto o un confronto, di provare rabbia per tutta la vita. Questa componente è assolutamente delicata e del tutto personale. La possibilità di incontro deve essere totalmente libera. Però io penso anche che ci meritiamo come collettività di poter accedere a degli strumenti che ci aiutino a gestire e a elaborare la rabbia, il dolore, la frustrazione, che peraltro non fanno bene a nessuno. E allora provare collettivamente, a livello sociale, a trovare degli strumenti di elaborazione collettiva, di trasformazione può portare un benessere a tutte le componenti della società. 

Il vostro libro ha la forma di un abecedario e fa pensare che si rivolga soprattutto ai più giovani.  A chi si rivolge esattamente?

Marika: il libro è rivolto a tutte le fasce di età, ma con una attenzione particolare a quelli che abbiamo definito preadolescenti e adolescenti. Noi parliamo di questi temi in occasioni molto “adulte”, in ambienti lavorativi, accademici, universitari e via discorrendo, comunque tra adulti. Detto questo, ci siamo chieste se attraverso un dialogo con chi ancora è immune o comunque non completamente assorbito dalla retorica carcerocentrica; se tramite questo dialogo con delle giovani generazioni sarebbe stato possibile addirittura adottare, immaginare delle parole diverse, dei linguaggi diversi e quindi un immaginario diverso. Quindi abbiamo pensato che potesse avere senso raccontare loro quello che è dal nostro punto di vista l’ambiente carcerario, adottando una sorta di abecedario che è descrittivo delle condizioni e degli spazi detentivi. Però allo stesso tempo volevamo dire loro che la parola utopia esiste e che ci può essere qualcosa di alternativo allo status quo, che bisogna attivare tutte le energie per affrontare in maniera prioritaria il tema delle disuguaglianze. 

Valentina e Marika vi ringrazio anche a nome dei lettori del Randagio per averci parlato di una tematica complicata, di grande interesse e che induce a riflettere.

Rita Mele

Rita Mele: barese, ma da molti anni vive a Bolzano. Giornalista, giurista, formatrice, psicologa, insegnante di yoga. Progetti per il futuro: ballare

Luigi Manconi: “Condividere ciò che è oscuro” – postfazione a “Il carcere è un mondo di carta” di Valentina Calderone e Marica Fantauzzi (Momo Edizioni)

Condividere ciò che è oscuro**

“Potrebbe sembrare un’idea eccentrica e, per certi versi, malaugurata quella di parlare di carcere a preadolescenti e adolescenti. Da una parte perché la prigione è uno dei luoghi più orribili delle nostre evolute società e, dunque, presentarla ai minori rischia di avere un effetto depressivo e di confermare una concezione minacciosa e intimidatoria della giustizia. Mentre sarebbe bello poterla immaginare, la giustizia, come uno strumento di affermazione della libertà e del diritto. Il pericolo è, insomma, che il solo parlare di carcere e carcerati rafforzi un’idea oscurantista e vendicativa della pena. Dall’altra parte, è vero che tra ragazzi e prigione non c’è quella siderale distanza che si può ipotizzare. Non mi riferisco solo al fatto che nel nostro sistema penitenziario da decenni si trovino reclusi alcune decine di bambini dai 0 ai 3 anni e che questi innocenti assoluti sembrano destinati irrevocabilmente a restare reclusi in una cella con le proprie madri. Non si limita a questo la presenza dell’infanzia e dell’adolescenza nelle nostre carceri, escludendo quanti siano detenuti negli istituti minorili. 

Complessivamente, si può stimare intorno ai 120-130 mila i minori che, nel corso di un anno, entrano in contatto con l’ambiente carcerario: sono i figli e i nipoti dei detenuti che, con una certa regolarità, visitano il proprio parente. Il che pone immediatamente dei problemi di notevole significato: come vengono accolti questi minori all’ingresso dell’istituto? Quale rapporto si instaura in quel tempo così ristretto e coatto destinato al colloquio? Quale immagine del genitore ne riporteranno? Problemi giganteschi che, a quanto so, nessuno ha mai pensato di affrontare. Fin qui si è parlato di quei minori che hanno un qualche rapporto diretto con il carcere, ma la stragrande maggioranza, evidentemente, non ne ha alcuno. Questo libro si rivolge a loro e ai volontari, ai maestri, ai docenti, ai mediatori culturali, ai giornalisti, agli assistenti sociali, agli psicologi, alle sorelle e ai fratelli maggiori e ai genitori. Vuole offrire parole e concetti adeguati al livello di età e conoscenza dei giovani lettori; ed è pensato per una lettura che non sia fatta in solitudine, bensì in circostanze che consentano scambi di opinioni e giudizi e apprezzamento o dissenso, comunque condivisione.

L’intento di questo libro è quello di consentire a questi bambini e a questi ragazzi di “familiarizzare” col carcere. Può sembrare una prospettiva del tutto superflua e, per certi versi, temibile. Perché potrebbe portare alla costruzione di un immaginario capace di aggiungere angoscia ad angoscia. Ma ciò che conta è accrescere la consapevolezza che il carcere non è qualcosa di estraneo alla vita dei cittadini, un angolo oscuro della società da cui prendere le distanze. Una discarica sociale da tenere ai margini e oltre i margini delle comunità. Al contrario: il carcere è una parte integrante della collettività e, si può dire, di noi stessi. Il luogo dove vengono segregati i cattivi per impedire loro di fare ulteriore male e per tranquillizzare la nostra buona coscienza inducendoci a pensare che il fatto di non vederli più – perché chiusi dietro quelle mura – possa rendere più ordinata e sicura la nostra vita sociale. Di conseguenza, rompere il tabù e abbattere le mura è la prima operazione da fare. 

Personalmente ho avuto modo di osservare quanto l’incontro di un detenuto o di un gruppo di detenuti con gli studenti di una scuola abbia portato a straordinari risultati di conoscenza. Una conoscenza, anche, per così dire “sociologica”: apprendere quali siano gli ambienti e i percorsi di vita che portano al reato può essere un’importantissima occasione di crescita intellettuale e morale per giovani e giovanissimi. Sapere che la pena, lungi dal maturare, può contribuire alla regressione di coloro che la subiscono è un motivo prezioso di riflessione. Imparare che il male espresso dal reato non è qualcosa di estraneo e di inimmaginabile e nemmeno di inevitabile e fatale può contribuire, come poche altre esperienze, allo sviluppo della personalità. Il libro di Valentina Calderone e di Marica Fantauzzi ha un pregio particolare: si impegna a dire la verità, senza censure e senza alcuna cosmesi. La rappresentazione del carcere che propongono non viene in alcun modo abbellita o addolcita: è una macchina che produce all’infinito crimine e malattia, sofferenza e morte. Ed è questa la ragione per la quale si dovrebbe lavorare per la sua progressiva estinzione. E far sì che il carcere, inteso come cella chiusa, non sia più necessario e diventi superfluo, sostituito – se non in casi di straordinaria gravità – da altre forme di sanzione e di pena.  Anche di questo si deve poter parlare ai ragazzi e questo libro lo fa, nella speranza che i nostri figli e i nostri nipoti siano abbastanza maturi e liberi dai pregiudizi da poter immaginare e realizzare un sistema delle pene che, a differenza di quello attuale, non mortifichi e umili la dignità della persona.”

**per gentile concessione di Luigi Manconi

 

20 giugno – Giornata Mondiale del Rifugiato, di Gigi Agnano (grafica di Anna Di Rosa)

“Rifugiato: sostantivo maschile, persona che ha trovato rifugio in luogo sicuro; part., individuo che, in seguito alle vicende del proprio paese, ha ottenuto asilo politico in un paese straniero.” 

Più brevemente, “rifugiato” fa pensare a uno che in qualche modo ce l’ha fatta, nel senso che respira. Respira a dispetto dei vari decreti “Sicurezza” o “Cutro” che i nostri fantasiosi politici si affannano ad introdurre nel sistema normativo italiano per ridurre protezione ed accoglienza. 

Chi invece non ce l’ha fatta sono gli oltre 28.000 migranti che hanno perso la vita nel Mediterraneo dal 2013 al 2023 (di questi, 22.300 lungo la rotta del Mediterraneo centrale). 

Chi non ce l’ha fatta sono le “decine” di migranti “dispersi” – pare fossero 66, di cui 26 bambini – che erano sulla barca a vela che si è ribaltata lunedì al largo delle coste calabresi. 

Chi non ce l’ha fatta sono il papà e la mamma della tredicenne superstite che i genitori li ha visti morire tra le onde.

E non ce l’ha fatta Satnam Singh, il lavoratore indiano, che sempre lunedì, nei campi vicino Latina, è stato schiacciato da un macchinario che gli ha tranciato il braccio destro e le gambe. Singh lavorava da due anni senza contratto e pare che dopo l’incidente sia stato abbandonato ancora vivo davanti casa con il braccio tagliato in una cassetta per la raccolta degli ortaggi. E’ morto dopo due giorni di agonia, non ce l’ha fatta.

Abbiamo un’umanità che annega vicino casa nostra, che muore di botte e di sevizie un po’ più in là in Libia, in Tunisia, in Turchia, o di stenti nel Sahara. Che quando arriva, se arriva, viene sfruttata come neanche le bestie meriterebbero.

Abbiamo miliardate di soldi pubblici italiani ed europei, cioè nostri, che vengono spese perché l’umanità muoia. 

In questo mare magnum c’è, a titolo d’esempio, il simpatico accordo con l’Albania che ha un costo previsto (e sottolineerei “previsto”) di 653 milioni, di cui 252 per le spese di trasferta dei funzionari ministeriali. Soldi nostri perché l’umanità muoia.

Oggi, 20 giugno, è la “Giornata mondiale del Rifugiato”. Noi del Randagio vogliamo celebrarla perché ogni essere umano abbia diritto a sperare e sognare.

Gigi Agnano

Un fatterello algerino, di Gigi Agnano

Prometto di non parlare qui del mio viaggetto perché i racconti di viaggio bisogna saperli scrivere e io non ho questa dote. Però, se vi va di seguirmi, un fatterello vorrei provare a dirvelo.

Sono stato per una decina di giorni con un amico e cinque Tuareg in quel triangolo del Sahara a Sud Est dell’Algeria, al confine a meridione col Niger e con la Libia a levante. Una spettacolare e immensa distesa di sabbia tra le alture dell’Hoggar (circa 50 mila kmq) e i 500 km di altopiano di roccia arida del Tassili.

Potremmo chiamarla la via della sete, dove le temperature arrivano anche a 55-58 gradi di giorno per scendere di notte anche sotto lo zero. Di giorno la pelle ti brucia sotto al sole e di notte a me è capitato anche di tremare dal freddo nonostante la tenda, un pullover pesante, il sacco a pelo invernale e un cappello di lana. In tutta l’area, montagne comprese, un ricercatore meticoloso ha contato poco meno di 150 alberi. Il reperimento delle carcasse di tronchi secchi era parte delle nostre attività diurne per poter accendere il fuoco di sera.

In questa zona vanno gli archeologi perché abbondano le pitture e le incisioni rupestri di migliaia di anni fa, ma anche i fossili di pesci, coccodrilli e dinosauri a dimostrazione che, come si sa, in epoche remote c’era l’acqua. A differenza della nostra immagine idealizzata del deserto non ho visto scenografiche carovane di tuareg. Per la verità in dieci giorni non ho visto anima viva, a parte qualche militare in improbabili posti di blocco, dei dromedari al pascolo e dei topolini bianchi minuscoli quasi trasparenti che venivano a trovarci all’ora di cena. Ah, dimenticavo l’incontro con una simpatica vipera interessata alle nostre merende che un driver sollecito ha immediatamente schiacciata con una grossa pietra. Punto. Fine della premessa. Ecco ora la cosa che volevo dire. Tranquilli, sarò brevissimo.

In quest’area, a presidio del confine algerino, sono stati schierati 25 mila soldati. Pare che li manteniamo noi: i soldi – che sono tantissimi – sono quelli dei contribuenti italiani ed europei utilizzati sapientemente per “difenderci” dai migranti. Con questi stanziamenti miliardari abbiamo solo reso a questi disgraziati dell’Africa nera il viaggio verso di noi un tantino più difficile, allungandolo di diverse centinaia di chilometri, un nulla in confronto alle migliaia da percorrere complessivamente. In passato chi arrivava da Sud attraversava questo tratto di terra algerina per entrare in Libia; oggi deve costeggiare il confine in Niger per poi attraversare tutta la Libia destinazione Tripoli. Pare che nessun migrante di fronte a questo sbarramento abbia deciso di tornare indietro. Nessuno ha ritenuto di non dover partire. I più fortunati – leggi i più ricchi, quelli non ancora depredati di tutto – venivano (e vengono) accompagnati dai passeur (l’equivalente sahariano dello scafista mediterraneo) su camion scoperti; i meno fortunati si facevano (e si fanno) una salutare passeggiata al calduccio del sole africano.

Per queste terre un tantino inospitali pare che sappiano orientarsi solo i Tuareg, così ho chiesto a ciascuno dei miei cinque accompagnatori berberi di raccontarmi com’era la situazione da queste parti prima della chiusura delle frontiere col Niger e con la Libia. La risposta di ognuno di loro è stata assai simile a quella di Karim: “si incontravano ogni giorno i cadaveri delle persone che si erano messe in cammino nel deserto o che avevano provato ad attraversare le montagne da soli. A me è capitato di vedere tantissimi morti.” Fine dell’intervista.

Un italiano mediamente informato sa che negli ultimi dieci anni trentamila uomini, donne e bambini siano affogati nel Mediterraneo. Non sa – ma chi lo sa? – quanta povera gente muoia durante il viaggio nelle più svariate rotte sahariane che dall’Africa nera vanno verso la costa. Soprattutto non sa quanto in questi anni l’Europa e l’Italia abbiano speso di soldi nostri per consentire questa barbarie. Soldi che si sarebbero potuti spendere per esempio per l’accoglienza. Magari senza prevederla in Albania. Barbarie che crea risentimenti, odi, distanze che prima o poi pagheremo. I conflitti del Novecento erano conflitti di nazionalismi e hanno determinato sessanta milioni di morti. Oggi assistiamo passivamente ad un conflitto tra continenti. Possibile che non riusciamo minimamente ad immaginarne le conseguenze?

Gigi Agnano

Fratellino di Amets Arzallus Antia e Ibrahim Balde, trad. di Roberta Gozzi (Feltrinelli), di Amedeo Borzillo

Per quanto le storie di migranti e delle traversie subite ci siano ormai tristemente familiari,
leggere questo libro ci fa capire quanto siamo lontani dal comprendere davvero i drammi e
le avversità che migliaia di ragazzi africani si trovano a dover vivere e superare, in una
lotta che non riguarda, come pensiamo, solo la loro sopravvivenza ma investe sentimenti,
costumi, sensibilità e affetti familiari che, pur stravolti, resistono e nella sofferenza
sopravvivono.

“Fratellino” è un libro scritto ad una voce e 2 mani, nel senso che è una vera e propria
dettatura della sua storia di migrante da parte di Ibrahim ad un giornalista basco, Amets
Arzallus Antia, in un linguaggio che diviene un “parlato scritto” che proprio per questo
motivo dona autenticità e fa vivere per davvero, con particolare compenetrazione,
commozione e turbamento la lettura.

L’autore è un giornalista francese di lingua basca, volontario in una associazione di
assistenza migranti, e non a caso scrive poesie, perché questo libro si arricchisce di una
narrazione delicata e profonda di un viaggio dalla Guinea al Mediterraneo con mille tappe,
mille avventure e mille volte il rischio di morire del nostro Ibrahim, alla disperata ricerca del
suo fratellino anche lui partito per il viaggio della speranza. Tutto raccontato facendo
emergere la profonda umanità del protagonista, la sua specificità e ricchezza personale,
che contrasta con la visione corrente che tutti un po’ abbiamo di omologare i migranti
disumanizzandone le specifiche peculiarità.

Ibrahim ci sorprende e commuove per la sua caparbietà nel proseguire un cammino di
migliaia di chilometri, cambiando mille mestieri prima per sopravvivere e giungere oltre il
Mediterraneo per poter aiutare la famiglia, poi alla disperata ricerca del suo fratellino.
Ibrahim è raccontato con le sue parole, in un linguaggio che si arricchisce di termini non
tradotti propri dei dialetti e delle lingue che il colonialismo non è riuscito a cancellare, e per
questo rende più intensa e partecipata la lettura degli incontri di varia umanità che si
succedono nel suo viaggio verso il Mediterraneo.

Violenza ma anche aiuto, sopraffazione ma anche solidarietà, torture ma anche
accoglienza, si susseguono nelle numerose tappe che per mesi rallentano il percorso di
avvicinamento al mare ed al riscatto del sogno di un lavoro da camionista che possa
aiutare quel che resta della sua famiglia.

Ibrahim ci racconta quindi ,della sua giovinezza negata con la determinazione di un adulto,
o se vogliamo di un ragazzino assunto la ruolo di capofamiglia che sente e vive la
responsabilità con una forza interiore che proviene dalla nostalgia e dall’affetto per la sua
famiglia.

L’autore Amets Arzallus Antia ha il merito di averla raccontata “insieme” a Ibrahim,
donando alla sua storia poesia e sentimento.

Amedeo Borzillo